Il Giardino dei Pensieri –Studi di storia della Filosofia

Il Giardino dei Pensieri –Studi di storia della Filosofia
Novembre 2000
1. Rivisitando la mitica caverna, oggi .............................................................................. 1
2. Matrix, un film-chiave nonostante tutto, tra cinema e filosofia ................................... 5
3. Lo schema platonico della conoscenza: l’immaginazione al gradino più basso .......... 7
4. Platone e Freud: una profonda ma contraddittoria alleanza contro le "ombre della
Caverna" ......................................................................................................................... 11
5. Considerazioni sull’estetica del cinema ................................................................... 13
6. Abbiamo forse una videocineteca nella mente? ......................................................... 16
Bibliografia essenziale .................................................................................................... 18
AlessandroStuder
Il mito platonico della caverna tra cinema e psicoanalisi
Alcuni anni fa, e in modo particolare nell’anno 1995, cioè nell’anno del primo
centenario della nascita del Cinema (e guarda caso, della psicoanalisi), sui quotidiani,
ma anche in riviste di buon livello, si era affermata l’idea che il Cinema stesse morendo
e cioè che esso non avesse la forza espressiva necessaria per affrontare un terzo
millennio certamente ricco di novità tecnologiche nel campo delle immagini visive. Si
era messa in forte evidenza la inesorabile concorrenza, su questo piano, della televisione
che, a sentire i sostenitori di una prossima "morte del cinema", avrebbe sostituito, in
toto, la sua funzione sociale e comunicativa di massa ma anche sussunto in sé lo stesso
linguaggio cinematografico. Il Televisore come simbolo del focolare domestico, in
effetti, ha contribuito pesantemente alla chiusura di centinaia di migliaia sale
cinematografiche in tutto il mondo occidentale, negli anni ’50 in America, negli anni
settanta e ottanta in Europa. Ma poi, in questi ultimi anni, è stato proprio il televisore e
specialmente il Videoregistratore, come suo supporto tecnico (ormai necessario quanto
l’apparecchio televisivo) a rilanciare alla grande il gusto e la passione per il cinema a
livello di massa. Ne fa fede la recentissima diffusione e successo delle Multisale
cinematografiche, ancora in frenetica costruzione in tutta Europa. In realtà il cinema è
un evento immaginifico insostituibile e, comunque, unico e inconfondibile. Tra le altre
cose lo schermo cinematografico è ben più grande di quello televisivo e oggi anzi tende
a diventare sempre più grande e poi tutti sanno che l’immagine televisiva non potrà mai
raggiungere l’incisività e lo splendore di quella cinematografica.
1. Rivisitando la mitica caverna, oggi
C'è però un altro motivo che rende lo schermo cinematografico un simbolo quasi
mitico dell'immaginario collettivo e, quindi, molto diverso, abissalmente diverso,
rispetto al piccolo schermo televisivo. Oltre agli effetti tecnologici diametralmente
opposti a quelli televisivi, c'è l'elemento della sala cinematografica buia e chiusa che
ricorda una caverna, una mitica caverna. Ci siamo chiesti più volte come mai nessuno
ha mai pensato, salvo errori od omissioni, a rileggersi il racconto platonico del "mito
della caverna" (presente all'inizio del Libro VII della Repubblica) e a confrontarlo con
la realtà odierna dello spettatore cinematografico. Per la verità, in qualche testo di teoria
del cinema recente, si trova, talvolta, questo parallelo ma senza il benché minimo
tentativo di analisi. Si tratta cioè di un puro e semplice orpello culturale, senza alcun,
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seppure timido, tentativo di interpretazione o approfondimento.Andare a "vedere"
direttamente nel testo l’illuminante racconto platonico ci permetterà dunque di
sciogliere questo nodo, anche per capire come, in certi casi, la filosofia possa davvero
essere profetica.
"... considera degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a mo' di caverna,
avente l'ingresso aperto alla luce e lungo per tutta la lunghezza dell'antro, e quivi essi
racchiusi sin da fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e
guardar solo dinanzi a sé, ma impossibilitati per i vincoli a muovere in giro la testa; e
che la luce di un fuoco arda dietro di loro, in alto e lontano e che tra il fuoco e i
prigionieri corra in alto una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, come
quegli schermi che hanno i giocolieri a nascondere le figure, e sui quali esibiscono i
loro spettacoli." (corsivo nostro).
Abbiamo sottolineato l'ultima frase in quanto ci sembra evidente che,
nell'argomentazione, Platone, per il tramite di Socrate, faccia riferimento all'attività di
un tipo di spettacolo, anche ai suoi tempi considerato di livello inferiore, che egli invece
qui propone come metafora dei processi conoscitivi elementari. Ma il passo da noi
citato non è che l'inizio di un racconto piuttosto lungo che riassumiamo per sommi capi.
Socrate poi dice che dobbiamo pensare a delle persone che, nascoste dietro il muricciolo
come i giocolieri, trasportano statue e oggetti vari parlando tra loro, di modo che i
"prigionieri" possono vedere sulla parete della caverna delle ombre che, tramite l'eco,
risultano anche parlanti. A questo punto è inevitabile pensare che le persone da sempre
legate, nel modo descritto all'inizio, credano che tutta la realtà sia presente in forma di
ombre parlanti sulla parete della caverna di fronte a loro.
Ma non è finita. Facciamo l'ipotesi, dice Socrate, che a un certo punto uno dei
prigionieri venga sciolto dalle catene e portato dietro il muricciolo: questi entrerà in
confusione e impiegherà qualche tempo a capire qual è la vera realtà. Le cose si
complicano ancora quando l'ex-prigioniero viene trasportato fuori alla luce del sole:
anche in questo caso, dopo un lungo e sofferto processo di adattamento alla luce,
continuerà a fare grande confusione tra ombre, giocolieri e statue, realtà naturale. Alla
fine però avrà in mente un preciso criterio di selezione tra i vari livelli di conoscenza e,
a questo punto, sarà ansioso di comunicare le sue grandi scoperte ai suoi poveri
compagni. A questo punto è opportuno riportare in toto la conclusione di SocratePlatone: si tratta infatti di un vero è proprio colpo di scena.
"E se egli dovesse tornare a riconoscere quelle ombre, a gara con quegli altri rimasti
sempre in prigionia, mentre ha ancora la vista ottusa prima che gli occhi gli si mettano a
posto, e questo tempo dell'assuefarvisi non fosse brevissimo, forse che egli non farebbe
ridere, e non si direbbe di lui che salito su ne torna con gli occhi rovinati, e che non vale
neanche la pena di andar su? E chi cercasse di scioglierli e tirarli su, se essi potessero
averlo nelle mani e ammazzarlo, non lo ammazzerebbero forse?"
Naturalmente qui non interessa seguire il percorso platonico sui quattro gradi di
conoscenza che portano alla via del supremo Bene, anche se, forse, potremmo trarne
qualche utile indicazione. E' il caso invece di ricordare che i teorici del cinema da
sempre sostengono che questa forma artistica, tipica del XX secolo, trae origine,
andando a ritroso nel tempo, prima dalle varie "Lanterne magiche" che dal '700 in poi
sono state utilizzate per stupire nobili, ricchi e straccioni, e poi, andando ancora molto
più indietro, dalle varie forme che ha assunto, nel corso del tempo, l'antichissimo teatro
delle ombre cinesi: di sicuro questo, a sua volta, trae origine dal periodo delle caverne,
quando l'uomo, nel periodo glaciale, era costretto a coabitare con il terribile orso delle
caverne; di certo l'uso delle fiaccole procurava continui giochi di ombre, talvolta
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piacevoli, tal altra orripilanti. In ogni caso nel periodo delle caverne, i cavernicoli
appunto, probabilmente, vivevano le ombre sulle pareti delle caverne come entità molto
importanti anche se, altrettanto probabilmente, non li confondevano con la realtà.
Il testo platonico è databile intorno al 370 a.C., dunque oltre 2300 anni orsono: ci
sembra che, per quello che ci riguarda, ci siano almeno due o tre cose che possono
considerarsi estremamente attuali. Innanzitutto il fatto che evidentemente ci vuole assai
poco per suggestionare un essere umano, per fargli prendere, come si dice, "lucciole per
lanterne" e per fargli credere cose incredibili tramite uno spettacolo straordinario e non
è chi non veda quanto sia forte la tentazione di paragonare la caverna alla sala
cinematografica: oltretutto gli spettatori platonici assistono a uno spettacolo che viene
architettato dietro le loro spalle e proiettato su una parete di fronte a loro.
Nel racconto platonico c'è anche una straordinaria lucidità nel descrivere il rapporto di
incompatibilità percettiva reciproca tra interno ed esterno della caverna, tra luce del sole
e ombre della caverna. La cosa risulta stupefacente se si pensa che in quell'epoca non
c'erano grandi possibilità di illuminazione artificiale per cui il passaggio da un ambiente
all'altro con forti contrasti di luce era veramente molto raro. Eppure Platone descrive
puntualmente quello che succede a chiunque entri in una sala cinematografica a
spettacolo cominciato o quando improvvisamente si accendono le luci se la pellicola si
rompe. A parte questo viene esposto chiaramente il complesso problema di come
stabilire quale sia la vera realtà anche se a Platone interessa soprattutto far capire che ci
sono vari gradi di conoscenza, essendo tutti reali ma di diversa validità. Ed è allucinante
leggere l'ultimo passo citato con i prigionieri seduti di fronte al loro spettacolo preferito
che ridono del tizio che dice loro che sono degli illusi! E lo ammazzerebbero se quello
osasse insistere a liberarli dalle catene per farli uscire alla luce del sole! Proviamo a
pensare a una comunità cui, improvvisamente, viene tolto sia cinema che televisione:
non è difficile immaginare cosa succederebbe, una furiosa rivolta popolare! Infine il
racconto platonico è costruito come se fosse pensato da un regista diabolico che
manipola le coscienze tramite spettacoli suggestivi basati su ombre parlanti: non
dimentichiamo i nostri bisnonni che, di fronte al treno che avanzava sullo schermo,
scappavano temendo che fosse vero. Oggi non possiamo essere più ingannati dallo
schermo cinematografico e tanto meno da quello televisivo, ma siamo sempre più
condizionati, il che forse è peggio, a livello inconscio.
Dunque però oggi, più che mai, pur sapendo dell'esistenza di diversi livelli di
conoscenza non abbiamo le idee chiare come le aveva Platone. Oggi forse per noi il
livello conoscitivo delle "ombre nella caverna" non è certo il livello più basso, anzi,
proprio nel momento in cui abbiamo scoperto l'esistenza di un livello inconscio della
conoscenza (e per la verità; a sentire Freud, in Platone, sia pure in forme confuse,
esisteva la consapevolezza di questo problema), dobbiamo prendere atto che la cultura
delle "ombre nella caverna" (cinema e TV) ha un'incidenza fondamentale e la nostra
consapevolezza di questo fatto è scarsa al punto da rasentare la passività dei
"prigionieri" platonici. A noi interessa il cinema ritenendolo il Mass Medium più
importante della nostra epoca anche perché è quello che si collega in forme indiretta al
mito della caverna. La TV non ha questo titolo di merito (forse ne ha altri ma non
questo) per il motivo molto semplice che, a rigore e in teoria, noi non siamo legati in
catene davanti al piccolo schermo, possiamo alzarci un qualsiasi momento o spegnere il
televisore o cambiare canale. In una sala cinematografica siamo legati come i prigionieri
platonici (almeno durante lo spettacolo) e certo possiamo alzarci e andarcene alla luce
del sole o della città ma se lo facessimo durante la proiezione del film ci
comporteremmo come il prigioniero platonico liberato: forse non susciteremmo le risa
degli altri spettatori o certo non ci ammazzerebbero se dicessimo ad alta voce che sono
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degli illusi poiché non hanno capito qual è la realtà, però qualcuno chiamerebbe
certamente la "maschera" e forse qualcun altro invocherebbe la polizia o la "Neuro"...
Ma possiamo chiederci: perché scomodare nientemeno che la Repubblica di Platone?
Platone ci dimostra che la tentazione di contentarsi e consolarsi con spettacoli
suggestivi di "ombre" più o meno cinesi è antica quanto la civiltà umana e, con il suo
genio creativo, anticipa di 22 secoli e mezzo la creazione di uno strumento, il cinema,
che in qualche modo, portandoci in un misterioso e meraviglioso terzo millennio, ci
riporta anche indietro nel tempo alla scoperta e verifica di antichissimi desideri e
fantasie.
E allora possiamo chiederci come mai Platone, soltanto lui, ha avuto queste geniali
doti poetiche? La nostra idea è la seguente: Platone, frequentatore di Misteri OrficoPitagorici, per spiegare la sua filosofia ha "costruito" molti Miti stupefacenti nei quali
ha esplicitamente dato un’enorme peso a una realtà separata che noi, oggi, potremmo
anche definire onirica, laddove è difficile dire che cosa, secondo noi o secondo Platone,
fosse più reale: l’IperUranio e la sua splendida Pianura della Verità per lui era la vera
realtà, mentre la realtà che ci circonda, la grigia realtà quotidiana, era una pura e
modesta copia di quella vera realtà. In altri e più brevi termini, Platone è stato il primo
pensatore che, indipendentemente da questioni mistico religiose, ha dimostrato il fatto
incontrovertibile di un essere vivente, l’essere umano, che vive costantemente in una
condizione di doppia realtà. Dicevamo dei Misteri Orfico-Pitagorici: si sa che Pitagora,
circa due secoli prima di Platone, ha frequentato a lungo i Sacerdoti egizi dai quali ha
imparato moltissime cose sui numeri, sulla musica, sulla trasmigrazione delle anime
(metempsicosi). E’ un fatto ormai assodato che i Sacerdoti egizi avevano le stesse idee
dei Maestri Tibetani sulla vita dopo la morte e che il tema della reincarnazione rimanda
ad un unico punto originario di riferimento: il sogno. E’ stato infatti l’Antropologo
Frazer (La paura dei morti nelle religioni primitive), contemporaneo di Freud, a
ipotizzare che la religione è nata da un fatto semplicissimo, quello dell’attività onirica
umana, attività onirica che, a un certo punto dell’evoluzione, è diventata talmente
complessa ed efficace da sembrare prima reale quanto quella quotidiana poi,
lentamente, per lo sconcerto che essa creava alla coscienza di tutti gli uomini,
espressione di un pensiero sovrumano più reale in quanto spesso vaticinante fatti
futuribili, tanto da "oscurare" la stessa realtà quotidiana. Buona parte di questi popoli
"primitivi" sono portatori delle cosiddette culture visionarie, dove il ruolo della
produzione onirica è centrale: basti qui fare riferimento a due film, estremamente precisi
e rigorosi su questo punto, L’ultima onda di Peter Weir e Manto nero di Bruce
Beresford. Ambedue i film trattano dell’elemento onirico-allucinatorio-divinatorio
come struttura portante della religione degli Aborigeni australiani nel primo film e della
religione degli indiani del Nord-America nel secondo film.
Ma per tornare a Platone, che è certamente uno dei padri della filosofia e della scienza
occidentale, buona parte dei suoi Miti hanno tutte le caratteristiche di elaborazioni
oniriche, ad es. il Mito di Er (che conclude il Decimo ed ultimo libro de La Repubblica)
in cui questo personaggio è un eroe che dichiara di essere stato per 12 giorni nell’Ade, il
regno dei morti, e che ha poi ottenuto la possibilità di tornare nella realtà per raccontare
agli uomini cosa ha visto nel mondo della vera realtà. Lo stesso mito di Orfeo, archetipo
forse di tutti i miti greci, racconta di un viaggio nell’aldilà dell’eroe eponimo per tentare
di resuscitare la sua amatissima Euridice. Qualche mente maliziosa ha notato che molti
di questi racconti, in realtà, potrebbero essere nati da situazioni di ritorno da uno stato di
Coma Profondo: in ogni caso non si vede dove sarebbe la differenza.
Questa concezione filosofica fondante due realtà gerarchicamente separate, come si
sa, ha aperto la strada al cristianesimo, alla filosofia cristiana, ma si sa altrettanto che
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questo dualismo ha creato non pochi problemi alla Chiesa Cattolica (cfr. soprattutto la
agostiniana dottrina della predestinazione), la quale anche recentemente ha ribadito di
considerare non Platone ma Aristotele il filosofo di riferimento della Teologia ufficiale.
perché? Ma perché in Aristotele non vi è ombra di dubbio (Ipse dixit) ed è suo il
tentativo, invano secondo noi, più solido di eliminare la visione dualistica della realtà. E
che il fatto del pensiero onirico come croce e delizia del pensiero occidentale sia un
qualcosa di veramente strutturale è dimostrato dai tormenti, su questo punto, di tre
grandi filosofi moderni (tralasciando moltissimi minori): Cartesio, Leibniz e Kant. Tutti
a tre hanno dedicato alla soluzione di questo problema sforzi titanici e possiamo dire
che soltanto Kant su questo piano è risultato veramente convincente (nella Critica della
Ragion pura ma anche nei Sogni di un visionario...).
2. Matrix, un film-chiave nonostante tutto, tra cinema e filosofia
È curioso constatare che recentemente il cinema, soprattutto americano, ha "sfornato"
opere anche pregevoli proprio su questa questione delle due realtà separate o del doppio
mondo in cui ci troviamo a vivere senza rendercene conto. Quasi a voler sollecitare un
collegamento concettuale tra cinema e filosofia che pochissimi riescono a vedere e i più
ignorano del tutto. E certamente il film recente più chiacchierato da questo punto di
vista è Matrix. Forse può essere qui utile analizzarne alcuni risvolti anche per mettere in
evidenza le molteplici difficoltà che una pellicola di un certo livello espressivo, cioè un
prodotto dell’arte cinematografica (la settima arte come la definì V. Pudovkin), presenta
a chiunque voglia tentare una analisi, magari neanche troppo approfondita.
Matrix è certamente un’opera di grande respiro anche se, a mio avviso, non del tutto
riuscita. Il linguaggio cinematografico, pur avendo una sua specificità, tende, oggi più
che mai, ad assorbire i linguaggi specifici di tutte le altre arti ed è questo il motivo che
spinge molti a definirlo un Metalinguaggio (per es. Sandro Bernardi). Ciò implica quasi
sempre diversi piani di lettura e interpretazione. Potremmo dire che siamo di fronte al
capolavoro quando la resa è elevata nei diversi "piani", ovviamente includendo anche
l’armonia dei vari piani (ecco perché Ejzenstejn parlava spesso di Contrappunto
cinematografico). Il piano concettuale (non sempre evidente) è quello che può
interessare la filosofia e, in questo caso, si può forse intravedere qualche riferimento
vago e non esplicito a Platone (l’esistenza di una Vera Realtà al di là delle apparenze),
si può aggiungere Cartesio per quanto riguarda la separazione tra Res Cogitans e Res
Extensa. E forse non è neanche scorretto scomodare Schopenhauer per quanto riguarda
la definizione dell’"oggetto misterioso" Matrix (una specie di Velo di Maja) che però
rimane tale sino alla fine sia perché di fatto è, per dirla con Hitchcock, un "Mc Guffin"
(il trucco del prestigiatore per distrarre lo spettatore), sia perché non si riesce a capire se
è una cosa buona o cattiva.
Nella lunga visione (140’) di Matrix ciò che fortemente colpisce lo spettatore
(soprattutto quello giovane) sono fondamentalmente due elementi visivi. Innanzitutto il
protagonista Keanu Reeves (Neo, l’Eletto) e il suo Alter Ego femminile (Trinity). Per le
loro fattezze fisiche e ancora di più per il loro abbigliamento, rigorosamente e non
casualmente unisex e "dark". L’altro elemento che colpisce, e travolge tutto il resto,
sono gli Effetti Speciali che trasformano il film in una specie di Gioco elettronico a base
di Kung-Fu e sparatorie apocalittiche rumorosissime. Questi due elementi (visivi e
fododinamici) tendono a far dimenticare il resto e sicuramente non stimolano la
curiosità intellettuale dello spettatore: i sostenitori della qualità di questa lunga pellicola
ritengono necessario vederlo due o tre volte. Io l’ho visto una volta in una sala
supertecnologica e una seconda volta con Videoregistratore.
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Risulta comunque abbastanza grottesco aver affidato all’attore nero Laurence
Fishburne il ruolo del Guru (Morpheus); infatti costui sarebbe certamente più adatto al
ruolo del macellaio o a quello del killer di professione. E però è possibile individuare
l’elemento-chiave di tutto il film: la sequenza centrale, quella che una volta si chiamava,
usando un termine teatrale, la "scena madre". E’ la visita che Morpheus e Neo fanno
all’Oracolo. E’ un vero gioiello filmico che, in qualche misura, salva il film da una
collocazione puramente spettacolare. L’Oracolo è in realtà una magnifica e modesta
signora (coloured) che è tutta dedita nella sua cucina economica a curare i suoi biscotti
nel forno. Tutta l’ambientazione fa a pugni, visivamente, con il resto del film. E’ l’unico
momento realistico e richiama immediatamente, non a caso, alla memoria una scena
simile presente nel film Ghost (USA, 1990, con Patrick Swayze e Demi Moore;
l’Oracolo in questo caso era interpretata da Whoopi Goldberg). In realtà questa
sequenza, tutta da godere per la sua funzione rilassante (rispetto al bombardamento
degli effetti speciali), è anche la chiave per leggere la "caratura" concettuale del film.
Questa chiave si può riassumere nella cosiddetta filosofia New Age, di gran moda
tuttora negli Stati Uniti, e spiega il perché di richiami filosofici eclettici e piuttosto
superficiali.
È peraltro evidente l’ispirazione letteraria all’origine della sceneggiatura e dell’idea
stessa del film: il mitico scrittore (scomparso da tempo) di fantascienza Philipp Dick,
l’inventore dei Replicanti. Ormai si può dire che l’unica alternativa a Guerre Stellari sia
lui e sempre lui e … i suoi Replicanti. In breve è inevitabile il confronto con Blade
Runner (USA, 1982, regia di Ridley Scott ), capolavoro assoluto. Ma non c’è confronto
perché, in questo caso, Matrix, risulterebbe un buon prodotto commerciale e niente di
più: i cattivi di questo film non sono veri e propri replicanti (per di più in crisi
esistenziale come in Blade Runner) ma sono terribili figure "virtuali". Però da un punto
di vista percettivo non c’è alcuna differenza, salvo il fatto che la situazione "politica" è
capovolta, sono infatti loro i cacciatori e gli umani i cacciati, come dire dopo 18 anni
siamo ridotti proprio male…
In Matrix è presente però un altro elemento molto importante per il discorso fin qui
sviluppato. Il sogno svolge nel film un ruolo particolare, decisivo ma confusivo.
Decisivo perché è in fondo l’arma vincente di questo impalpabile e inqualificabile
Cervello elettronico chiamato Matrix. Confusivo perché lo spettatore, da un certo
momento in poi, non riesce più a capire quale sia il livello giusto della "storia". Ma
anche perché, da un certo momento in poi (la scelta della pillola), l’onirico si confonde
con il virtuale. Il finale poi peggiora anche le cose, tant’è che si sta già girando il
seguito.
Il tema della dialettica tra reale e virtuale, tra reale e onirico è centrale nel presente
tentativo di capire quanto possa essere importante il testo platonico. Ma se il tema del
virtuale rimanda alla dimensione massmediale più recente, quella di Internet e dintorni,
e con una ricca filmografia in forte espansione, il tema della dialettica tra reale e onirico
rimanda alla psicoanalisi e allo stesso valore e significato delle immagini
cinematografiche. E non si può, in questa sede, non richiamare l’autorità di uno dei
grandi maestri della storia del cinema: Luis Buñuel. In special modo in alcuni dei suoi
film dell’ultimo periodo di intensa attività, quello parigino, ha portato alle estreme
conseguenze la sua nota convinzione circa il fatto che la realtà è spesso più assurda dei
sogni e che i sogni sono invece spesso portatori di grandi verità razionali. Mi piace
ricordare in modo particolare film come Bella di giorno (1967), IL fascino discreto
della borghesia (1972), Il fantasma della libertà (1974). Buñuel con la sua
partecipazione attiva al grande Movimento Surrealista ha sempre suggerito l’idea di un
uso terapeutico del cinema, cosa che Freud ha temuto più della peste e gli psicoanalisti
odierni considerano, nel migliore dei casi, con disprezzo…
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3. Lo schema platonico della conoscenza: l’immaginazione al
gradino più basso
Ma allora, come si spiega questa passione per la Caverna? Come mai questo bisogno
di massa per il rifugiarsi continuo all’interno di sale buie che ci offrono spettacoli
fantasmagorici, sempre più irreali e però verosimili?
"Sulla tripartizione dell’anima il filosofo ritorna nel Timeo, dove afferma che gli dei
collocano l’anima razionale dell’uomo, che è l’unica immortale, nella testa, e
precisamente nel cervello, mentre collocano le altre due anime in zone diverse del
midollo spinale, cioè rispettivamente l’anima impulsiva nel petto, vale a dire sopra il
diaframma, vicino al cuore, e l’anima appetitiva nell’addome, vale addire sotto il
diaframma, vicino al fegato (69 e sgg.). A questa terza anima Platone attribuisce anche
funzioni che oggi si direbbero proprie dell’inconscio, quali la divinazione in sogno, ed
aggiunge: "E’ dell’uomo assennato il ricordare e considerare le cose dette in sogno o
nella veglia dalla natura divinatrice o ispirata, e il discernere col ragionamento tutte le
immagini vedute (71 e), il che sembra quasi un precorrimento della moderna
psicanalisi"" (E. Berti in Filosofia - Storia del pensiero occidentale, I, pag. 114, dir. da
E. Severino, Curcio, Roma 1988).
Il passo riportato dal bel saggio complessivo su Platone non è certo una novità nella
letteratura storica e critica sul grande filosofo greco, del resto lo stesso Freud, in varie
occasioni, ha esplicitato la consonanza della psicoanalisi con certi aspetti del
platonismo, fatto inoltre confermato dal preciso ricchissimo luogo delle Confessioni di
S. Agostino (allievo di Plotino, il mitico fondatore del Neo-Platonismo). Ma, in tutta
evidenza, Berti ci viene in rigoroso aiuto con la citazione del Timeo (nota su Atlantide)
dove in qualche modo Platone conferma quanto abbiamo detto all’inizio di questo
discorso e cioè "E’ dell’uomo assennato il ricordare e considerare le cose dette in sogno
o nella veglia dalla natura divinatrice o ispirata, e il discernere col ragionamento tutte le
immagini vedute", laddove è evidente che, quanto meno, Platone intendeva suggerire la
natura onirica dei suoi racconti mitici: certo con l’aggiunta, in qualche modo obbligata
per l’epoca in cui viveva, della precisazione che queste "cose" sono valide nella misura
in cui sono di "natura divinatrice o ispirata". E’ infine di grande valore la totale
mancanza di distinzione che Platone fa tra il sogno vero e proprio e il sogno ad occhi
aperti. E io suggerirei la lettura attenta delle prime battute del Nono libro della
Repubblica dove Socrate-Platone, parlando della figura del Tiranno è ancora più
esplicito sulla questione del rapporto, pericoloso, sonno-sogni-realtà.
Non possiamo però negare che i Miti Platonici, pur risentendo di una forte influenza
orfico-pitagorica, siano in un certo particolare senso comunque ascrivibili alla grande
tradizione Mitografica greco-classica.
Certo questi Miti, al contrario di quelli di Omero ed Esiodo, hanno la caratteristica
particolare di essere portatori di insegnamenti filosofici e pedagogici personali (mentre
quelli erano portatori della voce degli dei, cioè quanto meno delle antiche, collettive
tradizioni del popolo greco). Il Mito della Caverna è l’unico che fa eccezione rispetto
alla stessa idea che ne aveva Platone: non è ascrivibile alla tradizione e, in verità,
Platone stesso, per il tramite della voce di Socrate, lo definisce un "racconto" che ha
però lo scopo di spiegare la sua Gnoseologia, la sua teoria della conoscenza, cioè il
nucleo fondamentale di tutta la sua filosofia. Ma è anche l’unico che, in tutto e per tutto,
ha sicuramente le caratteristiche del sogno. Dobbiamo quindi, per concludere il nostro
viaggio, ritornare alla Caverna platonica e far parlare ancora Socrate.
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"Quest’immagine dunque ... bisogna tutta quanta applicare a quanto prima dicemmo,
assimigliando la sede che ci appare attraverso la vista alla dimora del carcere, e la luce
del fuoco che ivi brilla all’azione del sole; ponendo poi la salita in su e la
contemplazione delle cose superne a immagine dell’ascesa dell’anima al mondo
intelligibile, ... Questo è dunque ciò che a me appare: nel campo conoscibile come
suprema l’idea del Bene, che a fatica si vede, ma che una volta vista va considerata essa
come causa a tutti di tutte le cose rette e belle, generatrice nel visibile della luce e del
suo signore, e nell’intelligibile essa stessa legittima largitrice di verità e di ragione..."
(517 b e c, corsivo nostro).
Nella citazione ho evidenziato l’attacco iniziale che è quanto, per ora, ci interessa:
bisogna, dice Socrate, "applicare a quanto prima dicemmo" il racconto della Caverna.
Il Sesto Libro della Repubblica è tutto centrato sulla "mitica", fantastica descrizione
dei "Filosofi Re", cioè quella categoria di persone che non ha né meriti di sangue né
meriti di "censo" o militari ma meriti di pensiero e coscienza talmente elevati da essere
l’unica categoria in grado di comandare e amministrare lo Stato perfetto e ideale
teorizzato da Platone. Ma, a questo punto, il grande pensatore greco, contrariamente alle
sue abitudini , è costretto a dare precise definizioni di quella che è e deve essere
l’attività mentale coscienziale e conoscitiva del perfetto filosofo che, assieme ad altri
della sua stessa "cultura", dovrà governare avendo acquisito, dopo un percorso di
purificazione psico-mentale, il contatto mentale permanente con l’idea del Bene e, in
rapporto a questa, elargire il benessere a tutta la comunità. Dunque, alla fine del Sesto
Libro, sollecitato da Glaucone, l’interlocutore di turno, Socrate descrive
dettagliatamente il cammino faticoso e lungo del filosofo sulla via della conoscenza. Per
quanto ci risulta, in tutta l’opera di Platone questo, insieme a quello della VII lettera, è
l’unico luogo in cui la Gnoseologia platonica appare in tutta la sua chiarezza.
"- Capisco, disse (Glaucone), per quanto non proprio appieno ... che tu vuoi definire
come sia più chiara quella parte del reale e dell’intelligibile che vien contemplata dalla
scienza dialettica, che non quella delle cosiddette arti, che han per principio le ipotesi, e
in cui i contemplanti sono costretti sì a contemplare quelle cose con la mente e non con i
sensi, ma per il fatto del loro esaminare non risalendo direttamente al principio ma per
ipotesi, a te pare che non abbiano vera intelligenza di esse, pur intelligibili ove si giunga
al loro principio. E mi pare che l’abito della Geometria e simili tu lo chiami raziocinio
ma non intelligenza, come se il raziocinio fosse un che di intermedio fra l’opinione e
l’intelligenza.
- Hai inteso perfettamente, dissi io. E in corrispondenza di queste quattro sezioni
ammetti questi quattro processi nell’anima, l’intelligenza nel settore più alto, il
raziocinio nel secondo, al terzo assegna la credenza e all’ultimo l’immaginazione, e
disponili in proporzione, ritenendo che a quel modo che partecipa della verità il loro
oggetto, così essi partecipino di chiarezza." (511 c, d ed e).
In tutte le edizioni della Repubblica, viene riportato, fuori testo, lo schema che
avrebbe dovuto fare Glaucone, cosa che facciamo anche noi poiché è un quadro
sinottico di grande chiarezza.
Mondo visibile (illuminato e fomentato dal Sole) - Immagini, ombre, ecc., conosciuto
per immaginazione (eikasia) - Esseri viventi e oggetti materiali del mondo sensibile,
conosciuto per credenza (pistis)
Mondo intelligibile (illuminato e fomentato dal Bene) - Intelligibili attinti con il
metodo geometrico, conosciuto per raziocinio (dianoia)- Intelligibili con il metodo
dialettico (idee), conosciuto per intelligenza (noesis)
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Lo schema come si vede è di grande chiarezza; ho riportato le parole greche che
indicano i 4 gradi della conoscenza: Eikasia (= immaginazione), Pistis (= fede),
Dianoia (= raziocinio), Noesis (= intelligenza). E’ facile notare di primo acchito che non
è immediatamente comprensibile la differenza, all’interno del percorso nel mondo
intelligibile, tra Dianoia (raziocinio) e Noesis (intelligenza), ma è questo un problema
che intanto lo stesso Platone non ha mai risolto, oscillando fino all’ultimo tra l’eredità
Socratica e quella Orfico-Pitagorica; e poi a noi interessa fino a un certo punto perché
dovrebbe essere del tutto evidente che la nostra attenzione è puntata sul primo e quindi
ultimo gradino della conoscenza secondo Platone. Eikasia è il termine che deriva da
eikon, traducibile con attività basata sulla iconicità (si sa cosa sono le Icone), quindi
immaginazione. Il paradosso cui perviene Platone è veramente curioso: Eikasia è il
primo gradino della conoscenza perché è quello dei bambini oppure quello del risveglio,
quando c’è in noi una totale confusione percettiva tra realtà e sogno. In un altro luogo
Socrate, a mo’ di esempio, si riferisce alle immagini che si possono vedere negli stagni
o nei laghetti: gli alberi, le case, gli animali circostanti vengono riflessi più o meno
perfettamente, possono anche apparire veri. Dunque, intesa in questo senso limitato,
l’immaginazione è da considerarsi il momento conoscitivo meno importante, l’ultimo
della scala gerarchica dell’itinerario gnoseologico del vero filosofo. Come è noto, in
tutta coerenza con questo paradosso, Platone definirà pericolosa e quindi nociva l’arte
stessa, in quanto però arte "mimetica", cioè pura e semplice copia degli oggetti o delle
persone reali: essendo la realtà una copia della vera realtà del mondo delle idee, questo
tipo di arte sarebbe una "copia della copia" e pertanto strumento di confusione e di
allontanamento dalla verità del Bene.
Nel Decimo e ultimo libro della Repubblica Platone finirà per attaccare persino
Omero definendolo il capofila (letteralmente "comandante") di tutti i poeti "imitatori" e
quindi confusionari. Tutto questo spiega, crediamo abbastanza, la coerenza paradossale
di Platone che è spinto a perseguire obiettivi di conoscenza pura il più possibile lontana
dalla realtà sensibile proprio in quanto incerta e confusiva. Platone, inbevuto di cultura
misterica, era ossessionato dal dualismo Alto-basso (oltrechè da altri dualismi):
conoscenza divina, pura, assoluta il più in alto possibile, conoscenza sensibile,
materiale, corporea, il più in basso possibile. Si è trovato però in serio imbarazzo di
fronte al problema dell’arte e per due seri motivi: innanzitutto perché, come è noto,
l’Arte era molto considerata in generale nell’antichità e in modo particolare nella civiltà
greca, e infatti in un dialogo giovanile del periodo "socratico", lo Ione, finisce per
definire l’artista come un essere umano invasato dal dio Apollo che comunica attraverso
di lui. Questa posizione viene presto completamente ribaltata fino a proporre, nella
Repubblica, di escludere l’arte "mimetica" da qualsiasi progetto educativo. Il secondo
motivo di imbarazzo è personale, visto e considerato che Platone stesso aspirava, da
giovane, a diventare poeta tragico e in effetti molti suoi dialoghi sono delle vere
splendide opere d’arte, basti l’esempio del Simposio, senza considerare la costruzione e
narrazione dei Miti che raggiunge spesso vette letterarie elevatissime. Ma allora perché
tanto accanimento contro la grande arte poetica e perché questa collocazione
dell’immaginazione al livello più basso della conoscenza? Non c’è dubbio che, insieme
al resto e quindi in modo strutturalmente contraddittorio, Socrate resta la figura
ossessivamente più egemone nella formazione mentale e filosofica platonica. Se si
eccettua l’ultima opera, cioè Le Leggi, tutti i dialoghi hanno come protagonista assoluto
Socrate, anche quando questi, defunto da un pezzo, ormai non può più esporre le proprie
tesi ma è costretto, suo malgrado, ad esporre le complicatissime idee del suo allievo. E’
stato infatti notato da molti studiosi che Socrate non ha potuto, neppure vagamente,
rendersi conto di aver formato e condizionato un allievo così importante, sia per la
enorme differenza di età e sia soprattutto perché Platone ha "scoperto" effettivamente il
fascino socratico soltanto in occasione del suo processo e della sua morte. Jaeger è
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riuscito a scoprire qualche testimonianza abbastanza sicura su espressioni fortemente
ironiche, al limite del sarcasmo, di Socrate nei confronti di questo giovane ammiratore.
Ed è abbastanza ovvio evocare il terribile giovane Nietzsche che, appunto nella Nascita
della Tragedia, ha indicato in Socrate il vero responsabile del declino e morte dello
spirito "tragico" greco proprio perché fondatore del razionalismo filosofico. E
potremmo dire che c’è di più perché, come è noto, deliberatamente Socrate non ha
lasciato scritto nulla poiché, fino all’ultimo, ha duramente manifestato tutta la sua
diffidenza nei confronti della parola scritta, cosa che Platone, nonostante tutto, non ha
mai smentito. Infatti fa dire a Socrate, nel Fedro, che ciò che è scritto non è comunque
la vera essenza della verità, essa infatti è affidata alle profondità della mente e allo
spirito del dialogo concreto e quotidiano delle menti.
Naturalmente il discorso di Platone contro l’arte è terribilmente contorto e così non
potrebbe non essere: c’è un passaggio però che particolarmente sembra esserci utile per
riuscire a dipanare il bandolo della complicata matassa e forse dopo potremmo arrivare
finalmente al dunque.
"SOCRATE: ... ci siamo messi bene d’accordo, che l’imitatore nulla sappia di serio su
ciò che imita, ma che la mimesi sia come un giuoco e non una cosa seria, e che quelli
che trattano la poesia tragica in giambi e in metri epici siano tutti, quanto mai, mimetici.
GLAUCONE: Perfettamente.
S.: Per Zeus, diss’io, or questo imitare non verte esso su una cosa in terzo grado
distante dalla verità? No?
G.: Sì
S.: E a qual elemento dell’uomo si indirizza, avendo la funzione che ha?
G.: Di qual cosa vuoi parlare?
S.: Di questa: la stessa grandezza da vicino e da lontano non ci appare uguale alla vista.
G.: No.
S.: E le stesse cose ci appaiono curve e diritte, guardandole entro e fuori dell’acqua, e
concave e convesse, per l’errore della vista circa i colori, ed è chiaro che noi abbiamo
nell’anima tutto un turbamento di questo genere; onde la pittura in prospettiva,
puntando su questa debolezza della nostra natura, usa tutte le sue arti illusionistiche, e
così fanno la prestidigitazione e tanti altri trucchi consimili." (La Repubblica, Libro X,
602 b, c, d, corsivi e grassetti nostri).
Ci sembra innanzitutto importante fare qualche annotazione linguistica.
Prestidigitazione nel testo greco suona: Thaumatopoiia, termine composto di due
parole, Thaumatos che vuol dire "prodigio, fenomeno meraviglioso", e Poiia che è
sinonimo di Poiesis che vuol dire "creazione" sia in senso poetico che in senso concreto
(dell’operaio e dell’artigiano, cioè nel senso di "fabbricare"). E’ importante notare che
lo stesso termine è presente nel Mito della Caverna solo che nelle traduzioni italiane, in
quella sede, viene usato il termine sinonimo di "giocolieri" (vedi la ns citazione al § I).
Trucchi, nel testo greco, suona Mechanai (da cui meccano, meccanico, cioè qualcosa di
artificiale o artificioso).
È del tutto evidente, quindi, che il famoso imbroglio della Caverna (i poveri esseri nati
e cresciuti legati mani e piedi e costretti a vedere delle ombre artificiali frutto di un
misero trucco) è del tutto identico. E’, cioè, da mettere sullo stesso piano delle opere
d’arte, di cui peraltro la Grecia antica tutta allora andava orgogliosa.
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Platone nel seguito del testo, a scanso di equivoci, fa dire a Socrate che tanto e tanto
grave è il disorientamento conoscitivo dell’essere umano di fronte a un’opera d’arte
pittorica che l’anima razionale, che per fortuna è nella nostra mente, è costretta a
recuperare chiarezza e certezza percettiva attraverso un lungo lavoro di confronto e di
calcolo. Conseguenza inevitabile: escludere totalmente l’uso dell’arte pittorica
all’interno dei percorsi educativi previsti per i Filosofi destinati al governo della Polis
ideale. Glaucone chiede se lo stesso ragionamento, diciamo distruttivo, può valere per la
poesia che non lavora sulle immagini ma sulle parole. Socrate, seguendo un percorso
piuttosto contorto ma suggestivo, non ha difficoltà a confermare, per la seconda volta, il
suo "pollice verso" anche nei confronti di Omero, capostipite dei creatori di poesia
tragica. Ma torniamo al nostro discorso.
Dunque c’è un’idea fissa in Platone: qualsiasi spettacolo a base di immagini artificiali
e/o frutto di trucchi pittorici e, magari, unitamente a declamazione di poesia tragica è
cosa pericolosa e da considerarsi al livello più basso della conoscenza umana. Come
dire che, sommato tutto, di nuovo c’è la condanna del Cinema ante litteram.
4. Platone e Freud: una profonda ma contraddittoria alleanza
contro le "ombre della Caverna"
Già a questo punto possiamo constatare una quasi perfetta coincidenza di idee tra
Platone e Freud. E’ doveroso qui ricordare che quest’ultimo, nella polemica con il
fedelissimo K. Abraham (il quale riteneva possibile e anche utile per il prestigio della
psicoanalisi collaborare alla realizzazione del film di W. Pabst I misteri di un’anima,
uscito poi nel 1926) sottolineava con forza quanto fosse impossibile rappresentare i
concetti complessi elaborati dalla teoria psicoanalitica tramite un linguaggio di
immagini. Freud allora aveva presente il cinema muto (tedesco) ma sappiamo che, con
l’arrivo del sonoro, la situazione non è cambiata (anzi, forse si è aggravata).
Dunque il nodo di tutta la questione è sul rapporto Alto-Basso nei procedimenti teorici
e riflessivi e il punto di riferimento è l’Idea e la Scienza che la studia: la sensibilità e
l’immaginazione sono pericolose quanto e forse più delle mitiche Sirene che con il loro
canto celestiale e melodioso seducono e confondono la mente di Ulisse.
Con tutto questo o meglio, nonostante questo, sappiamo che Platone si è baloccato
continuamente e ripetutamente con sogni e Miti e che Freud ha costruito l’ossatura della
sua teoria sulla interpretazione dei sogni. Ambedue quindi hanno elaborato un grande
progetto costruito sull’"imbrigliamento", l’"incatenamento", cioè l’inquadratura
razionale di quanto di più irrazionale alberga da sempre nella Psiche umana. Ambedue
hanno aperto le porte dell’Ade con il preciso intento di sottomettere alla dura legge
della Ragione i fantasmi: viene in mente il celebre quadro di Francisco Goya che porta
la scritta, in alto: "Il sonno della ragione produce mostri".
Non c’è dubbio, crediamo, sul fatto che Freud, come del resto Marx, Hegel, Kant e un
po’ tutta la cultura inneggiante alla dea Ragione, sia stato un fautore quasi fanatico della
lotta contro l’irrazionalismo e contro chiunque avesse l’imprudenza di dare troppo peso
all’immaginazione, la fantasia, le fantasticherie, i sogni... ma, se Platone è arrivato,
almeno nella Repubblica, a condannare quasi in toto l’arte e, comunque, a dettare severe
regole (leggi: Censura) da imporre all’artista per una sua accettazione nella Polis ideale,
sappiamo invece della grande ammirazione di Freud per la grande arte, per esempio
quella rinascimentale italiana. In realtà se si guarda bene ciò che interessava il "padre"
della Psicoanalisi era "l’elemento razionale insito in essa": proprio quanto ebbe a dire,
appunto, dell’arte di Salvator Dalì, che è stato, forse, uno dei pochi pittori moderni da
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lui apprezzati (degli altri surrealisti aveva detto, in più di un occasione, che in genere
tendevano più che altro a "sfruttare" la loro presunta e ostentata pazzia).
In verità però il nocciolo della questione sta proprio nel valore che si dà all’immagine
e cioè, ancora una volta, al centro di tutto rimane la raffigurabilità dei concetti e, più in
generale, del pensiero e del pensare in quanto tale.
In un celebre luogo de L’interpretazione dei sogni, Freud paragona il lavoro di libera
associazione del paziente al lavoro di creazione del poeta:
"A molte persone non riesce facile raggiungere, rinunciando alla critica esercitata di
solito, quest’atteggiamento, che è necessario per far sorgere idee apparentemente
"libere". I pensieri "non voluti" scatenano generalmente una resistenza violentissima che
tende a impedire il loro sorgere. Ma, se prestiamo fede al nostro grande filosofo e poeta
Schiller, un atteggiamento molto simile costituisce anche la condizione della produzione
poetica...
Movendo i primi passi nell’applicazione di questo procedimento, impariamo dunque
che non bisogna fissare l’attenzione sul sogno nella sua totalità, bensì soltanto su singoli
elementi parziali del suo contenuto. Se chiedo a un paziente ancora non esercitato: "che
cosa le fa venire in mente questo sogno?", in genere egli non è in grado di afferrare
nulla nel suo campo visivo mentale. Se invece gli presento il sogno scomposto in singoli
frammenti, allora, per ogni frammmento, egli mi offre una serie di pensieri che si
possono definire come il "sottinteso" di questa parte del sogno." (S. Freud,
L’interpretazione dei sogni, trad. it. di Elvio Fachinelli e Herma Trettl, Boringhieri,
Torino 1973, pagg. 114 e 115).
Dunque nella teoria psicoanalitica c’è addirittura una valorizzazione della "produzione
poetica", ma non è difficile constatare che qui la poesia viene evocata come condizione
in cui i freni inibitori vengono sospesi per favorire la fuoriuscita di parole in libertà che
costituiscono i pensieri sottintesi che rappresentano la fonte delle raffigurazioni
oniriche: cioè quello che interessava a Freud realmente era distruggere la parte
immaginativa-figurativa del sogno per tradurla in parole e pensieri magari osceni e
terribili ma comunque razionalizzabili. Era infatti noto, sin dalle ricerche del XVIII
secolo, che lo sviluppo delle capacità linguistiche nell’evoluzione della civiltà umana
veniva buon ultimo rispetto ad altre capacità espressive, soprattutto immaginative e
figurative, e che queste capacità, inevitabilmente, restringevano le altre anche perché
erano e sono indissolubilmente legate a quelle del calcolo. In breve possiamo metterla
in questi termini: l’uomo primitivo, geniale e creativo, a un certo punto ha scoperto il
grande valore pratico della parola e non è un caso che con le prime parole sono nate
anche le prime terribili Leggi, per regolare, razionalizzare comportamenti e rapporti. La
lingua quindi ha funzionato sin dagli albori della civiltà come strumento di controllo e
inibizione di comportamenti primitivi, istintivi, distruttivi. Ma la lingua è stato anche il
mitico canale della poesia epica, dei grandi monumenti della civiltà umana, dei testi
sacri e profani che testimoniano dell’approdo umano alla meta dei superiori principi di
ragione. La lingua dunque è quel dono della natura che ha permesso all’uomo di ergersi
al di sopra degli altri abitanti del nostro pianeta, ma è stata ed è anche l’anello di
congiunzione, sotto forma di poesia, con l’inconscio (cfr. anche il saggio sul motto di
spirito): dunque agli occhi di un uomo come Freud, cresciuto e formatosi all’ombra dei
grandi pilastri del razionalismo ottocentesco, la componente linguistica dava garanzie
assolute di razionalità e controllo, presuntivamente non nevrotico, degli istinti.
Vogliamo dunque mettere in evidenza il fatto evidente che alla psicoanalisi, così come
ancora è concepita (in questo senso e su questo punto, con tutte le innovazioni,
modifiche e critiche al Padre della psicoanalisi, le cose non sono cambiate di una
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virgola), della dimensione percettivo-visiva, figurativa, immaginativa, non importa un
bel nulla e, anzi, non è azzardato il dire che addirittura viene spesso considerata come
intrinsecamente pericolosa...
C’è ancora un elemento, incredibilmente contraddittorio, che lega Platone e Freud. La
loro lotta contro l’immaginazione figurativa è paradossale proprio perché, ambedue,
hanno dimostrato di averne tantissima, ma non solo. Le scuole di pensiero che sono nate
da questi due giganti della civiltà occidentale hanno visto uno sviluppo impetuoso della
creatività, della fantasia: per Platone citiamo il cosiddetto Neo-Platonismo che,
attraverso la Gnosi, Plotino, Agostino e poi giù giù fino a Tommaso Campanella, ha
favorito una vera e propria fantasmagoria di immagini e creazioni fantastiche; per Freud
basterà ricordare che, suo malgrado, l’arte, la letteratura e il cinema del Novecento non
sarebbero quello che sono senza le sue teorie (Gombrich ha sostenuto con rigorosi
argomenti questo paradosso).
Dunque, ci pare di poter concludere che in tutta questa storia c’è qualcosa che non va.
E qui sottolineo il mio punto di vista: la psicoanalisi non può non recuperare
pienamente, nella prospettiva dell’incipiente terzo millennio, sia sul piano teorico che
terapeutico, la dimensione percettivo-visiva, e così anche la filosofia, che ha
sicuramente spunti sempre maggiori per la sua attività di ricerca nella dimensione
percettivo-visiva del linguaggio cinematografico.
5. Considerazioni sull’estetica del cinema
Allora, per arrivare a delle conclusioni provvisorie, vediamo quali sono le "ragioni"
del fronte percettivo-visivo, con particolare riferimento alla dimensione culturale del
cinema, sia sul piano teorico che sul piano terapeutico.
Affrontiamo innanzitutto il livello teorico del problema.
È del tutto superfluo, in questa sede, ricordare l’imponente lavoro sviluppato, nel
corso di questo secolo dalla cosiddetta Gestaltpsychologie, sia nella sua corrente
austriaca (Vienna e Graz) sia nella corrente tedesca (Berlino). Questa scuola, trasferitasi
negli Usa con l’avvento del Nazismo, ha dato agli studi sulla percezione una tale
potenza, per la rigorosità dei metodi e degli esperimenti, che ben pochi sperimentatori di
scuole avverse (segnatamente quelle comportamentiste) sono riusciti a sostenere più di
tanto le loro obiezioni. Oggi le ricerche di W. Kohler, M. Wertheimer, K. Kofka (per
citare i più famosi) sono considerate pietre miliari della scienza moderna sulla questione
dei meccanismi percettivi della mente umana. In queste sede interessano due aspetti
essenziali
Il primo, banale e intuitivo, riguarda il ruolo e la funzione della percezione visiva nel
quadro complessivo della percezione dell’Homo Sapiens: ebbene è ormai acquisito alla
consapevolezza scientifica più banale il fatto genetico e strutturale che ci dà la funzione
visiva come occupante lo spazio percettivo complessivo umano largamente al di sopra
dell’80%. Il che significa che nell’attività informativa e creativa umana più dell’80%
delle informazioni, in entrata e in uscita, passano attraverso la funzione visiva e ciò,
ovviamente, coinvolge tutte le funzioni cerebrali. E’ anche ormai noto che buona parte
della elaborazione linguistica passa attraverso la funzione visiva e che quella uditiva è
non solo molto marginale ma anche fortemente limitante soprattutto per quanto riguarda
le funzioni della memoria a lungo termine che ha inevitabilmente sempre bisogno dei
supporti visivi per conservare ogni singola parola. E’ anche banale ricordare il fatto che
tutti i bambini imparano la "lingua madre" anche e soprattutto attraverso l’attenta
osservazione dei movimenti delle labbra materne (anche paterne, se il padre è molto
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presente). Certo non vogliamo qui svalutare completamente la funzione uditiva,
vogliamo semplicemente ristabilire i giusti valori rispetto alle funzioni mentali umane e
restituire alla funzione visiva il ruolo egemonico all’interno della mente umana che la
psicoanalisi - vorremmo dire: suo malgrado - ha troppo marginalizzato.
Il secondo aspetto che qui interessa riguarda il problema, appunto, dell’importanza del
cinema all’interno sia della dimensione estetica che di quella esperienziale. Sul piano
estetico è del tutto evidente che le ricerche della Gestalt hanno dato le migliori
spiegazioni del cinema come Evento artistico del nostro secolo. Rudolf Arnheim, uno
degli esponenti più in vista della seconda generazione degli esponenti della
Gestaltheorie, decisamente è colui che ha elaborato le analisi più penetranti e
significative sia sulla funzione estetica moderna, che non può che guardare al cinema
come segno espressivo del nostro secolo, sia sulla funzione psicologica fondamentale
dell’arte in genere e del cinema in particolare (in quanto quest’ultimo è l’unico ha
offrire dinamiche percettive particolari sia del movimento che, al tempo stesso, del
tempo). Arnheim ha scritto un testo specifico sull’argomento, Film come arte, che è,
ancora oggi, da considerarsi fondamentale, ma non ha mai smesso di lavorare sul tema
della percezione visiva come la funzione mentale umana più ricca e più importante,
perché è quella funzione che ha dato le prove migliori nella storia della civiltà. Nel suo
testo più impegnativo da lui pubblicato, Arte e percezione visiva, le parti più
significative sono dedicate al cinema.
I principi metodologici elaborati dalla Gestalt e le ricerche, straordinarie anche per la
loro spettacolarità (basti pensare a quelle di Kohler sulle scimmie antropoidi), hanno
permesso di accertare con rigore scientifico che la funzione visiva umana non è una
funzione meramente oculare, passiva e quindi ricettiva, ma è anzi una funzione mentale
essenzialmente cerebrale, attiva e cioè costruttiva. Noi vediamo, in un certo senso, ciò
che vogliamo vedere, ciò che la nostra cultura, esperienza, soggettività, emotività ci
spinge a vedere, nel senso che tendiamo a costruire delle immagini che, ovviamente, si
basano su quanto riceviamo attraverso i sensi ma che, per ragioni genetiche,
continuamente rielaboriamo all’interno delle nostre strutture cerebro-neuronali.
Tutti gli studiosi che hanno tentato di elaborare una teoria estetica del cinema hanno
dovuto fare riferimento alla Gestalt e non solo ad Arnheim: da Bela Balazs a Jean
Mitry, passando attraverso il nostro Galvano Della Volpe. Certo la tendenza è sempre
stata quella di dire poi che il punto di vista della Gestalt era comunque riduttivo e
troppo psicologico: segnatamente su questo piano è abbastanza ricca e interessante la
produzione teorica, fortemente polemica, di Christian Metz (cfr. soprattutto Semiologia
del Cinema, Garzanti 1980), il quale ha voluto dare una torsione linguistico-strutturale
all’estetica del film, danneggiando (come in tutti i tentativi di critica estetica centrati su
di una reductio ad unum) non poco una lettura polivalente del linguaggio
cinematografico. Però come in ogni polemica qualcosa di buono è emerso anche dalla
parte, dal mio punto di vista, "avversa": ed è il principio strutturale "narratologico" che
non si può trascurare. In questa "lotta dei contrari" è possibile oggi trovare un elemento
unificante di una polemica che non è ancora esaurita, ma non c’è qui lo spazio per
approfondire una concezione aggiornata di una nuova Critica del gusto.
Comunque ogni volta che si affronta il tema, per esempio, dei nuclei essenziali del
linguaggio cinematografico, quelli del movimento e del tempo, nessuno riesce ad
evitare le classiche ricerche della Gestalt. Persino Hugo Münsterberg che è da tutti
considerato il primo studioso ad aver elaborato una geniale teoria estetica del cinema,
già nel 1916, ha dovuto fare riferimento ai primi esperimenti sulla percezione del
movimento di Max Wertheimer, lui che, allievo fedele di Wundt (e quindi su una
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sponda teorica del tutto antitetica), si era trasferito negli USA su invito del padre del
Pragmatismo e della Psicologia accademica americana, William James.
Secondo noi però la testimonianza più interessante di questa strana situazione
(riassumibile in: tutta la ricerca più avanzata in psicologia si interessa con grande
rispetto del fenomeno cinema, la psicoanalisi no, lo considera un fenomeno da
baraccone) è rappresentata da Cesare Musatti, il "padre" della psicoanalisi italiana.
Musatti ha scritto sul cinema delle cose molto interessanti e convincenti, recensendo
film, parlando di registi, attori e generi cinematografici, cosa che hanno fatto altri
psicoanalisti, ad esempio Emilio Servadio, ma anche Franco Fornari e molti altri.
Tuttavia Musatti quando scriveva di cinema era l’unico tra gli psicoanalisti, forse al
mondo, a trattare il cinema con rispetto e competenza, offrendo spesso delle
osservazioni e delle critiche veramente appropriate al linguaggio cinematografico: la
spiegazione è semplice, Musatti prima di diventare psicoanalista è stato per anni uno
studioso di fenomeni percettivi in quanto allievo di Benussi (italo-austriaco della scuola
di Graz) e, in alcune biografie, è anche definito il "padre" della nutrita scuola Gestaltista
italiana (Kanitza, Bozzi, ecc.). Credo sia giusto riportare un passo di uno scritto del
compianto Cesare Musatti su questa questione, tratto da una raccolta di suoi scritti,
curata da un suo allievo Dario F. Romano e uscito pochi mesi fa:
"I sogni cioè contengono, con una frequenza veramente notevole, impressioni, scene,
personaggi, situazioni desunte da film. Non che questo materiale abbia per lo più nei
sogni una funzione diversa da quella di ogni altro resto diurno; ma esso sembra prestarsi
in modo particolare ad attrarre su di sé le cariche emotive di provenienza inconscia e a
lasciarsi quindi inserire nel sogno. Ne deriva che chi, per motivi professionali, interpreta
sistematicamente sogni di pazienti, come è costretto a tenersi al corrente degli
avvenimenti della vita sociale, politica e culturale, a cui i suoi pazienti partecipano, (per
poter esattamente intendere alcuni degli elementi che anche come semplici resti diurni
riappaioni in quei sogni), così deve in modo particolare tenersi al corrente della
produzione cinematografica. E io debbo dire che frequento le sale cinematografiche –
talora proprio su indicazioni specifiche dei miei pazienti – anche per dovere
professionale." (Scritti sul cinema, casa ed. Testo & Immagine, Torino 2000, p. 137).
È fuori di dubbio il fatto che Musatti resta la classica eccezione che conferma la
regola. E molto spesso gli psicoanalisti, anche di fama, che discettano di cinema,
cadono nel ridicolo poiché non hanno alcun criterio estetico-filosofico per una
valutazione critica di un film e spesso confondono le cose parlando del film come se
fosse un romanzo o un’opera teatrale e sempre traspare il disprezzo per il cinema
considerato come pseudo arte o arte inferiore.
Ormai crediamo di aver svelato il mistero della "cinefobia" freudiana (e non solo): il
padre della psicoanalisi, non avendo digerito il cinema muto tedesco e i tentativi di
Abraham, a suo dire, lesivi della dignità sua e della psicoanalisi come scienza, ha
pensato bene di imporre a tutta la sua scuola l’atteggiamento più paradossale e
incredibile che il mestiere di psicoanalista possa produrre: quello di far finta di non
vedere, e non è chi non veda in questo atteggiamento una stretta parentela con quanto lo
stesso Freud chiamava cecità isterica. In questo senso Ernst Jones ha confermato con la
sua autorità questa linea di dura e coerente ottusità: a parte le incredibili assurdità che ha
scritto su I misteri di un anima, facendo torto alla geniale intelligenza di Abraham, ma
nel suo, devo dire per altri versi splendido, saggio sull’Amleto, pur parlando con
entusiasmo di Lawrence Olivier, non ha avuto nemmeno il coraggio di citare l’Amleto
cinematografico realizzato nel ’48 dallo stesso Olivier: film a tutt’oggi considerato
capolavoro assoluto (Leone d’oro a Venezia e 4 Oscar).
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Come abbiamo però fatto notare, se a Freud e, forse, anche a Jones, possiamo
concedere tutte le attenuanti del caso e della storia, ciò assolutamente non può valere
per gli psicoanalisti odierni.
Resta però il dubbio, già esplicitato, sul carattere fortemente proiettivo e allucinogeno
del cinema: fatto evidente e noto sul quale non possiamo non essere d’accordo E
bisognerebbe riconoscere e verificare quanto lo stesso Freud nell’Interpretazione dei
sogni, avesse intuito il problema e i relativi pericoli impliciti. E tuttavia ha imposto una
specie di "politica dello struzzo". E’ invece precisamente per questo motivo che,
appunto, occorrerebbe lavorare da una parte sull’uso nevrotico del film ed arrivare ad
ipotizzare, nel quadro di una nuova concezione della psicoanalisi, linee teoriche e
filosofiche per un uso terapeutico del film. E in fondo tutto il nostro lavoro ha la
presunzione di recuperare, al tempo stesso, lo spazio centrale che non può non avere,
nel prossimo millennio, il cinema e un nuovo spazio alla psicoanalisi la quale, con la
cecità che distingue i suoi adepti odierni su questo punto rischia di trasformarsi in un
club di nostalgici del "buon tempo antico".
6. Abbiamo forse una videocineteca nella mente?
Del resto la più volte citata rivoluzione silenziosa del videotape costringerà ogni
psicoanalista a dover far finta di niente di fronte alle suggestioni legate a un film che i
pazienti sempre di più porteranno in analisi. E pensare che la cosa più banale sarebbe
quella di trattare queste suggestioni come quelle derivate da materiale onirico anche se
la riflessione teorica impone una conoscenza rigorosa del linguaggio cinematografico:
infatti è facile constatare come l’approccio ingenuo all’immagine filmica porta quasi
sempre alla tentazione di analizzare la trama e i personaggi dimenticando proprio
l’elemento decisivo dell’immagine sulla quale ogni individuo ha i suoi punti di vista e i
suoi personali elementi proiettivi. Oltretutto l’immagine filmica è portatrice della
complessità di una immagine pittorica ma ha, in più, l’elemento del movimento (che
rappresenta lo specifico esclusivo del cinema rispetto a tutte le arti conosciute) e poi del
parlato, della musica e degli stessi rumori e/o effetti sonori.
"Un’idea comune è quella che le immagini mentali siano una specie di raccolta di foto
o diapositive. Per rendere ragione del fatto che gli oggetti nelle nostre immagini sono
anche mobili, si potrebbe integrare il concetto con quello di una cineteca o videoteca.
Ma il problema rimane: se le immagini sono immagazzinate e ritrovate in memoria sotto
forma di riproduzioni cine-fotografiche, allora possiamo raffigurarci solo oggetti che
abbiamo già visto. Ma come si spiega allora la capacità umana di ruotare gli oggetti
raffigurati mentalmente in posizioni del tutto nuove, di aggiungervi dettagli e
modificarli a piacere? E’ facile rappresentare un cavallo: tutti noi abbiamo veduto
cavalli, almeno in riproduzione. Ma proviamo a rappresentarlo nell’atto di saltare oltre
il tetto d’una casa. E’ probabile che non abbiamo mai visto accadere un fatto del genere,
eppure non avremo nessuna difficoltà a crearne un’immagine. Com’è possibile tutto
ciò? Thomas Hobbes, il grande filosofo inglese del XVII secolo, sosteneva che
possiamo creare immagini di scene totalmente nuove e originali come questa perché una
volta o l’altra abbiamo avuto occasione di vedere parti che le compongono, "come
quando dalla vista una volta di un uomo e un’altra volta di un cavallo, concepiamo nella
nostra mente un centauro" (Leviatano, cap. II). Un’immagine viene creata componendo
parti diverse, non semplicemente proiettando su uno schermo una fotografia già pronta
in archivio". (Stephen M. Kosslyn, Le immagini nella mente, trad. it di Gabriele Noferi,
pres. di Bruno G. Bara, Giunti, Firenze 1989, pag. 33)
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Abbiamo riportato per esteso questo passo dal testo del cognitivista Kosslyn perché ci
sembra altamente significativo (oltre alla notevole e acuta citazione da Hobbes): nella
nostra mente si accumulano immagini, rappresentative delle nostre esperienze, che si
possono definire cine-fotografiche al punto che la nostra memoria nel corso del tempo
assume sempre più l’aspetto di una cineteca. A onor del vero Kosslyn, da buon
cognitivista americano, non condivide del tutto questa impostazione in quanto la ritiene
limitativa e, di seguito, propone, sia pure in modo originale, quell’analogia tra mente e
computer che ossessiona una buona parte del cognitivismo americano.
In breve, un grave inconveniente nell’idea delle immagini mentali come riproduzioni
di oggetti – sia pure riproduzioni in movimento – è che queste sono fissate una volta per
tutte, mentre le nostre immagini interiori non lo sono. Se le concepiamo invece come
visualizzazioni grafiche sul monitor di un calcolatore, abbiamo delle rappresentazioni
visive che quando ce n’è bisogno vengono generate, non semplicemente ripescate in
archivio, e nulla ci vieta di pensare che l’informazione nel calcolatore possa essere
manipolata, modificando di conseguenza l’immagine che compare sul terminale. (ivi)
In realtà a ben leggere questo passo può anche essere interpretato come un
integrazione di quanto detto sopra e non come opposizione. Infatti è impossibile non
ammettere il fatto ovvio relativo a una memoria in cui si accumulino anche sequenze
immaginative di tipo cine-fotografico: in altri termini le due teorie non necessariamente
devo essere viste come incompatibili. In effetti vedremo come sia Kosslyn sia altri
studiosi sono propensi a questo tipo di soluzione: recentemente è intervenuto
autorevolmente sulla questione Umberto Eco nel suo Kant e l’ornitorinco, ma il
discorso si farebbe troppo ampio. E’ comunque evidente che, in questo quadro, tutta la
ricerca scientifica più recente dimostra ampiamente quanto già intuito da filosofi della
scienza moderna che vanno da Cartesio a Bergson, passando ovviamente attraverso la
kantiana Critica della Ragion Pura e quanto però sostenuto, in lungo e in largo, dalla
ricerca collettiva della Gestalttheorie nei primi due decenni di questo secolo. Il Kosslyn,
in questo confermando quanto in altri termini e ad altro livello dimostrato da Piaget,
include in questo tipo di dimostrazione persino la parola.
A noi però, ovviamente, preme qui concludere il discorso sul fronte del cinema.
Film e sogno, sogno e film: siamo dunque al punto nodale, o forse dovremmo dire…
alla resa dei conti. Sia che trattiamo la questione del sogno sia che trattiamo quella del
film, la conclusione è la stessa, non siamo più ai tempi di Freud, i tempi sono mutati
radicalmente, la società dello Spettacolo è andata molto oltre le stesse profetiche
"minacce" di Mc Luhan. A noi preme qui però vedere che cosa è cambiato sul fronte del
cinema.
È paradossale come proprio, e in senso stretto, la percezione del linguaggio filmico
cambi continuamente e come però, nonostante tutto, il cinema risulti avere, come si
dice, sette vite come i gatti. Si sa che, sin dalle prime prove realizzate dai fratelli
Lumiére, si è constatato quanto non sia per niente sufficiente riprendere una situazione
anche vera per poi, a pellicola stampata, avere una riproduzione magari
approssimativamente simile: in questo senso è sicuro che può risultare più affidabile
una fotografia o più fotografie rispetto a uno stesso evento ripreso con una cinepresa: ne
ha dato una classica dimostrazione Michelangelo Antonioni nel suo celebre film Blowup (1966) dove risulta molto evidente come, ingrandendo una fotografia, si possa
addirittura scoprire ciò che la vista normale non riesce a vedere ed è chiaro che, nello
specifico, la vista normale è quella della cinepresa. Ma in fondo tutto il film è la
dimostrazione che il cinema non è in grado di riprodurre la realtà e, se si pensa al finale
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(la partita a tennis dei mimi), Antonioni chiaramente ha voluto dirci che anche la realtà
è del tutto opinabile…
Da Meliès in poi si è capito che il senso di realtà, che è poi quello che turba di più lo
spettatore e lo spinge a desiderare di tornare nella "Caverna", lo si ottiene meglio
lavorando su due fronti: A) aggiustando "ad hoc" la scena che si vuole riprendere, B)
creando dei trucchi sia con la cinepresa che poi al momento della stampa della pellicola
e quindi in sede di montaggio. Nel punto A) va incluso, oltre alle modifiche
architettoniche, a quelle della natura, a quelle del tempo, il problema del trucco degli
attori nonché il loro abbigliamento, mentre nel punto B) va inserito il complesso
problema che va sotto il nome di Effetti Speciali. L’occhio dello spettatore diventa
sempre meno ingenuo, sempre più sofisticato e quegli elementi proiettivi che lo
rendono, diciamo, di bocca buona (in quanto la scena che si svolge di fronte ai suoi
occhi lo coinvolge a tal punto che, in genere, non si accorge di certi particolari che
potrebbero farlo sorridere o tranquillizzarlo per la evidente falsità di quello che vede)
richiedono continui aggiornamenti. Dunque e comunque è il senso di realtà ciò che più
"rapisce" lo spettatore e, ritengo, che ciò sia intuitivo per chiunque e che non sia
necessaria alcuna dimostrazione. Ma perché è questo il punto, diciamo, della
"degustazione" filmica che risulta più ovvio, universale ed evidente? Se ci si pensa bene
è proprio ciò che accomuna sogno e film, quando sogniamo siamo infatti sempre
convinti di vivere un’esperienza reale e quindi lo spettatore è portato ad entrare nella
"caverna" per poter rivivere, entro certi limiti, la situazione del sogno. Il cinema è stato
più volte definito (specie se il modello era Hollywood) la "Fabbrica dei sogni", oggi
sarebbe opportuno precisare "…dei sogni e degli incubi".
Bibliografia essenziale
ARNHEIM R., Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 1996
BERNARDI S., Introduzione alla retorica del cinema; Le Lettere, Firenze 1994
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FREUD, S., Il Motto di spirito, in Opere Vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino
FREUD S., L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 1973
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