I diritti sociali
Le persone in condizione di bisogno
Chiunque può trovarsi in condizioni di particolare bisogno, per una malattia, un infortunio, la perdita
del posto di lavoro o dell’abitazione; sicuramente è in condizione di bisogno una persona nei primi anni
di vita, perché necessita per forza dell’aiuto dei genitori e della famiglia, ma lo stesso stato si ripropone
negli ultimi anni dell’esistenza di ognuno, essendo la vecchiaia un periodo in cui si è piuttosto fragili. A
causare la situazione di bisogno possono essere motivi naturali, fisici o psicologici (età, malattia,
sofferenze psichiche), ma anche motivi sociali ed economici (povertà, disoccupazione involontaria,
emarginazione, …).
Non tutti sono esposti allo stesso modo al rischio del bisogno: le probabilità di incorrervi sono
maggiori per chi è povero (esposto alle malattie e agli stenti, con meno possibilità di realizzazione), per
chi fa lavori pericolosi (esposto agli infortuni) e ai portatori di disabilità fisiche o psichiche (esposti a
ostacoli alla vita autonoma e alla povertà); in ogni caso, può sempre capitare che anche un soggetto non
troppo esposto a quei rischi sia colpito ugualmente da un evento sfortunato.
Chiunque sia in situazione di bisogno, debolezza o difficoltà ha bisogno dell’aiuto e della solidarietà degli
altri. Il compito di aiutare chi è nel bisogno spettava e spetta ancora (sia pure in misura minore)
innanzitutto alla famiglia di quello stesso soggetto: lì trovano posto, per esempio, il nutrimento e la
cura di un bambino, l’assistenza a un malato, il mantenimento di un indigente, a volte imposti
direttamente per legge.
Certamente la famiglia non basta, anche perché a volte non c’è, non può o non vuole intervenire (per
mancanza di mezzi, di capacità o di solidità) e magari è necessario ricorrere a un aiuto esterno, magari
per ovviare a una non-autosufficienza del bisognoso. In questi casi diventa normale aver bisogno anche
dell’aiuto della società: in certi casi, caratterizzati da debolezze per motivi naturali, fisici o psicologici,
sul mercato sono disponibili servizi in grado di aiutare le famiglie (medici, infermieri, badanti …), ma
per fruirne occorre un certo grado di ricchezza; se le debolezze sono dovute a motivi socio-economici,
non esiste nemmeno un servizio che possa compensarle. Per questo, occorre che tutta la società sia
solidale con chi ha bisogno, sia pure in modi che col tempo sono cambiati.
Dalla beneficienza ai diritti sociali
Gli strumenti della solidarietà tipici del passato erano la carità e la beneficienza. Esistevano, in
particolare, molte istituzioni che si prendevano cura dei bisognosi (orfanotrofi, ospizi, certi ospedali di
un tempo): gestite spesso da ordini religiosi e finanziate da benefattori, tali istituzioni operavano in modo
volontario e solidaristico, poiché erano loro a scegliere di occuparsi di chi era in difficoltà. Questo tipo di
attività rimane e a portarla avanti sono soprattutto organizzazione religiose e le associazioni di volontariato.
Già a partire dal XIX secolo, peraltro, il meccanismo della beneficienza si dimostra insufficiente per lo
sviluppo della società del tempo, mentre nascono le società di mutuo soccorso, realtà private fondate
soprattutto da lavoratori, i quali si associano pagando un contributo periodico (proporzionato alle
possibilità del lavoratore): il patrimonio così raccolto serviva ad aiutare i bisognosi, ma quest’opera
continuava a non bastare.
Ci è voluta la fine della seconda guerra mondiale per arrivare a sostenere che la protezione dai rischi di
malattia, inabilità e tutte le altre situazioni di bisogno e debolezza debba spettare a tutti e debba essere
garantita dallo Stato mediante l’attribuzione di diritti sociali. Non si tratta qui di diritti che pongono
limiti all’intervento dello Stato (è il classico caso dei diritti di libertà, come quelli civili ed economici),
ma un intervento attivo dello stesso Stato, perché fornisca a chi ne ha bisogno servizi oppure denaro
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(sottoforma di pensioni e indennità …). Proprio per questo, la traduzione in pratica di questi diritti
sociali costa moltissimo allo Stato e, nell’attuarla, si ha di fatto una redistribuzione della ricchezza,
poiché ciò che i soggetti ricchi sono tenuti a versare viene indirizzato verso i più deboli, sia pure
sottoforma di aiuti per alleviare la situazione di bisogno.
Lo Stato sociale
Se nel XIX secolo lo Stato aveva un’organizzazione molto ristretta rispetto a oggi, occupandosi
essenzialmente di assicurare l’ordine pubblico, difendere il territorio nazionale e amministrare la
giustizia, oggi i compiti dell’istituzione statale si sono allargati di parecchio e comprendono, tra l’altro, la
garanzia di un livello minimo di benessere a tutti: ciò comporta la necessità di intervenire in vari campi (sanità,
ambiente, regolazione dell’economia, previdenza, istruzione, …), perciò si è soliti parlare di stato
sociale o di welfare state (stato del benessere).
L’intervento statale è necessario perché tutte le persone (lavoratori, disoccupati e pensionati) possano
integrarsi bene nella società e, a prescindere dalla loro età e dalle loro condizioni, abbiano una vita libera
e dignitosa. Ogni governo, ovviamente, avrà delle sue priorità in ambito sociale ed economico (e c’è chi
può non considerare prioritarie le spese per l’assistenza e la previdenza sociale), ma la strada dello Stato
sociale è tracciata da tempo e non sembra facilmente reversibile.
Nel corso del ‘900 persone e risorse dedicate ai diritti sociali sono letteralmente “esplose” e l’impennata
maggiore si è avuta nella seconda metà del XX secolo (prima in nord Europa, poi nel resto del
continente), con l’idea che lo Stato dovesse offrire ai suoi cittadini una protezione completa che
abbracciasse l’intero arco della vita; la tutela era ed è molto più ridotta negli altri paesi industrializzati, a
partire dagli Stati Uniti che prevedono un sistema che pone a carico dei singoli soggetti cure mediche,
spese di istruzione e altri aspetti delicati legati ai diritti sociali.
Dagli anni ’80, peraltro, è diventato impellente il problema dei costi della gestione dello stato sociale: le
spese sono aumentate senza sosta (e a un ritmo vertiginoso), soprattutto nelle voci di sanità e pensioni,
per cui si è dovuto decidere di aumentare le imposte (con proteste dei contribuenti), accrescere il debito
pubblico (con quel che di negativo ne consegue, per la “salute” dei conti pubblici) o abbassare il livello
e il numero delle prestazioni offerte.
Si è riscontrato un altro problema sul piano dell’equità: lo stato sociale non è cresciuto con un disegno
preciso, ma in base alle richieste (e alle pressioni) provenienti dalle varie categorie sociali, col risultato
che chi aveva più capacità di pressione ha strappato condizioni migliori o addirittura immeritate, a
scapito di altre categorie meno “potenti”. È capitato che in Italia i lavoratori abbiano avuto più tutele
rispetto ai disoccupati, come anche i pensionati sono stati più avvantaggiati rispetto ai giovani.
Quasi tutti i paesi, per questo motivo, hanno iniziato dagli anni ’80 a ridurre lo stato sociale (senza
poterlo peraltro cancellare). Anche l’Italia ha intrapreso la stessa via, in particolare attraverso la
riduzione dei costi dei settori più dispendiosi: lo si è fatto soprattutto con i tagli alle pensioni (nei vari
tentativi di riforma) e il pagamento di vari servizi pubblici, com’è avvenuto con i ticket per i farmaci e le
analisi (con l’entrata in vigore del federalismo le regioni hanno differenziato le loro scelte, chi optando
per più ticket, chi per riduzioni di altro tipo). Dalla metà degli anni ’90, poi, si è cercato di intervenire sul
piano dell’equità (cosa più difficile, perché è arduo prevedere tutti i risultati di una manovra volta a
portare equità, ma che può comportare “effetti collaterali”): rientra in queste misure soprattutto la
graduazione del pagamento dei servizi pubblici in base alle condizioni economiche dell’utente e della
famiglia, grazie al parametro ISEE (indicatore della situazione economica equivalente).
Interventi privati e pubblici per proteggere i soggetti in stato di bisogno
Nel nostro sistema convivono due sistemi di intervento a favore dei soggetti bisognosi, sistemi che
dovrebbero per quanto possibile coordinarsi ed essere integrati tra loro.
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Sono frutto di una tradizione lunga secoli (più che dell’attuale stato sociale) gli interventi messi in piedi
da soggetti privati, ma pur sempre sotto il controllo dell’autorità pubblica. Si tratta di sforzi messi in campo a
favore di tutti i soggetti “deboli” per motivi naturali, fisici o psicologici (a prescindere dall’età) e generalmente
l’autorità assegna il compito di aiutare queste persone a soggetti loro vicini, a partire dai familiari: il
diritto stabilisce con regole precise a chi tocca questo compito, in ogni caso sotto la sorveglianza
dell’autorità giudiziaria e – se occorre – con la collaborazione dei servizi sociali professionali. Sempre la
legge (il codice civile) prevede che chi si trova in un bisogno economico abbia il diritto di essere aiutato
da parenti e affini con denaro o altri modi (ad esempio, l’essere ospitati in casa propria): si tratta
dell’obbligo degli alimenti.
In altri casi gli interventi sono messi in campo direttamente dalla pubblica amministrazione: si tratta
dell’assistenza sociale e della previdenza sociale, che saranno analizzati subito.
L’assistenza e la previdenza sociale
L’assistenza e la previdenza sociale sono un insieme di norme che stabiliscono interventi pubblici a
favore di persone che si trovano in circostanze sfavorevoli e non abbiano i mezzi per vivere: è il caso di
chi non ha una casa o non ha più un lavoro, di chi ha una disabilità fisica o psichica, una famiglia da
mantenere e poche risorse, una malattia, oppure sia in stato di invalidità o di vecchiaia.
L’assistenza sociale offre una protezione generalizzata, rivolta a tutti coloro che si trovano in una
particolare condizione di bisogno: anche per questo, comprende vari tipi di interventi molto diversi,
dalla tutela della salute all’aiuto ai bambini, ai disabili, agli anziani e ai poveri.
Il settore è di competenza statale e soprattutto regionale: allo Stato oggi spetta la determinazione dei
principi essenziali della materia (sebbene sopravvivano ancora molte leggi sul tema), alle regioni la
disciplina di dettaglio. L’assistenza si traduce nell’erogazione di somme di denaro e di servizi alle persone, cui
di solito provvedono gli enti locali, a partire dai comuni (soprattutto con i loro servizi sociali); ci sono
poi le Aziende sanitarie locali, strutture amministrative di base del Servizio sanitario nazionale. I costi sono in
parte a carico della finanza pubblica (dello stato e degli enti locali) e in parte a carico dei privati: a volte
il contributo privato è fisso, in altri casi varia in base alla loro situazione economica.
La previdenza sociale, invece, protegge i lavoratori in situazioni di difficoltà individuate dalla legge
(disoccupazione, malattia, infortunio, invalidità, vecchiaia) e comunque tutti coloro che sono sprovvisti dei
mezzi necessari per vivere. L’attività, regolata dalla legge statale, consiste nell’erogare somme periodiche di denaro
(le indennità e le pensioni) a chi ne ha diritto: la gestione è affidata a enti pubblici (come l’Inail e l’Inps)
e i costi sono sostenuti dallo Stato, dai contribuenti, dai datori di lavoro e (in misura minore) dai
lavoratori.
Se il principio dell’assistenza sociale è l’universalismo selettivo (si aiutano in generale tutti, pur facendo delle
scelte che concentrano la tutela su chi ha più bisogno), la previdenza si basa su un concetto assicurativo
(prestazioni solo a chi ha pagato i contributi ed erogate in proporzione al loro ammontare).
L’Italia è arrivata piuttosto tardi ad avere un sistema moderno di assistenza sociale e comunque non ha
mai perso una certa disorganizzazione (soprattutto dal punto di vista giuridico) e soprattutto il suo male
cronico, la scarsità di fondi, ben più esigui rispetto agli alti Paesi europei (fa eccezione solo la sanità).
Un passaggio chiave si è avuto con il d.P.R. 616/1977, che ha trasferito gran parte della competenza
alle regioni; l’anno dopo è stata la legge 833/1978 che ha abolito l’Inam (Istituto nazionale per
l’assicurazione contro le malattie, in sostanza la mutua cui lavoratori, pensionati e in cerca di
occupazione dovevano iscriversi per avere assistenza) e ha istituito il Servizio sanitario nazionale, perché
l’assistenza sanitaria fosse erogata a tutti.
In tempi più recenti (1997) è stato introdotto l’Isee per regolare l’accesso all’assistenza pubblica (in
particolare, la parte di costi a carico degli utenti), mentre la legge 328/2000 ha stabilito i principi
fondamentali dell’organizzazione e del funzionamento del Sistema integrato dei servizi sociali, lasciando la
disciplina dell’organizzazione operativa del sistema alle leggi regionali.
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Nell’ambito della previdenza sociale, nel tempo si sono registrate numerose sproporzioni e disparità di
trattamento, frutto essenzialmente della miriade di interventi legislativi disordinati che si sono succeduti
nel sistema; in ogni caso il sistema è costosissimo per tutti (Stato, lavoratori e datori di lavoro). Si è
parlato più volte, fin dagli anni ’60, di una riforma organica del sistema, senza però alcun successo per
le resistenze che si sono avute da più parti; già a partire dagli anni ’80, comunque, si sono fatti tentativi
anche solo parziali.
I principi costituzionali
Lo stato sociale trova i suoi principi fondamentali in Costituzione, in particolare nei titoli dedicati ai
rapporti etico-sociali, a quelli economici e – nella seconda parte – nel titolo sulle autonomie locali.
In tema di relazioni familiari e infanzia, si prevede che «Nei casi di incapacità dei genitori, la legge
provvede a che siano assolti i loro compiti» sul mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (art.
30, comma 2); in più «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione
della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.
Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31). Sul
piano sanitario, invece, «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti», senza badare alla cittadinanza e alla
residenza (art. 32, comma 1).
L’assistenza sociale legata all’inidoneità al lavoro, alla vecchiaia o alla disabilità, invece, è prevista per
chiunque ne abbia bisogno, come appare chiaro dall’art. 38: «Ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» (comma 1);
«I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in
caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria», quindi hanno diritto
all’istituzione di un sistema di sicurezza sociale generale (comma 2); i disabili «hanno diritto all'educazione e
all'avviamento professionale» (comma 3); a tutto questo «provvedono organi ed istituti predisposti o
integrati dallo Stato» (comma 4); in ogni caso, al di là del settore pubblico, «L'assistenza privata è libera»
(comma 5).
La regolazione del sistema dei diritti civili e sociali è suddivisa tra Stato e Regioni, come mostra il nuovo
testo dell’art. 117, per cui è di competenza esclusiva della legge statale la «determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale» (i cosiddetti LEP), mentre l’assistenza sociale (in quanto non espressamente
riservata allo Stato) è materia di competenza regionale.
La carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
Dal 2000 l’Unione Europea si è data una sua Carta dei diritti fondamentali, per ora non vincolante
ma dal forte valore simbolico e sul piano dei principi (sebbene sia comunque applicata dalle corti). Nei
capi dedicati all’eguaglianza e alla solidarietà si riconoscono vari diritti sociali a chi risiede negli stato
dell’UE (a prescindere dalla cittadinanza): si tratta di un principio importante, perché dimostra che i
diritti sociali spettano a tutti coloro che si trovino nel territorio dell’Unione, anche agli immigrati
extracomunitari.
Tra i diritti si sottolinea il diritto dei bambini alla protezione e alle cure necessarie, degli anziani ad avere
una vita dignitosa, indipendente e con possibilità di partecipare alla vita sociale; non va dimenticato il
diritto dei disabili a godere di misure che ne garantiscano l’autonomia e la partecipazione alla vita sociale.
Altri diritti si collocano sul piano della solidarietà e spettano a tutti i lavoratori: diritto all’informazione e
alla consultazione nell’impresa, alla negoziazione delle condizioni di lavoro, allo svolgimento di azioni
collettive (scioperi), diritto a non essere licenziati ingiustificatamente e ad avere condizioni di lavoro
eque; è vietato far lavorare i minorenni prima che abbiano concluso la scuola dell’obbligo; la vita
familiare viene protetta e si cerca di garantire la possibilità di conciliarla con quella lavorativa.
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Due principi, infine, risultano fondamentali. Innanzitutto, chiunque risieda o si sposti legalmente
all’interno dell’Unione ha diritto di accedere alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che
assicurano protezione (maternità, infortuni, vecchiaia, dipendenza, perdita del posto di lavoro), nei
modi regolati dal diritto comunitario e dai singoli diritti nazionali; poi, ogni individuo (anche non
residente nell’Unione) ha diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e alle cure mediche, alle condizioni stabilite
dai singoli Stati.
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