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Antonio Antonio Costanzo
“LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI SERVIZI E DELLA P.A. PER
FATTI ILLECITI COLLEGATI ALLA FAMIGLIA”
Antonio COSTANZO
SOMMARIO
1. Pubblica amministrazione, responsabilità civile, famiglia. – 1.1. Diritti sociali, riforma costituzionale e diritto
privato. - 2. Famiglia, convivenza, relazioni affettive. - 3. Relazioni familiari-affettive, cerchia dei legittimati ad
agire e selezione dei danni risarcibili. - 3.1. I prossimi congiunti della vittima primaria. Famiglia legittima e convivenza
more uxorio. - 3.2. Costituzione di parte civile dei genitori conviventi con la persona offesa. - 3.3. Il coniuge separato. –
3.4. Il minore in affidamento. - 3.5. Il danno dei congiunti: nuovi profili. – 3.5.1. Voci di danno.- 3.5.2. Accertamento del
danno alla salute per morte di un familiare.- 4. La responsabilità civile della p.a.: cenni generali. – 4.1. Attività
materiale e attività provvedimentale.- 4.2. Natura della responsabilità civile della pubblica amministrazione.- 4.3. Criteri
di imputazione.- 4.4. La risarcibilità dell’interesse legittimo e la configurazione dell’illecito della pubblica
amministrazione.- 4.5. Comportamento illecito, atto illegittimo e colpa della pubblica amministrazione.- 4.6. La
giurisdizione sulle controversie con la pubblica amministrazione.- 4.7. Un’applicazione del nuovo schema di illecito della
p.a.- 5. Alterazioni dell’ambiente, tutela della salute e della vita familiare.- 5.1. L’informazioni sui rischi.- 5.2. Evento
catastrofico e danno non patrimoniale (il caso Seveso).- 5.3. Pericolo per la salute e tutela preventiva.- 5.4. Diritto alla
salute e disciplina del traffico.- 6. Servizi sanitari.- 6.1. Responsabilità civile della p.a. e sicurezza sociale.- 6.1.1.
Vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati. - 6.1.2. Vaccinazioni incentivate. - 6.1.3. Ultime
decisioni della Corte costituzionale. - 6.2. Responsabilità da contatto sociale.- 6.3. Inadeguatezza della struttura.- 6.4.
Omessa o insufficiente vigilanza.- 6.4.1. Danno da contagio e prescrizione.- 6.5. Custodia di neonati.- 6.6. Servizi
psichiatrici.- 6.6.1. Sorveglianza dell’incapace.- 6.6.2. Assistenza inadeguata.- 6.6.3. Strutture di riabilitazione.- 7.
Scuola.- 7.1. Vigilanza sugli allievi.- 7.2. Cattivi maestri.- 8. Disabilità e integrazione scolastica.- 8.1. Assistenza
sanitaria a scuola.- 8.2. Sostegno scolastico.- 9. Affidamento di minori.- 10. Irragionevole durata del processo.10.1. I processi in materia di famiglia e diritti delle persone.- 10.2. Equa riparazione: risarcimento o indennità?- 10.3.
Equa riparazione e violazioni “di sistema”.- 10.4. Il danno da irragionevole durata del processo.- 10.5. Il danno da errore
giudiziario.- 11. Sanzioni amministrative.- 12. Ricongiungimento familiare.- 12.1. Ricongiungimenti “a catena”.12.2. Il silenzio dell’autorità consolare.- 12.3. Ricongiungimento familiare e poligamia.-
1. Pubblica amministrazione, responsabilità civile, famiglia.
Bibliografia Casetta 1997 – Casetta e Foà 2000 – Cendon e Ziviz 2000 - Finocchi Ghersi 2001 – Cavallo 2002 Ieva 2002 – Poggi 2002.
Il discorso sugli <<illeciti collegati alla famiglia>> affronta alcuni temi
classici del capitolo relativo alla responsabilità civile della pubblica
amministrazione: posizione della p.a. e suo agire su piani diversi; rapporto tra
discrezionalità amministrativa e giudizio di responsabilità (in particolare, nei casi
di imputazione fondata su colpa); illecito del dipendente e responsabilità
dell’ente di appartenenza; natura delle situazioni soggettive incise dall’azione
amministrativa; relazione tra atto amministrativo illegittimo, suscettibile di
annullamento in sede giurisdizionale, e fatto illecito della p.a., fonte di
obbligazione risarcitoria.
Niente di nuovo, allora? Non è detto.
Utili spunti di riflessione possono trarsi, per un verso, dal superamento del
dogma della irrisarcibilità dei danni per lesione di interessi legittimi e dalla
ridefinizione dell’illecito della p.a.; per un altro, dall’emersione (sul piano
legislativo o negli orientamenti delle corti) di nuovi interessi o nuovi profili di
tutela di posizioni soggettive già riconosciute.
Il tutto nel quadro di una crescente rilevanza dei vincoli – per il legislatore
statale ordinario e i legislatori regionali - derivanti dall’appartenenza all’Unione
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Europea (v. il nuovo art. 117, 1° co., Cost.) e di una profonda, ma non
compiuta (e organica), riforma della pubblica amministrazione a livello statale,
regionale e locale.
Si è in proposito osservato che il decennio compreso tra la riforma del
procedimento amministrativo (l. 7.8.1990 n. 241) e la riforma del processo (l.
21.7.2000, n. 205) ha visto mutare il rapporto tra l’amministrazione e il cittadino.
Un’amministrazione chiamata a conformare la propria azione a criteri di
trasparenza nonché di efficienza, efficacia, economicità (nel contesto di una
progressiva riduzione delle risorse disponibili…) e, via via, ad operare
all’esterno - e organizzarsi all’interno - secondo modelli privatistici.
L’attività amministrativa si orienta verso il raggiungimento di obiettivi e il
conseguimento di risultati. Il beneficiario di prestazioni e servizi erogati da
pubblici poteri (o concessionari o altri soggetti affidatari di servizi pubblici o di
cui la p.a. si avvale) diviene utente-cliente.
Alla previsione di diritti essenziali dei consumatori-utenti, correlati a
standard di qualità ed efficienza (l. 30.7.1998, n. 281, diritti di consumatori e
utenti, e in particolare l’art. 1, 2° co., lett. g), si vanno così ad affiancare la
garanzia dell’erogazione di livelli minimi, o meglio <<essenziali>>, di servizi (ad
es. v. l’art. 1, d.lgs. 19.6.1999, n. 229, razionalizzazione del servizio sanitario
nazionale; gli artt. 2 e 22, l. 8.11.2000, n. 328, sistema integrato di interventi e
servizi sociali; cfr. il nuovo art. 117, 2° co., lett. m, Cost.; in materia sanitaria, v.
anche la l. 16.11.2001, n. 405, e il d.p.c. 29.11.2001) e l’adozione di strumenti
di organizzazione (carte dei servizi) volti a soddisfare i bisogni, e integrare la
tutela, degli utenti (art. 11, d.lgs. 30.7.1999, n. 286, valutazione dell’attività
svolta dalle amministrazioni; art. 12, 18.8.2000, n. 267, t.u. ord. enti locali; art.
13, l. 8.11.2000, n. 328, sistema integrato di interventi e servizi sociali).
Da segnalare, se non altro per le affermazioni di principio e l’individuazione
di situazioni meritevoli di intervento e protezione particolari (disabili, anziani non
autosufficienti, famiglie), la legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali (l. 8.11.2000, n. 328), le cui disposizioni
costituiscono <<principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione>>
(art. 1, 7° co., l. 8.11.2000, n. 328).
Approvata con l’obiettivo di conciliare universalità dello stato sociale e
selettività delle prestazioni, la legge quadro afferma che
<<La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali,
promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza,
previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da
inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della
Costituzione>>
(art. 1, 1° co., l. 8.11.2000, n. 328)
e precisa che per "interventi e servizi sociali" si intendono <<tutte le attività
previste dall’articolo 128 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112>> (art.
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1, 2° co., l. 8.11.2000, n. 328), ossia
<<tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni
economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel
corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle
assicurate in sede di amministrazione della giustizia>>
(art. 128, d.lgs. 31.3.1998, n. 112).
La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato competono
agli enti locali, alle regioni ed allo Stato ai sensi del d.lgs. 31.3.1998, n. 112 (sul
conferimento di funzioni e compiti amministrativi statali a regioni e enti locali) e
della stessa legge quadro (art. 1, 3° co., l. n. 328/00). Alla gestione ed all’offerta
dei servizi provvedono non solo soggetti pubblici ma anche, <<in qualità di
soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli
interventi>>, enti privati come o.n.l.u.s., organismi della cooperazione,
organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale,
fondazioni, enti di patronato e altri (art. 1, 5° co., l. n. 328/00). Tra gli scopi del
sistema integrato di interventi e servizi sociali vi è anche <<la promozione della
solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei
familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità e della solidarietà
organizzata>> (art. 1, 5° co., l. n. 328/00).
Uno sguardo sulla legislazione pubblicistica può fornire indici normativi utili
ad affermare la rilevanza dei rapporti familiari e affettivi anche nell’ambito della
tutela civile dei diritti. Al tempo stesso, può evidenziare elementi per la
definizione di regole di condotta, così importanti nel giudizio di responsabilità
per colpa della p.a.
1.1. Diritti sociali, riforma costituzionale e diritto privato.
Bibliografia Cabiddu 2001 - Cafaggi 2002 – Caretti 2002 – Ferioli 2002 – Torchia 2002.
Dopo la riforma del titolo V della seconda parte Costituzione (l. cost.
18.10.2001, n. 3), l’attuazione del c.d. federalismo lascia intravedere nuovi
scenari. Le incognite riguardano aspetti quali l’equa distribuzione delle risorse
finanziarie, le possibili diseguaglianze di trattamento tra i cittadini a seconda
della loro dislocazione sul territorio nazionale, i criteri di accesso ai servizi.
Il nuovo titolo V della Costituzione, ispirato al principio di sussidiarietà sul
piano della sia legislazione (art. 117 Cost.)
<<La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali>> (art. 117, 1° co., Cost.)
<<[…] Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la
determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato>> (art. 117, 3° co., Cost.)
<<Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato>> (art. 117, 4° co., Cost.)
che dell’amministrazione (art. 119 Cost.), colloca l’istruzione (escluse istruzione
e formazione professionale, e fatta salva l’autonomia delle istituzioni
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scolastiche) e la <<tutela della salute>>, insieme ad altre, tra le
materie di legislazione concorrente (art. 117, 3° co., Cost.).
Tra le prime applicazioni dell’art. 117, 3° co., Cost., in sede di controllo di
costituzionalità, si veda Corte cost. 26.6.2002, n. 282 (FI, 2003, I, 394), che ha
dichiarato illegittima la l. reg. Marche 13.11.2001, n. 26 (recante sospensione
della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia prefrontale e transorbitale ed
altri interventi di psicochirurgia) per violazione dei principi fondamentali in
materia di tutela della salute.
L’assistenza sociale, non menzionata in modo esplicito dal nuovo testo
dell’art. 117 Cost., si ritiene ora compresa tra le materie di legislazione
esclusiva, o forse meglio residuale, delle Regioni (art. 117, 4° co., Cost.),
sottratte al vincolo dei principi fondamentali posti dallo Stato (ma non ai limiti
derivanti dalla prima parte della Costituzione e ai vincoli di cui all’art. 117, 1°
co., Cost.). Ne esce così fortemente ridimensionata la previsione del già citato
art. 1, 7° co., l. 8.11.2000, n. 328, col rischio di una elaborazione di diversi
modelli regionali di welfare socio-assistenziale.
Spetta in ogni caso alla legislazione esclusiva statale la <<determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale>> (art. 117, 2° co., lett. m,
Cost.).
<<L’inserimento nel secondo comma dell’art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione, fra le materie di
legislazione esclusiva dello Stato, della "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" attribuisce al legislatore statale un fondamentale
strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti,
pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto. La conseguente
forte incidenza sull’esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle
Regione e delle Province autonome impone evidentemente che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano
operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle
specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori>>
(Corte cost. 27.3.2003, n. 88, che ha annullato il decreto del ministero della Salute 14.6.2002, di natura
sostanzialmente regolamentare, in tema di servizi per le tossicodipendenze delle ASL perché non adottato nel rispetto
della speciale procedura di determinazione dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario legislativamente
previste).
Sono inoltre previsti poteri sostitutivi dello Stato <<quando lo richiedono la
tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo
dai confini territoriali dei governi locali>> (art. 120, 2° co., Cost.).
Tra le altre materie che il nuovo art. 117, 2° co., Cost. assegna in via
esclusiva allo Stato vi sono <<giurisdizione e norme processuali; ordinamento
civile e penale; giustizia amministrativa>> (lett. l), <<norme generali
sull’istruzione>> (lett. n), <<previdenza sociale>> (lett. o).
Ci si interroga su configurabilità e limiti di un diritto privato regionale, anche
in materia di responsabilità civile.
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A proposito della formula <<ordinamento civile>> di cui all’art. 117,
lett. l), Cost., secondo Corte cost. 26.6.2002, n. 282,
<<[…] si deve escludere che ogni disciplina, la quale tenda a regolare e vincolare l’opera dei sanitari, e in quanto
tale sia suscettibile di produrre conseguenze in sede di accertamento delle loro responsabilità, rientri per ciò stesso
nell’area dell’”ordinamento civile”, riservata al legislatore statale. Altro sono infatti i principi e i criteri della responsabilità,
che indubbiamente appartengono a quell’area, altro le regole concrete di condotta, la cui osservanza o la cui violazione
possa assumere rilievo in sede di concreto accertamento della responsabilità, sotto specie di osservanza o di violazione
dei doveri inerenti alle diverse attività, che possono essere disciplinate, salva l’incidenza di altri limiti, dal legislatore
regionale>>
(Corte cost. 26.6.2002, n. 282, FI, 2003, I, 410),
mentre per ciò che attiene ai <<livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali>> (art. 117, 2° co., lett. m, Cost.)
<<non si tratta di una “materia” in senso stretto, ma di una competenza del legislatore statale idonea ad investire
tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti,
sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la
legislazione regionale possa limitarle o condizionarle>>
(Corte cost. 26.6.2002, n. 282, FI, 2003, I, 411: nella specie, la Corte ha ritenuto che la l. reg. Marche 13.11.2001,
n. 26, che aveva disposto la sospensione di alcuni interventi di psicochirurgia, riguardasse non tanto i livelli di
prestazioni, quanto piuttosto l’appropriatezza di pratiche terapeutiche, sotto il profilo della efficacia e di eventuali effetti
dannosi; analogamente, per Corte cost. 26.7.2002, n. 407. GI, 2003, 418, l’ambiente, di cui parla l’art. 117, 2° co., lett. s
Cost., è assunto come valore costituzionalmente protetto che, in quanto tale, delinea una sorta di materia “trasversale”).
Il testo costituzionale menziona ora espressamente la categoria dei diritti
sociali e pone tra gli obiettivi dell’azione amministrativa l’attuazione della
solidarietà sociale e l’effettività dei diritti della persona.
L’art. 119 Cost., secondo cui <<i Comuni, le Province, le Città
metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa>>
(1° co.), oltre a precisare che la legge statale <<istituisce un fondo perequativo,
senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per
abitante>> (3° co.), stabilisce che
<<Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri
economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale
esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati
Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni>> (rt. 119, 5° co., Cost.).
Il 23 gennaio 2003 il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di
legge contenente disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della
Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3.
Su tutt’altro piano si colloca la proposta di revisione costituzionale,
attualmente in discussione tra le forze politiche, che intende assegnare servizi
sanitari, scolastici e polizia locale alla competenza legislativa esclusiva delle
Regioni:
<<Dopo il quarto comma dell’articolo 117 della Costituzione è inserito il seguente:
"Le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie:
a) assistenza e organizzazione sanitaria;
b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche;
c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione;
d) polizia locale">>
(D.d.l. Camera 3461, “Modifiche dell’articolo 117 della Costituzione”, approvato il 14 aprile 2003 dalla Camera e già
approvato una prima volta al Senato nel dicembre 2002).
Questa proposta è stata recepita dal Governo che l’ha inserita in un più
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ampio disegno di legge costituzionale, approvato dal Consiglio dei
Ministri l’11 aprile 2003, recante "Nuove modifiche al Titolo V, parte seconda,
della Costituzione".
La necessità di delimitare l’oggetto del presente lavoro e al tempo stesso di
coordinarlo con gli altri contributi induce, da un lato, a soffermare l’attenzione
sulle condizioni di operatività della tutela risarcitoria nei confronti della p.a.;
dall’altro, ad esaminare, senza pretesa di completezza, alcune ipotesi in cui si
sia fatta (o possa farsi) questione di responsabilità della p.a. per fatti lesivi di
interessi aventi rilevanza nell’ambito familiare.
2. Famiglia, convivenza, relazioni affettive.
Bibliografia Saraceno 1988 - Dogliotti 1992 – Dogliotti 1992a – Donati 2001 - Donati e Di Nicola 2002
In questa prospettiva l’espressione <<illeciti collegati alla famiglia>> può
essere assunta in un’ampia accezione.
In primo luogo, perché sul piano sociologico, demografico o storico (se non
anche giuridico) la nozione di famiglia denota una varietà di esperienze e
relazioni, classificabili dal punto di vista della funzione (“a cosa serve la
famiglia?”) o della struttura (“chi vive con chi, nella famiglia?”).
Ad esempio, la struttura della famiglia, intesa come convivenza, può essere
definita e classificata per tipi di gruppi domestici, in base al modo in cui i suoi
componenti si collocano lungo un asse orizzontale (rapporti di sesso) e uno
verticale (rapporti di generazione). Secondo questa elaborazione, le convivenze
di amici o coloro che vivono soli sono compresi tra i gruppi domestici “senza
struttura”, ossia senza chiari rapporti di sesso o generazione che si ritrovano
invece nei gruppi domestici “semplici” (composti da genitori con figli, o da un
solo genitore con figli, o dalla coppia senza figli), “estesi” (composti, oltre che
dai membri della famiglia “semplice”, da parenti ascendenti, discendenti o
collaterali) o “multipli” (in cui sono presenti più nuclei coniugali, più coppie coi
loro figli) (Saraceno 1988, 14 ss.).
In secondo luogo, perché lo stesso concetto di <<collegamento>> rimanda
a situazioni e fenomeni fra loro diversi, in cui l’accento cade a volte sui singoli
componenti il nucleo familiare a volte sul gruppo. La famiglia va vista sia nella
sua dimensione spaziale, anche in relazione all’ambiente (e ai tempi) di vita e
lavoro, che temporale: il numero, e i bisogni, dei suoi componenti variano nel
tempo, i progetti comuni mutano direzione. La famiglia è luogo di relazioni
affettive ma è anche dotata di un ruolo economico (famiglia come unità di
reddito e di consumo). E’ destinataria di servizi e oggetto di politiche sociali; al
tempo stesso, è chiamata a compensare le inefficienze dell’apparato
amministrativo e ad assumere su di sé il peso derivante dalle lacune della tutele
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pubbliche.
Sullo sfondo così sommariamente delineato si collocano formule (legislative
o di creazione giurisprudenziale) e questioni note al giurista: tutela della salute
della persona e del suo nucleo familiare; diritto al rispetto della vita privata e
familiare (art. 8, CEDU; art. 7, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, dicembre 2000); diritto alla serenità familiare; danno alla vita
sessuale; diritto alla serenità morale leso dalla morte di un prossimo congiunto;
alterazione dei rapporti tra i componenti della famiglia quale riflesso di danni ai
singoli; diritto all’autodeterminazione della coppia; variazioni non volute né
previste del nucleo familiare; danni da omessa o carente vigilanza su minori o
incapaci; ecc.
Nella seconda parte del capitolo (paragrafi 5 ss.) verrano analizzati alcuni
casi, senza pretesa di esaustività.
L’esame dei precedenti non va limitata all’ambito strettamente aquiliano,
ossia ai giudizi di cognizione volti ad ottenere la condanna al risarcimento del
danno. Ad esempio, la tutela cautelare (anche se non prodromica ad una causa
risarcitoria) può rivelare significative aperture ed offrire elementi di riflessione,
soprattutto per quanto riguarda la selezione degli interessi protetti. Né va
trascurato il profilo della tutela preventiva o quello della responsabilità
contrattuale, tanto più che alcuni autori e organi giudicanti (v. ora la Cassazione
10.1.2003, n. 157, FI, 2003, I, 78) ricostruiscono la responsabilità per attività
provvedimentale proprio come responsabilità da inadempimento, ossia per
violazione di un rapporto preesistente, o, in talune ipotesi, come responsabilità
precontrattuale da violazione dell’affidamento. Sembra utile, infine, un cenno a
decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Più che offrire rigidi schemi di classificazione, possono individuarsi alcuni
criteri per ordinare il materiale: a) occasioni di danno (es. opere pubbliche,
azione della p.a. iure privatorum, illegittimità di atti amministrativi, mancato
rispetto di standard, mancato raggiungimento di risultati, omessa
predisposizione di servizi, ecc.); b) catalogo di interessi protetti (salute,
riservatezza, onore e reputazione, relazione familiare-affettiva, ecc.); c) natura
del servizio reso dalla p.a.
3. Relazioni familiari-affettive, cerchia dei legittimati ad agire e
selezione dei danni risarcibili.
Qual è la sfera delle relazioni familiari o parafamiliari ed affettive protette
nella responsabilità civile? Quali le tecniche di tutela?
Consideriamo le aggressioni provenienti dall’esterno del gruppo familiare.
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Una prima risposta viene da alcune recenti pronunce della
Cassazione.
Le vicende esaminate ruotano attorno ad tratto comune: la morte o le
lesioni gravi di una persona inserita in un contesto familiare. Il campo di
osservazione è limitato ma pur sempre interessante, anche perché rivela segni
di un’apertura verso soluzioni interpretative in passato respinte o comunque
minoritarie.
3.1. I prossimi congiunti della vittima primaria. Famiglia legittima e
convivenza more uxorio.
Bibliografia Palmieri 2002.
In materia di tutela aquiliana per danno da uccisione o lesioni personali, la
giurisprudenza attribuisce rilevanza non solo ai rapporti familiari oggetto di
espressa disciplina, ma anche a particolari legami “di fatto” quali le convivenze
more uxorio, idonee a fondare una situazione qualificata di contatto con la
vittima primaria.
Così si sono espresse, in una recente pronuncia, le Sezioni Unite (ma v.
già Cass. 28.3.1994, n. 2988, RCP, 1995, 566):
<<Il criterio indicato dalla più recente dottrina per la selezione delle cosiddette vittime secondarie aventi diritto al
risarcimento del danno, pur nella varietà degli approcci, è quello della titolarità di una situazione qualificata dal contatto
con la vittima che normalmente si identifica con la disciplina dei rapporti familiari, ma non li esaurisce necessariamente,
dovendosi anche dare risalto a certi particolari legami di fatto. Questa situazione qualificata di contatto, la cui lesione
determina un danno non patrimoniale, identifica dunque la sfera giuridica di coloro che appaiono meritevoli di tutela e al
tempo stesso costituisce limite a tale tutela.
Specificando ulteriormente il criterio, con riguardo ai risultati del dibattito, si osserva: a) l’individuazione della
situazione qualificata che dà diritto al risarcimento trova un utile riferimento nei rapporti familiari, ma non può in questi
esaurirsi, essendo pacificamente riconosciuta, sia in dottrina che nella giurisprudenza, la legittimazione di altri soggetti
(ad esempio la convivente more uxorio); b) la mera titolarità di un rapporto familiare non può essere considerata
sufficiente a giustificare la pretesa risarcitoria, occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia
consistito e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo
svolgimento.
Del resto la stessa Corte costituzionale, con riguardo ai limiti soggettivi di risarcibilità del danno non patrimoniale
ex articolo 2059 cc., aveva chiarito che in quella ipotesi, essendo il danno patito dal terzo eccezionalmente risarcibile sul
solo presupposto di essere stato cagionato da un fatto illecito penalmente qualificato, "la tutela risarcitoria deve fondarsi
su una relazione di interesse del terzo col bene protetto dalla norma incriminatrice, argomentabile, in via di inferenza
empirica, in base ad uno stretto rapporto familiare (o parafamiliare, come la convivenza more uxorio)” (sentenza
372/1994)>>.
(Cass. S.U. 1.7.2002, n. 9556, Guida dir., 2002, n. 29, 52; FI, 2002, I, 3071).
Il caso esaminato da Cass. S.U. 1.7.2002, n. 9556, riguarda, invero,
relazioni maturate nell’ambito della famiglia legittima, ma diviene occasione per
una più ampia analisi - sotto l’insegna del <<danno morale>> da reato - sulla
propagazione delle conseguenze del danno alla persona <<alle c.d. vittime
secondarie, cioè ai soggetti collegati da un legame significativo con il soggetto
danneggiato in via primaria>> (a favore della risarcibilità del danno morale in
favore dei prossimi congiunti della vittima del reato di lesioni personali si era già
pronunciata Cass. 23.4.1998, n. 4186, RCP, 1409, seguita da numerose
decisioni conformi).
In breve, questi i fatti. Il giudice d’appello aveva negato il risarcimento del
danno non patrimoniale ai genitori di un bambino che, in occasione del parto e
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per fatto costituente reato, aveva subito gravissime lesioni personali
con conseguente totale invalidità. Secondo la Corte d’appello, il pregiudizio non
patrimoniale per le lesioni riportate da un prossimo congiunto non è risarcibile
<<non derivando tale pregiudizio in via diretta ed immediata dall’illecito, ma essendo un mero riflesso della
menomazione e della sofferenza, subite dall’infortunato>> (questo passo della motivazione d’appello è riportato dalla
sentenza della Cassazione).
Le Sezioni Unite, distinta la questione della causalità di fatto (artt. 40 e 41
c.p.) dal problema della selezione dei danni risarcibili (art. 1223 c.c.), osservano
invece che
<<non vi sono eziologie diverse tra il caso della morte e quello delle semplici lesioni perché in entrambe le ipotesi
esiste una vittima primaria, colpita o nel bene della vita o nel bene salute, e una vittima ulteriore (il congiunto),
anch’essa lesa in via diretta ma in un diverso interesse di natura personale>>
(Cass. S.U. 1.7.2002, n. 9556, Guida dir., 2002, n. 29, 51; FI, 2002, I, 3072),
e compongono il contrasto di giurisprudenza enunciando il seguente principio di
diritto:
<<"ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali,
spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione
affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’articolo 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa
immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio contro il
responsabile">>
(Cass. S.U. 1.7.2002, n. 9556, Guida dir., 2002, n. 29, 52; FI, 2002, I, 3073).
La decisione delle Sezioni Unite si riferisce ad un’ipotesi di fatto illecito
costituente reato ed affronta il tema del danno ai familiari della vittima primaria
qualificando il pregiudizio non patrimoniale come danno morale (art. 2059 c.c.).
Una recente ordinanza del Tribunale di Roma ha sollevato questione di
costituzionalità dell’art. 2059 c.c. nella parte in cui limita la risarcibilità del danno
morale derivante dalla perdita di un prossimo congiunto ai soli casi determinati
dalla legge, con esclusione dei casi in cui la responsabilità sia stata affermata in
base ad una presunzione di legge come quella ex art. 2054 c.c. (Trib. Roma
ord. 20.6.2002, FI, 2002, I, 2882).
Nel 2001 la terza sezione della Cassazione aveva affrontato il problema in
una prospettiva non limitata al solo danno morale:
<<il danno morale in favore dei prossimi congiunti trova causa efficiente nel fatto del terzo, sicché il criterio di
imputazione concerne la colpa e la regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano nelle
conseguenze ordinarie e normali del fatto. […] appare fuorviante parlare di danno riflesso o di rimbalzo, proprio perché
lo stretto congiunto, convivente e/o solidale (per la doverosa assistenza) con la vittima primaria, riceve immediatamente
un danno consequenziale, di varia natura (biologico, anche se può essere di ordine psichico/morale, patrimoniale, e
secondo recente dottrina e giurisprudenza, anche esistenziale) che lo legittima iure proprio ad agire contro il
responsabile dell’evento lesivo>>
(Cass. 2.2.2001, n. 1516, GI, 2002, 967).
Né può escludersi che un evento quale la morte o una gravissima
menomazione determini nei familiari della vittima primaria una vera patologia
riconducibile sotto la voce del danno biologico:
<<questa Corte Suprema ammette ormai senza contrasto (nel solco di Corte cost. 372/94) il risarcimento del
danno alla salute a favore degli stretti congiunti della persona deceduta per effetto dell’illecita condotta altrui, allorché le
sofferenze causate a costoro dalla perdita abbiano determinato una lesione dell’integrità psicofisica degli stessi;
risarcimento che naturalmente potrà essere accordato solo se sia fornita la prova che il decesso ha inciso
negativamente sulla salute dei congiunti, determinando una qualsiasi apprezzabile, permanente patologia (Cass.
2134/00; 10085/98)>>
9
Antonio Antonio Costanzo
(Cass. 25.1.2002, n. 881).
Va qui sottolineato, nella pronuncia n. 9556/02 a Sezioni Unite, il richiamo
al legame affettivo qualificato come (primo) criterio selettivo del danno
risarcibile, di cui vanno comunque accertate in concreto sussistenza e entità.
3.2. Costituzione di parte civile dei genitori conviventi con la persona
offesa.
Di convivenza tra familiari e legittimazione ad agire per il risarcimento del
danno (patrimoniale) da lesioni ad un prossimo congiunto si è di recente
occupata anche la Cassazione penale con una decisione della quarta sezione.
Il ricorrente, imputato del reato di lesioni personali colpose, aveva ottenuto
il patteggiamento, ma il giudice di primo grado, con la sentenza di applicazione
della pena ex art. 444 c.p.p., lo aveva condannato a rifondere le spese di
costituzione di parte civile anche ai genitori conviventi della persona offesa.
Secondo il ricorrente, il giudice avrebbe dovuto ammettere la costituzione di
parte civile della sola persona offesa:
<<Ricorre di fronte a questa Suprema Corte il condannato lamentando la mancata esclusione, nel giudizio di
merito, delle parti civili diverse dalla persona offesa, come da lui chiesto, e sostenendo violazione dell'art. 606, lettere b)
e c) c.p.p. in relazione agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.
Sostiene il ricorrente che ha errato il giudice di merito ad ammettere la costituzione di parte civile dei genitori della
p.o. con l'ordinanza interlocutoria dibattimentale che egli impugna del pari con il proposto ricorso per Cassazione. Infatti,
a sua opinione, nel caso di lesioni colpose, i genitori della persona offesa non sono titolari di danno risarcibile, e quindi il
ricorrente chiede a questa Corte di "verificare se rientri nella categoria dei diritti soggettivi quell'interesse derivante dal
rapporto familiare (o di sola convivenza), così suscettibile di subire un danno immediato e diretto dall'azione penalmente
illecita">>
(Cass. pen. 4.10.2002, n. 33305, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/33305sen_02.html).
La Corte innanzitutto delimita l’oggetto dell’impugnazione, tenuto conto dei
presupposti richiesti per la costituzione di parte civile
<<Come è dato evincersi dallo stesso atto di ricorso, A. D. e B. L. hanno posto a contenuto del petitum di
domanda di costituzione di parte civile la rifusione di "un gravissimo danno morale nonché materiale da quantificarsi nel
corso del giudizio", e ciò quali "conviventi", oltre che genitori, della p.o. A tenore del medesimo ricorso, il giudice di
primae curae ha ritenuto legittima (in violazione di legge) la costituzione di parte civile dei genitori conviventi della
persona offesa, avendo questi conseguito, come derivazione immediata e diretta del fatto, la perdita di un apporto
economico che la vittima dell'incidente stradale dava alla famiglia, ed inoltre dure sofferenze psicologiche anche per il
"sacrificio delle relazioni sociali", così come dagli stessi affermato in domanda.
Osserva preliminarmente la Corte che, per giurisprudenza costante, l'atto di costituzione di parte civile ha, in
realtà, come mero presupposto la ipotizzata, "possibile" esistenza del danno posto ad oggetto della domanda, e quindi
che il fatto dedotto nel giudizio penale abbia potuto aver causato un qualche danno risarcibile, indipendentemente poi
dalla reale entità di tale danno che dev'essere adeguatamente provata successivamente nel rispetto del principio
dell'onere della prova.
E' sulla base di tale principio che va ora stabilito se abbia errato il giudice del merito a ritenere che tale possibilità
esistesse nel caso dedotto nel concreto processo penale>>
(Cass. pen. 4.10.2002, n. 33305, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/33305sen_02.html)
e passa poi a contestare l’argomento del danno mediato ed indiretto:
<<Nega il ricorrente la correttezza della scelta adottata dal giudice del merito sostenendo, al contrario, che le
sofferenze psicologiche e patrimoniali subite dai genitori della persona offesa siano conseguenza "mediata ed indiretta"
dell'azione colposa dell'imputato, giacché pervenuti, tali sacrifici morali ed economici, di riflesso, per effetto conseguente
non già della condotta incriminata, ma semmai del corrispondente sacrificio che tale condotta ha determinato alla
persona offesa, e cioè, a dire della difesa del condannato, "conseguenza dello stato di malattia del proprio figlio..."
Ritiene questa Corte che l'interpretazione del sistema data dal ricorrente non possa essere condivisa, e che vada,
invece, esente da censure il provvedimento ammissivo adottato dal Giudice del merito, quanto meno allo stato del livello
probatorio in punto di danno esistente al momento della decisione censurata, e quindi con la più ampia riserva circa il
futuro esito del relativo onere probatorio da assolvere nella successiva e diversa sede processuale, sia quanto alla
natura, in concreto, del danno da risarcire, sia quanto alla sua entità>>
(Cass. pen. 4.10.2002, n. 33305, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/33305sen_02.html) .
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Antonio Antonio Costanzo
La Corte si sofferma sulla convivenza come titolo per il
risarcimento del danno da reato
<<E difatti, come per altro non ignorato in ricorso, già da lungo tempo questa Corte, mutando opinione rispetto ad
un precedente orientamento ribadito fino al 1992 (v. Cass. Pen. Sez. I, 7 luglio 1992, Giacometti) e secondo il quale
danno risarcibile ex art. 2043 c.c. era soltanto quello derivante dalla lesione di un "diritto a quei vantaggi ed a quelle
prestazioni della persona deceduta, diritto che non può non discendere che da legge o da patto", si è poi andata
orientando nel diverso senso che anche la convivenza, non necessariamente limitata alla categoria more uxorio, possa
bene costituire titolo per il risarcimento del danno da fatto illecito penale.
Che, per altro, tale fatto illecito penale, lesivo dello specifico diritto risarcibile, debba consistere necessariamente
nella morte della p.o., così interpretando - come fa parte ricorrente - la accennata giurisprudenza (Cass. Pen. Sez. I , 4
febbraio 1994, De Felice), è asserzione del tutto arbitraria, se estesa alla generalità dei casi, in quanto conseguente al
fatto che la indicata massima, utilizzata con tale finalità argomentativa in ricorso, si riferiva, ma solo casualmente, ad
una fattispecie di omicidio colposo.
Deve ulteriormente osservarsi che, ai fini della valutazione delle conseguenze dell'aggressione al rapporto di
convivenza da parte del terzo, l'insegnamento di questa Suprema Corte è nel senso che "l'aggressione ad opera del
terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente
direttamente dalla Costituzione" (così Cass. Pen., Sez. I, De Felice, cit., in massima). Diritto che è ivi qualificato come
"assoluto e tutelabile erga omnes", cioè in maniera diretta, e dunque nei confronti dell'autore del reato o di chi per lui
debba rispondere in sede civile.
Questo - è bene ribadirlo - quale che sia il contenuto di tale rapporto, già solo in quanto legittimo perchè
riconosciuto e tutelato dall'ordinamento come espressione di libera scelta della persona, ed indipendentemente, quindi,
dai motivi particolari che ne hanno determinato l'insorgere e che comunque appartengono alla sfera della privacy della
persona stessa, e come tali sono preclusi a qualunque indagine nella specifica direzione>>
(Cass. pen., 4.10.2002, n. 33305, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/33305sen_02.html)
e come situazione di fatto conseguente a libera scelta, riguardi essa persone
legate da vincolo matrimoniale o conviventi more uxorio o infine familiari quali il
figlio maggiorenne e i genitori:
<<Quanto in fine alla notazione di parte ricorrente, secondo la quale, argomentando ex adverso rispetto alla
prima invocata pronuncia di Cass. De Felice, citata, "la convivenza di cui trattasi non è 'esercizio di un diritto di libertà
(Cass. Cit.), come invece vuole il richiamato indirizzo giurisprudenziale, ma semmai "scelta naturale di coabitazione con
i propri genitori necessariamente destinata a non continuare nel tempo e dunque non suscettibile di acquisire quei
caratteri necessari a creare aspettative qualificabili come diritto assoluto", va ulteriormente osservato e dedotto quanto
segue:
a) non appare sostenibile una antinomia fra "esercizio di diritto di libertà" e "scelta naturale di coabitazione",
essendo la "scelta" sempre manifestazione di libertà, e la coabitazione con i genitori certo non definibile "necessitata
situazione" per una persona maggiorenne ed economicamente emancipata, come nel caso della p.o.;
b) che la suddetta scelta di coabitazione con i genitori può ormai considerarsi ad un tempo "stabile" o "aleatoria"
né più né meno che qualunque altra scelta di convivenza operata ad altro titolo, e ciò in base a comuni osservazioni che
trovano poi riscontro in statistiche generalmente note; quanto innanzi anche in considerazione dell'essere venuto meno
da ormai lunghissimo tempo il carattere di stabilità dei vincolo matrimoniale al quale - come ipotesi di convivenza stabile
nel senso fatto proprio dalla giurisprudenza qui prima indicata - verosimilmente si riferisce, per raffronto, il ricorrente.
E pertanto, così svincolata la "convivenza" dallo stretto ambito dei rapporti more uxorio, e considerata come
situazione di fatto conseguente a "libera scelta" della persona, tutelata in quanto tale dall'ordinamento, può affermarsi
che la lesione di qualsiasi forma di "convivenza", purchè dotata di un minimo di stabilità, tale da non farla definire
episodica, ma idoneo e ragionevole presupposto per un'attesa di apporto economico futuro e costante (come anche
affermato da medesima Cass. Sez. Ia pen., De Felice, prima citata) costituisce legittima causa petendi di una domanda
di risarcimento danni proposta di fronte al giudice penale chiamato a giudicare dell'illecito che tale lesione ha causato>>
(Cass. pen. 4.10.2002, n. 33305, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/33305sen_02.html).
In conclusione, la Suprema Corte riconosce che anche i genitori della
persona offesa, purché conviventi, sono legittimati a costituirsi parte civile,
quanto meno per ottenere
<<la rifusione del danno patrimoniale derivante dal contestato reato di lesioni colpose, restando impregiudicato
ogni altro profilo, e particolarmente quello attinente al danno cosiddetto morale e di cui non v'è necessità in questa sede
di occuparsi>>
(Cass. pen. 4.10.2002, n. 33305, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/33305sen_02.html)
e ritiene superfluo, nel caso di specie, approfondire la distinzione fra danno
patrimoniale e non patrimoniale:
<<Ciò anche in considerazione del fatto che, nella fase prodromica del giudizio, il livello probatorio, e quello in
punto di danno da reato in particolare, si presenta ancora talmente in forma embrionale da consentire l'integrazione del
mero presupposto di pronuncia di condanna generica cui presupposto è che un danno vi sia, sebbene in consistenza e
misura ancora incerta. Ciò prescindendo dalla querelle fra quanti sostengono la tesi secondo cui entità del petitum e
11
Antonio Antonio Costanzo
prova del danno dev'essere fornita al momento della proposizione della domanda in sede di costituzione di
parte civile, e coloro che, sul piano opposto, sostengono che unico contenuto del petitum, fino alla
conclusioni di cui all'art. 523, 2° comma (ed anche oltre tale momento), possa essere rappresentato dalla sola domanda
di condanna generica: tesi meno sostenibile della prima quanto meno in considerazione delle specifiche disposizioni
codicistiche.
In tal senso, per altro, si è pronunciata anche di recente questa Corte Suprema, affermando che "Il giudice
penale, nel pronunziare condanna generica al risarcimento dei danni, non è tenuto a distinguere i danni materiali da
quelli morali, né deve espletare alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, potendo
limitare il suo accertamento alla potenziale capacità lesiva del fatto dannoso ed alla esistenza di un nesso di causalità
tra questo ed il pregiudizio lamentato (Cass pen., Sez. V, 19.10.2000; 10.1.2001, Pres. Consoli G., n. 191)>>
(Cass. pen. 4.10.2002, n. 33305, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/33305sen_02.html).
3.3. Il coniuge separato.
L’elemento della convivenza (unito a quello della prossimità, maggiore o
minore, del rapporto parentale o di affinità) è solitamente valorizzato ai fini di
una più ampia liquidazione del quantum.
La crisi coniugale non è di per sé ostativa all’accoglimento della domanda
risarcitoria per morte del congiunto.
La giurisprudenza riconosce (o, se si vuole, non esclude) il diritto al
risarcimento ex art. 2059 c.c. anche al coniuge non convivente perché
separato. Diversa è invece la soluzione quando risulti cessata l’affectio
coniugalis, ad esempio in base alle risultanze istruttorie della causa di
separazione in corso al momento dell’illecito del terzo (Cass. 20.12.2001, n.
16073, GI, 2002, 1591).
Consideriamo il caso deciso da Cass. 17.7.2002, n. 10393.
Il signor B. perde la vita in un incidente stradale. La vedova, agendo in
nome proprio e del figlio minorenne, chiede il risarcimento dei danni
conseguenti alla morte del marito, dal quale si era di recente separata. Il
Tribunale accoglie le domande e attribuisce anche alla vedova una somma a
titolo di risarcimento del danno morale. In appello, invece, quest’ultima voce di
danno viene negata. La compagnia assicuratrice ricorre in cassazione. La
signora propone ricorso incidentale: a suo avviso, la Corte d’appello avrebbe
dovuto riconoscerle il danno non patrimoniale, anche se con una diversa
motivazione, considerato l’estremo disagio materiale e morale in cui essa
versava dopo la morte del marito. La Cassazione accoglie il ricorso incidentale:
<<La Corte d’appello, dopo aver ricordato che il danno morale, tradizionalmente definito come pretium doloris,
viene generalmente ravvisato nell'"ingiusto turbamento dello stato d'animo del danneggiato in conseguenza dell'illecito",
o anche nel "patema d'animo o stato d'angoscia transeunte" generato dall'illecito; ha negato il risarcimento a questo
titolo alla N. col semplice rilievo "che non può rientrare in tali concetti l'aggravio di responsabilità che deriva alla madre
per la crescita e l'educazione del figlio a seguito della morte del padre; aggravio che, nella normalità, deve ritenersi non
si concreti in un danno risarcibile".
Questo ragionamento, per le sue evidenti lacune logiche e giuridiche, non può essere condiviso.
Occorre sottolineare che lo stato di separazione personale non è incompatibile, di per sé solo, col risarcimento
del danno morale a favore di un coniuge per la morte dell'altro coniuge, dovendo aversi riguardo, oltre che, in generale,
alla sua almeno tendenziale temporaneità e alla possibilità, giammai esclusa a priori, di una riconciliazione che
ristabilisca la comunione materiale e spirituale tra i coniugi e l' unità della compagine familiare, altresì, in particolare, alle
ragioni che l'hanno determinato e a ogni altra utile circostanza idonea a manifestare se e in qual misura l'evento
luttuoso, dovuto all'altrui fatto illecito, abbia provocato, nel coniuge superstite, quel dolore e quelle sofferenze morali che
solitamente si accompagnano alla morte di una persona più o meno cara>>
(Cass. 17.7.2002, n. 10393, Guida dir., 2002, n. 31, 71).
La Suprema Corte corregge la motivazione del giudice di secondo grado e
ribadisce che il risarcimento del danno morale assolve alla funzione di pecunia
12
Antonio Antonio Costanzo
doloris, serve cioè a ristorare e compensare il turbamento, il dolore
provocato dalla perdita del coniuge. Secondo la Corte, il rimedio risarcitorio va
riferito a questo stato d’animo, e non al solo peso delle responsabilità verso il
figlio ora gravante sull’unico genitore:
<<La Corte [d’appello, n.d.r.], non condividendo (giustamente) la motivazione adottata dal Tribunale a
fondamento del danno morale (giustificato solo col peso, venuto a gravare unicamente sulla madre, della responsabilità
del mantenimento, dell'educazione e dell'istruzione del figlio ...), non poteva fermare qui la sua indagine, ma avrebbe
dovuto accertare altresì se quell'importo potesse essere accordato, secondo la sua naturale finalità, quale pecunia
doloris, ossia a ristoro e compensazione di un ingiusto turbamento dello stato d'animo patito per la morte del marito, alla
stregua del principio dianzi enunciato.
Né a questa ulteriore indagine si frapponevano ostacoli di ordine processuale, non solo perché la stessa
appellante (...) non si era limitata a denunciare il travisamento del concetto di danno morale operato dal Tribunale, ma
aveva esteso il dibattito allo stato di separazione, non espressamente preso in esame dai primi giudici, anche se per
farne erroneamente discendere, in ogni caso, l'automatica esclusione del titolo in parola; ma altresì, e soprattutto,
perché la N., nella comparsa di risposta, aveva chiesto la conferma di quella voce con una corretta motivazione,
osservando, ad ogni buon conto, che il risarcimento le era dovuto nonostante lo stato di separazione, non idoneo a far
venir meno, ma al più solo ad attenuare la sofferenza, anche perché recente.
E' il caso di soggiungere che la N., pur sempre vittoriosa in punto di danno morale e indifferente alle ragioni che
ne avevano ispirato la concessione, in presenza dell'avversa impugnazione non aveva alcun onere di proporre un
appello incidentale al solo scopo di ottenere la correzione della motivazione, ma era unicamente tenuta, come ha fatto,
in applicazione analogica dell'art. 346 c.p.c., a manifestare la volontà che a base del risarcimento riconosciutole dal
Tribunale fosse posta una ragione diversa>>.
(Cass. 17.7.2002, n. 10393, Guida dir., 2002, n. 31, 71).
3.4. Il minore in affidamento.
Bibliografia Lena 2002.
Anche l’affidatario può agire per il risarcimento dei danni (morali)
conseguenti alla morte del minore in affidamento, quando la relazione
instauratasi tra adulto e minore sia <<caratterizzata da peculiari connotazioni>>
che ne evidenzino il <<contenuto pregnante dal punto di vista affettivo e
morale>>.
In questi termini si è pronunciata la quarta sezione penale della Cassazione
(sentenza 27.9.2001, n. 35135). La decisione è interessante e si segnala per
l’attenzione agli elementi che danno concretezza alla realtà degli affetti
rendendola significativa anche nel mondo del diritto.
Il fatto, in breve, è il seguente.
Un bambino di nove anni viene investito da un’automobile mentre
attraversa la strada da destra a sinistra rispetto alla direzione del veicolo. Il
bambino riporta gravi lesioni che lo conducono alla morte. Il processo per
omicidio colposo si conclude in primo grado con l’assoluzione dell’imputato
<<perché il fatto non costituisce reato>>. La sentenza non viene impugnata dal
P.M., ma solo dai coniugi – affidatari del piccolo che si erano costituiti parte
civile. Nel corso del giudizio d’appello l’affidatario muore e le figlie ed eredi,
affiancandosi alla madre, si costituiscono parte civile.
Dalla lettura della sentenza di legittimità si desume che il bambino viveva
presso la famiglia affidataria fin da tenera età e che l’affidatario ne era anche
divenuto tutore quando il piccolo aveva poco più di un anno e mezzo.
La Corte d’appello di Brescia, pronunciandosi solo sulle questioni civili
stante il divieto di reformatio in peius della statuizione penale, rigetta l’appello.
13
Antonio Antonio Costanzo
La Corte, pur non condividendo nel merito le considerazioni in base
alle quali il primo giudice aveva assolto l’imputato, esclude che gli affidatari
avessero la legitimatio ad causam, negando sussistenza e risarcibilità del
danno.
Così la Cassazione riporta l’iter argomentativo seguito dal giudice di
secondo grado:
<<In proposito la Corte d'Appello sottolineava, come si legge testualmente nella sentenza, che: a) "l'affidamento
non fa sorgere in capo all'affidatario alcun diritto nei confronti del minore; deve escludersi, pertanto, in primo luogo che il
primo possa vantare un diritto al risarcimento del danno patrimoniale nei confronti di chi abbia cagionato per colpa la
morte del secondo"; b) "sembra da escludersi anche l'esistenza di un danno morale risarcibile". Citando un precedente
della giurisprudenza di legittimità in tema di presupposti per l'azione di responsabilità sotto il profilo soggettivo della
legittimazione attiva, i giudici di secondo grado affermavano dunque che all'azione in questione dovrebbero ritenersi
legittimati "solo i prossimi congiunti, legati alla vittima da un vincolo non meramente affettivo, ma "affettivo-giuridico", in
quanto fondato sui reciproci diritti-doveri previsti e tutelati dall'ordinamento giuridico">>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135).
Le parti civili, ossia l’affidataria e le figlie-eredi dell’affidatario, ricorrono in
cassazione
<<con argomentazioni che possono così riassumersi: 1) la legitimatio ad causam troverebbe giustificazione nel
diritto soggettivo nascente dalla legge n. 184 del 1983, atteso che, così come riconosciuto dal primo giudice,
l'affidamento familiare farebbe sorgere in capo agli affidatari un diritto soggettivo al risarcimento dei danni ad essi
derivati da fatti illeciti a danno dell'affidato in tale loro veste; 2) la Corte di merito, basando la sua decisione sulla natura
temporanea dell'istituto dell'affidamento, sarebbe incorsa in errore in quanto avrebbe totalmente trascurato le peculiari
connotazioni della situazione in oggetto che aveva assunto aspetti ben diversi e ben più pregnanti di un semplice
affidamento come era agevole desumere dal fatto che il Tribunale per i minori di Brescia aveva pronunciato la
decadenza della patria potestà dei genitori naturali di T.A. - iscritto nello stato di famiglia di R.A. - ed aveva nominato
tutore dello stesso il R.A.>>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135).
Di fronte al giudicato penale, la Cassazione si limita ad esaminare la
questione civile e sottolinea il carattere formale ed angusto dell’approccio
seguito dal giudice d’appello. A suo avviso, occorre invece ravvicinare la realtà
giuridica alla realtà degli affetti, analizzando in modo puntuale gli elementi di
fatto alla luce del dato normativo.
Osserva la Cassazione che normalmente la situazione di affidamento non
assume rilevanza sul piano della responsabilità extracontrattuale:
<<La Corte di merito ha fondato la sua decisione sul carattere di temporaneità dell'istituto dell'affidamento e sulla
principale finalità dell'istituto stesso che certamente è quella di rendere possibile ed agevole - con l'obbligo
dell'affidatario di attivarsi in tal senso - il reinserimento del minore nella famiglia di origine. E non può revocarsi in dubbio
che una situazione di affidamento formalmente e rigorosamente rispondente allo schema richiamato dalla Corte
territoriale, quale delineato dal legislatore, sarebbe incompatibile con la ipotizzabilità della sussistenza, in capo
all'affidatario, della legitimatio ad causam, ai fini della costituzione di parte civile, proprio in ragione delle caratteristiche e
della finalità dell'affidamento: a) provvisorietà del rapporto affidatario-minore; b) esistenza della famiglia di origine del
minore, e quindi dei genitori naturali le cui indicazioni l'affidatario è tenuto a seguire (art. 5, primo comma, della legge n.
184/83); c) attività dell'affidatario tendente al reinserimento del minore nella famiglia di origine>>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135, FD, 2002, 277).
Peraltro, la relazione tra affidatario e minore può presentare una ricchezza
di affetti e sentimenti tale da non giustificare il diniego della tutela aquiliana. Nel
caso di specie, il vincolo tra il bambino e la nuova famiglia (probabilmente
destinato a evolvere nell’ambito di un affidamento sine die) aveva assunto
un’intensità notevole, percepibile anche dai giudici di legittimità con la sola
lettura delle carte processuali:
<<Nella concreta fattispecie, la situazione verificatasi tra l'affidatario ed il minore era però sicuramente
14
Antonio Antonio Costanzo
caratterizzata da peculiari connotazioni che rendevano quel rapporto di contenuto pregnante dal punto di
vista affettivo e morale. Ed invero già dal tenore del decreto di affidamento si evince agevolmente che
l'inserimento del piccolo T.A. nella famiglia R. era scaturito dalla concreta impossibilità della famiglia di origine di
prendersi adeguatamente cura di lui, di tal che appariva sin dagli inizi dell'affidamento altamente improbabile, se non
addirittura impossibile, un ritorno del piccolo presso i genitori naturali. Basti pensare infatti che dal decreto del Tribunale
per i minorenni di Brescia del 30 aprile 1985 risulta quanto segue: a) non solo il minore, ma anche la madre naturale
L.S. era entrata a far parte dell'ambiente familiare dei R.; b) entrambi avevano trovato in tale ambito familiare "serenità e
calore affettivo"; c) i genitori naturali di T.A. erano stati esclusi dall'esercizio della potestà, "permanendo il grave loro
stato di conflittualità". E va altresì sottolineato che con detto decreto il nonno materno del minore era stato sostituito
nella sua funzione di tutore proprio con R.A.. Essendo il piccolo T. nato il 26 settembre 1983, può inoltre dirsi che
quest'ultimo, fino al momento del tragico incidente (febbraio 1992), era stato ininterrottamente affidato alle cure ed
all'assistenza dei coniugi R., all'interno della famiglia degli stessi, sin dalla tenerissima età. Orbene, dette circostanze
fattuali - che obiettivamente rendevano il vincolo creatosi tra il piccolo ed i R. ben più pregnante ed intenso rispetto a
quello che solitamente può scaturire dall'affidamento quale disciplinato dalla legge n. 184/83 - già emerse nel corso del
giudizio di primo grado attraverso la produzione di documenti e gli esami testimoniali, e richiamate nell'atto di appello
della parte civile, non sono state oggetto di valutazione da parte della Corte di Appello che, come si rileva dalla
sentenza impugnata, si è fermata dinanzi al dato formale del nomen iuris del rapporto che si era instaurato tra i coniugi
R. ed il minore>>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135, FD, 2002, 277).
La Corte si chiede se un rapporto così intenso sul piano morale e degli
affetti, caratterizzato da <<stabilità e tendenziale definitività>>, abbia rilevanza
anche per il diritto
<<Compito di questa Corte, in presenza, da un lato, del ricorso della parte civile che quelle circostanze ha
puntualmente sottolineato, e, dall'altro, delle contrarie argomentazioni svolte dal difensore dell'imputato nelle diffuse ed
articolate note, è stabilire se a quel rapporto debba riconoscersi o meno - proprio in virtù della peculiarità della
situazione determinatasi e radicatasi nel tempo - valenza, oltre che morale ed affettiva, anche giuridica, con tutte le
conseguenze del caso ai fini della legitimatio ad causam per la costituzione di parte civile. Occorre cioè stabilire se, nel
caso di affidamento di un bambino in tenera età, in presenza di un rapporto prolungatosi nel tempo e vieppiù
consolidatosi con il trascorrere di anni, caratterizzato da stabilità e tendenziale definitività, possa riconoscersi agli
affidatari la legittimazione a costituirsi parte civile in conseguenza di un atto illecito commesso in danno del minore
affidato>>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135, FD, 2002, 277)
e risponde in termini affermativi. A tal proposito, la Corte richiama la più recente
giurisprudenza in tema di famiglia di fatto
<<Come è noto, con particolare riferimento al vincolo tra soggetti conviventi more uxorio, l'evoluzione
giurisprudenziale ha portato al riconoscimento della famiglia "di fatto", quale situazione meritevole di tutela giuridica.
Muovendo dalla evidente necessità di porre l'accento sulla realtà sociale piuttosto che sulla veste formale dell'unione tra
due persone conviventi, è stata dunque riconosciuta valenza giuridica a quella relazione interpersonale che presenti
carattere di tendenziale stabilità, natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e
nella reciproca assistenza morale e materiale. Dovendo confrontarsi con le mutate concezioni che via via si sono
affermate nella società moderna, la giurisprudenza, in materia di rapporti interpersonali, ha dunque considerato la
famiglia "di fatto" quale realtà sociale che, pur essendo al di fuori dello schema legale cui si riferisce, esprime comunque
caratteri ed istanze analoghe a quelle della famiglia stricto sensu intesa>>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135, FD, 2002, 278)
e riconosce che la situazione di affidamento in concreto può non essere
dissimile da quella fondata sul rapporto di filiazione:
<<Orbene, proprio tenendo conto delle ragioni che hanno determinato il riconoscimento di una valenza giuridica
al rapporto more uxorio, non si vede per qual motivo dovrebbe negarsi una pari valenza ad una situazione
interpersonale - come quella di un affidamento connotato dalle circostanze innanzi evidenziate con riferimento alla
concreta fattispecie in esame - sviluppatasi attraverso la convivenza (tra adulto e minore), duratura, ininterrotta,
prolungata negli anni, sicuramente caratterizzata dalla costante, premurosa ed affettuosa assistenza dell'adulto verso il
minore. In presenza di siffatta situazione, sembra non possa dubitarsi della solidità del vincolo e, conseguentemente,
della dolorosa sofferenza e del nocumento derivati dalla morte del piccolo allevato come un figlio dall'affidatario nella cui
famiglia il minore stesso era stato inserito sin dalla più tenera età; diversamente opinando, si finirebbe con il rimanere
ancorati ad una sorta di concezione "contrattualistica" della famiglia, ormai largamente superata nel comune sentire
della società moderna, ritardando la piena realizzazione della conformità della realtà giuridica alla realtà degli affetti.
Giova inoltre porre in rilievo che il convincimento di questo Collegio pare trovar fondamento anche nel dato normativo.
Ed invero l'art. 5 della legge n. 184/83 prevede l'applicabilità, in quanto compatibili, delle disposizioni di cui all'art. 316
del codice civile, norma, questa, che disciplina appunto l'esercizio della potestà dei genitori>>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135, FD, 2002, 278).
In conclusione, affermata la legittimazione degli affidatari a costituirsi parte
civile, la Suprema Corte demanda al giudice civile il compito di accertare in
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Antonio Antonio Costanzo
concreto se vi sia danno risarcibile:
<<dovrà poi il giudice civile accertare in concreto e valutare - in rapporto a quanto gli interessati riusciranno a
provare - i danni da costoro lamentati quali conseguenza della morte del piccolo T. A. avvenuta a causa di incidente
stradale. Alla stregua di tutte le suesposte argomentazioni, in accoglimento del proposto ricorso, l'impugnata sentenza
deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore
in grado di appello, dovendosi procedere a valutazioni esclusivamente civilistiche, essendo la sentenza di assoluzione
dell'imputato coperta dal giudicato: ed invero la ratio della norma appena citata è quella di evitare ulteriori interventi del
giudice penale ove (come nella concreta fattispecie) non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali. Il giudice civile,
all'esito ed in conseguenza delle sue valutazioni di merito in ordine alla vicenda in oggetto, provvederà anche sulle
spese della presente fase>>
(Cass. pen. 27.9.2001, n. 35135, FD, 2002, 278).
Resta in ombra un’altra questione, evidentemente estranea al caso di
specie: quella del nesso tra le due distinte relazioni interpersonali (genitorefiglio, affidatario-minore affidato) nell’ipotesi di un concorso di pretese
risarcitorie.
Per altro verso, non dovrebbero esserci dubbi circa la rilevanza del vincolo
affettivo nel caso in cui vittima primaria dell’illecito aquiliano sia l’affidatario. Ed
è ragionevole ritenere che l’interesse del minore possa accedere alla tutela
risarcitoria anche in una situazione meno stabile e duratura di quella esaminata
da Cass. pen. 27.9.2001.
Sul piano dei riferimenti normativi, l’indicazione proposta dalla Cassazione
(l’applicabilità, in quanto compatibili, delle disposizioni sull’esercizio della
potestà genitoriale) può essere integrata dal richiamo ai principi generali della
legge 4.5.1983, n. 184 (come modificata dalla l. 28.3.2001, n. 149), oggi
significativamente intitolata al <<diritto del minore ad una famiglia>> (art. 1, l. n.
184/83) nonché ai presupposti e alle finalità dell’affidamento familiare del
minore:
<<Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto
disposti ai sensi dell’art. 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado
di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno>>
(art. 2, 1° co., l. 4.5.1983, n. 184, come modificato dall’art. 2, l. 28..3.2001, n. 149) .
3.5. Il danno dei congiunti: nuovi profili.
Bibliografia Ziviz 1994 - Navarretta 1996, 215 ss. - Cendon 2001 – D’Adda 2001 - Bona 2002 – Cassano 2002
– Pedrazzi 2002 – Ziviz 2002 - Ponzanelli 2003.
Le sentenze sin qui esaminate collocano i pregiudizi non patrimoniali da
lesione delle relazioni familiari sotto la disciplina dell’art. 2059 c.c.
Non mancano pronunce, specialmente dei giudici di merito, che offrono una
ricostruzione alternativa. Le rassegne in materia evidenziano una certa
eterogeneità di impostazioni e risultati. Ne è sintomo l’impiego di formule
diverse: danno morale, danno psichico temporaneo, danno edonistico, danno
esistenziale. Quella parte della dottrina che ha dato impulso ai nuovi
orientamenti in tema di danno esistenziale si occupa ora di approfondire la
ricerca, ordinare i materiali giurisprudenziali, segnare i punti fermi, delimitare
l’area della risarcibilità, evitare la duplicazione di poste risarcitorie, definire la
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Antonio Antonio Costanzo
posizione dei nuovi danni nel sistema della responsabilità civile. Altra
parte della dottrina, invece, ribadisce la forza del sistema bipolare e propone
una valorizzazione e reinterpretazione delle due categorie del danno alla salute
e del danno non patrimoniale.
3.5.1. Voci di danno.
E’ ormai consolidato in Cassazione l’orientamento che ammette la
risarcibilità del danno morale, patrimoniale e biologico ai prossimi congiunti nel
caso di morte o lesioni gravi della vittima primaria. La prima voce di danno
viene normalmente riconosciuta nei limiti previsti dall’art. 2059 c.c.; le altre sono
ricondotte all’interno dell’art. 2043 c.c. e sottoposte ad un rigoroso regime
probatorio.
Un’interessante sentenza della Suprema Corte, resa proprio in tema di
responsabilità civile della pubblica amministrazione, esamina l’ampio spettro dei
profili risarcitori corrrelati al danno dei congiunti (Cass. 2.2.2001, n. 1516, GI,
2002, 951).
Ancora una volta, tutto nasce da un incidente stradale. Un notaio
sessantottenne viene investito dall’alfetta duemila condotta da un carabiniere e
riporta trauma cranico e lesioni. Il giudicato penale stabilisce l’esclusiva
responsabilità per colpa del militare. Il notaio e la moglie convivente instaurano
una causa civile contro il Ministero della difesa e il conducente dell’auto. Il
Tribunale accoglie la domanda del notaio (danno biologico, patrimoniale,
morale) ma rigetta quella moglie, che aveva chiesto il risarcimento del danno
non solo morale ma anche biologico e patrimoniale (per il precoce
pensionamento). La Corte d’appello attribuisce al notaio una somma maggiore
ma rigetta l’appello della moglie. I coniugi impugnano la decisione.
La Cassazione, esclusa la configurabilità di un danno “comune” alla coppia,
<<Nel primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 99 c.p.c. (principio della domanda) e
dell'art. 112 c.p.c. (corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato) ed il vizio della motivazione. Si assume che "la Corte di
appello non ha nemmeno esaminato la domanda degli appellanti che venisse emessa una condanna in favore degli
stessi in solido, stante la comunanza di vita e la natura dei danni (v. atto di appello primo motivo)."
In senso contrario si osserva che non sussiste alcuna solidarietà attiva del danno dei danneggiati, che non è
danno comune, ma personale, iure proprio, sicché la pretesa di solidarietà attiva è stata implicitamente e correttamente
respinta dai giudici del merito>>
(Cass. 2.2.2001, n. 1516)
afferma che la rinuncia al lavoro motivata da ragioni di solidarietà familiare,
ossia dalla necessità di assistere il prossimo congiunto vittima di lesioni,
costituisce una perdita risarcibile ex art. 2043 c.c., un danno patrimoniale
immediato e diretto, legato alla condotta da un nesso di causalità giuridica:
<<Nel secondo motivo la moglie del danneggiato R. C. deduce iure proprio la violazione e falsa applicazione degli
articoli 2056 e 1223 c.c. ed il vizio della motivazione con riferimento alla mancata liquidazione del proprio danno
patrimoniale da lucro cessante.
Assume la ricorrente che il ritiro dalla attività di insegnamento per la doverosa assistenza al marito, era
conseguenza diretta della gravità delle lesioni subite dal marito ed al progressivo aggravamento della sua salute.
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Antonio Antonio Costanzo
Erroneamente la Corte d'appello aveva escluso tale danno con riferimento al principio della regolarità
causale (ff. 23 e 24 della motivazione).
La censura merita accoglimento. Ed in vero il danno subito dalla moglie della vittima primaria, che rinunci per
solidarietà familiare ad una propria attività lavorativa (insegnamento) per dedicarsi al soccorso del proprio marito, è un
danno riflesso o di rimbalzo rispetto alla vittima primaria (secondo l'originaria intuizione della giurisprudenza francese),
ma è un danno diretto, sia pure di natura consequenziale, per la vittima secondaria, che lo subisce come conseguenza
rispetto al medesimo evento, subendo l'ingiusta menomazione della propria sfera "patrimoniale".
Il nesso di causalità, rispetto alla condotta imputabile, si pone non in termini di causalità materiale, ma di causalità
giuridica, secondo l'id quod plerumque accidit (art. 1223 c.c.), posto che il conducente dell'auto che guidi
spericolatamente o imprudentemente, ben può prevedere che la vittima sia un padre o una madre di famiglia, e che
dunque le conseguenze dell'evento possano essere plurioffensive.
E' il cd. principio della colpa cosciente, ben noto alla dottrina penale, ma che bene si adatta alla identificazione
della colpa civile, essendo questa inerente al medesimo illecito, che viene ora in rilievo come l'illecito civile descritto
nella clausola generale dell'art. 2043 c.c.
Si aggiunge che per il danno da lucro cessante è lo stesso legislatore che prevede il criterio dell'equità
circostanziata (art. 2056 secondo comma) proprio per temperare il rigore della prova del quantum debeatur>>
(Cass. 2.2.2001, n. 1516, GI, 2002, 960).
Infine, sulla scorta del precedente di tre anni prima (Cass. 23.4.1998, n.
4186), la Corte riconosce il danno morale al prossimo congiunto della vittima
primaria e dichiara di aderire ad una lettura costituzionale di tale voce di danno,
nel segno della tutela dei diritti inviolabili della persona:
<<Nel terzo motivo si deduce, sempre da parte della C., la violazione dell'art. 2059 c.c. ed il vizio della
motivazione sul punto della esclusione del danno morale riflesso.
L'argomento è tratto sulla base del precedente costituito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 372 del 1994
e dei precedenti di questa Corte, ma anteriori alla innovativa sentenza di questa Corte (Cass. 23 aprile 1998 n. 4186)
che invece ha riconosciuto la legittimazione ad agire dei congiunti e grave della salute del proprio parente (padre, figlio,
altro parente convivente etc.).
Questa Corte condivide l'orientamento evolutivo, proprio nella considerazione (peraltro sottolineata dalla stessa
Consulta) che anche il danno morale debba essere "costituzionalizzato" e cioè "conformato" ai valori che la Costituzione
arreca alla persona umana, come diritti umani inviolabili che arricchiscono la sua dignità.
Condivide inoltre l'argomento sistematico (enunciato nella sentenza citata) che considera inconsistente il
tradizionale argomento dell'ostacolo costituito dall'art. 1223 c.c. (argomento della causalità diretta ed immediata), in
quanto il danno morale in favore dei congiunti trova causa efficiente nel fatto del terzo, sicché il criterio di imputazione
concerne la colpa e la regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano nelle conseguenze
ordinarie e normali del fatto>>
(Cass. 2.2.2001, n. 1516, GI, 2002, 965).
La relazione familiare, il vincolo solidale tra le persone (visto anche nelle
eventuali implicazioni di carattere patrimoniale), sono dunque oggetto
immediato di tutela aquiliana: le aggressioni provenienti da terzi vanno
ricondotte nella clausola generale dell’art. 2043 c.c. Secondo la Corte, lo stretto
congiunto della vittima primaria può subire un danno di varia natura (biologico,
anche se di ordine psichico/morale, patrimoniale, esistenziale) che è pur
sempre immediata conseguenza del fatto lesivo:
<<Si aggiunge, come contributo alla chiarificazione della problematica, che appare fuorviante parlare di danno
riflesso o di rimbalzo, proprio perché lo stretto congiunto, convivente e/o solidale (per la doverosa assistenza) con la
vittima primaria, riceve immediatamente un danno consequenziale, di varia natura (biologico, anche se può essere di
ordine psichico/morale, patrimoniale, e secondo recente dottrina e giurisprudenza, anche esistenziale) che lo legittima
iure proprio ad agire contro il responsabile dell'evento lesivo.
In relazione a tale danno (qui, nella specie, danno morale), siamo certamente in presenza di un "fatto reato"
plurioffensivo, e dunque non sussiste alcuna preclusione ai sensi dell'art. 195 [185, n.d.r.] c.p. correlato all'art. 2059 del
codice civile.
Restano pertanto superati i contrari arresti e de iure condendo gli stessi disegni di legge governativa (che peraltro
dichiarano di ispirarsi alla Direttiva del Consiglio di Europa n. 75 del 1985) recano la consapevolezza di regolare
diversamente la disciplina dell'art. 2059 c.c., escludendo la stretta delimitazione al cd. danno morale da reato.
Quanto poi alla frattura, posta dell'interpretazione della Corte Costituzionale, nella più volte citata sentenza del
1994 n. 374 all'unitarietà del danno biologico, nel senso di una collocazione del danno psichico nell'ambito dell'art. 2059
c.c., si osserva che tale frattura è ormai legislativamente composta dalla recente legge di riforma dell'INAIL che anticipa
altre riforme organiche del danno alla salute (D. Legs. 23 febbraio 2000 n. 38 art. 13) la quale considera unitariamente
sotto unico genus la categoria del danno biologico, con riguardo alla sua natura non patrimoniale, ma nell'ambito del
principio del neminem laedere.
Cade dunque il possibile riferimento ermeneutico al precedente della Consulta, e la problematica del danno ai
congiunti della vittima primaria deve considerarsi in relazione a questa nuova prospettiva interpretativa, nel quadro della
clausola generale dell'art. 2043 del codice civile.
Per le esposte considerazioni anche il terzo motivo merita accoglimento ed il giudice del rinvio, nel considerare la
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Antonio Antonio Costanzo
sussistenza dell'an debeatur sulla base della gravità delle conseguenze nella sfera della persona della
moglie, per il quantum potrà decidere equitativamente, secondo un criterio di equità circostanziata>>
(Cass. 2.2.2001, n. 1516, GI, 2002, 967).
3.5.2. Accertamento del danno alla salute per morte di un familiare.
La perdita di un familiare rappresenta per i congiunti un evento traumatico
che può cagionare vere e proprie patologie psichiche.
Nel caso esaminato da Cass. 25.1.2002, n. 881 non si discute di danno
morale: i ricorrenti lamentano che i giudici di merito non abbiano ammesso i
mezzi di prova proposti per dimostrare l’esistenza di un danno biologico iure
proprio conseguente alla morte del figlio.
Questi i fatti. Un ragazzo diciassettenne alla guida di un motociclo muore
dopo lo scontro con un’autovettura. Il conducente dell’auto viene assolto in
sede penale perché il fatto non costituisce reato. I genitori, il fratello e la sorella
del ragazzo agiscono davanti al giudice civile. Il Tribunale, applicata la
presunzione di cui all’art. 2054 c.c., condanna l’automobilista e l’assicuratore al
solo rimborso delle spese funerarie. La Corte d’appello conferma la sentenza
ritenendo non assolto l’onere della prova e osserva fra l’altro che il nucleo
familiare, quando – come nel caso di specie - è composto da due genitori
ancora giovani e da altri due figli, <<è, di norma, ancora in grado di scambiarsi
affettività e solidarietà per impedire che il lutto dia luogo ad uno stato di
prostrazione tale da spegnere la voglia di vivere>>.
I genitori della vittima si rivolgono alla Cassazione contestando il rigetto
delle istanze istruttorie formulate a sostegno della domanda di risarcimento del
danno biologico iure proprio:
<<Col primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 32 Cost., 2043, 2056 e 2059 c.c., anche in
relazione all’art. 1226 c.c., nonché falsa applicazione delle norme di diritto e omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia, con violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 n. 3
c.p.c.).
Lamentano la mancata liquidazione del danno biologico subito jure propri" in conseguenza della morte del figlio,
dovuta all’unilaterale e incompleta valutazione dei documenti prodotti, tutti posteriori all’evento per cui è causa, di cui la
corte ha pretermesso la valutazione clinico medica, attestanti traumi psichici ormai permanenti; all’erroneo e immotivato
rifiuto della prova testimoniale; al parimenti immotivato rifiuto, infine, di una consulenza medico legale.
Col secondo mezzo, denunciano la violazione dell’art. 115 c.p.c., anche in riferimento all’art. 112 c.p.c. (art. 360 n.
3 e 5 c.p.c.), lamentano la mancata ammissione della prova testimoniale, intesa a dimostrare, anche a conferma delle
certificazioni in atti, l’insorgere, successivamente all’evento luttuoso, delle patologie psicofisiche documentate.
Il giudice a quo, dopo aver statuito essere onere dei richiedenti il risarcimento del danno alla salute "dimostrare il
verificarsi a loro carico di un vero e proprio danno psichico", non ha dedicato una sola parola alla valutazione della
pertinenza (o meno) della prova testimoniale ritualmente richiesta; e poi, contraddittoriamente, ha rigettato la domanda
per difetto di prova di quelle medesime circostanze che ne costituiscono l’oggetto.
In definitiva, ai ricorrenti è stato ingiustamente negato il diritto di provare di aver subito, a seguito della morte
traumatica di un figlio diciassettenne, un processo patogeno originato dal turbamento dell’equilibrio psichico, degenerato
in una vera e propria malattia della psiche>>
(Cass. 25.1.2002, n. 881).
La Cassazione ripercorre l’iter argomentativo seguito dal giudice d’appello
<<La corte di merito, per rigettare il motivo di gravame col quale gli odierni ricorrenti si dolevano della mancata
attribuzione del danno biologico jure proprio, non disconosce, in punto di diritto, come il danno alla salute patito dal
congiunto di una persona uccisa a seguito di tale decesso sia "momento terminale di un processo patogeno originato
dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo e che, in persone predisposte
da particolari condizioni, anziché esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare
in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze, in termini di perdita di qualità personali, e non
semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento".
Appare pertanto corretta, ad avviso del giudice di appello, "la decisione del primo giudice, incombendo a carico
dei familiari del morto che tale risarcimento reclamino, l’onere – non assolto – di dimostrare il verificarsi, a loro carico, di
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Antonio Antonio Costanzo
un vero e proprio danno psichico".
Ed invero, "ai fini considerati", non "appare adeguata la documentazione prodotta in questa sede
dagli appellanti, mancando la prova che quanto certificato sia in nesso eziologico con l’incidente de quo ed
evidenziandosi, inoltre, il carattere esplorativo della richiesta consulenza tecnica d’ufficio".
Più avanti la corte, condividendo l’opinione espressa conclusivamente al proposito dal giudice di prime cure,
reputa tanto più necessaria la prova della "peculiarità della reazione di taluno degli attori in un caso, come quello di
specie, in cui il nucleo familiare, per la presenza di due genitori ancora giovani e di altri due figli, è, di norma, ancora in
grado di scambiarsi affettività e solidarietà per impedire che il lutto dia luogo ad uno stato di prostrazione tale da
spegnere la voglia di vivere">>
(Cass. 25.1.2002, n. 881)
e censura la mancata ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio, alla
quale può invece farsi ricorso per accertare, sulla base di cognizioni tecniche,
se la dedotta patologia psichica sussista e sia in rapporto causale con la morte
del familiare:
<<Ciò premesso, questa Corte Suprema ammette ormai senza contrasto (nel solco di Corte cost. 372/94) il
risarcimento del danno alla salute a favore degli stretti congiunti della persona deceduta per effetto dell’illecita condotta
altrui, allorché le sofferenze causate a costoro dalla perdita abbiano determinato una lesione dell’integrità psicofisica
degli stessi; risarcimento che naturalmente potrà essere accordato solo se sia fornita la prova che il decesso ha inciso
negativamente sulla salute dei congiunti, determinando una qualsiasi apprezzabile, permanente patologia (Cass.
2134/00; 10085/98).
Orbene, è di intuitiva evidenza che soltanto la scienza medica è in grado di offrire al giudice la certezza che una
determinata patologia non solo esista, ma sia altresì in rapporto causale col trauma patito per la morte del congiunto;
sia, in altri termini, conseguenza delle sofferenze indotte dall’evento luttuoso.
È principio ben noto, in quanto ripetutamente accolto dalla giurisprudenza di legittimità, che la consulenza
tecnica, pur avendo, di regola, la funzione di fornire al giudice una valutazione relativa a fatti già acquisiti al processo,
può legittimamente costituire, ex se, fonte oggettiva di prova, qualora si risolva non soltanto in uno strumento di
valutazione, ma altresì di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate
cognizioni tecniche; così che, in tal caso, il giudice, il quale non dimostri, con motivazione adeguata, di aver potuto
risolvere sulla base di corretti criteri tutti i problemi connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della
decisione, non può respingere l’istanza di ammissione di una consulenza tecnica e ritenere nello stesso tempo non
accertati i fatti che solo la consulenza tecnica avrebbe potuto accertare, senza violare la legge processuale e senza
incorrere nel vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
Proprio qui si annida il fondamentale vizio logico e giuridico della sentenza impugnata, la quale, pur non
contestando le patologie psichiche lamentate dai genitori della vittima, come emergenti dai certificati medici, ne
disconosce sbrigativamente la derivazione causale dalla morte del congiunto, che solo un’indagine scientifica (definita
pertanto a torto, per quanto dinanzi detto, "esplorativa") avrebbe potuto accertare o escludere in termini di certezza;
ricorrendo, quale argomento rafforzativo, ad incongrue considerazioni sulla composizione del nucleo familiare e su una
sua presunta nonché astratta ("di norma") idoneità ad assorbire, senza ripercussioni sulla salute, il trauma subito>>
(Cass. 25.1.2002, n. 881).
4. La responsabilità civile della p.a.: cenni generali.
Bibliografia Caranta 1993 – Angeletti 1997- Monateri 1998, 806 ss. - Piazza 2001 – Viola 2001 - Bellagamba,
Del Re e Cariti 2002.
L’azione della pubblica amministrazione, volta al perseguimento dei fini ad
essa attribuiti dall’ordinamento, può tradursi in attività: a) di diritto pubblico,
quando la p.a. si avvale di potestà pubbliche, di cui può disporre solo
nell’ambito stabilito dal legislatore (principio di legalità); b) di diritto privato,
quando la p.a. utilizza gli strumenti giuridici del diritto comune.
Il criterio per stabilire se l’attività della p.a. abbia natura pubblica o privata
non è dato dalla materia in cui essa si svolge, ma dalla sostanza dei poteri
esercitati.
I rapporti derivanti dallo svolgimento dell’attività privatistica della p.a. sono
in linea di principio regolati dal diritto civile, e quindi anche dalle norme sulla
responsabilità per danni (di matrice contrattuale o aquiliana).
Si osserva peraltro che possono esservi deroghe rispetto alla disciplina
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Antonio Antonio Costanzo
comune (ad es. in determinati settori quale il servizio postale, Corte
Cost. 20.6.2002, n. 254, FI, 2002, I, 2209) e che in alcuni casi l’esercizio di
potestà pubbliche interferisce sul rapporto privatistico (in particolare, su quelli
contrattuali).
Ecco, ad esempio, l’affermazione secondo cui la responsabilità
(contrattuale) del vettore prevista dall’art. 1681 c.c. non è applicabile al
trasporto di militari, effettuato dalla p.a. senza alcun fine utilitario e nell’esercizio
di un’attività imposta da imprescindibili necessità di interesse collettivo
riconnesse alle finalità essenziali dello Stato, mentre il privato pone in essere
contratti di trasporto liberamente e per un proprio esclusivo interesse (Cass.
25.11.2002, n. 16574; conf. Cass. n. 2869/91). Ciò non esclude che il militare
trasportato su un automezzo dell’esercito per ragioni di servizio possa invocare
nei confronti del Ministero dell’interno, proprietario del mezzo, la concorrente
responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 2054 c.c.: tale norma esprime
principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che ricevano un danno
dalla circolazione dei veicoli, e dunque anche ai trasportati, quale che sia il titolo
del trasporto (Cass. 25.11.2002, n. 16574).
Per contro, l'esigenza di adottare le procedure della contabilità pubblica
non giustifica, in caso di colpevole ritardo della p.a. nelle formalità di
liquidazione di un credito vantato dal privato, la deroga al principio di cui all'art.
1218 c.c. né quella all’art. 1124, 1° co., c.c.: dunque, ricorrendone i presupposti,
la p.a., in quanto colposamente inadempiente, può essere condannata a pagare
gli interessi moratori anche se non risulti materialmente emesso il relativo titolo
di spesa (Cass. 26.11.2002, n. 16683; Cass. n. 2675/86).
Ad ogni modo, è ormai jus receptum che un danno risarcibile può derivare
anche dall’attività provvedimentale della pubblica amministrazione.
In passato gli studiosi si sono chiesti se, e in che misura, avesse
giustificazione una disciplina della responsabilità della p.a. sottratta alle regole
comuni. L’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza ha ridotto, se non
eliminato, gli antichi privilegi. Si tratta ora di capire quali siano gli aspetti che, in
positivo, caratterizzano la responsabilità della pubblica amministrazione,
soprattutto in relazione agli obiettivi di promozione dei diritti della persona e, più
in generale, allo svolgimento di servizi non industriali.
4.1. Attività materiale e attività provvedimentale.
Bibliografia Caranta 1993, 371 ss. – Menichetti 2002.
Nell’ambito dei comportamenti giuridicamente rilevanti della p.a. si è soliti
effettuare una distinzione basata sulla rilevanza o meno dell’aspetto psichico
dell’azione umana: da un lato, le operazioni o, secondo una diversa
21
Antonio Antonio Costanzo
terminologia, gli atti materiali; dall’altro, gli atti giuridici (di diritto civile o
pubblico).
Tra le operazioni rientrano le attività materiali svolte: a) in esecuzione di atti
amministrativi; b) in adempimento di doveri cui la p.a. sia tenuta senza la
necessità di una previa specifica deliberazione; c) nell’esercizio di pubblici
servizi.
Nel caso di attività materiale sono irrilevanti le questioni concernenti i vizi
propri degli atti amministrativi, mentre può porsi il problema delle conseguenze
della difformità tra operazione concreta e tipo astratto previsto dall’ordinamento.
A proposito del rapporto tra atti o comportamenti materiali della p.a. e limiti
al potere del giudice ordinario posti dall’art. 4, l. 20.3.1865 n. 2248, All. E., abol.
cont. amm. (divieto di ingerenza nell’attività amministrativa), in passato la
giurisprudenza accoglieva la concezione “finalistica” dell’atto amministrativo,
anche al fine di restringere le ipotesi di responsabilità degli enti pubblici e, più in
generale, di delimitare l’ambito delle azioni civili esperibili nei confronti della p.a.
Da decenni si afferma invece che il divieto di revoca o modifica dell’atto
amministrativo dal parte del giudice ordinario non opera rispetto a <<meri>>
comportamenti materiali della p.a., quali ne siano i fini e la materia, ma solo
rispetto ad atti costituenti esercizio di potestà amministrative.
Sono pertanto ammissibili nei confronti della p.a., nei limiti indicati, le azioni
di tutela, anche risarcitoria (Cass. S.U. 10.12.1984, n. 6476, RCP, 1985, 649,
nel caso di fumo e esalazioni derivanti da una pubblica discarica), contro le
immissioni intollerabili:
<<E’ consentito al giudice ordinario pronunciare la condanna della pubblica amministrazione ad un non facere,
quando tale condanna non implichi alcuna ingerenza nell'esercizio delle potestà riservate dalla medesima, ma si
risolva in un semplice ordine di astensione da attività tassativamente vietate dall'ordinamento giuridico (nella specie,
immissioni intollerabili di rumore provenienti dal fondo vicino di proprietà della pubblica amministrazione).
(Cass. 8.3.1982, n. 1469, CED RV. 41928)
<<Qualora le immissioni di rumore in un fondo, provenienti da vicina centrale elettrica dell'ENEL, eccedano la
normale tollerabilità, ai sensi e secondo i parametri dell'art. 844 cod. civ., deve riconoscersi al proprietario di detto
fondo la correlativa facoltà di agire davanti al giudice ordinario, al fine di essere indennizzato dall'ENEL del
deprezzamento subito dall'immobile per la menomazione delle sue possibilità di godimento, atteso che una siffatta
domanda si ricollega ad una posizione di diritto soggettivo, non degradata od affievolita da atti amministrativi, e non
implica alcuna interferenza sull'attività discrezionale dell'amministrazione nella gestione di detta opera pubblica, ma il
solo riscontro, in applicazione del principio generale del neminem laedere, di un trasmodare dell'attività stessa in un
gratuito sacrificio di quel diritto, non consentito dall'ordinamento>>.
(Cass. S.U. 16.7.1983, n. 4889, GC, 1984, I, 2854; v. anche Cass. n. 1469/82 e n. 1281/75).
Del pari, sono ammissibili, nei limiti chiariti dalla giurisprudenza, anche le
azioni possessorie, se non volte a <<elidere gli effetti dell’azione
amministrativa>>:
<<Le azioni possessorie sono esperibili nei confronti della P.A., sempre che il comportamento di quest'ultima
non si estrinsechi in atti o provvedimenti emessi nell'ambito e nell'esercizio dei poteri ad essa spettanti e aventi
contenuto, in senso lato, ablativo, ossia idonei ad incidere sulla sfera giuridica del privato, ma si concreti in una mera
attività materiale lesiva di beni dei quali questi assuma la proprietà o il possesso>>
(Cass. S.U. 27.6.2000, n. 460, CED RV. 538059, relativa all’azione del privato a fronte dell’ordinanza comunale –
definita dalla S.C. quale semplice provvedimento di polizia del traffico – emessa sul presupposto che l’area di cui il
ricorrente affermava la proprietà fosse invece parte integrante della vicina strada comunale; conf. Cass. S.U. n.
11170/95; v. anche Cass. S.U. n. 11620/97; Cass. S.U. n. 488/1999)
<<Allorché il privato chieda la tutela di un proprio diritto soggettivo non condizionato dal potere in concreto
22
Antonio Antonio Costanzo
esercitato dalla pubblica amministrazione, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, né, versandosi
in ipotesi di attività materiale lesiva posta in essere dalla P.A. in carenza di potere, opera il divieto di
condanna della stessa ad un facere >>
(Cass. S.U. 1.7.2002, n. 9557, CED RV. 555496, ripristino dello stato dei luoghi modificato dall'amministrazione
ferroviaria concessionaria; v. Cass. S.U. n. 924/99; Cass. S.U. n. 2994/99)
<<L'esperibilità di un'azione possessoria nei confronti della P.A. è condizionata al presupposto che quest'ultima
abbia agito iure privatorum, ovvero abbia posto in essere un'attività sine titulo, mentre, ogni qualvolta il comportamento
dell'amministrazione si risolva nell'attuazione di una pubblica potestà ovvero di un atto amministrativo (sia pur viziato),
la tutela possessoria è inammissibile perché, essendo funzionale al ripristino della situazione modificata o turbata
dall'attività denunziata, si attuerebbe con un provvedimento di natura costitutiva che, nell'elidere gli effetti dell'azione
amministrativa, violerebbe il divieto imposto al giudice ordinario dall'art. 4 della legge 2248/1865>>
(Cass. S.U. 19.8.2002, n. 12244, CED RV. 556959)
<<Vi è difetto assoluto di giurisdizione sulla domanda possessoria proposta nei confronti della pubblica
amministrazione per comportamenti da quest'ultima posti in essere in esecuzione di atti amministrativi, ancorché viziati,
giacché gli eventuali provvedimenti di reintegrazione o di manutenzione del possesso, ripristinando la situazione
modificata o turbata dall'attività denunciata, andrebbero ad elidere gli effetti dell'azione amministrativa, in contrasto
con il divieto sancito per il giudice ordinario dall'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. Tale principio non
opera, invece, con riguardo ai meri atti materiali della pubblica amministrazione, in quanto essi non sono in alcun
modo ricollegabili, neppure implicitamente, all'esercizio di un potere amministrativo>>.
(Cass. S.U. 3.10.2002 n. 14218, CED RV. 557765; conf. Cass. S.U. n. 404/00; v. Cass. S.U. n. 929/99 e
9544/01);
o le azioni di nunciazione:
<<Qualora la coltivazione di una cava (o miniera) da parte della pubblica amministrazione o di un suo
concessionario, arrechi nocumento o pericolo di danno ai diritti di un privato e tale situazione non discenda dalle scelte
amministrative, ma dall'inosservanza di corrette modalità tecniche dell'attuazione concreta di tali scelte, il privato può
esercitare l'azione nunciatoria davanti al giudice ordinario; infatti, i provvedimenti richiesti, pur implicanti la condanna
ad un facere, non interferiscono su atti discrezionali della P.A>>
(Cass. S.U. 29.1.2001, n. 39, CED RV. 543520; conf. Cass. S.U. 5474/95, n. 12314/92, n. 4566/86).
Le implicazioni più interessanti di questa problematica riguardano la tutela
giurisdizionale dei diritti fondamentali della persona nel caso di indebite
interferenze e, soprattutto, di inerzia o carente risposta da parte delle autorità
pubbliche in relazione ai compiti ad esse assegnati.
E’ per lo più di operazioni o di attività materiali che si discute quando si
parla di responsabilità civile della p.a. (o di concessionario) per danni cagionati
nell’espletamento di un pubblico servizio:
<<Con riferimento agli interessi legittimi, la giurisprudenza di questa S.C., pur riaffermandone in linea di
principio la irrisarcibilità (non già per ragioni inerenti alla sua essenza, ma) quale necessario corollario della lettura
tradizionale dell'art. 2043 c.c., ha manifestato una tendenza progressivamente estensiva dell'area della risarcibilità
(dei danni derivanti dalla lesione di alcune figure di interesse legittimo) nel caso di esercizio illegittimo della funzione
pubblica mediante attività giuridiche.
Nessun limite è stato invece ravvisato, come è noto, in relazione ai comportamenti materiali della P.A.,
indiscussa fonte di responsabilità aquiliana (possono ricordarsi le seguenti pronunce: sent. n. 737/70; n. 2851/76;
n.9550/92; n. 3939/96)>>
(Cass. S.U. 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2495).
Non è sempre agevole distinguere tra attività materiale e attività giuridica
nei casi in cui si faccia questione di responsabilità di un ente pubblico: il
comportamento materiale, la cattiva o carente prestazione di un servizio,
possono derivare da scelte e decisioni prese nell’esercizio di poteri pubblicistici.
Per contrastare spinte verso l’immunità della p.a., è stata elaborata la
teoria del divieto del neminem laedere, o forse meglio del dovere di rispettare le
regole cautelari di condotta, quale limite esterno alla discrezionalità
amministrativa o tecnica, anche se la giurisprudenza non sempre opera una
chiara distinzione tra i due distinti piani della meritevolezza di tutela
dell’interesse, da un lato, e della colpa come criterio di imputazione, dall’altro.
23
Antonio Antonio Costanzo
<<La discrezionalità, e conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario, dei criteri, dei
tempi e dei mezzi con i quali la p.a. provvede alla costruzione, all'esercizio ed alla manutenzione delle opere
pubbliche trovano un limite di carattere esterno posto a tale discrezionalità dal principio generale ed assoluto del
neminem laedere. Ne consegue, con riguardo ai danni subiti da un immobile a seguito di inondazione per mancato
tempestivo adeguamento della rete fognaria comunale in una zona di sviluppo urbanistico, la responsabilità ex art.
2043 cod. civ. del comune, a carico del quale è posta l'attività di costruzione e gestione delle fognature (art. 91, lett.
c. n. 14 d.l. 3 marzo 1934 n. 383), ove risulti che, malgrado la conoscenza di analoghi inconvenienti verificatisi in
precedenza e la prevedibilità dei danni, l'amministrazione non abbia provveduto all'adeguamento della rete fognaria
con la dovuta diligenza e nel rispetto delle norme tecniche che impongono un costante rapporto prudenziale tra il
volume di afflusso delle acque meteoriche e delle altre immissioni con la capacità di assorbimento e smaltimento
delle fogne, in mancanza di una rigorosa prova discriminante, non ravvisabile nel generico richiamo alle esigenze
generali di programmazione e ristrutturazione dell'intera rete fognaria>>
(Cass. 27.1.1988, n. 722, CED RV 457156; v. anche Cass. S.U. 6.12.1988, n. 6635, FI, 1989, I, 76; conf. Cass. n.
605/81, n. 3387/79, n. 2693/76, n. 2156/75)
<<La Pubblica Amministrazione incontra, nell'esercizio del suo potere discrezionale anche nella vigilanza e
controllo dei beni demaniali, limiti derivanti dalle norme di legge e di regolamento, nonché dalle norme tecniche
e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed, in particolare, dalla norma primaria e fondamentale del neminem
laedere, in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l'utente una
situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia
stradale. Ai fini dell'accertamento della responsabilità risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. dell'amministrazione e
dell'ente concessionario per i danni subiti dall'utente stradale, incombe su quest'ultimo l'onere di provare l'esistenza
dell'insidia non visibile e non prevedibile (rappresentata, nella specie, da una chiazza di gasolio su una corsia stradale
percorsa in ore serali), ma non anche il comportamento colposamente omissivo dell'ente concessionario per non
avere tempestivamente rimosso o segnalato l'insidia pur avendone avuto notizia (come invece affermato dal giudice di
merito, con decisione cassata dalla S.C. per violazione dell'art. 2697 cod. civ.)>>
(Cass. 30.7.2002, n. 11250, CED RV. 556408; v. anche Cass. n. 2806/66, n. 3991/90, n. 16179/01).
Tale orientamento acquista particolare valore nei casi in cui si addebita
all’amministrazione pubblica l’omessa vigilanza o l’omesso controllo e
intervento su attività o fatti produttivi di danno.
L’affermazione di obblighi positivi con finalità cautelare e di garanzia in
capo alla p.a. trova ulteriore fondamento nei principi costituzionali. L'attività
della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità,
deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche della norma
primaria del neminem laedere: dunque, considerati i principi di legalità,
imparzialità e buona amministrazione (art. 97 Cost.), la p.a. è tenuta a subire
le conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., in quanto tali principi si pongono
come limiti esterni alla sua attività discrezionale, anche se il sindacato su tale
attività rimane precluso al giudice ordinario (così Cass. 3.3.2001, n. 3132, FI,
2001, I, 1139, a proposito di responsabilità della CONSOB). A fronte dei diritti
sociali si ravvisa poi l’esistenza di doveri di solidarietà (art. 2 Cost.).
Dunque, la pubblica amministrazione, alla pari degli altri soggetti, è tenuta a
rispettare le norme giuridiche, primarie e secondarie, le norme tecniche e le
leges artis che governano il settore di attività in cui essa si trova ad operare e,
in generale, le ordinarie cautele volte a prevenire ed evitare danni (agli utenti o
a terzi). Questo significa anche che le carenze nell’organizzazione del servizio
reso da un’amministrazione pubblica (o da un concessionario), dipendano esse
da cattive scelte dirigenziali o da insufficienza delle risorse disponibili, non
esonerano da responsabilità. Il limite esterno vale anche nei confronti della c.d.
discrezionalità organizzativa. Spetta alla volontà politica stabilire se assegnare
o meno un determinato servizio ad un soggetto pubblico oppure lasciarlo al
mercato. Una volta compiuta la scelta relativa all’assunzione del servizio,
24
Antonio Antonio Costanzo
l’organizzazione dell’attività e l’erogazione della prestazioni da parte
della p.a. dovranno adeguarsi a standard idonei a garantire il soddisfacimento
degli interessi degli utenti e la protezione delle persone coinvolte, tanto più
quando i servizi resi corrispondono ai diritti sociali (Menichetti, 320-328).
Nel giudizio di responsabilità civile la violazione delle regole di condotta
avrà rilievo sotto il profilo dell’antigiuridicità della condotta e/o dell’imputazione
soggettiva dell’evento.
Più complessa è la questione relativa alla tutela risarcitoria nel caso di
illegittimo esercizio della funzione pubblica.
In passato la soluzione offerta dalla giurisprudenza si basava sulla natura
della situazione soggettiva incisa dall’atto amministrativo. La regola era che solo
la lesione di un diritto soggettivo può determinare l’obbligo di risarcire il danno
(cfr. Cass. S.U. 14.1.1992, n. 367), mentre la tutela dell’interesse legittimo è
affidata all’impugnazione del provvedimento. I problemi attinenti alla disciplina
sostanziale ed al rapporto tra atto illegittimo e fatto illecito erano strettamente
connessi al criterio del riparto di giurisdizione (giudice ordinario – giudice
amministrativo).
Oggi, dopo Cass. S.U. 22.7.1999, n. 500 (FI, 1999, I, 2487), non si dubita
del fatto che la stessa attività provvedimentale può essere fonte, a determinate
condizioni, di obbligazioni risarcitorie:
<<Ai fini della affermazione della risarcibilità del danno derivante dall'illegittimo esercizio della funzione
pubblica, occorre in primo luogo stabilire se effettivamente un danno vi sia stato, verificare se esso sia ingiusto,
secondo la nozione recepita dall'art. 2043 cod. civ., da intendersi nel senso che si sia prodotta la lesione di un
interesse giuridicamente rilevante, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto
soggettivo o di interesse legittimo, ed infine, esclusa la configurabilità della colpa in re ipsa sulla base del mero dato
obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, valutare se l'evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della
pubblica amministrazione, da apprezzare in relazione alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione
cui deve ispirarsi l'esercizio della funzione amministrativa>>
(Cass. 10.8.2002, n. 12144, CED RV 556895).
La materia è in grande evoluzione dopo la svolta delle Sezioni Unite sulla
risarcibilità degli interessi legittimi, o meglio delle situazioni soggettive correlate
all’interesse legittimo e ritenute meritevoli di tutela dall’ordinamento giuridico
(l’interesse al bene della vita di cui parla Cass. S.U. 22.7.1999, n. 500; v. anche
Cass. 10.1.2003, n. 157, FI, 2003, I, 78). E dopo gli interventi del legislatore che
hanno notevolmente ampliato la competenza del giudice amministrativo
operando il riparto per blocchi di materie, e non più con riferimento alla
distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi (artt. 33-35, d.lgs. 31.3.1998,
n. 80, nuove disposizioni in materia di giurisdizione nelle controversie di lavoro
e di giurisdizione amministrativa; artt. 6-7, l. 21.7.2000, n. 205, in materia di
giustizia amministrativa).
4.2. Natura della responsabilità civile della pubblica amministrazione.Bibliografia Casetta 1997a – Giracca 2001- Mercati 2001 - Piazza 2001, 2-25.
25
Antonio Antonio Costanzo
L’art. 28 della Costituzione afferma che <<i funzionari e i dipendenti dello
Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi
penali, civili, e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali
casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici>>.
Parte della dottrina sostiene che il costituente abbia voluto sancire una
responsabilità della p.a., in via sussidiaria o solidale, per fatto altrui; o che di
responsabilità diretta possa parlarsi solo nel caso di attività provvedimentale.
In sostanziale continuità con la c.d. teoria organica, la prevalente
giurisprudenza afferma invece che la responsabilità civile della p.a. è una
responsabilità diretta, e non per fatto altrui. Questo vale non solo quando
vengono posti in essere atti giuridici, ma anche quando la condotta dell’agente
(che risponde ex artt. 22-23, d.P.R. 10.1.1957, n. 3) si traduce in meri atti
materiali:
<<Il danneggiato che intenda proporre azione risarcitoria contro lo Stato per atti compiuti da funzionari o
dipendenti nell'esercizio delle loro funzioni (art. 28 Cost.) deve, pur essendosi determinato a promuovere la domanda
nei confronti del solo Stato, esporre, nell'atto introduttivo del giudizio, tutti i fatti dannosi addebitabili al funzionario o
dipendente in assenza di che (ed in conseguente assenza di qualsivoglia causa petendi) la domanda non può dirsi
legittimamente proposta>>
(Cass. 7.3.2002, n. 3283, CED RV. 552862)
<<In virtù della disposizione dell'art. 28 Cost. - secondo la quale la responsabilità civile, una volta emersa a
carico dei dipendenti, si estende allo Stato e agli enti pubblici - è impossibile configurare una autonoma responsabilità
dello Stato e degli enti pubblici allorquando il dipendente sia irresponsabile, oppure estendere automaticamente agli
stessi una responsabilità (ad es. per colpa) non configurabile in capo al dipendente (responsabile, ad es., solo
per dolo). (Principio enunciato in relazione ad una fattispecie nella quale la responsabilità dedotta dall'istante era
basata sull'asserito comportamento illecito di alcuni magistrati posto in essere fino ad epoca precedente all'entrata in
vigore della legge n. 117 del 1998 sulla responsabilità civile dei magistrati e, quindi, nel vigore della disciplina degli artt.
55, 56 e 74 cod. proc. civ.)>>
(Cass. 14.6.2002, n. 8503, CED RV. 555050).
Non sarà sufficiente l’esistenza del nesso causale tra comportamento del
funzionario o dipendente ed evento dannoso. Ciò che occorre è la riferibilità del
fatto, e dunque dell’operato dell’agente, alla pubblica amministrazione.
Deve trattarsi innanzitutto di un agente pubblico, legato all’amministrazione
da un rapporto di servizio.
Inoltre, la condotta dell’agente (attiva o omissiva) deve essere collegata
all’attività amministrativa, alle finalità perseguite dall’ente.
Tale collegamento viene descritto dalla giurisprudenza in termini di
«occasionalità necessaria» e sussiste tutte le volte in cui la condotta del
dipendente sia strumentalmente connessa con l’attività d’ufficio. Come rilevato
in dottrina, nella sostanza si tratta dello stesso criterio utilizzato per attribuire la
responsabilità per fatto altrui ex art. 2049 c.c.
Il nesso di occasionalità necessaria non viene meno per il solo fatto che la
condotta sia stata posta in essere con abuso di potere o che sia connotata da
dolo:
<<L'attività del dipendente è riferibile all'ente pubblico e ne comporta la responsabilità diretta, ex artt. 28 Cost. e
22 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, in quanto sia e si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente stesso, cioè sia
volta al perseguimento dei suoi fini istituzionali nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio al quale il
26
Antonio Antonio Costanzo
dipendente è addetto; detto nesso di occasionalità necessaria non è escluso dal carattere doloso
dell'illecito posto in essere dal pubblico funzionario. (Nella specie, un sottufficiale dell'Esercito,
avvalendosi della sua qualità di comandante di un distaccamento militare, aveva indotto talune imprese a consegnargli
assegni circolari intestati all'Amministrazione - dei cui importi si era appropriato negoziando i titoli in banca - con la
falsa prospettazione della opportunità, per dette imprese, di ottenere appalti per l'esecuzione di opere edili nella sede
del distaccamento)>>
(Cass. 13.11.2002, n. 15930, CED RV. 558454; v. Cass. n. 4232/97, n. 9935/93).
Questo significa che potrà ipotizzarsi una responsabilità civile
dell’amministrazione anche nel caso di reato doloso dell’agente se la condotta
criminosa risulti connnessa all’attività espletata.
Si pensi ad illeciti commessi in danno di persone sottoposte a cura o
vigilanza (malati, anziani, sofferenti psichici) o da parte di insegnanti e
professori nell’ambito scolastico.
La riferibilità dell’atto o del comportamento alla p.a. viene esclusa solo nel
caso di attività strettamente personali, del tutto estranee o contrarie alle finalità
istituzionali dell’ente, e non legate ai compiti affidati all’agente neppure da un
nesso di occasionalità.
Per ragioni diverse, in relazione alle peculiarità dei casi concreti l’indagine
sull’occasionalità necessaria può rivelarsi ardua sia nelle ipotesi di illecito
colposo che doloso.
Gli incidenti connessi all’uso delle armi ne sono un esempio. Le soluzioni
offerte non sempre paiono univoche, ma le singole vicende possono presentare
sfumature diverse. Cass. 22.5.2000, n. 6617 esclude il collegamento con
l’attività d’istituto e i fini istituzionali della p.a. se l’imprudente uso dell’arma da
parte di un agente di p.s. avviene nel corso di un colloquio del tutto privato.
Secondo Cass. 12.11.1999, n. 12553 la riferibilità all’ente non viene meno per il
solo fatto che la condotta illecita sia consistita nell’abuso di potere o nella
violazione di un ordine commessi per scopi egoistici; dunque, il Ministero
dell’interno risponde del danno causato da un carabiniere il quale, smontato dal
servizio, molto tempo dopo aveva scaricato la propria pistola d’ordinanza a
casa, in presenza di amici, lasciando partire accidentalmente un colpo.
Un caso ricorrente nella pratica, ossia lesioni colpose provocate da colpo di
arma da fuoco inavvertitamente esploso (autore e vittima erano carabinieri
ausiliari in libera uscita), dà modo a Cass. 12.8.2000, n. 10803, di illustrare, più
in generale, i principi in tema di natura della responsabilità degli enti pubblici:
<<Va, anzitutto, rilevato che la fattispecie in questione è disciplinata dall'art. 2043 (responsabilità soggettiva
diretta) c.c. e non dall'art. 2049 c.c. (responsabilità obbiettiva indiretta).
Lo Stato e gli altri enti pubblici non possono agire che a mezzo dei propri organi, il cui operato non è di soggetti
distinti, ma degli enti stessi in cui essi s'immedesimano: ed è in virtù di tale rapporto organico che la responsabilità
derivante dalla loro attività risale appunto alle persone giuridiche pubbliche delle quali sono espressione.
La pubblica amministrazione risponde quindi immediatamente e direttamente (e non indirettamente, per rapporto
institorio) per i fatti illeciti dei suoi funzionari e dipendenti - secondo un'accezione onnicomprensiva - quali che siano le
mansioni espletate (di concetto o d'ordine, intellettuali o materiali).
L'art. 28 della Costituzione, invero, non ha inteso immutare la natura della responsabilità diretta
dell'amministrazione e sanzionare il principio della responsabilità indiretta, non riferibile istituzionalmente alla p.a., ma
ha solo voluto sancire accanto ad essa quella propria degli autori dei fatti lesivi delle situazioni giuridiche altrui>>
(Cass. 12.8.2000, n. 10803)
e di riferibilità del fatto all’amministrazione
27
Antonio Antonio Costanzo
<<Perché ricorra tale responsabilità della p.a. non basta, ovviamente, il semplice comportamento
lesivo del dipendente; deve sussistere, infatti, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, la
riferibilità all'amministrazione del comportamento stesso.
A tale riguardo, l'attività può essere riferita all'Ente se sia e si manifesti come esplicazione dell'attività di
quest'ultimo, cioè tenda (pur con abuso di potere) al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell'ambito delle
attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui esso dipendente è addetto; e questo riferimento all'ente può venire meno solo
quando il dipendente agisca come un semplice privato, per un fine strettamente personale ed egoistico, che si rilevi
assolutamente estraneo all'amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni
collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente (così, sostanzialmente, Cass. 17 settembre 1997, n. 9260; 6
dicembre 1996 n. 10896; Cass. 13 dicembre 1995 n. 12786, Cass. 7 ottobre 1993 n. 9935, Cass. 3 dicembre 1991 n.
12960)>>
(Cass. 12.8.2000, n. 10803).
L’amministrazione pubblica, dunque, secondo la Cassazione risponde ex
art. 2043 c.c. e non per fatto altrui. Cass. 12.8.2000, n. 10803 spiega che il
richiamo all’art. 2049 c.c. da parte della sentenza d’appello valeva solo a
determinare il concetto di occasionalità necessaria ed aggiunge che su tale
punto l’applicazione delle due distinte norme conduce ad esiti coincidenti:
<< se pure i due concetti di "occasionalità necessaria" nella responsabilità ex art. 2049 c.c. ed in quella della p.a.
per fatto del proprio dipendente erano stati ritenuti in passato come aventi caratteristiche differenti (più rigorose nella
seconda ipotesi), per effetto dell'evoluzione giurisprudenziale attualmente, in buona sostanza, coincidono (salvo
ovviamente le differenze strutturali attinenti ai soggetti ed al rapporto che li lega).
Invero, quanto alla "occasionalità necessaria", presupposto della responsabilità ex art. 2049 c.c., la recente
giurisprudenza afferma che essa sussiste allorché le mansioni o le incombenze affidate al dipendente o al commesso
abbiano reso possibile, o comunque agevolato, il comportamento produttivo del danno, a nulla rilevando che tale
comportamento si sia posto in modo autonomo nell'ambito dell'incarico o abbia addirittura ecceduto i limiti di esso,
magari in trasgressione degli ordini ricevuti, sempreché il commesso abbia perseguito finalità coerenti con quelle in vista
delle quali le mansioni gli furono affidate e non finalità proprie alle quali il committente non sia neppure mediatamente
interessato o compartecipe (Cass. 17.3.1990, n. 2226) o che siano del tutto estranee al rapporto di lavoro (Cass.
9.6.1995, n. 6502).
Quanto alla "occasionalità necessaria", presupposto della responsabilità diretta della p.a. per fatto del proprio
dipendente, essa sussiste tutte le volte in cui la condotta del dipendente sia strumentalmente connessa con l'attività
d'ufficio>>
(Cass. 12.8.2000, n. 10803).
Ecco allora restringersi il numero di casi nei quali la p.a. può andare esente
da responsabilità:
<<La riferibilità dell'atto o del comportamento del dipendente alla p.a. va esclusa solo relativamente a quelle
attività strettamente personali del dipendente in relazione alle finalità istituzionali o non legate neppure da un nesso di
occasionalità con i compiti affidatigli (Cass. 13.12.1995, n. n. 12786; Cass. 6.12.1996, n. 10896). In questa evoluzione
giurisprudenziale del concetto di "occasionalità necessaria", superando il tradizionale orientamento, è stato peraltro
sottolineato da numerose decisioni che il fatto doloso del funzionario non è necessariamente non riferibile alla pubblica
amministrazione, dovendo ritenersene al contrario la riferibilità allorché sussista un nesso di occasionalità necessaria tra
il comportamento dell'impiegato e le incombenze allo stesso affidate: nesso che va accertato - ed è questo il punto di
decisiva divergenza rispetto all'orientamento tradizionale - considerando non solo lo specifico comportamento
dell'impiegato pubblico costituente abuso, ma il complesso dell'attività nella quale esso si riferisce. Allorché, infatti, il
comportamento si innesta nel meccanismo di una attività complessivamente, ed avuto riguardo alla sua finalità
terminale, non estranea rispetto agli interessi e alle esigenze pubblicistiche dell'amministrazione, quel collegamento non
può non essere ritenuto.
In tal senso va ravvisata la connessione con le finalità istituzionali della pubblica amministrazione, che può essere
anche anomala, in presenza di un'attività riconducibile a prassi di comportamenti distorte, ma pur sempre riconducibili
ad uno specifico interesse dell'amministrazione (Cass. 14.5.1997, n. 4232).
Una siffatta puntualizzazione è dato riscontrare anche in qualche decisione che sembrerebbe dare adesione alla
teoria tradizionale (Cass. 12960/91; cfr. anche Cass. 7631/86), laddove si precisa che per accertare il nesso tra il
comportamento del dipendente e le finalità, istituzionali proprie dell'ente per il quale egli opera deve aversi riguardo allo
scopo ultimo che il dipendente deve raggiungere, per cui "l'abuso di potere commesso nel corso delle operazioni
tendenti a quel fine non esclude il collegamento di necessaria occasionalità con le attribuzioni istituzionali del
dipendente quando, quale che sia il motivo che lo ha determinato, risulti strumentale rispetto alla attività d'ufficio o di
servizio">>.
(Cass. 12.8.2000, n. 10803: la Corte ha comunque ravvisato un vizio nella motivazione, annullando con rinvio).
Agente ed amministrazione sono obbligati in solido a risarcire il danno. Si
tratta di responsabilità concorrenti. Vi sono casi in cui la responsabilità del
dipendente è limitata alle ipotesi di dolo o colpa grave (t.u. impiegati civili dello
Stato) o non può essere fatta valere con azione diretta del danneggiato
28
Antonio Antonio Costanzo
(magistrati, insegnanti statali).
Cosa succede se il servizio pubblico viene affidato a soggetti estranei
all’organizzazione amministrativa? Permane una responsabilità diretta della
p.a.? Può configurarsi una responsabilità ex art. 2049 c.c., o una fondata sulla
colpa (ad. es., per omessa vigilanza o culpa in eligendo)?
Alcune indicazioni possono trarsi dai precedenti in tema di ingerenza o
direttive vincolanti del committente nell’appalto di opere pubbliche:
<<Anche nell'appalto di opere pubbliche trovano applicazione i principi generali
sulla responsabilità
dell'appaltatore, che vedono costui, di regola, unico responsabile dei danni cagionati a terzi nell'esecuzione dell'opera,
potendosi a questa aggiungere quella dell'amministrazione committente solo qualora il fatto dannoso sia stato posto
in essere in esecuzione del progetto o di direttive impartite dall'amministrazione, mentre una responsabilità esclusiva di
quest'ultima resta configurabile solo allorquando essa abbia rigidamente vincolato l'attività dell'appaltatore, così da
neutralizzare completamente la sua libertà di decisione>>
(Cass. 22.10.2002, n. 14905, CED RV 558016 ; conf. Cass. n. 8802/99, n. 11356/02);
e di rapporto di servizio che si instaura tra ente pubblico e soggetto privato
convenzionato:
<<L'affidamento, mediante convenzione, da parte di una Regione ad un soggetto privato (nella specie:
un'associazione) della gestione di corsi di formazione professionale, da esercitare nel rispetto dei vincoli e delle regole
che disciplinano lo svolgimento delle attività amministrative, e finanziati dalla pubblica amministrazione, instaura un
rapporto di servizio con detto soggetto, che ne comporta l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti in
materia di responsabilità per danno erariale, tutte le volte che l'affidamento non sia semplicemente diretto a procurare
un servizio alla pubblica amministrazione, ma costituisca il mezzo per il raggiungimento dei fini che ad essa sono
attribuiti dalla legge>>
(Cass. 10.10.2002, n. 14473, CED RV 557817; conf. Cass. SU 11309/95; v. Cass. SU n. 926/1999; Cass. SU n.
400/2000; Cass. SU n. 66/2001).
Né va sottovalutata la funzione di garanzia, in chiave solidaristica,
assegnata alla responsabilità dell’amministrazione.
4.3. Criteri di imputazione.L’evoluzione giurisprudenziale ha ridotto le aree di immunità di cui godeva
l’amministrazione pubblica.
La p.a. oggi può essere chiamata a rispondere in sede civile sia per fatto
colposo che in base agli altri criteri di imputazione previsti dagli artt. 2047 ss.
c.c..
In particolare, si è affermato che non vi sono ostacoli a configurare una
responsabilità della p.a. per attività pericolosa (cfr. Cass. 27.2.1984, n. 1393, FI,
1984, I, 1280; Trib. Napoli 14.4.1987, FI, 1988, I, 272; Pret. Genova, 28.6.1994,
AGCSS, 1994, 981; Cass. 1.4.1995, n. 3829, GI, 1996, I, 1, 222).
Trib. Ravenna, ord. 28.10.1999, (Danno resp., 2000, 1012) ha applicato
l’art. 2050 c.c. in un caso di contagio post-trasfusionale di Hiv da sangue infetto.
Trib. Roma 14.6.2001 (CorG, 2001, 1204; RCP, 2002, 835), ha ritenuto il
Ministero della Sanità, per le funzioni apicali ad esso attribuite a tutela del diritto
alla salute, responsabile dei danni da contagio causati dall’uso di sangue infetto
da parte dei privati, ravvisando una responsabilità ex art. 2043 c.c. (omesso
29
Antonio Antonio Costanzo
controllo o negligente vigilanza) e non ex art. 2050 c.c. (cfr. Trib. Roma
27.11.1998, FI, 1999, I, 313; v. anche App. Firenze, 7.6.2000, FI, 2001, I, 1722,
nel senso della responsabilità della USL).
Per Cass. 21.12.2001, n. 16179, nel caso di danni subiti dall’utente in
conseguenza dell’omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, il
referente normativo per l’inquadramento della responsabilità della p.a. è
costituito dall’art. 2043 c.c. - che impone, nell'osservanza della norma primaria
del neminem laedere, di far sì che la strada aperta al pubblico transito non
integri per l'utente una situazione di pericolo occulto - e non dall’art. 2051 c.c.,
che sancisce una presunzione inapplicabile nei confronti della p.a., con
riferimento ai beni demaniali, quando essi siano oggetto di un uso generale e
diretto da parte dei terzi (conf. Cass. 13.2.2002, n. 2067, FI, 2002, I, 1731) .
L’art. 2048 c.c. pone la prova liberatoria a carico dei precettori e maestri
chiamati a risarcire il danno cagionato dall’illecito dei loro allievi nel tempo in cui
essi sono sottoposti alla loro vigilanza. Se il fatto si è verificato nell’ambito di
una scuola pubblica, per vincere la presunzione di responsabilità operante a
carico della p.a. in virtù del rapporto organico con gli insegnanti occorre
dimostrare di avere esercitato la vigilanza nella misura dovuta, e ciò
presuppone anche l’adozione, in via preventiva, di misure organizzative e
disciplinari idonee ad evitare una situazione di pericolo, nonché la prova
dell’imprevedibilità e repentinità, in concreto, della condotta dannosa (così
Cass. 18.4.2001, n. 5668; conf. Cass. 7.11.2000, n. 14484).
4.4. La risarcibilità dell’interesse legittimo e la configurazione
dell’illecito della pubblica amministrazione.Bibliografia Castronovo 1998 - Caranta 1999 – Busnelli 2000 – Caranta 2001.
La notissima sentenza 22.7.1999, n. 500 (FI, 1999, I, 2487), resa dalla
Cassazione a Sezioni Unite in sede di regolamento di giurisdizione, ha
riesaminato il problema della configurabilità della responsabilità civile della p.a.
ex art. 2043 c.c. per i danni derivanti ai privati dall’emanazione di atti o
provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di interessi legittimi.
Dopo aver sottoposto a critica il tradizionale orientamento che negava la
risarcibilità degli interessi legittimi sulla base del concorso di due elementi, l’uno
processuale,
<<a) il peculiare assetto del sistema di riparto della giurisdizione nei confronti degli atti della P.A. tra
giudice ordinario e giudice amministrativo, incentrato sulla dicotomia diritto
soggettivo-interesse legittimo e
caratterizzato dall'attribuzione ai due giudici di diverse tecniche di tutela (il giudice amministrativo, che conosce degli
interessi legittimi, può soltanto annullare l'atto lesivo dell'interesse legittimo, ma non può pronunciare condanna al
risarcimento in relazione alle eventuali conseguenze patrimoniali dannose dell'esercizio illegittimo della funzione
pubblica, mentre il giudice ordinario, che pur dispone del potere di pronunciare sentenze di condanna al
risarcimento dei danni, non può conoscere degli interessi legittimi)>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2492)
30
Antonio Antonio Costanzo
e l’altro sostanziale,
<<b) la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., nel senso che costituisce "danno ingiusto" soltanto la
lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l'ingiustizia del danno, che l'art. 2043 c.c. assume quale componente
essenziale della fattispecie della responsabilità civile, va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure
e contra ius; non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato
dall'ordinamento giuridico; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta
e garantita dall'ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto (sent. n. 4058/69; n. 2135/72;
5813/85; n. 8496/94; n. 1540/95)>>>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2492)
e dopo aver ricordato che la questione esaminata non attiene alla giurisdizione
ma al merito, le Sezioni Unite offrono una lettura dell’ingiustizia del danno
diversa da quella tradizionale (danno ingiusto uguale lesione del diritto
soggettivo) ma da lungo tempo sostenuta dalla dottrina.
La sentenza è stata ampiamente commentata dai civilisti come dagli
studiosi del diritto pubblico.
Basterà qui ricordare che la Corte, raccogliendo le sollecitazioni derivanti
dalla dottrina, dall’influsso dell’ordinamento comunitario, dagli interventi del
legislatore nazionale sul piano sostanziale e processuale (ad es., il d. lgs. n.
80/98), dalla giurisprudenza costituzionale, prende le distanze dalla tradizionale
opinione secondo cui la responsabilità aquiliana si configura come sanzione di
un illecito e aderisce all’impostazione che vede nell’ingiustizia del danno una
clausola generale.
Nell’art. 2043 c.c., infatti,
<<risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia "ingiusto", mentre
la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della responsabilità.
L'area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con
conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli
di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù
della
quale è
risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi
nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse
rilevante per l'ordinamento (altra opinione ricollega l'ingiustizia del danno alla violazione del limite costituzionale di
solidarietà, desumibile dagli artt. 2 e 41, comma 2, Cost., in riferimento a preesistenti situazioni del soggetto
danneggiato giuridicamente rilevanti, e sotto tale ultimo profilo le tesi sostanzialmente convergono).
Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una
condotta vietata da altre norme (primarie),
bensì
norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del
danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui.
In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la
qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo
in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un
interesse giuridicamente rilevante>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2500).
Come identificare gli interessi meritevoli di tutela? Spetta all’interprete
operarne la selezione, sulla base del diritto positivo, operando la comparazione
e valutazione tra gli interessi in conflitto
<<e cioè dell'interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento
lesivo dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del soggetto
danneggiato
trovi
o
meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell'autore della
condotta, in ragione della sua prevalenza. Comparazione e valutazione che, è bene precisarlo, non sono rimesse alla
discrezionalità del giudice, ma che vanno condotte alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con
quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all' interesse del danneggiato, con disposizioni
specifiche (così risolvendo in radice il conflitto, come avviene nel caso di interesse protetto nella forma del diritto
soggettivo, soprattutto quando si tratta di diritti costituzionalmente garantiti o di diritti della personalità), ovvero
comunque lo prende in considerazione sotto altri profili (diversi dalla tutela risarcitoria), manifestando così
una esigenza di protezione (nel qual caso la composizione del conflitto con il contrapposto interesse è affidata
alla decisione del giudice, che dovrà stabilire se si è verificata una rottura del "giusto" equilibrio intersoggettivo,
e provvedere a ristabilirlo mediante il risarcimento)>>
31
Antonio Antonio Costanzo
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2500).
Nel caso di conflitto tra interesse del privato e interesse perseguito dalla
p.a., la soluzione non è datata dalla diversa qualità dei contrapposti interessi
<<poiché la prevalenza dell'interesse ultraindividuale, con correlativo sacrificio di quello individuale, può
verificarsi soltanto se l'azione amministrativa è conforme ai principi di legalità e di buona amministrazione, e non
anche quando è contraria a tali principi (ed é contrassegnata, oltre che da illegittimità, anche dal dolo o dalla colpa,
come più avanti si vedrà)>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2500).
La lesione dell’interesse legittimo, come di altro interesse giuridicamente
rilevante, può rientrare nella fattispecie di responsabilità ai fini della
qualificazione del danno come ingiusto. Ma non può parlarsi di risarcibilità degli
interessi legittimi come di una categoria generale. Il risarcimento sarà possibile
<<soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al
quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta
meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2501).
La lesione dell’interesse legittimo, dunque, è condizione necessaria ma non
sufficiente per attivare la tutela ex art. 2043 c.c.:
<<occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene
della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce
dell'ordinamento positivo>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2501).
Nel caso degli interessi legittimi oppositivi, volti alla conservazione della
sfera giuridica personale e patrimoniale del soggetto, il danno ingiusto potrà
ravvisarsi
<<nel sacrificio dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente
all'illegittimo
esercizio
del potere. Così confermando, nel risultato al quale si perviene, il precedente
orientamento, qualora il detto interesse sia tutelato nelle forme del diritto soggettivo, ma ampliandone la portata
nell'ipotesi in cui siffatta forma di tutela piena non sia ravvisabile e tuttavia l'interesse risulti giuridicamente rilevante
nei sensi suindicati>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2501).
Gli interessi legittimi pretensivi, lesi nel caso di illegittimo diniego del
provvedimento richiesto o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, richiedono
invece una indagine più approfondita, dovendo
<<vagliarsi la consistenza della protezione che l'ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera
giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa
di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera
aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento
circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata,
secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2501).
4.5. Comportamento illecito, atto illegittimo e colpa della pubblica
amministrazione.Bibliografia Cacace 2002.
Cosa deve fare il giudice di merito per stabilire se la p.a. è responsabile ex
art. 2043 c.c.?
32
Antonio Antonio Costanzo
Le Sezioni Unite illustrano i seguenti passaggi:
a) accertamento della sussistenza di un evento dannoso;
b) qualificazione del danno come ingiusto;
<< in relazione alla sua incidenza su
un interesse rilevante per l'ordinamento, che può essere
indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo), ovvero nelle forme
dell'interesse legittimo (quando, cioè, questo risulti funzionale alla protezione di un determinato bene della vita,
poiché è la lesione dell'interesse al bene che rileva ai fini in esame), o altro interesse (non elevato ad
oggetto di immediata tutela, ma) giuridicamente rilevante (in quanto preso in considerazione dall'ordinamento
a fini diversi da quelli risarcitori, e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto)>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2502).
c) accertamento del nesso causale tra evento dannoso e condotta (positiva
o omissiva) della p.a.;
d) imputazione dell’evento a dolo o colpa della p.a.
La Corte esclude la c.d. concezione obiettiva della colpa, affermando che
l’elemento soggettivo della fattispecie va provato e non può dirsi sussistente in
re ipsa:
<<la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della fattispecie della responsabilità
aquiliana ex art. 2043 c.c.; e non sarà invocabile, ai fini dell'accertamento della colpa, il principio secondo il quale la
colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo,
poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento all'ipotesi di attività illecita, per
lesione di un diritto
soggettivo,
secondo la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c. (sent. n. 884/61; n.
814/67; n. 16/78; n. 5361/84; n.3293/94; n.6542/95), non è conciliabile con la più ampia lettura della suindicata
disposizione, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2503; cfr. Cons. Stato sez. V, 18.11.2002, n. 6393, secondo cui non vi è
automatica equivalenza tra annullamento di un atto amministrativo e risarcimento del danno).
<<In tema di responsabilità civile della pubblica amministrazione per avere illegittimamente adottato ed eseguito
un provvedimento con sacrificio di una situazione di interesse protetto del privato, perché tale responsabile sussista è
necessario che la pubblica amministrazione abbia tenuto un comportamento doloso o colposo. Tuttavia, quando si sia
formato il giudicato sull’annullamento pronunziato dal giudice amministrativo, la sentenza del giudice ordinario che
dichiari equivalere la colpa all’illegittimità accertata non è affetta da vizio di violazione di norma di diritto, ma può
essere censurata per difetto di motivazione, se il giudice non abbia tenuto in considerazione circostanze, la cui
valutazione avrebbe potuto condurre ad escludere nel caso concreto l’esistenza della colpa>>
(Cass. 28.3.2000, n. 3726, CED RV 535110).
Le Sezioni Unite rifiutano l’equazione esecuzione di atto illegittimo uguale
illecito e richiedono al giudice di approfondire l’indagine sul piano sia della
illegittimità del provvedimento che della colpa della p.a. intesa come apparato:
<<l'imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obbiettivo della illegittimità dell'azione
amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo
accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche
alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma
della P.A. intesa come apparato (in tal senso, v. sent. n.5883/91) che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e
l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di
imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve
ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2503; per TAR Lazio 20.1.2003, n. 197, va esclusa la responsabilità
della p.a. quando l’illegittimità dell’atto emanato si fonda su una norma di difficile interpretazione, in merito alla quale
non si era formata giurisprudenza; cfr. Cons. Stato 15.2.2002, n. 952; sui comportamenti incolpevoli, v. Cons. Stato sez.
V, 18.10.2002, n. 5789).
Secondo la Corte, che si pronuncia obiter, il giudice ordinario non deve
attendere l’esaurimento del giudizio di annullamento da parte del giudice
amministrativo. In altri termini, va esclusa la c.d. pregiudiziale amministrativa:
<<Rispetto al giudizio che, nei termini suindicati, può svolgersi davanti al giudice ordinario, non sembra
ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento. Questa è stata infatti in passato costantemente
affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi
all'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., riservata ai soli diritti soggettivi, e non può quindi trovare
conferma alla stregua del nuovo orientamento, che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario riferimento
33
Antonio Antonio Costanzo
alla lesione di un diritto soggettivo. E l'autonomia tra le due giurisdizioni risulta ancor più netta ove
si consideri il diverso ambito dei giudizi, ed in particolare l'applicazione, da parte del giudice ordinario,
ai fini di cui all'art. 2043 c.c., di un criterio di imputazione
della
responsabilità
non correlato alla mera
illegittimità del provvedimento, bensì ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento della colpa,
dell'azione amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto.
Qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa (a differenza di quanto
è avvenuto nel procedimento
in esame) non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice
amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente
l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie
di cui all'art. 2043 c.c.>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2503).
La Cassazione è tornata a pronunciarsi in tal senso.
<<Il superamento dello schema della cd. "pregiudiziale amministrativa" anche in relazione alle controversie
governate dal regime del riparto della giurisdizione antecedente a quello "per materie" introdotto con il D.Lgs. 80/98,
comporta, in presenza di provvedimenti (dolosi o colposi) della P.A. portati alla cognizione dell’AGO siccome produttivi
di un danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ., il conseguente superamento di ogni profilo (e di ogni necessità) di
sospensione necessaria del giudizio civile risarcitorio in attesa della definizione del giudizio amministrativo - funzionale
all’accertamento dell’eventuale illegittimità dell’atto amministrativo -, ben potendo il giudice ordinario conoscere e
valutare autonomamente l’illegittimità dell’atto stesso senza attendere l’esito del giudizio amministrativo pendente>>
(Cass. 16.5.2002, n. 7193, CED RV 558140).
Il punto, peraltro, è controverso. Occorre ricordare che dopo la decisione
delle Sezioni Unite il legislatore ha ulteriormente ridotto l’ambito della
giurisidizione ordinaria nelle cause contro la p.a. e che in molte e assai rilevanti
materie sarà il giudice amministrativo, non soggetto al sindacato di legittimità
della Suprema Corte, a definire i contorni dell’illecito civile degli enti pubblici.
Secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 26.3.2003, n. 5 (e già
Cons. Stato, 15.2.2002, n. 952, e Cons Stato 18.6.2002, n. 3338), una volta
concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell’atto
illegittimo e quella della conseguente tutela risarcitoria, non è possibile un
accertamento incidentale, ai soli fini del giudizio risarctorio, da parte del giudice
amministrativo dell’illegittimità dell’atto non impugnato nei termini di decadenza;
l’azione risarcitoria
<<può essere proposta sia unitamente all’azione di annullamento che in via autonoma, ma […] è ammissibile solo
a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo
giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non
regolamentari>>
(Cons. Stato Ad. Plen. 26.3.2003, n. 5, Guida dir., 2003, n. 14, 100)
4.6. La giurisdizione
amministrazione.-
sulle
controversie
con
la
pubblica
Bibliografia Carrozza e Fracchia 2000 - Caranta 2001 - Parisio e Perini 2002.
La svolta giurisprudenziale sulla tutela aquiliana dell’interesse legittimo si
intreccia con gli interventi del legislatore sui criteri del riparto di giurisdizione,
non più fondato sulla distinzione diritto soggettivo – interesse legittimo.
La stessa sentenza 22.7.1999, n. 500 delle Sezioni Unite menziona il d.lgs.
31.3.1998, n. 80, fra gli elementi di novità che hanno condotto al mutamento di
indirizzo:
<<In tale quadro evolutivo si inserisce appunto, con indubbia forza innovativa, la disciplina introdotta dal
d.lgs. n. 80 del 1998, con il quale è stata data attuazione alla delega contenuta nell'art. 11, comma 4, lettera g),
34
Antonio Antonio Costanzo
della legge n. 59 del 1997, che aveva previsto la devoluzione al giudice ordinario di tutte le
controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti della P.A. (già attribuite alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo), e la contestuale estensione della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle concernenti
il risarcimento dei danni, in materia di edilizia, urbanistica e servizi pubblici.
L'art. 29 del d.lgs. n. 80 del 1998 (che ha sostituito l'art. 68 del d.lgs. n. 29 del 1993) ha invero devoluto al
giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, la quasi totalità delle controversie relative ai rapporti di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni (già riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo)
[…].
A loro volta gli artt. 33 e 34 hanno devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le
controversie in materia di pubblici servizi (art. 33), nonché quelle aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed
i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia (art. 34), mentre l'art. 35, comma
1, ha stabilito che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi
degli artt. 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del "danno
ingiusto" (secondo modalità disciplinate dal comma 2).
Risulta in tal modo compiuta dal legislatore una decisa scelta nel senso del superamento del tradizionale
sistema del riparto della giurisdizione in riferimento alla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo, a favore
della previsione di un riparto affidato al criterio della materia>>
(Cass. SU 22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2498).
Nel 2000, subito dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art.
33, d.lgs. 31.8.1998, n. 80, per eccesso di delega (Corte cost., 11-17.7.2000, n.
292, FI, 2000, I, 2393), il legislatore è tornato sul tema con la l. 21.7.2000, n.
205, in materia di giustizia amministrativa.
Nel testo novellato dall’art. 7 della l. n. 205/00, gli artt. 33-34, d.lgs. n.
80/98, assegnano le controversie in materia di pubblici servizi (art. 33) e di
urbanistica ed edilizia (art. 34) alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo; l’art. 35, 1° co., stabilisce poi che il giudice amministrativo
<<nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva>>, ossia in tutte le
ipotesi di giurisdizione esclusiva anche diverse da quelle previste dagli artt. 33 e
34 (diverso era il testo originario dell’articolo), <<dispone, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto>> (art. 35,
1° co.).
L’art. 34, 2° co., d.lgs n. 80/98 indica in via esemplificativa quali sono le
controversie in materia di pubblici servizi. Fra esse rientrano anche quelle
<<riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di
pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e della pubblica istruzione, con
esclusione dei rapporti individuali di utenza con soggetti privati, delle controversie meramente risarcitorie che riguardano
il danno alla persona o a cose e delle controversie in materia di invalidità>> (art. 33, 2° co., lett.e, d.lgs. 31.3.1998, n.
80).
Dunque, le cause civili promosse dai privati (utenti dei servizi o meno) per il
risarcimento del danno alla persona conseguente o comunque collegato
all’espletamento di pubblici servizi restano al giudice ordinario.
L’art. 7 della l. n. 205/00 ha anche sostituito il primo periodo dell’art. 7, 3°
co., della l. 6.12.1971, n. 1034, istituzione dei T.A.R., che nel testo vigente così
recita: <<Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua
giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale
risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e
gli altri diritti patrimoniali consequenziali. […]>> (diversa, e più ristretta, la
portata del testo introdotto con l’originaria versione dell’art. 33, 4° co., d.lgs. n.
80/98, relativo alla sola giurisdizione esclusiva).
35
Antonio Antonio Costanzo
Tale norma riguarda la giurisdizione generale di legittimità, e non
solo quella esclusiva, del giudice amministrativo.
Le disposizioni ora brevemente richiamate hanno dato luogo a diverse
intepretazioni per ciò che riguarda la competenza giurisdizionale sulle domande
risarcitorie per lesione di interessi legittimi.
L’opinione prevalente ritiene che essa rientri nella giurisdizione generale
del giudice amministrativo.
In tal senso si veda anche Cass. 10.1.2003, n. 157 (FI, 2003, I, 78). La
Corte, messo a confronto l’originaria formulazione dell’art. 35, d.lgs. n. 80/98
con l’art. 7, l. n. 205/00, afferma che l’attuale testo dell’art. 7, 3° co., l.
6.12.1971, ha esteso la cognizione del giudice amministrativo alle questioni
risarcitorie e ciò nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità.
Da ultimo, Cons. Stato, Ad. Plen., 26.3.2002, n. 4 (Guida dir., 2003, n. 14,
94) richiamando i precedenti della quarta (n. 952/02) e sesta sezione (n.
3338/02), ha ribadito che con la riforma culminata nella l. n. 205/00, ha inteso
attribuire in via generale al giudice amministrativo la cognizione del risarcimento
del danno, senza distinzione tra giurisdizione generale di legittimità e
giurisdizione esclusiva.
4.7. Un’applicazione del nuovo schema di illecito della p.a.
Bibliografia Molaschi 2002.
Le linee interpretative elaborate da Cass. S.U. 22.7.1999, n. 500, si
ritrovano in una recente sentenza in tema di illecito dell’Università per tardivo
riconoscimento di un corretto voto di laurea.
A. frequenta la facoltà di lettere e filosofia con profitto: ormai prossima alla
laurea, con un punteggio medio curriculare di 109,5 su 110, dopo aver ottenuto
l’assegnazione della tesi interrompe gli studi per ragioni di famiglia (il
matrimonio, due gravidanze). Ultimata la ricerca a fine ottobre 1994, il 21
febbraio 1995 si tiene la discussione della tesi, nel corso della quale vengono
contestati alla laureanda errori di battitura e di merito: il punteggio finale è di
90/110, inferiore di venti punti alla media curriculare. Trascorsi quattro anni, il
T.A.R. annulla il provvedimento. In esecuzione della sentenza, viene
nuovamente convocata la commissione di laurea che il 27 ottobre 1999, senza
discutere la tesi, attribuisce il punteggio di 91/110. Il TAR concede la
sospensiva del nuovo provvedimento <<ai fini del riesame della posizione della
ricorrente>>.
A. si rivolge al giudice civile e chiede la condanna dell’Università
all’integrale risarcimento dei danni, patrimoniali e non, con particolare
36
Antonio Antonio Costanzo
riferimento alla perdita di chance (non avendo essa potuto partecipare
a concorsi pubblici con serie possibilità di successo) e del danno morale da
dolosa e intempestiva esecuzione della sentenza di annullamento emessa dal
TAR. Secondo l’attrice, l’aver attribuito in sede di laurea un punteggio inferiore a
quello di presentazione, pari alla media degli esami di profitto, costituisce illecito
aquiliano dell’Università.
Il Tribunale si interroga sulla consistenza e la meritevolezza dell’interesse
vantato dall’attrice, ragionando, in buona sostanza, in termini di affidamento
tradito:
<<In primo luogo, prima di valutare i singoli elementi costitutivi dell’illecito, occorre giuridicamente qualificare
l’interesse sotteso alla fattispecie concreta, al fine di determinarne la possibile rilevanza alla stregua dell’ordinamento
giuridico
Si deve, al riguardo, considerare che la fattispecie in esame è stata oggetto di due pronunce del giudice della
legittimità dell’atto (una sentenza definitiva ed un’ordinanza sospensiva), mentre il merito del secondo ricorso è ancora
al vaglio del T.A.R. Emilia-Romagna. In particolare, la sentenza 212/99 (doc. n. 6 di parte attrice), pur non qualificando
in termini di interesse legittimo o di diritto soggettivo l’aspettativa del laureando «a vedersi attribuito il voto di laurea
tenendo conto della media dei voti riportati nei singoli esami del corso», pone a fondamento della propria decisione
l’esistenza di una prassi in tal senso. Il T.A.R., pertanto, ha ritenuto fondato il primo motivo di ricorso per difetto di
idonea e logica motivazione del provvedimento di attribuzione di un voto di laurea così difforme dal curriculum
studiorum.
Il T.A.R., inoltre, ha ritenuto fondata la censura anche con riferimento al secondo motivo del ricorso, per difetto di
motivazione sulle ragioni di necessità che avrebbero giustificato una composizione ridotta della commissione, come
richiesto dal regolamento studentesco.
La stessa decisione è stata adottata anche nell’ordinanza 77/2000 del medesimo T.A.R., la cui motivazione,
coerente e pienamente condivisa, qui di seguito si riporta: “ritenuto che la nuova deliberazione non supera gli evidenti
difetti di logicità e ragionevolezza accertati con la sentenza 212/99 della Sezione, non senza rilevare che la
Commissione ha tardivamente dato esecuzione alla stessa, così contravvenendo il principio comune dell’immediata e
tempestiva esecuzione del provvedimento del Giudice; ritenuto altresì che persiste il difetto di motivazione in ordine alla
ricorrenza delle condizioni legittimanti la composizione ridotta della Commissione di laurea; che d’altra parte è manifesto
ed irreparabile il danno sopportato dalla ricorrente in così lungo periodo di tempo...”>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
Il Tribunale propende in ogni caso per una qualificazione del fatto come
illecito aquiliano e afferma che la legittima aspettativa ad ottenere un voto di
laurea coerente con la media degli esami di profitto costituisce un bene della
vita meritevole di protezione:
<<Ritiene questo giudice, quanto alla “legittima aspettativa” cui si è fatto riferimento, che l’attribuzione di un
punteggio di laurea conforme alla media degli esami di profitto, sia da qualificare quale interesse al bene della vita
giuridicamente rilevante.
Ciò ovviamente non toglie che il punteggio assegnato all’esito della discussione di laurea possa discostarsi
motivatamente dalla media degli esami di profitto. Tuttavia, la riduzione di 20 punti, operata nel caso di specie in
assenza di qualsivoglia motivazione sul punto, costituisce un evento piuttosto eccezionale se non, come si legge nella
citata sentenza del T.A.R., addirittura “abnorme”.
La meritevolezza di tale interesse pretensivo è, inoltre, indirettamente riconosciuta dalla stessa convenuta: infatti,
la lettera inviata dal Rettore dell’Università al professor G. nell’ambito della vicenda in esame (doc. n. 2 prodotto in atti
dall’Università di Bologna) testualmente riconosce quale fatto notorio “che la votazione finale dell’esame di laurea debba
avere come punto di partenza la media dei voti riportati durante l’intero corso di studi”.
Il teste professor M., presente alla discussione di laurea, ha anche riferito di non avere mai assistito, durante la sua
carriera nell’ateneo bolognese, “a diminuzioni di voto rispetto al punteggio curriculare”. Inoltre, pur avendo riscontrato
nell’elaborato «la presenza di gravissimi errori storici», non era stato d’accordo “sulla riduzione di venti punti in relazione
anche ai criteri di valutazione adottati dalla… Facoltà”, tanto che insieme al collega professor S., considerando di
primaria importanza l’itinerario quadriennale (si veda sul punto il verbale della seconda seduta del 27 ottobre 1999 di cui
al doc. n. 7 di parte attrice), aveva espresso il voto finale di 105/110.
Qualificata l’ingiustizia del danno ex articolo 2043 del c.c., quale lesione dell’interesse meritevole di tutela nei
termini sopra precisati, occorre passare a considerare la condotta tenuta dall’Università di Bologna nella sessione di
laurea sfociata nel giudizio di 90/110, ai fini della valutazione della sua possibile illiceità>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
Il Tribunale enuncia con chiarezza che per affermare la responsabilità della
p.a. non è sufficiente dedurre l’illegittimità del provvedimento amministrativo
(cfr. Cass. n. 11955/2001 in tema di ritardo nell’ammissione di un dipendente
37
Antonio Antonio Costanzo
postale alle prove orali di un concorso interno per l’inquadramento in
una qualifica superiore):
<<Preliminarmente occorre dare atto che, ai fini dell’invocata tutela risarcitoria ex articolo 2043 del c.c.,
l’illegittimità del provvedimento amministrativo così come accertata dalle pronunce del giudice amministrativo sopra
richiamate, costituisce condizione necessaria ma non sufficiente per l’adozione di una statuizione di condanna,
occorrendo, stante l’autonomia concettuale della domanda ex articolo 2043 c.c., un accertamento della contrarietà della
condotta posta in essere dalla pubblica amministrazione alle regole di correttezza e buona fede>>
(Trib. Bologna 20.1.2003)
Illecito è il comportamento della p.a. contrario alle regole di buona
amministrazione, e a tal fine il Tribunale valorizza una serie di elementi di fatto
acquisiti al processo (la contraddittoria condotta del relatore, che dopo aver
dato il nulla osta alla presentazione della tesi ne aveva poi affermata
l’impresentabilità; le insistenze della correlatrice a che la discussione della tesi
non fosse rinviata ad un’altra sessione per correggere gli errori e ovviare alle
lacune; l’irregolare composizione della seconda commissione di laurea, formata
non da undici - come vuole la regola, derogabile solo in caso di necessità - ma
da sette membri, sei dei quali avevano partecipato alla prima discussione),
aggiungendo che solo dopo la sospensiva del TAR (e l’instaurazione della
causa civile) una terza commissione, nella seduta del 27 aprile 2000, aveva
assegnato alla laureanda il punteggio di 105/110:
<<[…] un ulteriore indice di illiceità della procedura adottata dall’università è individuabile nel voto di laurea di
105/110, assegnato all’esito dell’accoglimento della sospensiva di cui all’ordinanza 77/2000.
Infatti, la valutazione dell’elaborato di ben 15 punti superiore rispetto alla prima inizialmente assegnata e di 14
rispetto alla seconda, espressa da una commissione rinnovata nella sua composizione, ed a seguito della discussione
con la candidata, risulta quanto meno contraddittoria rispetto al giudizio inizialmente espresso nei confronti di parte
attrice.
La presenza di tali plurimi, univoci e convergenti indizi, prova il comportamento tenuto dall’Università degli Studi di
Bologna nei confronti di A.. Infatti nella pluralità degli elementi indiziari sopra evidenziati è possibile ravvisare quella
contrarietà alle regole di imparzialità, correttezza e buona fede al cui rispetto è tenuta anche la pubblica
amministrazione nell’esercizio del potere amministrativo.
La colpevolezza e riferibilità del fatto all’Università di Bologna è stata, oltretutto, provata anche attraverso la
deposizione dei testi professor S. e professor M., docenti universitari presso la facoltà di lettere e filosofia e membri
delle prime due commissioni esaminatrici, i quali avevano fatto presente l’eccessiva diminuzione di voto rispetto alla
qualità complessiva dell’elaborato ed alla media curriculare della candidata.
La colpevolezza è ulteriormente ravvisabile nel contegno serbato dalla convenuta anche a seguito della prima
pronuncia del T.A.R., se si pone mente alla circostanza che in tale occasione l’università ha ritenuto di non procedere ad
una nuova discussione della tesi, ma unicamente alla revisione del precedente punteggio attraverso il vaglio della
precedente commissione, ad eccezione del membro con funzioni di presidente>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
Quali i danni risarcibili?
<<A. ha chiesto la condanna dell’Università degli Studi di Bologna al risarcimento del danno derivato dalla perdita
della capacità di concorrenza, sia dal ritardo nella esecuzione e/o mancata/inesatta esecuzione della sentenza del
T.A.R. dell’Emilia Romagna 212/99, sia dalla lesione dell’onore, dell’immagine e alla vita di relazione, in sintesi, dal
pregiudizio di carattere esistenziale, qualificando specificamente i fatti ritenuti dannosi prospettati sin dall’atto di
citazione>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
Vi è innanzitutto una posta di carattere patrimoniale, correlata alla perdita di
occasioni di impiego: A. ha dovuto attendere oltre cinque anni per presentarsi
sul mercato del lavoro intellettuale esibendo un apprezzabile titolo. Il Tribunale
rapporta il pregiudizio alla mancata partecipazione al concorso per
l’insegnamento:
<<Con riferimento al danno da perdita della capacità di concorrenza, deve osservarsi che il relativo onere
38
Antonio Antonio Costanzo
probatorio imposto a parte attrice deve essere valutato in termini piuttosto elastici, in relazione alla
particolarità della fattispecie ove deve vagliarsi, in astratto, la riduzione della possibilità di successo con
riferimento alla partecipazione a pubblici concorsi.
Ciò premesso, non v’è dubbio che il susseguirsi dei processi amministrativi, il tempo inutilmente trascorso tra la
prima sentenza del T.A.R. e la convocazione della seconda commissione di laurea, l’incertezza, perdurata per circa
cinque anni, sulla validità del titolo di studio e sul punteggio offerto, abbiano grandemente diminuito le possibilità
lavorative dell’attrice.
Deve tenersi conto che l’insegnamento è il quasi necessitato sbocco della laurea in lettere e filosofia. E non v’è
chi non veda l’effetto disincentivante rappresentato dall’handicap di partenza di un punteggio di soli tre punti,
considerato l’esiguo numero dei posti banditi e la moltitudine dei concorrenti che notoriamente affollano questo tipo di
concorso.
Se poi si pone mente all’influenza negativa sull’autostima e sulla serenità d’animo di chi partecipa ad un
concorso, esercitata dalla campagna di stampa (di cui si parlerà più diffusamente a proposito dell’altra voce di danno) e
dalle conseguenti umiliazioni, non può non riconoscersi una stretta relazione di causalità tra il danno lamentato da parte
attrice per perdita della capacità di concorrenza ed il comportamento della convenuta che ha violato, per usare le parole
dell’ordinanza n. 110/2000, il «principio comune dell’immediata e tempestiva esecuzione dei provvedimenti del giudice».
È notorio, infatti, che il voto di laurea costituisce fattore determinante nella selezione tra gli aspiranti tanto ad un pubblico
impiego quanto ad un impiego privato e, nel caso di specie, la danneggiata ha dovuto attendere circa cinque anni per
vedersi attribuire un punteggio conforme alla media curriculare nonché maggiormente competitivo nel mondo del lavoro.
Il voto di laurea, infatti, costituisce l’antecedente logico, in termini di probabilità, del vantaggio economico finale
rappresentato dall’insegnamento, in relazione all’affidamento, già ingenerato sulla base della media curriculare, di poter
intraprendere quel tipo di percorso professionale.
Parte attrice ha, pertanto, assolto l’onere probatorio attraverso la dimostrazione, in via presuntiva, delle
circostanze di fatto attestanti il nesso causale tra il punteggio di laurea e la mancata partecipazione al concorso per
l’insegnamento.
La domanda è, dunque, fondata e meritevole di accoglimento>>.
(Trib. Bologna 20.1.2003)
e ritiene ininfluente la pendenza del secondo giudizio davanti al TAR:
<<L’eccezione preliminare di merito sollevata dall’amministrazione convenuta per asserita intempestività della
domanda risarcitoria di cui si discute, non appare, invece, fondata.
Deve, al riguardo, osservarsi che l’atto di citazione è stato notificato alla convenuta in data 27 gennaio 2000; che
la seduta di laurea disposta a seguito della sentenza del T.A.R. 212/99 (notificata il 9 giugno 1999) si è tenuta in data 27
ottobre 1999; che il voto di 105/110, a seguito della sospensiva 110/00 del 2 febbraio 2000, è stato assegnato il 27
aprile
2000,
a
distanza
di
cinque
anni
dalla
prima
sessione
del
21
febbraio
95.
In ogni caso, ritiene questo giudice, che il giudizio del T.A.R. sul ricorso 77/2000, anche alla luce del precedente giudizio
di merito, possa difficilmente disattendere la decisione già espressa in sede cautelare. Tale convinzione si basa sulla
motivazione espressa al riguardo nell’ordinanza 110/00 che di seguito si riporta: “ritenuto che la nuova deliberazione
non supera gli evidenti difetti di logicità e ragionevolezza accertati con la sentenza 212/99 della Sezione, non senza
rilevare che la Commissione ha tardivamente dato esecuzione alla stessa, così contravvenendo il principio comune
dell’immediata e tempestiva esecuzione dei provvedimenti del Giudice; ritenuto, altresì, che persiste il difetto di
motivazione in ordine alla ricorrenza delle condizioni legittimanti la composizione ridotta della Commissione di Laurea;
che, d’altra parte, è manifesto ed irreparabile il danno sopportato dalla ricorrente in così lungo periodo di tempo...”>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
Il danno da perdita di chance viene liquidato in via equitativa:
<<La liquidazione del danno da perdita di chance va operata equitativamente ex articolo 1226 del c.c., essendo
certa la verificazione del danno e non essendo possibile provarne il preciso ammontare.
Occorre considerare che parte attrice ha documentato (doc. dal 22 al 25) lo svolgimento di prestazioni d’opera
con la società P. s.r.l. con i relativi compensi percepiti fino all’aprile del 1999, ed ha in tal modo anche dimostrato che il
lamentato danno alla capacità di concorrenza non ha totalmente pregiudicato occasioni di lavoro alternative
all’insegnamento.
Tenuto conto della retribuzione annuale media che può conseguire un insegnante non di ruolo, del ritardo con cui
l’attrice ha avuto la possibilità di intraprendere la carriera dell’insegnamento e dello svolgimento, in tale lasso di tempo,
di altre attività lavorative, si stima equo liquidare per tale voce di danno la somma di lire 30.000.000, con riferimento al
valore della moneta all’epoca dei fatti>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
Vi è inoltre un apprezzabile danno areddituale:
<<L’attrice ha chiesto anche la condanna della convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale per lesione
del diritto all’immagine ed all’onore, (prospettato, come specie di danno esistenziale, lamentando l’indesiderata notorietà
per il risalto dato alla vicenda dagli organi di stampa) nella citazione e nella memoria autorizzata, nonché la condanna,
ex articolo 2059 c.c., del danno morale per omessa tempestiva esecuzione della sentenza del T.A.R. 212/99.
(Trib. Bologna 20.1.2003).
La <<singolare quanto inspiegabile>> vicenda, nel corso di quei lunghi
cinque anni, ha avuto pesanti ripercussioni sulla vita personale e familiare di A.,
frustrata nella sua aspettativa di concludere gli studi dignitosamente, come
39
Antonio Antonio Costanzo
meritava per l’impegno e gli sforzi profusi, ed esposta ad una
indesiderata e fastidiosa attenzione da parte di terzi:
<<Con riferimento alla prima voce di danno, deve osservarsi che, attraverso le risultanze probatorie acquisite nel
corso del giudizio, è stata provata sia il risalto dato alla vicenda dagli organi di stampa sia l’umiliazione personale subita
dall’attrice che, sino alla discussione di laurea, aveva potuto vantare di un curriculum brillante.
In particolare i testimoni X e Y, rispettivamente madre e fratello dell’attrice, hanno riferito delle illazioni, avanzate
anche da amici e conoscenti, che legavano l’accaduto altrimenti incomprensibile, ad eventuali avances dei docenti nei
confronti dell’attrice. Il teste, dottor Y, inoltre, ha anche riferito di telefonate anonime, presso la sua abitazione e quella
della sua famiglia, nonché presso l’abitazione della sorella, ugualmente allusive.
Sono stati versati in atti (doc. dal 14 al 20 di parte attrice) gli articoli apparsi sulla stampa locale (Il Resto del
Carlino) e nazionale (La Repubblica) a conferma del clamore e dell’interesse del pubblico nei riguardi di un episodio
tanto singolare quanto inspiegabile.
Tale materiale probatorio, che si inserisce all’interno della complessa vicenda giudiziaria tra A. e l’Università di
Bologna, fornisce la prova della riferibilità all’amministrazione convenuta dell’azionata lesione dell’onore o del decoro.
Deve pertanto accogliersi la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, ex articolo 2059 c.c., inteso come
turbamento dello stato d’animo in conseguenza dell’offesa subita.
Tale voce di danno, attesa la peculiare natura, sfugge ad una precisa valutazione economica ed il suo
risarcimento mira a soddisfare l’esigenza di assicurare al danneggiato un’utilità sostitutiva che lo compensi, per quanto è
possibile, delle sofferenze morali e psichiche.
In relazione alla gravità del fatto illecito, alle modalità, alla durata ed alle conseguenze dello stesso, nonché
all’entità del patema d’animo, questo giudice stima equo liquidare, con riferimento al valore della moneta all’epoca dei
fatti, in Lire 15.000.000 tale voce di danno>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
Il Tribunale esclude invece che l’inottemperanza dell’Università al
provvedimento giurisdizionale di annullamento, vissuta dalla protagonista come
una beffa, possa giustificare il riconoscimento di una ulteriore, autonoma voce
di danno:
<<Con riferimento al danno morale per omessa e ritardata esecuzione della sentenza del T.A.R. 212/99, deve
osservarsi che non è stata raggiunta la prova dell’elemento soggettivo richiesto per la configurazione dell’illecito penale,
asseritamente ricondotto all’interno della fattispecie legale di cui all’articolo 328 del c.p. e, di conseguenza, non può
riconoscersi in capo a parte attrice il diritto al risarcimento del danno morale ex articolo 2059 c.c.
In conclusione i danni riconosciuti e liquidati ammontano complessivamente a lire 45.000.000.
La somma così riconosciuta, con la rivalutazione monetaria e gli interessi dalla data del fatto illecito 21 febbraio
1995 sino a quella della presente decisione, aumenta a lire 81.633.496, pari ad euro 42.160,18>>
(Trib. Bologna 20.1.2003).
5. Alterazioni dell’ambiente, tutela della salute e della vita familiare.
E’ ammissibile la tutela civile dei privati nei confronti della pubblica
amministrazione a fronte di fatti di alterazione dell’ambiente? o di
comportamenti omissivi dei pubblici poteri?
La compromissione dell’ambiente lede sia un interesse collettivo o pubblico
(art. 18, l. 8 luglio 1986, n. 349) che interessi privati ma a dimensione
superindividuale, poiché colpisce, allo stesso modo, una pluralità di soggetti
posti sul territorio.
Qual è il fondamento normativo, la situazione giuridica idonea a sostenere
una domanda giudiziale, e quali i rimedi esperibili? Hanno rilevanza le relazioni
familiari, la salute o la serenità del nucleo familiare? Che natura ha il danno
risarcibile?
5.1. L’informazione sui rischi.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza 19 febbraio 1998 (FI,
1999, IV, 281), si è pronunciata sul ricorso di quaranta cittadini italiani, tutti
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Antonio Antonio Costanzo
residenti nel comune di Manfredonia a circa un chilometro dallo
stabilimento dell’industria chimica Enichem agricoltura. Secondo la Corte, la
mancata adozione da parte dello Stato italiano di misure di informazione sui
rischi potenziali e i comportamenti da adottare in caso di incidente grave previsti
dalla c.d. direttiva Seveso 82/501/Cee (recepita con d.p.r. 17 maggio 1988 n.
175) comporta violazione dell’art. 8, Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, che garantisce il diritto di ogni persona al
rispetto della sua vita privata e familiare.
In punto di fatti la Corte ha ravvisato l’incidenza diretta delle emissioni
nocive sul diritto degli attori al rispetto della loro vita privata e familiare,
osservando che l’art. 8 della Convenzione ha sì essenzialmente lo scopo di
garantire l’individuo contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, ma non si
limita ad imporre allo Stato di astenersi da tali ingerenze: all’obbligazione
negativa possono aggiungersi obbligazioni di fare, inerenti al rispetto effettivo
della vita privata o familiare.
Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali non
avessero adottato le misure necessarie per assicurare la protezione effettiva del
diritto garantito dall’art. 8, Convenzione (sentenza Lopez Ostra c. Spagna
9.12.1994, serie A n. 303-C):
<<La corte ricorda che gravi minacce all’ambiente possono coinvolgere il benessere delle persone e privarle del
godimento del proprio domicilio in modo da nuocere alla loro vita privata e familiare (v., mutatis mutandis, la sentenza
Lopez Ostra succitata, pag. 54, § 51). Nella fattispecie, gli attori sono rimasti, fino alla sospensione della produzione dei
fertilizzanti, nel 1994, in attesa di informazioni essenziali che avrebbero consentito loro di valutare i rischi potenziali, per
sé e per i propri familiari, della permanenza sul territorio di Manfredonia, un comune tanto esposto al pericolo in caso di
incidente nell’ambito della fabbrica.
La corte constata dunque che lo Stato convenuto ha mancato alla sua obbligazione a garantire il diritto degli attori
al rispetto della loro vita privata e familiare, a dispetto di quanto previsto dall’art. 8 della convenzione>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 19 febbraio 1998, FI, 1999, IV, 293).
La Corte ha così condannato lo Stato italiano a pagare a ciascuno dei
ricorrenti la somma di lire 10.000.000 a titolo di risarcimento del <<danno
morale>>:
<<Gli interessati sollecitano la riparazione di un danno “biologico”, per il quale reclamano la somma di venti
miliardi.
Secondo il governo, gli attori non hanno dimostrato di aver subito un danno, né l’hanno descritto in dettaglio. Nel
caso in cui la corte ritenesse l’esistenza di un danno morale, la constatata violazione fornirebbe, all’occorrenza, un
risarcimento sufficiente.
Il delegato della commissione invita la corte ad accordare agli interessati una compensazione adeguata e
proporzionata al danno considerevole che hanno subìto. Si propone la somma di cento milioni di lire italiane per ogni
attore.
La corte considera che gli interessati non hanno dimostrato l’esistenza di un danno materiale derivante dalla
mancanza di informazioni di cui si lagnano. Per il resto, la corte stima che gli attori abbiano subito un torto morale certo
e decide che a ciascuno di loro vada la somma di dieci milioni di lire italiane>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 19 febbraio 1998, FI, 1999, IV, 294);
ha invece respinto la richiesta di provvedimento volto ad obbligare lo Stato
convenuto a procedere al risanamento della zona industriale e ad effettuare uno
studio epidemiologico sul territorio e le popolazioni interessate, in quanto
<<spetta allo Stato scegliere i mezzi da utilizzare nel suo ordinamento giuridico per conformarsi alle disposizioni
della convenzione o correggere una situazione che abbia comportato una violazione>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 19 febbraio 1998, FI, 1999, IV, 294).
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Antonio Antonio Costanzo
5.2. Evento catastrofico e danno non patrimoniale (il caso
Seveso).
In caso di compromissione ambientale a seguito di disastro colposo (art.
449 c.p.), le persone che lavorano o abitano in quell’ambiente, se provano in
concreto di aver subito un turbamento psichico (sofferenze o patemi d’animo) di
natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti e delle
conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, possono
ottenere il risarcimento del danno, qualificato come danno morale soggettivo,
anche se manca la lesione dell’integrità psico-fisica (danno biologico) o altro
evento produttivo di danno patrimoniale: questo perché si tratta di reato
plurioffensivo che, oltre all’offesa all’ambiente e alla pubblica incolumità,
comporta anche l’offesa ai singoli, pregiudicati nella loro sfera individuale.
Così Cass. S.U., 21 febbraio 2002, n. 2515 (FI, 2002, I, 999) a proposito
dei danni provocati dalla fuoriuscita della nube tossica di Seveso nel 1976.
In parziale riforma della decisione di primo grado, la Corte d’appello, dopo
aver escluso (per carenza di prova sul nesso causale) il danno biologico e
quello patrimoniale, aveva riconosciuto all’attore il risarcimento del danno
morale, ravvisabile nel perturbamento psichico conseguente ai numerosi e
documentati accertamenti sanitari cui l’attore aveva dovuto sottoporsi. La Corte
d’appello aveva pertanto condannato la società Icmesa s.p.a. in liquidazione a
pagare la somma di lire 4.000.000 (in primo grado, per quella stessa voce di
danno era stata liquidata la somma di lire 20.000.000).
La società ricorre in cassazione, invocando a suo favore alcuni precedenti
di legittimità.
In effetti, nel 1997 la terza sezione della Suprema Corte, pronunciandosi su
ricorsi analoghi, aveva negato l’autonoma risarcibilità del danno morale in
assenza di danno biologico o patrimoniale affermando, sulla scorta di Corte
cost. n. 184/86 e n. 37/94, che il danno morale soggettivo, inteso quale
transeunte turbamento psicologico - alla pari del danno patrimoniale in senso
stretto - è un danno-conseguenza, risarcibile solo se derivante dalla
menomazione dell’integrità psico-fisica della persona o da evento produttivo di
danno patrimoniale (Cass. 24.5.1997, n. 4631, FI, 1997, I, 2068, e Cass.
20.6.1997, n. 5530). In altri termini, secondo la Cassazione il solo fatto di
essere stati costretti a sottoporsi a periodici controlli sanitari a seguito
dell’esposizione a quantità imprecisate di diossina, con conseguente limitazione
della propria libertà di azione e di vita, non legittimava i residenti di quella zona
a chiedere in via autonoma il risarcimento del danno morale da turbamento
psichico.
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Antonio Antonio Costanzo
Nel 2000 la terza sezione rimedita la questione e chiede
l’intervento delle Sezioni Unite.
La decisione del 21 febbraio 2002 muta decisamente rotta. Osservano le
Sezioni Unite che le critiche alle precedenti decisioni erano fondate e che, a
ben vedere, Corte cost. n. 372/94 aveva affermato l’autonoma risarcibilità del
danno alla salute e del danno morale. L’art. 2059 c.c. presuppone solo la
configurabilità di un fatto-reato rinviando all’art. 185 c.p. il quale, a sua volta,
rimanda alle singole fattispecie delittuose e non chiede altro rispetto al
turbamento psichico della vittima, tantomeno la presenza di un distinto evento
di danno. Per risolvere la questione, decisiva è la natura del reato ex art. 449
c.c.: si tratta infatti di
<<delitto colposo di pericolo presunto (nel senso che il pericolo è implicito nella condotta e nessuna ulteriore
dimostrazione deve essere fornita circa l’insorgenza effettiva del rischio per la pubblica incolumità) ma, soprattutto,
delitto plurioffensivo, in quanto con l’offesa al bene pubblico immateriale ed unitario dell’ambiente (Corte Cost. 30
dicembre 1987 n. 641), di cui è titolare l’intera collettività, concorre sempre l’offesa per quei soggetti singoli i quali, per la
loro relazione con un determinato habitat (nel senso che ivi risiedono e/o svolgono attività lavorativa), patiscono un
pericolo astratto di attentato alla loro sfera individuale.
Ne consegue che essendo pacifica la risarcibilità del danno morale nel caso di reati di pericolo o plurioffensivi,
non sussiste alcuna ragione, logica e/o giuridica, per negare tale risarcibilità ove il soggetto offeso, pur in assenza di
una lesione alla salute, provi di avere subito un turbamento psichico (che si pone anch’esso come danno-evento, alla
pari dell’eventuale danno biologico o patrimoniale, nella specie non ravvisati).
Conclusione, questa, in sintonia con la più recente giurisprudenza di questa Corte in materia risarcitoria; al
riguardo, è sufficiente il richiamo alle sentenze 27 luglio 2001 n. 10291, che ammette incondizionatamente il
risarcimento del danno morale per i prossimi congiunti dell’offeso da lesioni colpose e 7 giugno 2000 n. 7713, secondo
cui la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in se della lesione
(danno-evento), indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (dannoconseguenza)>>
(Cass. SU 21.2.2002, n. 2515, FI, 2002, 1006).
Significativo è il richiamo ai precedenti in tema di tutela aquiliana di
situazioni attinenti ai rapporti familiari.
Le Sezioni Unite dichiarano di accogliere una nozione ristretta di danno non
patrimoniale (danno morale soggettivo) ma al tempo stesso ritengono corretta
la motivazione del giudice di merito che aveva parlato di sindrome di paura,
perturbamento psichico, disagio e preoccupazioni perduranti nel tempo e tali da
condizionare in modo notevole la vita della persona:
<<Con il secondo motivo l’ICMESA, sviluppando spunti già accennati nella precedente censura, denuncia la
violazione e la falsa applicazione degli artt. 2059 e 2697 c.c., 185 c.p. nonché l’insufficienza e la contraddittorietà della
motivazione su altro punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) e lamenta che il giudice del gravame
abbia ritenuto provato il danno morale sulla base di considerazioni generiche e non di circostanze specifiche riguardanti
il P..
La doglianza è infondata.
Essa trova puntuale ed adeguata confutazione nella motivazione del suddetto giudice il quale non si è limitato a
riferirsi a fatti notori (“la sindrome di paura che ha umiliato e comunque condizionato gli abitanti della zona in quanto
soggetti sanitariamente a rischio… coinvolti di fronte all’angoscia di un rischio personale che non poteva essere neppure
dissimulato davanti agli altri”), ma ha accertato che il P., avendo la sede della sua impresa in zona anch’essa
interessata alle misure sanitarie disposte dalle autorità locali, è “rimasto coinvolto nel grave clima di allarme prodotto dal
disastro, riportandone un perturbamento psichico che… fu… conseguenza… della sottoposizione a controlli sanitari, resi
necessari dall’insorgenza di sintomi preoccupanti”.
Per completezza, lo stesso giudice ha aggiunto che “i numerosi accertamenti sanitari, ampiamente documentati in
causa, se non valgono ... a dimostrare danni nella sfera della salute causalmente accertati, depongono a confermare
quello stato di perturbamento psichico, da disagio e preoccupazione duraturi nel tempo, che è l’essenza del danno
morale”.
Trattasi di motivazione priva dei pretesi errori giuridici e che sotto il profilo logico non incorre nel denunciato vizio
di contraddittorietà perché, lungi dal fermarsi a considerazioni di carattere generale, ha personalizzato l’accertamento
nei confronti del soggetto offeso, facendo buon governo del concetto di danno morale soggettivo e delle circostanze che
avevano prodotto al P. uno stato di ansia ed un notevole condizionamento nell’ordinario svolgimento della sua vita>>
(Cass. SU 21.2.2002, n. 2515, FI, 2002, 1006).
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Antonio Antonio Costanzo
5.3. Tutela preventiva della salute.
Le azioni individuali esperibili nel caso di alterazione, compromissione,
distruzione di beni ambientali presuppongono l’affermazione di una lesione (o
del pericolo di una lesione) di situazioni soggettive spettanti ai singoli, di natura
patrimoniale e no. Il fondamento più saldo, lo scudo difensivo più resistente è
(almeno in linea teorica) il diritto alla salute, dotato di chiara copertura
costituzionale e operante nell’ordinamento anche nella sua dimensione di diritto
all’ambiente salubre (artt. 32, 2, 9, 2° co., Cost.; Cass. S.U., 6.10.1979, n.
5172).
La più ampia tutela del diritto alla salute è garantita (almeno in linea di
principio) anche nei confronti della pubblica amministrazione.
I punti cruciali della questione attengono, da un lato, al possibile conflitto tra
l’istanza garantistica del singolo o della pluralità di individui che si ritengono
minacciati o danneggiati e l’esercizio del potere (discrezionale) per finalità di
interesse pubblico; dall’altro, al contenuto del provvedimento di tutela richiesto.
Ai consueti riferimenti al tema dei limiti all’intervento giudiziale nei confronti
dell’amministrazione pubblica si aggiungono oggi i problemi legati al riparto tra
le giurisdizioni ordinaria e amministrativa.
Cass. 27.7.2000, n. 9893 (FI, 2001, I, 141) ha affermato cha la tutela
giurisdizionale del diritto alla salute nei confronti della p.a. può essere anche
preventiva e tradursi in pronunce inibitorie quando sia possibile accertare che
l’opera pubblica, una volta messa in esercizio nei modi previsti, determinerà
una situazione nella quale è insito un pericolo di compromissione della salute
dell’attore.
La vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte riguarda la
realizzazione di un elettrodotto (sulla tutela d’urgenza a fronte del pericolo di un
pregiudizio per la salute dei ricorrenti e dei loro familiari derivante dalla
esposizione a campi elettromagnetici, v. Trib. Milano, ord. 7.10.1999, FI, 2001,
141).
L’attore, proprietario di un’abitazione, cita in giudizio Enel s.p.a. e chiede al
giudice di accertare la pericolosità dell’opera pubblica e il danno provocato alla
salute sua e del suo nucleo familiare dall’esposizione ai campi magnetici
generati dall’elettrodotto. Chiede inoltre la condanna della convenuta al
risarcimento del danno per la diminuita abitabilità della casa e alla rimozione
delle opere. A sostegno della domanda, l’attore
<<Esponeva che il Ministro dei lavori pubblici, con decreto del 6.11.1992, aveva autorizzato l'Enel a costruire e
mantenere in esercizio un elettrodotto inamovibile con tensione superiore a 220 Kv. Il progetto prevedeva il passaggio di
un tratto dell'elettrodotto per il comune di Lapio e prefigurava che la linea elettrica sarebbe stata collocata a distanza
non superiore a 28-30 metri dal piano di campagna del giardino e della via di accesso ed a circa 31 metri dalla casa.
Sosteneva che le conoscenze acquisite sugli effetti delle radiazioni generate da elettrodotti a tensione compresa
tra i 220 ed i 380 Kv. avevano consentito di dimostrare che tali radiazioni presentano un'incidenza sul manifestarsi di
patologie oncogene nelle persone che vi sono esposte. Si configurava perciò una situazione di pericolo grave ed
irreparabile per la salute sua e del suo nucleo familiare>>
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Antonio Antonio Costanzo
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 142).
Enel chiede il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, la
costituzione di una servitù coattiva di elettrodotto. Secondo la convenuta le
opere, dichiarate di pubblica utilità, urgenti e indifferibili, erano state precedute
da regolari provvedimenti amministrativi e non avrebbero comportato concreti
pericoli per la salute delle persone. In ogni caso, il giudice non avrebbe potuto
ordinare la rimozione delle opere, perché un simile ordine avrebbe comportato
la modifica di provvedimenti amministrativi (del Ministro dei lavori pubblici e del
Prefetto) in violazione del divieto posto dall’art. 4, l. 20.3.1865, All. E.
Il Tribunale rigetta nel merito la domanda risarcitoria e dichiara
inammissibile per difetto di giurisdizione la domanda di rimozione delle opere.
Secondo la Corte d’appello, invece, rientrano nella giurisdizione del giudice
ordinario le domande volte ad accertare che dall’altrui condotta sta per derivare
un pericolo al diritto alla salute o alla proprietà dell’attore; ma, in concreto, la
domanda viene respinta perché infondata:
<<L'attività di costruzione dell'elettrodotto si viene svolgendo sulla base di provvedimenti non impugnati e legittimi
sotto il profilo del rispetto dei limiti di esposizione a campi elettromagnetici.
Per converso, siccome l'elettrodotto non è ancora entrato in funzione, non si può accertare se, quando lo sarà, da
esso si genererà una situazione di pericolo per la salute.
Ciò esclude che possano ritenersi provati la messa in pericolo del diritto alla salute e quindi anche il danno al
diritto di proprietà>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 144).
Il privato non demorde e ricorre in cassazione invocando, da un lato,
l’operatività della tutela inibitoria
<<Il primo [motivo, n.d.r.] denunzia la violazione di norme di diritto e di norme sul procedimento (art. 360, nn. 3 e
4, cod. proc. civ., in relazione all'art. 32 Cost., agli artt. 1171 e 2043 cod. civ., all'art. 100 cod. proc. civ.).
Il ricorrente considera che il nostro sistema giuridico non tutela solo il danno patito, ma riconosce forme di tutela
preventiva del diritto, che possono essere esperite in presenza di un ragionevole pericolo che il danno si verifichi e sono
volte ad ottenere che il giudice inibisca che la condotta da cui deriva il pericolo sia portata a compimento e produca
danno.
Obietta l'Enel nel controricorso che l'attore ha proposto una domanda fondata su un diritto relativo alla persona e
non su un diritto relativo a cose e che l'azione di danno temuto può essere esperita solo nel secondo caso e non anche
nel primo>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 145);
dall’altro, i limiti posti all’azione dei pubblici poteri
<<Il secondo motivo denuncia sotto altro aspetto gli stessi vizi (art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., in relazione agli
artt. 1171 e 2043 cod. civ. e 115, secondo comma, cod. proc. civ.).
Vi si osserva che il giudice ordinario può inibire alla pubblica amministrazione l'esecuzione di provvedimenti dalla
cui attuazione derivi danno per la salute e che, peraltro, secondo la comune esperienza, il valore di un immobile subisce
un decremento in una situazione in cui al suo godimento viene ad accompagnarsi l'esposizione ad una situazione di
pericolo.
L'Enel obietta che la domanda è stata rigettata perché il giudice ha ritenuto che il pericolo dedotto dall'attore non
era stato provato e non se ne poteva acquisire la prova prima che la condotta si fosse manifestata nella sua
concretezza>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 145).
Il ricorso viene accolto e la sentenza d’appello cassata con rinvio.
La Corte, definita come incontroversa la situazione di fatto
<<E' stata autorizzata la costruzione e messa in esercizio di una linea di trasmissione di energia elettrica avente
tensione compresa tra i 220 ed 350 Kv e sono state dichiarate di pubblica utilità, urgenti ed indifferibili, le opere
occorrenti.
Su tale base, essendo prevista l'imposizione di una servitù di elettrodotto, è stata autorizzata l'occupazione in via
di urgenza dei terreni su cui dovranno essere realizzate le opere che costituiscono l'elettrodotto.
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Antonio Antonio Costanzo
L'attore, temendo che l'esercizio dell'elettrodotto, per la distanza tra la linea elettrica e la sua
abitazione, dia luogo ad un'esposizione al campo elettromagnetico generato dal passaggio dell'energia,
capace di creare pregiudizio per la sua salute, oltre che per la salute del suo nucleo familiare, ha proposto una domanda
per far accertare che, alla distanza indicata, l'esposizione al campo elettromagnetico è fonte di pericolo per la salute. Ha
chiesto che a tale accertamento facciano seguito provvedimenti del giudice, di inibitoria alla messa in esercizio
dell'elettrodotto e di condanna al risarcimento del danno, per il pregiudizio che alla sua proprietà ha già arrecato la
preventivata messa in esercizio dell'elettrodotto, in conseguenza del diminuito valore di godimento del bene
conseguente al pericolo di danno per la salute cui potrebbero essere esposte le persone che in concreto vi abitassero>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 145)
ritiene necessario esplicitare la ragione per cui la corte d’appello ha affermato la
giurisdizione del giudice ordinario (questione ormai coperta dal giudicato) e la
individua nella natura di diritto fondamentale della situazione soggettiva
azionata in giudizio.
<<Il diritto alla salute, posto a base della domanda, è infatti un diritto fondamentale dell'individuo, che l'art. 32
Cost. protegge direttamente (Corte cost. 26 luglio 1979 n. 88; 14 luglio 1986 n. 184; 18 dicembre 1987 n. 559; 27
ottobre 1988 n. 992; 22 giugno 1990 n. 307; 18 aprile 1996 n. 118).
La Corte costituzionale, nella sentenza 22 giugno 1990 n. 307, ha in particolare considerato che un trattamento
sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi
è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiono normali
in ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili.
Ha aggiunto, con riferimento all'ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento
obbligatorio, compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica, che a giustificare la
misura sanitaria non è da solo sufficiente il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività, perché tale
rilievo "esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando
così limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo comporti un rischio specifico,
ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri".
Da ciò è conseguita l'affermazione che la legge deve prevedere un equo ristoro del danno alla salute subìto dal
singolo in conseguenza dell'essersi dovuto sottoporre ad un trattamento obbligatorio>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 145).
Da queste premesse la Corte conclude che sono
<<prive di efficacia giuridica le determinazioni contenute nei provvedimenti della pubblica amministrazione, per la
parte in cui possano risultare lesive della conservazione dello stato di salute, anche quando i provvedimenti adottati
costituiscano in sé manifestazione di un potere ad altri fini previsto dalla legge (Sez. Un. 6 ottobre 1979 n. 5172)>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 145).
Una cosa sono i sacrifici imposti alla proprietà, un’altra il pregiudizio per la
salute delle persone:
<<Ciò significa, riferendosi al caso in esame, che il provvedimento di autorizzazione all'impianto e messa in
esercizio della nuova linea elettrica ed il conseguente provvedimento di imposizione della servitù di elettrodotto,
producono effetti ablativi in rapporto al diritto reale di proprietà, perché il proprietario, oltre a dover tollerare la presenza
od il passaggio sul suo fondo degli impianti di cui consta l'elettrodotto, è impedito dall'eseguire sul fondo costruzioni od
in genere dallo svolgere attività che possano determinare l'insorgere di situazioni di pericolo.
Ciò non significa, per contro, che il provvedimento di autorizzazione all'impianto e messa in esercizio della linea
elettrica ed il conseguente provvedimento di imposizione della servitù possano produrre l'effetto giuridico che, come
risultato della prefigurata utilizzazione della linea per la trasmissione dell'energia alla potenza prevista, debba essere
subìto dalle persone che hanno diritto di godere dell'immobile un pregiudizio del loro stato di salute>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 145).
Secondo la Corte, il giudice d’appello, senza escludere la pericolosità
dell’elettrodotto, aveva ritenuto che poter ipotizzare il ricorso alla tutela
giurisdizionale dovesse attendersi l’entrata in funzione dell’impianto. La
Cassazione ribalta il ragionamento: prima ancora del verificarsi di un danno, la
messa in pericolo del bene costituzionalmente protetto consente di avvalersi
delle norme sulla responsabilità aquiliana, intese – a quanto sembra di capire –
come il fondamento di una tutela inibitoria del diritto alla salute. La Corte
analizza fondamento e oggetto della domanda, osservando che:
<<L'attore ha agito per far accertare e dichiarare che l'entrata in funzione dell'elettrodotto, per il fatto che l'Enel ha
stabilito di farvi passare energia ad una determinata potenza, non mancherà di esporre a pericolo la conservazione dello
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Antonio Antonio Costanzo
stato di salute suo e dei suoi familiari, in quanto in concreto godono del fondo come proprietari.
Ha agito per ottenere che, sulla base di tale accertamento, sia dichiarato il suo diritto a non subire
l'esposizione a tale pericolo e sia inibito al convenuto di tenere il comportamento in vista del quale i provvedimenti prima
richiamati sono stati adottati.
La domanda, per le ragioni su cui si fonda, perché si afferma che il comportamento in parte già tenuto,
preordinato com'è alla messa in esercizio di un elettrodotto, una volta che questo inizierà a funzionare, metterà in
pericolo la salute dell'attore e va quindi impedito, è una domanda con cui è fatta valere una responsabilità da illecito (art.
2043 cod. civ.), perché è in contrasto con la protezione costituzionale del diritto alla salute un comportamento
preordinato a determinarne la messa in pericolo>>.
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 146).
La decisione in esame, senza analizzare le differenze tra azione inibitoria e
risarcitoria (cfr. Cass. S.U. 15.10.1998, n. 10186, FI, 1999, I, 922, in tema di
immissioni), sembra ritenere incontroversa l’ammissibilità di una generale tutela
preventiva e, con implicito richiamo a una risalente dottrina, desume dal rimedio
riparatorio un argomento a sostegno della tesi accolta, enunciata comunque
con riferimento al diritto alla salute:
<<Contrariamente a quanto ha affermato la corte d'appello, non è necessario che il danno si sia verificato, perché
il titolare del diritto possa reagire contro la condotta altrui, se essa si manifesta in atti suscettibili di provocarlo.
In termini generali, può dirsi che la protezione apprestata dall'ordinamento al titolare di un diritto si estrinseca
prima nel vietare agli altri consociati di tenere comportamenti che contraddicano il diritto e poi nel sanzionare gli effetti
lesivi della condotta illecita obbligando il responsabile al risarcimento del danno.
Con specifico riferimento al diritto alla salute, sarebbe contraddittorio affermare che esso non tollera interferenze
esterne che ne mettano in discussione l'integrità e ammettere che alla persona sia data la sola tutela del risarcimento
del danno e non anche quella preventiva.
La Corte costituzionale, nella sentenza 30 dicembre 1987 n. 641, ha espressamente affermato che, in tema di
lesione della salute umana, è possibile il ricorso all'art. 2043 cod. civ. e che si è così in grado di provvedere non solo
alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, ma anche di prevenire e sanzionare l'illecito>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 147).
L’obiezione fondata sul divieto di ingerenza del giudice ordinario viene
respinta: oggetto dell’intervento giudiziale non è un provvedimento, ma un
comportamento (illecito o pericoloso) della p.a.
<<D'altro canto, dalla premessa che l'attribuzione di poteri ablatori ordinati a procurare alla pubblica
amministrazione la disponibilità di beni, non può derivare l'effetto che ne risulti compromesso il diritto alla salute, questa
Corte ha già in altre occasioni tratto l'enunciazione del principio per cui il privato può chiedere al giudice ordinario
provvedimenti non di sola condanna al risarcimento del danno (Sez. Un. 16 luglio 1983 n. 4889; 10 dicembre 1984 n.
6476), ma anche di condanna ad un fare (Sez. Un. 20 febbraio 1992 n. 2092), in confronto della pubblica
amministrazione o di concessionari di pubblici servizi.
E perciò può essere chiesto al giudice di inibire all'amministrazione il comportamento costituito dal porre in
esercizio un impianto che, iniziando a funzionare con le modalità previste, è accertato possa determinare una situazione
di messa in pericolo della salute.
L'inibitoria, d'altro canto, può tradurre in comando un accertamento dal quale risulti in quali condizioni e con quali
accorgimenti l'opera può essere posta in esercizio ed il pericolo per la salute può essere evitato>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 147).
Come accertare in concreto la sussistenza dei presupposti per una simile
tutela preventiva? E’ necessario avvalersi della miglior scienza ed esperienza e
verificare se l’esposizione al fattore inquinante possa compromettere la
conservazione dello stato di salute della persona (affrontando i noti problemi in
tema di causalità secondo leggi scientifiche).
Secondo la Corte, il rispetto delle normative tecniche di settore, poste da
disposizioni regolamentari e oggetto di periodica revisione, non è sufficiente ad
affermare la liceità della condotta di privati e della p.a. (o concessionari), ed è
comunque dovuto proprio perché la salute dell’individuo gode di una tutela che
non incontra ostacoli neppure di fronte ai pubblici poteri:
<<Dunque, la presenza di tali discipline costituisce conferma del fatto che alla protezione costituzionale del diritto
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Antonio Antonio Costanzo
alla salute inerisce sul piano sostanziale il diritto dell'individuo a che sia impedito agli altri consociati, ma
anche alla pubblica amministrazione, di tenere condotte, che possono ingenerare il sorgere di patologie,
come risultato dell'immissione nell'ambiente di fattori inquinanti.
E perciò rientra nei poteri del giudice ordinario, in un processo iniziato sulla base di una domanda quale quella
proposta dall'attore, accertare se, sulla base delle conoscenze scientifiche acquisite nel momento in cui si tratta di
decidere sulla domanda, avuto riguardo anche alla situazione del caso concreto, vi sia pericolo per la conservazione
dello stato di salute nella esposizione al fattore inquinante di cui si tratta, ancorché tale esposizione si determini nel
rispetto dei limiti massimi stabiliti dalla disciplina di rango secondario vigente al momento della decisione.
Momento essenziale di tale accertamento, perché se positivo ad esso consegue che la condotta debba essere
inibita, è che la condotta contraria, se lasciata svolgere, determinerà una situazione di esposizione al fattore inquinante
suscettibile di compromettere la conservazione dello stato di salute.
Che la situazione di esposizione al fattore inquinante contenga in sé tale potenzialità costituisce anch'esso un
tratto essenziale del fatto da accertare e la potenzialità, come in ogni caso in cui si tratta di stabilire se in futuro potrà
determinarsi un evento come conseguenza di un fatto presente, deve essere accertata considerando se sia da
considerare dimostrato un numero di casi in cui l'evento si è prodotto, sufficiente ad autorizzare, in un giudizio che fosse
compiuto ad evento avvenuto, la conclusione che il fatto costituisce la causa dell'evento>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 148).
La domanda, conclude la Corte, non andava respinta sul semplice rilievo
che occorre attendere l’entrata in funzione dell’elettrodotto per stabilire se
l’impianto possa arrecare un danno:
<<Questo equivale a dire che il diritto alla salute deve prima essere esposto a compromissione e poi può trovare
tutela, ma solo in forma repressiva, mediante condanna al risarcimento del danno, anche in forma specifica.
Si è visto invece che la tutela può essere preventiva e sostanziarsi in una inibitoria.
Perciò, il giudice di merito non avrebbe potuto rifiutarsi di accertare se il diritto alla salute di quanti si fossero
trovati ad abitare sul fondo dell'attore sarebbe risultato esposto al pericolo di rimanere compromesso dall'esposizione ai
campi elettromagnetici generati dall'elettrodotto, una volta che fosse entrato in funzione e per come ne era preventivato
l'esercizio.
Questo accertamento, naturalmente, avrebbe dovuto essere condotto valutando gli elementi di prova prodotti in
giudizio dalla parte (artt. 115 e 116 cod. proc. civ.), salvo a far ricorso ad indagini tecniche, se il giudice l'avesse ritenuto
necessario (art. 61 cod. proc. civ.)>>
(Cass. 27.7.2000, n. 9893, FI, 2001, I, 148).
5.4. Diritto alla salute e disciplina del traffico.
Con ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. depositato il 28 febbraio 2000,
trecentocinquantuno cittadini appartenenti a quattro comitati del centro storico
chiedono che il giudice civile ordini al Comune di Bologna, alla giunta comunale
e al sindaco di adottare ogni misura idonea ad abbattere i fattori inquinanti
dell'atmosfera fino a ricondurli ai limiti massimi consentiti dalla vigente
legislazione e dalle Direttive CEE e di intervenire in maniera strutturale, anche
con provvedimenti specificamente indicati, per migliorare la qualità dell'aria e
riportare entro i limiti della normale tollerabilità le immissioni acustiche derivanti
dalla circolazione di autoveicoli.
Secondo i ricorrenti, le autorità convenute, istituzionalmente preposte alla
tutela della salute dei cittadini, avevano omesso di adottare provvedimenti di
limitazione-interdizione della circolazione di veicoli a motore e di eseguire altri
interventi, indicati nel rapporto sulla qualità dell'aria 1998, nelle zone ove si
erano registrati livelli di presenza di fattori inquinanti superiori a quelli consentiti;
o avevano emesso provvedimenti inidonei a riportare la qualità dell'aria ai livelli
previsti dalla vigente legislazione (artt. 2 e 32, Cost.; D.M. Ministero Ambiente
21.4.1999 n. 163, circolare applicativa 30.6.1999; artt. 6 e 7, l. 26.10.1995 n.
447 e piano di zonizzazione acustica adottato dal Consiglio Comunale di
Bologna ed altre normative richiamate). Tale condotta, si afferma, mette in
48
Antonio Antonio Costanzo
pericolo e lede il diritto alla salute ed all'integrità psico-fisica dei
ricorrenti e dei cittadini (rappresentati dai comitati) che abitano, lavorano e
studiano nelle zone interessate dall'inquinamento ambientale ed acustico.
Il Comune di Bologna in via preliminare eccepisce il difetto di giurisdizione
del giudice ordinario; nel merito contesta la fondatezza della domanda,
richiamando i numerosi provvedimenti adottati per monitorare e ridurre le
emissioni delle sostanze inquinanti.
Nel corso del procedimento interviene ex art. 70, u.c., c.p.c., il Pubblico
ministero, che esprime riserve sulla giurisdizione del giudice ordinario,
richiamando la l. 21.7.2000, n. 205, e sui presupposti per il procedimento
d’urgenza.
All’esito di una laboriosa istruttoria, svolta anche con ricorso a consulenze
tecniche d’ufficio, il giudice, illustrate le misure da adottare secondo i consulenti,
accoglie il ricorso e, ritenuta l’illegittimità parziale di ordinanze amministrative,
emette il seguente provvedimento inibitorio:
<<1) dichiara l'illegittimità dell'ORDINANZA P.G. n. 9370/2000 del 31.1.2000; delle successive ORDINANZE di
proroga integrazione o modifica della medesima emesse dal Sindaco di Bologna o dall'organo competente e, più in
genere, della condotta del Comune di Bologna laddove:
a) esse non prevedono il divieto di circolazione nella Zona a traffico limitato (ZTL) ai ciclomotori ed ai motoveicoli
a 2 tempi, anche se catalizzati, se non su un percorso obbligato di ingresso e di uscita da attuarsi suddividendo la ZTL
in zone o, comunque, con criterio più idoneo demandato alla scelta discrezionale della P.A. competente, salvo diversa e
specifica autorizzazione da rilasciarsi a determinate categorie di utenti, solo in caso di effettiva e comprovata necessità;
b) non prevedono il divieto di circolazione nella Zona a traffico limitato (ZTL), ai veicoli ad accensione comandata
non catalizzati — anche se appartenenti a residenti — se non su un percorso obbligato di ingresso e di uscita da
attuarsi suddividendo la ZTL in zone o, comunque, con criterio più idoneo demandato alla scelta discrezionale della P.A.
competente, salvo diversa e specifica autorizzazione da rilasciarsi a determinate categorie di utenti in caso di effettiva e
comprovata necessità;
c) non prevedono, per i ciclomotori e per tutti gli altri motoveicoli, anche se catalizzati, sia a 2 tempi che a 4 tempi,
il rilascio di un'autorizzazione per potere avere accesso e circolare nella Zona a traffico limitato (ZTL);
d) non prevedono l'immediato utilizzo sugli autobus e sui veicoli diesel della nettezza urbano del c.d. "GASOLIO
BIANCO";
e) non prevedono l'attivazione di SIRIO o, a scelta discrezionale della P.A. competente, un continuo controllo
dalle ore 7 alle 20 presso tutti i varchi di accesso alla Zona a traffico limitato (ZTL);
2) Inibisce, conseguentemente le anzidette ordinanze e, più in genere, la condotta del Comune di Bologna nella
parte in cui esse omettono di adottare i provvedimenti di cui alle lettere a), b, c) , d) ed e) del punto 1>>
(Trib. Bologna, 12.7.2001, www.giureco.it/first_wi.html).
Vi sono margini per imporre all’ente locale determinate decisioni in materia
di disciplina del traffico? o si rischia invece un’invasione di campo?
L’ordinanza cautelare prende posizione sul punto:
a) rigetta l’eccezione di difetto di giurisdizione, osservando che la l.
21.7.2000, n. 205 (il cui art. 7 ha sostituito gli artt. 33 e 34, d.lgs. 31.3.1998, n.
80) è entrata in vigore dopo il deposito del ricorso; che l’art. 33, d.lgs.
31.3.1998, n. 80, è stato dichiarato illegittimo da Corte cost., 11-17.7.2000, n.
292 (FI, 2000, I, 2393); che i ricorrenti hanno agito a tutela del diritto alla salute
e non si verte in materia urbanistica;
b) osserva che i limiti alla cognizione del giudice ordinario ex art. 4, l.
20.3.1865 n. 2248, all. E, non operano quando la p.a. ponga in essere un
comportamento materiale non implicante l'esercizio di potestà pubblicistiche, o
agisca in qualità di privato oppure in carenza di potere, e che <<in tali ipotesi il
49
Antonio Antonio Costanzo
giudice può emanare qualsiasi tipo di sentenza dall'inibitoria, a quella
di condanna ad un facere specifico, senza che ciò possa ritenersi in conflitto
con l'interesse pubblico>>;
c) afferma che il diritto fondamentale alla salute trova piena tutela a fronte
di situazioni di <<carenza di potere>> da parte della p.a.:
<<Deve escludersi, pertanto, che operi nell'ambito del contemperamento e, quindi, nell'esercizio di potestà
pubblicistiche del tutto legittime ed insindacabili da parte del giudice ordinario la P.A. che, solo in teoria, affermi la
preminenza del diritto alla salute, ma che, di fatto, privilegi gli interessi economici sul diritto della collettività e dei singoli
ad un ambiente salubre.
Al contrario, ove non adotti misure veramente idonee a contrastare la circolazione dei veicoli non in regola con le
emissioni, essa viene ad esercitare un'inammissibile compressione sul diritto alla salute ed a versare quindi in quella
situazione di carenza di potere che secondo la giurisprudenza più autorevole della Suprema Corte e l'orientamento
giurisprudenziale e dottrinale più evoluto giustifica la tutela più ampia davanti all'A.G.O.
Sembra di poter concludere pertanto che, anche in materia dì compromissione del diritto alla salute conseguente
ad atti o a comportamenti omissivi della P.A. riguardo al traffico veicolare, la situazione non sia dissimile (e debba farsi
ricorso, quindi, agli stessi principi) da quella che si verifica con riferimento ad analoghe condotte della P.A. in ambiti più
ristretti (ad es. la richiesta di chiusura di una discarica posta troppo vicino ad abitazioni), anche se l'impatto di eventuali
interventi dell'A.G.O. avrà ripercussioni più evidenti potendo riguardare essi un numero assai elevato di utenti ed
estendersi ad un ampio ambito territoriale>>
(Trib. Bologna, 12.7.2001, www.giureco.it/first_wi.html).
Come dare attuazione al provvedimento cautelare? L’autorità
amministrativa resta inerte. Con successiva ordinanza 6.9.2001 emessa su
ricorso ex art. 669-duodecies, c.p.c., il giudice incarica i consulenti di rispondere
ad una serie di quesiti allo scopo di determinare le migliori modalità attuative in
relazione alla situazione concreta <<confidando che, ove venga dimostrata
l'eseguibilità in senso tecnico di dette misure, il Comune di Bologna possa
mutare orientamento e dare spontanea attuazione alle stesse>>.
Investito del reclamo contro l’ordinanza cautelare 12.7.2001, il Tribunale il
composizione collegiale ha sollevato questione di costituzionalità degli artt. 34,
1° e 2° co., e 35, 1° co., d.lgs. 31.3.1998, n. 80, per eccesso di delega.
Secondo il collegio, che ha esaminato le norme in vigore al momento di
proposizione della domanda cautelare, la controversia rientra fra quelle
<<aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle
amministrazioni pubbliche… in materia urbanistica>> devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 34, d.lgs. 31.3.1998, n. 80:
<<La causa petendi della spiegata domanda cautelare riguarda la disciplina del traffico imposta dal comune su
parte del territorio comunale, l’asserita inadeguatezza di tale disciplina rispetto alle prescrizioni contenute nel decreto
ministeriale 21 aprile 1999 n. 163 e nella l. 447/95 a tutela del diritto alla salute, la lesione di tale diritto con conseguente
petitum di condanna dell’amministrazione all’adozione delle misure previste nei citati provvedimenti a tutela della salute
dei cittadini.
La causa petendi ed il petitum riguardano, quindi, le scelte di gestione del territorio operate dall’ente locale e
quelle eventualmente da imporre a tale ente in materia di traffico, cioè una attività di programmazione relativa al traffico
veicolare sul territorio comunale e la sua concreta attuazione>>
(Trib. Bologna, ord. 6.12.2001, FI, 2002, I, 1272).
6. Servizi sanitari.
Bibliografia Bilancetti 2001 – Bellagamba, Del Re e Cariti, 293-315
L’attività sanitaria, svolta nell’ambito di strutture pubbliche o private, è non
di rado occasione di danno. Nei casi più drammatici si tratta di eventi con
immediata ripercussione su interessi ed equilibri familiari.
50
Antonio Antonio Costanzo
Le ipotesi di maggior rilievo sono approfondite in altri capitoli, ai
quali si rimanda: in essi si parla di problemi legati alla nascita, trattamenti con
esiti infausti, lesione dell’integrità sessuale o altre invalidità conseguenti a colpa
medica.
L’esame della casistica rivela che alcuni aspetti (valutazione della condotta
del sanitario, problema della causalità rispetto all’evento lesivo, indagine su
natura ed entità dei danni risarcibili) non sono strettamente correlati all’ambito
nel quale l’attività sanitaria si svolge: sotto questo profilo, che il medico operi in
una clinica privata o in un ospedale pubblico le questioni da affrontare paiono
sostanzialmente identiche.
Altri aspetti, invece, emergono proprio con riferimento alle prestazioni rese
dal servizio sanitario nazionale o ai compiti (vigilanza e controllo, prevenzione,
informazione) assegnati a soggetti pubblici in materia sanitaria.
Né vanno dimenticate quelle situazioni (disabili, sofferenti psichici, anziani
non autosufficienti) in cui gli interventi pubblici per la cura o la riabilitazione della
persona si realizzano anche con misure di sostegno alla famiglia.
Passando dal piano della fattispecie a quello degli effetti, uno schema già
proposto dalla Corte costituzionale chiarisce che
<<la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può determinare una di queste tre conseguenze:
a) il diritto al risarcimento pieno del danno, riconosciuto dall'art. 2043 del codice civile, in caso di comportamenti
colpevoli; b) il diritto a un equo indennizzo, discendente dall'art. 32 della Costituzione in collegamento con l'art.
2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia stato subito in conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale;
c) il diritto, a norma degli artt. 38 e 2 della Costituzione, a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore,
nell'ambito dell'esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali, in tutti gli altri casi>>
(Corte cost. 18.4.1996, n.118, FI, 1996, I, 2326; v. anche Corte cost. 22.6.2000, n. 226, FI, 2001, I, 5).
6.1. Responsabilità civile della p.a. e sicurezza sociale.
Bibliografia Ponzanelli 2001.
L’esigenza di conciliare tutela collettiva della salute, anche in funzione di
prevenzione, e diritti dei singoli, o di porre un rimedio a situazioni non
adeguatamente gestibili mediante gli ordinari strumenti aquiliani, ha indotto il
legislatore ad intervenire con la previsione di misure indennitarie. Si tratta
dunque di prestazioni rientranti nel sistema di sicurezza sociale.
6.1.1. Vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di
emoderivati.
La legge 25.2.1992, n. 210 (modificata e integrata dalla l. 25.7.1997, n.
238) disciplina l’indennizzo a favore di soggetti danneggiati da complicanze di
tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e
somministrazione di emoderivati.
Essa fa seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale della l.
4.2.1966, n. 51 che ha reso obbligatoria la vaccinazione antipoliomelitica per i
51
Antonio Antonio Costanzo
bambini entro il primo anno di età. La questione era stata sollevata nel
corso di un giudizio civile contro il Ministero della sanità: parte attrice, una
donna che aveva contratto la poliomelite, con paralisi spinale, trasmessale dal
figlio sottoposto a vaccinazione antipoliomelitica. Il giudice a quo aveva rimesso
gli atti alla Corte costituzionale dovendosi escludere una responsabilità ex art.
2043 c.c.
Corte cost. 22.6.1990, n. 307 (FI, 1990, I, 2694) ha dichiarato la l. 4.2.1966,
n. 51, in contrasto con gli artt. 2 e 32 Cost. e dunque illegittima <<nella parte in
cui non prevede, a carico dello Stato, un'equa indennità per il caso di danno
derivante, al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 2043 c.c., da contagio o da altra
apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria
antipoliomielitica, riportato dal bambino vaccinato o da altro soggetto a causa
dell'assistenza personale diretta prestata al primo>>.
La tutela della salute come interesse collettivo giustifica l’obbligatorietà del
trattamento sanitario,
<<La vaccinazione antipoliomielitica per bambini entro il primo anno di vita, come regolata dalla norma
denunciata, che ne fa obbligo ai genitori, ai tutori o agli affidatari, comminando agli obbligati l'ammenda per il caso di
inosservanza, costituisce uno di quei trattamenti sanitari obbligatori cui fa riferimento l'art. 32 della Costituzione.
Tale precetto nel primo comma definisce la salute come <fondamentale diritto dell'individuo e interesse della
collettività>; nel secondo comma, sottopone i detti trattamenti a riserva di legge e fa salvi, anche rispetto alla legge, i
limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Da ciò si desume che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 della
Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato,
ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come
interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto
di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.
Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non
incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che,
per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili>>
(Corte cost. 22.6.1990, n. 307, FI, 1990, I, 2695)
ma lo stesso dovere di solidarietà sociale impone di non lasciare senza ristoro il
danno che possano riportare la persona sottoposta al trattamento obbligatorio
<<Con riferimento, invece, all'ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento
obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - il rilievo
costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria.
Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato,
restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo
importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri. Un
corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute - e lo stesso spirito di solidarietà (da
ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell'imposizione del trattamento sanitarioimplica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo
del trattamento. In particolare finirebbe con l'essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui
garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il
trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito>>
(Corte cost. 22.6.1990, n. 307, FI, 1990, I, 2695)
e le altre persone (in particolare, i familiari) comunque coinvolte dagli esiti del
trattamento stesso
<<E parimenti deve ritenersi per il danno -da malattia trasmessa per contagio dalla persona sottoposta al
trattamento sanitario obbligatorio o comunque a questo ricollegabile- riportato dalle persone che abbiano prestato
assistenza personale diretta alla prima in ragione della sua non autosufficienza fisica (persone anche esse coinvolte
nel trattamento obbligatorio che, sotto il profilo obbiettivo, va considerato unitariamente in tutte le sue fasi e in tutte le
sue conseguenze immediate).
Se così è, la imposizione legislativa dell'obbligo del trattamento sanitario in discorso va dichiarata
costituzionalmente illegittima in quanto non prevede un'indennità come quella suindicata>>
(Corte cost. 22.6.1990, n. 307, FI, 1990, I, 2695).
52
Antonio Antonio Costanzo
La Corte costituzionale ha avuto cura di rimarcare le differenze tra
risarcimento del danno e equa indennità, precisando di aver introdotto
<<un rimedio destinato a operare relativamente al danno riconducibile sotto l'aspetto oggettivo al trattamento
sanitario obbligatorio e nei limiti di una liquidazione equitativa che pur tenga conto di tutte le componenti del danno
stesso. Rimedio giustificato - ripetesi - dal corretto bilanciamento dei valori chiamati in causa dall'art. 32 della
Costituzione in relazione alle stesse ragioni di solidarietà nei rapporti fra ciascuno e la collettività, che legittimano
l'imposizione del trattamento sanitario>>
(Corte cost. 22.6.1990, n. 307, FI, 1990, I, 2695; per la liquidazione operata nel caso concreto, prima che
intervenisse la più contenuta predeterminazione legislativa dell’indennizzo, v. Trib. Milano 20.12.1991, FI, 1991, I,
1239).
Il rimedio aquiliano e l’equa indennità da attività lecita della p.a. operano
dunque su piani distinti: diversi sono i presupposti e il contenuto della tutela. La
Corte costituzionale esprime con chiarezza tale principio e ricorda che, secondo
la sua <<fermissima>> giurisprudenza, la sussistenza di un danno patrimoniale
non è necessaria ai fini della tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. quando la
lesione riguardi un diritto fondamentale dell’uomo quale la salute:
<<La dichiarazione di illegittimità, ovviamente, non concerne l'ipotesi che il danno ulteriore sia imputabile a
comportamenti colposi attinenti alle concrete misure di attuazione della norma suindicata o addirittura alla materiale
esecuzione del trattamento stesso. La norma di legge che prevede il trattamento non va incontro, cioè, a pronuncia di
illegittimità costituzionale per la mancata previsione della tutela risarcitoria in riferimento al danno ulteriore che risulti
iniuria datum. Soccorre in tal caso nel sistema la disciplina generale in tema di responsabilità civile di cui all'art.
2043 c.c.
La giurisprudenza di questa Corte è infatti fermissima nel ritenere che ogni menomazione della salute, definita
espressamente come (contenuto di un) diritto fondamentale dell'uomo, implichi la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.
Ed ha chiarito come tale tutela prescinda dalla ricorrenza di un danno patrimoniale quando, come nel caso, la lesione
incida sul contenuto di un diritto fondamentale (sentt. nn. 88 del 1979 e 184 del 1986).
E' appena il caso di notare, poi, che il suindicato rimedio risarcitorio trova applicazione tutte le volte che le
concrete forme di attuazione della legge impositiva di un trattamento sanitario o di esecuzione materiale del detto
trattamento non siano accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze
scientifiche e l'arte prescrivono in relazione alla sua natura. E fra queste va ricompresa la comunicazione alla
persona che vi è assoggettata, o alle persone che sono tenute a prendere decisioni per essa e/o ad assisterla, di
adeguate notizie circa i rischi di lesione (o, trattandosi di trattamenti antiepidemiologici, di contagio), nonché delle
particolari precauzioni, che, sempre allo stato delle conoscenze scientifiche, siano rispettivamente verificabili e
adottabili. Ma la responsabilità civile opera sul piano della tutela della salute di ciascuno contro l'illecito (da parte
di chicchessia) sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con gli effetti risarcitori pieni previsti dal detto art. 2043
c.c.>>
(Corte cost. 22.6.1990, n. 307, FI, 1990, I, 2705).
La legge 25.2.1992, n. 210, considera situazioni diverse per ciò che
riguarda, da un lato, il tipo e l’eziologia del danno, dall’altro, i soggetti aventi
diritto all’indennizzo:
<<Art. 1. 1. Chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una
autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psicofisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge.
2. L'indennizzo di cui al comma 1 spetta anche ai soggetti che risultino contagiati da infezioni da HIV a seguito di
somministrazione di sangue e suoi derivati, nonché agli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano
riportato danni permanenti alla integrità psico-fisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e
suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da HIV.
3. I benefici di cui alla presente legge spettano altresì a coloro che presentino danni irreversibili da epatiti posttrasfusionali.
4. I benefici di cui alla presente legge spettano alle persone non vaccinate che abbiano riportato, a seguito ed in
conseguenza di contatto con persona vaccinata, i danni di cui al comma 1; alle persone che, per motivi di lavoro o per
incarico del loro ufficio o per potere accedere ad uno Stato estero, si siano sottoposte a vaccinazioni che, pur non
essendo obbligatorie, risultino necessarie; ai soggetti a rischio operanti nelle strutture sanitarie ospedaliere che si siano
sottoposti a vaccinazioni anche non obbligatorie>>
(art. 1, l. 25.2.1992, n. 210)
<<I benefici di cui alla presente legge spettano altresì al coniuge che risulti contagiato da uno dei soggetti di cui
all'articolo 1 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nonché al figlio contagiato durante la gestazione>>
(art. 1, 6° co., l. 25.7.1997, n. 238).
Nel caso delle vaccinazioni obbligatorie (o comunque incentivate dalle
53
Antonio Antonio Costanzo
autorità sanitarie) il fondamento del beneficio si rinviene negli artt. 2 e
32 Cost. Il tema del conflitto tra le due dimensioni (individuale e collettiva) del
diritto alla salute è stato approfondito da Corte cost. 18.4.1996, n. 118 (FI,
1996, I, 2326) che ha messo in luce l’eterogeneità delle ipotesi disciplinate dalla
l. n. 210/92.
Negli altri casi appare invece preminente una finalità assistenziale in favore
di soggetti non giuridicamente obbligati ma eventualmente solo necessitati a
sottoporsi al trattamento sanitario, nell’ambito di un intervento
costituzionalmente consentito dagli artt. 2 e 38 Cost. e giustificato come scelta
di “socializzazione” di un danno di particolare rilievo (cfr. Corte cost. 18.4.1996,
n. 118; 26.11.2002, n. 476).
6.1.2. Vaccinazioni incentivate.
La Corte costituzionale ha ampliato il novero dei danni coperti da
indennizzo. In particolare ha assegnato rilievo agli effetti che le scelte di politica
sanitaria (la promozione di trattamenti non obbligatori) possono avere sulle
decisioni familiari.
Corte cost. 26.2.1998, n. 27 ha dichiarato illegittimo l’art. 1, 1° co., l. n.
210/92, nella parte in cui non prevede il diritto all’indennizzo di coloro che siano
stati sottoposti a vaccinazione antipoliomelitica prima che questa divenisse
obbligatoria,
<<La vaccinazione antipoliomielitica è stata resa obbligatoria con la legge 4 febbraio 1966, n. 51. Essa, insieme
alle prescrizioni necessarie per realizzare l'obbiettivo della vaccinazione integrale della popolazione infantile, all'articolo
3 stabilisce che le persone esercenti la patria potestà o la tutela sul bambino, ovvero il direttore dell'istituto di pubblica
assistenza o l'affidatario nominato dall'istituto medesimo sono tenuti responsabili dell'osservanza dell'obbligo della
vaccinazione e che il contravventore incorre in una sanzione penale>>
(Corte cost. 26.2.1998, n. 27, FI, 1998, I, 1370)
ma pur sempre nel periodo di vigenza della l. 30.7.1959, n. 695, ossia quando
le famiglie erano comunque indotte dai pubblici poteri a vaccinare i bambini:
<<[…] la legge 30 luglio 1959, n. 695 (Provvedimenti per rendere integrale la vaccinazione antipoliomielitica)
dettava norme per incentivare la pratica della vaccinazione. L'articolo 3, primo comma, stabiliva che "per l'ammissione
agli asili nido, alle sale di custodia, ai brefotrofi, agli asili infantili, alle scuole materne, alle scuole elementari, ai collegi,
alle colonie climatiche ed a qualsiasi altra collettività di bambini, da quattro mesi a sei anni di età, è richiesta all'atto
dell'iscrizione o della ammissione la presentazione dell'attestato" di "subita vaccinazione". Il terzo comma prevedeva
peraltro che "l'ammissione è tuttavia consentita qualora sia presentato un certificato medico da cui risultino le ragioni di
salute per le quali il bambino non è in grado di subire la vaccinazione, oppure una dichiarazione, sottoscritta
dall'esercente la patria potestà o la tutela, di non voler sottoporre il bambino alla vaccinazione". Da queste disposizioni
— seguite da numerosi atti dell'amministrazione sanitaria in tema di approvvigionamento, distribuzione e controllo del
vaccino, nonché di informazione, sollecitazione e responsabilizzazione delle famiglie relativamente ai rischi per la salute
individuale e collettiva derivanti dalla mancata vaccinazione dei bambini — appare chiaro che, fin dal 1959, era in atto
una pressante campagna pubblica di sensibilizzazione e persuasione diffusa. Pur non essendo previsto un obbligo
giuridico (come sarà poi, dopo la legge del 1966), la sottrazione dei bambini alla vaccinazione li esponeva a
conseguenze discriminatorie di notevole gravità, che potevano essere evitate soltanto ove si fosse adempiuto a un
onere di certificazione medica o di dichiarazione di volontà contraria da parte dell'esercente la patria potestà o la
tutela>>
(Corte cost. 26.2.1998, n. 27, FI, 1998, I, 1370).
La Corte ha equiparato l’ipotesi di trattamento sanitario imposto per legge a
quella del trattamento incentivato e promosso dalla pubblica autorità nell’ambito
di una politica sanitaria pubblica e dunque per finalità di interesse generale (cfr.
54
Antonio Antonio Costanzo
anche Corte cost. 16.10.2000, n. 423, FI, 2001, I, 4, e Corte cost. ord.
21.11.2000, n. 522, FI, 2001, I, 3, secondo cui è invece diversa l’ipotesi della
necessità terapeutica di un trattamento emotrasfusionale derivante dalla
malattia dell’individuo). La decisione evidenzia come il dovere di solidarietà
sociale a carico della collettività, fondamento della misura indennitaria (artt. 2 e
32 Cost.), corrisponda alle ragioni di utilità generale che avevano indotto
l’autorità a promuovere e incentivare le vaccinazioni antipoliomelitiche:
<<Con le sentenze n. 307 del 1990 e n. 118 del 1996, questa Corte ha riconosciuto l'esistenza di un diritto
costituzionale all'indennizzo in caso di danno alla salute patito in conseguenza della sottoposizione a vaccinazioni
obbligatorie. Ora si pone in dubbio la legittimità costituzionale del mancato riconoscimento del medesimo diritto quando
il danno sia derivato da vaccinazione che, pur non giuridicamente obbligatoria, era tuttavia programmata e incentivata
nel modo che si è detto.
L'estensione così richiesta dai giudici rimettenti si presenta come un'applicazione naturale e necessaria del
principio cui si ispirano le sopra indicate decisioni di questa Corte: il principio che non è lecito, alla stregua degli articoli 2
e 32 della Costituzione, richiedere che il singolo esponga a rischio la propria salute per un interesse collettivo, senza
che la collettività stessa sia disposta a condividere, come è possibile, il peso delle eventuali conseguenze negative.
Non vi è infatti ragione di differenziare, dal punto di vista del principio anzidetto, il caso — allora all'esame — in
cui il trattamento sanitario sia imposto per legge da quello — all'esame ora — in cui esso sia, in base a una legge,
promosso dalla pubblica autorità in vista della sua diffusione capillare nella società; il caso in cui si annulla la libera
determinazione individuale attraverso la comminazione di una sanzione, da quello in cui si fa appello alla collaborazione
dei singoli a un programma di politica sanitaria.
Una differenziazione che negasse il diritto all'indennizzo in questo secondo caso si risolverebbe in una patente
irrazionalità della legge. Essa riserverebbe infatti a coloro che sono stati indotti a tenere un comportamento di utilità
generale per ragioni di solidarietà sociale un trattamento deteriore rispetto a quello che vale a favore di quanti hanno
agito in forza della minaccia di una sanzione>>
(Corte cost. 26.2.1998, n. 27, FI, 1998, I, 1370).
Analogamente, Corte cost. 16.10.2000, n. 423, ha dichiarato illegittimo l'art.
1, 1° co., l. 25.2.1992, n. 210, nella parte in cui non prevede il diritto
all'indennizzo, alle condizioni ivi stabilite, di coloro che siano stati sottoposti
a vaccinazione antiepatite B, a partire dall'anno 1983, ossia da quando l’autorità
sanitaria nazionale, in attuazione dei compiti di promozione della salute
pubblica (l. 13.3.1958, n. 296), aveva promosso una campagna per la diffusione
di quel tipo di vaccinazione, non ancora obbligatoria:
<<Con la legge 27 maggio 1991, n. 165, la vaccinazione contro l'epatite virale B è stata resa obbligatoria per
tutti i nuovi nati nel primo anno di vita, ma anche prima di tale data gli atti sopra menzionati testimoniano essere stata
condotta - a partire dalla circolare n. 2 dell'11 gennaio 1983 del Ministero della sanità - una capillare
campagna per la realizzazione di un programma di diffusione della vaccinazione stessa che ha coinvolto le strutture
sanitarie pubbliche del nostro paese in un'opera di responsabilizzazione e sensibilizzazione ai rischi che l'epatite di
tipo B comporta per sé e per gli altri, e innanzitutto per i bambini.
Deve così ritenersi che sussistono, anche per i soggetti sottoposti a vaccinazione antiepatite di tipo B in
attuazione della suddetta politica sanitaria promossa al riguardo, le condizioni che hanno indotto questa Corte,
nella sentenza n. 27 del 1998, a ritenere costituzionalmente dovuto per i soggetti sottoposti a vaccinazione
antipoliomielitica l'indennizzo previsto dall'art. 1 della legge n. 210>>
(Corte cost. 16.10.2000, n. 423, FI, 2001, I, 14).
6.1.3. Ultime decisioni della Corte costituzionale.
Da ultimo, Corte cost. 26.11.2002, n. 476 (FI, 2003, I, 330), ha ritenuto
irrazionale l’omessa previsione del beneficio a favore degli operatori sanitari
che, in occasione del servizio e durante il medesimo, abbiano riportato danni
permanenti all’integrità psico-fisica per l’infezione conseguente a contatto con
sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da epatiti.
<<Il legislatore del 1992 – nel predisporre misure a favore di quanti fossero stati colpiti da patologie determinate
dalla somministrazione di sangue ed emoderivati infetti - ha previsto la corresponsione di un indennizzo a favore (a) dei
contagiati da infezione da HIV a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati e (b) degli operatori sanitari che,
55
Antonio Antonio Costanzo
"in occasione e durante il servizio", abbiano riportato danni permanenti all’integrità psicofisica conseguenti
a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da
infezione da HIV (art. 1, comma 2, della legge n. 210 del 1992). In corrispondenza con quanto stabilito a favore dei
soggetti indicati in (a), ha altresì previsto (art. 1, comma 3, della medesima legge) che i medesimi benefici spettino
anche a coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali. Nessuna provvidenza è disposta, invece, a
favore degli operatori sanitari che abbiano contratto un’epatite a seguito di contatto con sangue e suoi derivati infetti,
rompendosi così il parallelismo con la disciplina prevista a favore dei soggetti affetti da infezione da HIV, indicati in (b).
Il giudice rimettente denuncia, come totalmente ingiustificata, questa mancata previsione che, del resto, non trova
alcuna spiegazione nei lavori preparatori della legge. E, in effetti, la ragione indennitaria, che giustifica le misure a
vantaggio delle categorie previste e che il legislatore ha esplicitamente fondato sull’insufficienza dei controlli sanitari fino
ad allora predisposti, vale allo stesso modo per la categoria di soggetti non prevista e dunque esclusa. In particolare,
non si comprende, se non come una dimenticanza del legislatore, perché il personale sanitario, nei casi indicati, sia
ammesso al beneficio quando si abbia a che fare con infezioni da HIV ma non con epatiti, una volta che lo stesso
legislatore, valutando i due tipi di patologie, li ha considerati equivalenti, ai fini dell’indennizzo, quando esse risultano
contratte a seguito di somministrazione o trasfusione di sangue.
L’imperativo di razionalità della legge impone che la ratio degli interventi legislativi del tipo in questione sia
perseguita integralmente. Se ciò non avviene, la previsione legislativa ingiustificatamente mancante determina una
discriminazione vietata dall’art. 3 della Costituzione. Ciò basta – indipendentemente dalla considerazione degli altri
parametri invocati dal giudice rimettente – a dimostrare, con la fondatezza della questione sollevata, l’illegittimità
costituzionale della disposizione sottoposta al controllo di questa Corte>>
(Corte cost. 26.11.2002, n. 476, FI, 2003, I, 331)
.
A proposito della misura dell’indennizzo dovuto dallo Stato in favore dei
soggetti danneggiati per aver contratto - a seguito di vaccinazioni obbligatorie,
trasfusioni e somministrazione di emoderivati - più di una malattia, a
ognuna delle quali sia conseguito un esito invalidante distinto, la Corte
costituzionale ha ribadito che l’intervento pubblico ex l. n. 210/92 opera solo in
presenza di determinate cause di danno alla salute, in quanto
<<deriva, dal punto di vista costituzionale, da un obbligo dello Stato non strettamente commisurato al
danno subito, un obbligo cioè di solidarietà sociale nei confronti di coloro che hanno esposto la loro salute a un
rischio, nell'interesse non solo loro proprio, ma anche dell'intera collettività. Se si trattasse di un risarcimento
dovuto per la lesione di un diritto, potrebbero ritenersi irrilevanti, ai fini della determinazione quantitativa del
risarcimento, le cause della lesione. Poiché invece si tratta dell'adempimento di un dovere di solidarietà, è
naturale ammettere che tale dovere possa essere avvertito e dal legislatore tradotto in norma, a seconda dei casi,
in maniera e misura variabile in rapporto alle circostanze in cui il danno alla salute si è determinato e che quindi
anche le conseguenti misure indennitarie possano differenziarsi le une dalle altre>>
(Corte cost. 6.3.2002, n. 38, FI, 2002, I, 929)
e ha rinnovato l’invito ad un adeguamento della tutela per via normativa:
<<E' peraltro indubbio che la presente questione, come altre sulle quali questa Corte ha avuto occasione
di pronunciarsi nel recente passato (sentenze n. 27 del 1998; n. 226 e n. 423 del 2000), nasce comprensibilmente
dalla constatazione che i criteri di determinazione della misura dell'indennizzo nelle diverse ipotesi previste dal
legislatore del 1992 non sono i più congrui fra quelli cui il legislatore medesimo avrebbe potuto fare riferimento,
anche alla luce di quanto chiarito da questa Corte circa i caratteri di tale misura, che, oltre a dovere risultare
<<equa>> rispetto al danno subito (sentenze n. 307 del 1990 e n. 118 del 1996), deve <<tenere conto di tutte le
componenti del danno stesso>> (sentenza n. 307 del 1990). L'art. 2, comma 1, della legge n. 210 del 1992, in
particolare, si limita infatti a fare un mero e globale rinvio, per il calcolo dell'indennizzo, a quanto previsto da una
tabella che ha riguardo a un caso distante da quello qui in discussione, cioè al trattamento pensionistico privilegiato
di appartenenti alle Forze Armate, per le ipotesi di infermità o malattie derivanti da cause di servizio. Il che induce
a ribadire la sollecitazione, già formulata nella sentenza n. 423 del 2000 di questa Corte, affinché si addivenga a
una nuova disciplina, specificamente determinata in relazione alle esigenze di normazione proprie della delicata
materia>>
(Corte cost. 6.3.2002, n. 38, FI, 2002, I, 929).
6.2. Responsabilità da contatto sociale.
Bibliografia Castronovo 1997.
Le ipotesi di danno provocato da attività sanitaria nell’ambito delle strutture
pubbliche sono state inquadrate nel seguente schema: il paziente fa valere nei
confronti dell’ente ospedaliero una responsabilità da inadempimento, fondata
sul contratto (da alcuni denominato di spedalità); il medico, invece, risponde in
via extracontrattuale.
56
Antonio Antonio Costanzo
<<Quanto alla natura della responsabilità professionale del medico, osserva preliminarmente
questa Corte che, contrariamente a quanto avviene negli ordinamenti dell'area di common law, ove persiste la
tendenza a radicare la detta responsabilità nell'ambito della responsabilità aquiliana (torts), nei paesi dell'area
romanistica, come nel nostro ordinamento, si inquadra detta responsabilità nell'ambito contrattuale.
Invece controversa è in giurisprudenza la natura della responsabilità del medico dipendente di una struttura
pubblica nei confronti del paziente.
Secondo un primo orientamento (Cass. 8.3.1979,n. 1716; Cass. 21.12.1978, n. 6141; Cass. 26.3.1990, n. 2428;
Cass. 13.3.1998, n. 2750), l'accettazione del paziente nell'ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita
ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il
quale assume a proprio carico, nei confronti del malato l'obbligazione di compiere l'attività diagnostica e la
conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura.
Poiché a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento
dell'attività diagnostica o terapeutica, quale organo dell'ente ospedaliero, la responsabilità del predetto sanitario verso il
paziente per danno cagionato da un suo danno diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la
conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente si prescrive in cinque anni.
Costantemente
si è affermato che la extracontrattualità dell'illecito
del medico dipendente non osta
all'applicazione analogica dell'art. 2236, in quanto la ratio di questa norma consiste nella necessità di non mortificare
l'iniziativa del professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà e ricorre, pertanto, indipendentemente
dalla qualificazione dell'illecito (Cass. S.U. 6.5.1971, n. 1282; Cass. 18.11.1997, n. 11440)>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332. Per l’ipotesi di intervento chirurgico eseguito presso una clinica
universitaria ospite – in virtù di convenzione – di struttura ospedaliera di proprietà e gestita dall’Inail, v. Trib. Firenze
13.4.1999, AC, 2000, 341, secondo cui in caso di danni al paziente rispondono in solido, ma a titolo diverso: 1) ex art.
2043 c.c. il medico chirurgo che ha diretto ed eseguito l’intervento, 2) ex contractu l’Inail, quale ente che ha accettato il
paziente, 3) ex art. 2049 c.c. l’università, in base al rapporto organico intercorrente col professionista) .
Ovviamente, questa soluzione richiede alcune precisazioni quando si
discute di danni a soggetti diversi dalla persona sottoposta a trattamento
sanitario (familiari del paziente, neonato; v. Cass. 2.10.2001 n. 12198).
<<La Corte - con la sentenza 22 novembre 1993 n. 11503 - ha già affrontato la questione che viene riproposta ed
ha affermato che, venuta ad esistenza con la nascita, la persona, se nel corso del parto la sua integrità fisica ha subìto
menomazioni e perciò il suo normale sviluppo ne risulta pregiudicato, ha diritto di essere risarcita del danno che gliene
deriva, se le menomazioni sono state conseguenza del comportamento colposo del medico, cui spettava di sorvegliare
e favorire il decorso del parto.
La responsabilità del medico verso il neonato è stata poi alla base di altre successive pronunce della Corte (Cass.
9 settembre 1998 n. 8875; 19 maggio 1999 n. 4852).
La tesi contraria svolta dalla ricorrente è viziata dall'errore logico di volere interporre una cesura, rispetto alla
persona venuta in vita, tra il tempo posteriore alla nascita, in cui essa risente la minorazione della propria individualità,
ed il tempo precedente alla nascita, in cui sul completamento del suo venire ad esistenza incidono i fatti colposi altrui,
quasi che quel tempo e quel processo di formazione le siano estranei.
Presenta altresì l'errore giuridico di voler ragionare in termini di acquisto del diritto in rapporto a fatti idonei a
determinarlo, però prodottosi prima della nascita, quando nel caso si tratta, per la persona, una volta nata, di non subire
inerme una menomazione che, prodottasi durante il completamento della propria formazione anteriore alla nascita,
produce i suoi effetti invalidanti rispetto al dispiegarsi della propria individualità di persona che esiste […].
L'accertata gravità della colpa toglie poi rilevanza al problema, se ai medici dipendenti dal servizio sanitario
nazionale, si applichino le limitazioni di responsabilità previste dall'art. 28 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761>>
(Cass. 9.5.2000 n. 5881, secondo cui è corretti qualificare in termini di colpa grave la condotta del medico
ostetrico che, dinanzi ad un arresto della progressione del feto al momento del parto, abbia atteso più di tre ore prima di
predisporre ed effettuare un intervento cesareo).
Una diversa impostazione considera invece di natura contrattuale di tipo
professionale non solo la responsabilità dell’ente, ma anche quella del medico
ospedaliero dipendente del servizio sanitario.
<<Secondo un altro orientamento, che trae origine da Cass. 1.3.1988, n. 2144, ma che è stato
successivamente ribadito (Cass. 11.4.1995, n. 4152; Cass. 27.5.1993, n. 5939; Cass. 1.2.1991, n. 977), la
responsabilità dell'ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per i danni
subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica, inserendosi nell'ambito del
rapporto giuridico pubblico (o privato) tra l'ente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito del servizio, ha
natura contrattuale di tipo professionale.
Premesso che lo Stato o altro ente pubblico, nell'esercizio di un servizio pubblico, predisposto nell'interesse dei
privati che ne fanno richiesta, non esercita poteri pubblicistici, in quanto il privato, fatta la richiesta del servizio,
acquista un diritto soggettivo a cui corrisponde il dovere dello Stato o dell’ente pubblico di effettuare la prestazione,
l'indirizzo in esame osserva che in questo caso si costituisce un rapporto giuridico tra i due soggetti, strutturato da un
diritto soggettivo e da un correlato dovere di prestazione, per cui la responsabilità dell'ente pubblico verso il privato
per il danno a questo causato per la non diligente esecuzione della prestazione non è extracontrattuale, essendo
configurabile questo tipo di responsabilità solo quando non preesista tra il danneggiante ed il danneggiato un
rapporto giuridico nel cui ambito venga svolto dal primo l'attività causativa del danno.
Pertanto
nel servizio sanitario l'attività svolta dall'ente gestore a mezzo dei suoi dipendenti è di tipo
professionale medico, similare all'attività svolta nell'esecuzione dell'obbligazione privatistica di prestazione, dal
medico che abbia concluso con il paziente un contratto d'opera professionale. La responsabilità dell'ente gestore
del servizio è diretta, essendo riferibile all'ente, per il principio dell'immedesimazione organica, l'operato del medico
57
Antonio Antonio Costanzo
dipendente inserito nell'organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell'esecuzione non diligente
della prestazione sanitaria, ha causato danni al privato che ha richiesto ed usufruito del servizio>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332).
La giurisprudenza era giunta a questo risultato applicando in via analogica
nei confronti del gestore del servizio pubblico la disciplina della responsabilità
professionale del medico
<<Dalla suddetta ricostruzione della responsabilità dell'ente gestore del servizio sanitario pubblico (intesa,
quindi come responsabilità diretta) il predetto orientamento desume che vanno applicate analogicamente le norme
che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d'opera
professionale; in particolare quella di cui all'art. 2236 c.c.
In tal senso questo secondo indirizzo ribadisce la natura contrattuale della responsabilità dell'ente gestore
del servizio, anche se ne definisce, con maggior rigore, il fondamento dogmatico ed i limiti>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332)
e sottolineando l’identica radice delle due responsabilità, quella dell’ente e
quella del sanitario:
<<Quando passa a valutare la natura della responsabilità del medico il predetto orientamento osserva che, per
l'art. 28 Cost., accanto alla responsabilità dell'ente esiste la responsabilità del medico dipendente; che tali
responsabilità hanno entrambe radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria del medico, nell'ambito
dell'organizzazione sanitaria, che, stante detta comune radice, la responsabilità del medico dipendente è come
quella dell'ente pubblico di tipo professionale contrattuale; che pertanto ad essa vanno applicate analogicamente le
norme che regolano la responsabilità del medico in tema di prestazione professionale, in esecuzione di un contratto
d'opera professionale>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332).
Raccogliendo le osservazioni della dottrina a proposito di responsabilità
derivante da <<un’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e
torto>>, Cass. 22.1.1999, n. 589 ha dato un diverso inquadramento alla
responsabilità dei medici pubblici dipendenti.
La Corte non si è limitata a rimarcare i limiti e le incongruenze della
soluzione aquiliana (il medico, al quale il paziente si affida e che accetta di
prestare le cure, non può essere considerato come l’autore di un qualsiasi fatto
illecito, e la sua responsabilità copre anche le ipotesi di mancata realizzazione
del risultato positivo atteso), ma ha riesaminato criticamente l’orientamento
favorevole alla responsabilità contrattuale.
In sintesi, secondo Cass. 22.1.1999, n. 589:
a) il richiamo all’art. 28 Cost. (che a sua volta rimanda alle <<leggi penali,
civili ed amministrative>>) nulla dice circa la natura della responsabilità;
b) del pari, non basta osservare che all’origine delle responsabilità vi è una
condotta negligente del medico dipendente della struttura pubblica, occorrendo
piuttosto individuare a priori la natura del precetto violato:
<<Infatti la natura di una responsabilità (nella specie contrattuale o extracontrattuale) va determinata non
sulla base della condotta in concreto tenuta dal soggetto agente, ma sulla base della natura del precetto che quella
condotta viola.
Ciò comporta che una stessa condotta può violare due (o più) precetti, uno di natura contrattuale ed uno
di natura extracontrattuale, fondando quindi due diverse responsabilità.
Infatti, nel nostro ordinamento (contrariamente all'ordinamento francese dove vige incontrastato il principio del
non-cumul), quale si è venuto configurando per effetto del diritto vivente, vige il principio che è ammissibile il
concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, allorché un unico comportamento risalente al medesimo
autore appaia di per sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti al contraente da clausole contrattuali, ma anche
dei diritti soggettivi, tutelati anche indipendentemente dalla fattispecie contrattuale (Cass. 23.6.1994,n. 6064;
Cass. 7.8.1982, n. 4437).
Ne consegue che se è ammissibile a carico dello stesso soggetto il concorso
della
responsabilità
58
Antonio Antonio Costanzo
contrattuale e di quella extracontrattuale, a maggior ragione in via di pura ipotesi non potrebbe
escludersi che uno stesso fatto (attività professionale del medico) integri a carico di un soggetto (ente
gestore del servizio sanitario, in quanto allo stesso ascrivibile per effetto dell'immedesimazione
organica)
un'ipotesi
di
responsabilità contrattuale ed a carico dell'autore del fatto un'ipotesi
di responsabilità
extracontrattuale.
Pertanto il fatto che sia la responsabilità del medico che quella dell'ente gestore del servizio sanitario
abbiano "entrambe radici nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente,
nell'ambito
dell'organizzazione sanitaria", pur costituendo un importante elemento fattuale, non comporta
necessariamente che le responsabilità di entrambi i soggetti siano di natura contrattuale di tipo professionale,
come pare ritenere l'orientamento giurisprudenziale da ultimo indicato (che fa capo alla sentenza n. 2144 del 1988)>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332; sul concorso delle due diverse responsabilità, proprio con riferimento
all’attività del medico-chirurgo, v. Cass., 10.5.2000 n. 5945);
c) non convince la tesi del contratto a favore di terzo né quella del contratto
con effetti protettivi del terzo: il paziente è proprio il soggetto al quale l’attività
sanitaria è dovuta:
<<il soggetto danneggiato che agisce non aziona il "contratto" esistente tra l'ente ed il medico, di cui egli
sarebbe il terzo beneficiario (cioè in senso lato il "contratto di lavoro") ma aziona il diverso "contratto" intervenuto tra
lui e l'ente gestore per ottenere la prestazione sanitaria, rispetto al quale egli non è terzo beneficiario , ma parte
contrattuale, ovvero propone un'azione di responsabilità extracontrattuale per la lesione di un suo diritto soggettivo
assoluto, quale è il diritto alla salute.
Quest'ultima obiezione impedisce anche di poter condividere la tesi di coloro che sostengono che nella
fattispecie sarebbe ravvisabile un contratto con effetti protettivi nei confronti di un terzo (il paziente). La figura del
contratto con effetti protettivi nei confronti di un terzo, elaborata dalla dottrina tedesca e che ha trovato un riscontro
anche nella giurisprudenza italiana (Cass. 22.11.1993, n.11503), si avrebbe ogni qualvolta da un determinato
contratto sia deducibile l'attribuzione al terzo di un diritto non al conseguimento della prestazione principale, come
accade sicuramente nel caso del paziente, ma alla sua esecuzione con diligenza tale da evitare danni al terzo
medesimo.
In realtà, l'attività diagnostica e terapeutica è dovuta nei confronti del paziente, nell'ambito di un preesistente
rapporto, sia dall'ente ospedaliero sia dal medico dipendente, ma da ciascuno di questi sotto un diverso profilo e nei
confronti di un diverso soggetto. Quanto all'ente ospedaliero, l'attività è dovuta nei confronti del paziente quale
prestazione che l'ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d'opera professionale.
Quanto al medico dipendente, l'attività è dovuta nei confronti dell'ente ospedaliero nell'ambito del rapporto di
impiego che lo lega all'ente e quale esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332).
La Corte aderisce così all’opinione espressa in dottrina secondo cui
<<nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, si configurerebbe pur sempre una responsabilità
contrattuale nascente da "un'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", in quanto poiché
sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall'arte che professa, il vincolo con il paziente
esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non
faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332)
e afferma che il medico, per il fatto di esercitare una professione c.d. protetta (la
quale richiede una speciale abilitazione dello Stato, è sottoposta anche ad una
disciplina pubblicistica ed è volta a soddisfare e garantire un interesse tutelato
dalla costituzione) è tenuto in ogni caso a rispettare standards obiettivamente
determinati, anche quando egli non sia obbligato verso il paziente ad eseguire
la prestazione.
E’ vero che il medico pubblico dipendente e il paziente non stipulano un
contratto
<<la più recente ed autorevole dottrina ha rilevato che l'art. 1173 c.c., stabilendo che le obbligazioni derivano
da contratto, da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico,
consente di inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale (tra cui, con specifico riguardo alla
fattispecie, può annoverarsi il diritto alla salute), che trascendono singole proposizioni legislative>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332)
ma il rapporto che li lega, nascente da un <<contatto sociale>>, viene
disciplinato - sul piano del contenuto - come un’obbligazione contrattuale:
<<Suggerita dall'ipotesi legislativamente prevista di efficacia di taluni contratti nulli (art. 2126,c.1, 2332, c.2 e 3,
c.c., art. 3 c. 2 l. n. 756/1964), ma allargata altresì a comprendere i casi di rapporti che nella previsione legale sono
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Antonio Antonio Costanzo
di origine contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie
al semplice "contatto sociale" (secondo un'espressione che risale agli scrittori tedeschi), si fa
riferimento, in questi casi al "rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale".
Con questa espressione si riassume una duplice veduta del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte
(il fatto idoneo a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento - art. 1173 c.c.-) sia in ragione del rapporto
che ne scaturisce (e diviene allora assorbente la considerazione del rapporto, che si atteggia ed è disciplinato
secondo lo schema dell'obbligazione da contratto).
La categoria mette in luce una possibile dissociazione tra la fonte - individuata secondo lo schema dell'art. 1173
- e l'obbligazione che ne scaturisce. Quest'ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell'obbligazione
contrattuale, pur se il fatto generatore non è il contratto.
In questa prospettiva, quindi, si ammette che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei
casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur
tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli
interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso.
In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di
obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell'ambito dell'art. 2043
c.c., l'ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è
necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di
un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale>>
(Cass. 22.1.1999, n. 589, FI, 1999, I, 3332; conf. Trib. Napoli 7.5.2001, Giur. napoletana, 2002, 2, 80; per T.
Milano 24.6.1999, CorG, 2000, 374, la responsabilità del medico nei confronti del paziente, allorché egli svolga la
prestazione nell’ambito di una struttura sanitaria, sia quale lavoratore dipendente, che quale lavoratore autonomo, deve
essere sempre e comunque ricondotta entro i contorni della responsabilità contrattuale).
Non va esclusa l’ipotesi di concorso tra responsabilità contrattuale e
extracontrattuale. Per Cass. 10.5.2000 n. 5945, ciò avviene
<<quando in capo ad una stessa persona danneggiata sussista una molteplicità di situazioni protette, in relazione
sia ad un precedente obbligo relativo, sia a divieti generali ed assoluti.
Tali sono, per loro natura, quelli che tutelano gli interessi considerati dai delitti del codice penale, rispetto ai quali
la tutela civilistica costituisce il riflesso patrimoniale della violazione di un divieto più ampio, che prescinde dall'esistenza
di obblighi di origine o a contenuto contrattuale, ed attiene, invece, al diritto assoluto del soggetto di non subire
pregiudizio dei propri diritti (Cass. 6.3.1995, n. 2577).
Ne consegue che, per quanto l'obbligazione del medico, dipendente del servizio sanitario nazionale o di altro Ente
pubblico, per responsabilità professionale nei confronti del paziente abbia contenuto contrattuale e che per tale
responsabilità i regimi della ripartizione dell'onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione siano quelli tipici
delle obbligazioni da contratto d'opera professionale intellettuale (Cass. 22.1.1999, n. 589), ciò non esclude che,
accanto a detta responsabilità a contenuto contrattuale, sorga anche una responsabilità extracontrattuale, ogni qual
volta venga lesa una posizione giuridicamente tutelata a norma dell'art. 2043 c.c.
Stante detto concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, il soggetto danneggiato potrà proporre
cumulativamente le due azioni (ovviamente ciò non potrà dar luogo a duplicazione di risarcimento) ovvero una sole di
esse.
In quest'ultimo caso si applicherà il regime proprio dell'azione proposta. Nel caso in cui sia stata proposta
un'azione di responsabilità extracontrattuale (come nel caso che qui interessa), il regime prescrizionale previsto dall'art.
2947 c.c.
Nella fattispecie, i giudici di merito, avendo ritenuto che le attrici avessero proposto nei confronti dei medici
convenuti solo l'azione di responsabilità extracontrattuale, hanno correttamente regolato la prescrizione a norma dell'art.
2947 c.c.>>
(Cass., 10.5.2000 n. 5945).
6.3. Danno alla partoriente e tutela della relazione madre-figlia.
M.G., padre della minore T. nata fuori dal matrimonio, cita in giudizio l’ente
ospedaliero e chiede il risarcimento dei danni, patrimoniali e morali, subiti dalla
figlia a seguito dell’errore del personale sanitario in occasione dell’anestesia
praticata alla madre durante il parto cesareo.
La bambina era nata sana ma la madre, a causa di quell’errore, aveva
riportato irreversibili lesioni cerebrali ed era ridotta a vita vegetativa. L’errore era
già stato accertato in un precedente giudizio, conclusosi col risarcimento del
danno in favore della partoriente.
I giudici di merito dichiarano la prescrizione del diritto al risarcimento
vertendosi in materia di responsabilità extracontrattuale.
La Corte d’appello osserva che la domanda non si fonda su errori od
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Antonio Antonio Costanzo
omissioni nella cura ed assistenza della bambina, ma sul tragico errore
commesso nella cura della madre: nei confronti della minore non vi era stato
alcun inadempimento, il fatto illecito si era verificato nell’ambito del rapporto tra
altre parti.
Parte attrice si rivolge alla Cassazione, invocando la prescrizione
decennale: il rapporto contrattuale tra partoriente ed ospedale, stipulato anche
nell’interesse del nascituro ex art. 1411 c.c., non ha ad oggetto solo la
prestazione di cure mediche adeguate a favore della madre e del bambino, ma
mira anche alla tutela della relazione madre-figlio, alla quale entrambi, per
legge di natura, sono intensamente interessati. Se errori o negligenze del
personale ospedaliero cagionano la morte o l’infermità della madre o del
bambino, così interrompendo o comunque pregiudicando quella relazione,
allora si è di fronte ad un inadempimento dell’ente ospedaliero nei confronti del
soggetto incolume. Nella specie, l’invalidità della madre aveva pregiudicato la
neonata nelle sue prospettive di crescita e di sviluppo.
La Cassazione, delimitato l’oggetto del rapporto contrattuale, non accoglie
la ricostruzione proposta dal ricorrente:
<<La prestazione intellettuale, oggetto del contratto disciplinato dall’art. 2230 c.c., trova contenuto con riferimento
alle diverse attività professionali. Il professionista è tenuto alla disciplina specifica del debitore qualificato (art. 1176,
secondo comma c.c.), che comporta il rispetto di tutte le regole che nel loro insieme costituiscono la professione alla
quale appartiene.
La prospettazione del ricorrente, secondo la quale sarebbe configurabile tra l’ente ospedaliero, da un lato, e la
madre e la figlia dall’altro, la conclusione di un "contratto di assistenza al parto", che tutelerebbe non solo l’interesse
all’adeguata assistenza alla madre e al bambino, ma anche quello al normale rapporto tra l’una e l’altro è, dunque,
meramente assertiva. Il contratto, infatti, ha ad oggetto la prestazione medica, che impone al sanitario dipendente della
struttura ospedaliera gli obblighi di diagnosi, cura e assistenza e gli altri obblighi di protezione propri della
professione e non anche quantomeno nella sua configurazione tipica l’obbligo ad una generica tutela della relazione
tra la madre e la figlia.
Ciò premesso, correttamente la Corte territoriale ha escluso la sussistenza di una responsabilità contrattuale,
non ravvisandosi nei confronti della bambina violazione dell’obbligazione di prestazione medica. Non sussiste,
poi, e neppure è stata dedotta - se si esclude il generico richiamo alla tutela del rapporto tra la madre e la figlia - la
violazione di obblighi dell’ente ospedaliero strutturalmente autonomi dalla prestazione medica, che potrebbero trovare
inquadramento nella figura, analizzata dalla dottrina, del contratto con obblighi di protezione nei confronti del terzo>>
(Cass. 2.10.2001, n. 12198, CD – U.S.I. Corte Suprema di Cassazione)
La domanda risarcitoria, osserva la Corte, riguarda non la violazione di un
obbligo preesistente, ma la lesione della situazione soggettiva della minore, in
altri termini dell’interesse della figlia al mantenimento del rapporto con la madre:
<Non muta la conclusione il richiamo fatto dal ricorrente alla figura del contratto a favore di terzo e all’art. 1411,
poiché anche in tal caso la prestazione che il terzo ha diritto di pretendere è quella medica.
Non si versa, dunque, in ipotesi di responsabilità contrattuale, risultando anzi chiaramente che ciò che
è stato dedotto in giudizio, indipendentemente dalla qualificazione che si intende attribuire, non è la violazione di un
preesistente obbligo, ma la lesione della situazione soggettiva della minore, che, quale terza qualificata dal rapporto
con il soggetto danneggiato, chiede il ristoro dei danni riflessi subiti, anche di natura non patrimoniale>>
(Cass. 2.10.2001, n. 12198, CD – U.S.I. Corte Suprema di Cassazione.)
Il richiamo alla figura del contratto con effetti protettivi del terzo non è
pertinente, perché nel caso concreto l’inadeguata prestazione sanitaria ha
toccato in via diretta solo la partoriente, mentre rispetto alla figlia può parlarsi di
danno riflesso:
<<Il ricorrente nelle sue difese fa riferimento alla decisione di questa Corte del 22 novembre 1993, n. 11503,
che richiama i "contratti con effetti protettivi nei confronti del terzo nell’ambito dei quali, in caso di inadempimento della
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Antonio Antonio Costanzo
prestazione accessoria può agire non solo la controparte, nella quale permanga un interesse attuale,
ma anche e soprattutto il soggetto a protezione del quale è posta quella previsione". L’applicazione che
di tale categoria contrattuale - di elaborazione dottrinale (ma per un ulteriore richiamo giurisprudenziale, v. Cass.
22 gennaio 1999, n. 589) - è stata fatta nella sentenza indicata è, però, particolare e del tutto diversa da quella
che si pretende nella presente causa. La Corte ha, infatti, affermato che "col ricovero della gestante l’ente ospedaliero
si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad
effettuare con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), si da garantirne la
nascita, evitandogli - nei limiti consentiti dalla scienza ... qualsiasi possibile danno". La tutela contrattuale è stata
dunque riconosciuta con riferimento alla prestazione medica e al danno subito (cerebropatia irreversibile) in
occasione della nascita. E si è ritenuto di richiamare il contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo per
attribuire anche al nascituro la posizione di creditore della prestazione medica.
Diverso è il caso di specie in cui, andando oltre il principio della relatività degli effetti del contratto proprio del
nostro ordinamento, viene richiesto un risarcimento quale
conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo di
prestazione medica nei confronti del terzo. In tal caso, come si è detto, non rileva la violazione di un obbligo ma la
lesione della situazione soggettiva della minore, la cui prospettazione è inquadrabile nella responsabilità aquiliana>>
(Cass. 2.10.2001, n. 12198, CD - U.S.I. Corte Suprema di Cassazione)
E’ per questo che la prescrizione andava fatta decorrere dal giorno del
parto (come stabilito dal giudice di merito) e non dalla successiva dichiarazione
giudiziale di maternità, avente efficacia ex nunc (come sostenuto dal ricorrente):
<<La risarcibilità del danno riflesso presuppone, tra l’altro che il terzo sia in significativo rapporto con il
danneggiato. Il rapporto significativo che si è fatto valere nella causa è quello di figlia naturale. La minore, infatti,
chiede, quale figlia, il risarcimento dei danni che avrebbe subito in conseguenza delle lesioni causate alla madre
nell’esecuzione della prestazione medica; lesioni che avrebbero inciso sul rapporto madre-figlia, essendo rimasta
quest’ultima pregiudicata nelle sue prospettive di crescita e di sviluppo equilibrati.
Non si fa dunque propriamente valere nella causa lo status familiae di figlia naturale, che si ottiene per
effetto del riconoscimento o dell’accertamento giudiziale, ma appunto quel rapporto significativo che consegue al
fatto stesso della nascita. In altri termini, non rileva nel caso di specie che la filiazione naturale fosse o meno
riconosciuta, quanto quel rapporto tra madre e figlia costituitosi per effetto della nascita e la cui perdita aveva
determinato la richiesta di danni nei confronti dell’ospedale ove era avvenuto il parto.
Questa in effetti è la ratio decidendi posta a base della decisione della Corte territoriale, secondo la quale il
diritto poteva essere fatto valere fin dalla conoscenza del fatto dannoso, non essendo pregiudizialmente necessario
attendere il riconoscimento giudiziale della maternità>>
(Cass. 2.10.2001, n. 12198, CD - U.S.I. Corte Suprema di Cassazione)
6.4. Inadeguatezza della struttura.
Bibliografia Breda 2002 – Simone 2003.
Carenze organizzative, mancanza delle necessarie apparecchiature, cattivo
uso delle risorse disponibili, difetti nella comunicazione tra settori o reparti
diversi, possono generare obbligazione risarcitoria in capo alla struttura
sanitaria ma anche ai medici. L’ente ospedaliero deve disporre di adeguate
risorse umane e materiali, correlate alle prestazioni da erogare e agli sviluppi
scientifici e tecnologici, e garantire un’organizzazione efficiente. Spetta al
medico valutare l’idoneità della struttura rispetto al trattamento sanitario da
attuare nel caso concreto: se necessario, egli dovrà disporre il trasferimento del
paziente presso un altro ospedale o un centro specializzato.
Anche il medico di fiducia, legato al paziente da un rapporto privatistico,
può, a determinate condizioni, essere chiamato a rispondere del danno
imputabile al non corretto trattamento attuato presso la struttura pubblica.
Significativa la vicenda esaminata da Cass. 16.5.2000, n. 6318.
In un ospedale pubblico, temporaneamente privo di cardiotografo, nasce un
bambino che risulterà affetto da menomazioni irreversibili a carico del sistema
nervoso centrale, con conseguente doppia emiplegia spastica e grave
pregiudizio delle funzioni psichiche. Insorta sindrome di West, viene
62
Antonio Antonio Costanzo
diagnosticata una tetraparesi spastica con note di ritardo mentale. Le
condizioni del bambino sono così gravi da renderlo del tutto dipendente dai
genitori. I genitori, in proprio e quali rappresentanti del figlio, agiscono per il
risarcimento dei danni derivati dalle lesioni subite dal minore al momento della
nascita e citano in giudizio, oltre alla USL, al primario della divisione dott. P.V. e
all’ostetrica, anche il dott. A.T., ossia il sanitario ospedaliero che, quale medico
di fiducia, aveva seguito la gestante durante la gravidanza.
In primo grado viene assolta la sola ostetrica:
<<Con sentenza del 18.12.1993 l'adito tribunale di Roma, sulla scorta della espletate consulenze tecniche
d'ufficio e della acquisita documentazione clinica, accertò:
- che la prematurità del feto, tra 32 e 33 settimane di età al momento della nascita, non avrebbe, in sé, costituito
un fattore di rischio se non si fosse verificata una grave asfissia al momento della nascita, culminata in un arresto
cardiocircolatorio;
- che non era stato effettuato un monitoraggio sistematico e continuo durante i cinque giorni di permanenza della
puerpera prima del parto e durante il travaglio, in quanto l'apparecchio necessario, il cardiotocografo, era guasto;
- che il periodo dilatante era stato troppo lungo e non era stato tempestivamente accelerato, dato che alle ore
15,30 - con un travaglio iniziato alle 14,10, o addirittura alle 5,35 secondo i dati della cartella neonatale - la dilatazione
era di cm 7, che era rimasta invariata dopo due ore e che era apparsa finalmente completa solo alle 19,30, dopo la
somministrazione di ossitocina effettuata alle 18,30.
Ritenne che, in un contesto connotato da carenza di controlli durante il ricovero in relazione alla immaturità del
feto ed alla omessa accelerazione della prima (dilatazione) e della seconda (espulsione) fase del parto, la responsabilità
del primario prof. V. derivasse dal non avere egli mai visitato la paziente, né impartito le istruzioni e le direttive che il
caso richiedeva subito dopo l'inizio del travaglio; quella del dott. T., che aveva seguito privatamente la puerpera prima
del ricovero e che era entrato in servizio venti minuti prima della nascita del bambino, dalla condotta colposa afferente al
periodo compreso tra il ricovero ed il trasporto della signora P. in sala parto, nonché dal ritardo nell'apprestamento delle
cure da parte dell'équipe; quella della Usl dal suo inadempimento contrattuale, provocato dall'opera dei medici di cui si
era avvalsa la struttura ospedaliera.
Condannò, dunque, solidalmente i predetti al risarcimento dei danni subiti dagli attori nella misura complessiva di
L. 1.121.728.000, mandando assolta da ogni pretesa risarcitoria l'ostetrica>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 19).
La Corte d’appello, espletata una nuova consulenza, accerta
<<che le condizioni del feto, in considerazione della prematurità e della rottura anticipata delle membrane,
avrebbero richiesto durante il periodo di ricovero un monitoraggio continuo ed un'assidua vigilanza al fine di evitare
rischi del tutto prevedibili; che, essendo guasto il cardiotocografo, non era sufficiente che il feto fosse auscultato solo
una o due volte al giorno, come era avvenuto; che il travaglio non avrebbe dovuto superare le 8/10 ore, mentre si era
protratto dalle 5,35 alle 20,10; che troppo lunga era stata anche la fase dilatante, tardivamente accelerata solo alle
17,30; che, completatasi la dilatazione alle 18,30, la fase espulsiva si era inopportunamente prolungata oltre l'ora
consigliata come limite per non incorrere in un'accentuazione dei rischi di ipossia fetale; che, conclusivamente, i metodi
ed i protocolli applicati non erano stati adeguati alle particolarità del caso, segnatamente dalle ore 14, 30 in avanti,
quando avrebbe dovuto essere affrettato il più possibile il momento della nascita, trattandosi di feto prematuro e
dismaturo>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 19).
La Corte d’appello conferma la responsabilità del primario (per violazione
dei doveri di cui all’art. 63, d.p.r. n. 761/1979) e della USL (per inadempimento
dell’obbligazione contrattuale, essendo l’evento riconducibile a disfunzioni della
struttura ospedaliera, quali la mancanza di un cardiotocografo funzionante e il
carente operato dei sanitari); assolve invece il dott. A.T., intervenuto solo pochi
minuti prima del parto, considerando ininfluente la sua condotta sul piano
causale; ritiene infine corretti la liquidazione del danno subito dal minore e il
riconoscimento del danno morale direttamente subito dai genitori per le lesioni
patite dal figlio <<che ne avevano in misura estrema compromesso la qualità di
vita, sostanzialmente ridotta a livello vegetativo>>.
La Cassazione rigetta i ricorsi della USL e del primario ed accoglie quello
dei genitori del bambino, demandando al giudice di rinvio il compito di
63
Antonio Antonio Costanzo
riesaminare la posizione e i possibili profili di responsabilità del medico
di fiducia.
Quanto al primario, che non era stato presente allo svolgimento dei fatti né
aveva visitato la paziente, la Corte, pur riconoscendo che il danno era derivato
dalla mancata adozione di iniziative d’urgenza da parte di chi aveva assistito la
paziente durante il travaglio, ritiene corretta la motivazione del giudice
d’appello:
<<Le ragioni della ravvisata responsabilità del primario sono esposte a pagina 20 della sentenza gravata. Vi si
legge: "non ha mai sottoposto personalmente a visita la paziente, né risulta che sia intervenuto in alcun modo secondo
le precise prescrizioni riportate nella citata normativa, nonostante le particolari condizioni di prematuro e dismaturo del
feto, ed ancor più l'indisponibilità del cardiotocografo, richiedessero una presenza attenta e vigile nell'impartire le
istruzioni del caso e nel verificare che fossero coscienziosamente attuate, misure queste che non risulta dagli atti Siano
State effettuate. Ciò chiaramente costituisce quantomeno una concausa nella produzione dell'evento".
La corte di merito ha dunque assunto che il primario, in relazione alla condizione di prematuro e dismaturo del
feto ed alla indisponibilità del cardiotocografo, avesse il dovere di interessarsi al caso, di dare le opportune disposizioni
e di verificare che esse fossero attuate>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 21).
Il fatto che il paziente sia assegnato ad altro medico non esclude di per sé
la responsabilità del primario, quando sia violato il dovere di dare istruzioni e
direttive adeguate per il trattamento del caso e/o di verificarne la puntuale
attuazione. Inoltre, è il primario che ha la responsabilità del malato:
<<Il primario vigila sull'attività e sulla disciplina del personale... assegnato alla sua divisione o servizio, ha la
responsabilità dei malati, definisce i criteri diagnostici e terapeutici che devono essere seguiti dagli aiuti e dagli
assistenti, pratica direttamente sui malati gli interventi diagnostici e curativi che ritenga di non affidare ai suoi
collaboratori, formula la diagnosi definitiva, ..., dispone la dimissione degli infermi, è responsabile della regolare
compilazione delle cartelle cliniche, ...; cura la preparazione ed il perfezionamento tecnico-professionale del
personale...>>
(art. 7, 3o comma, d.p.r. 27.3.1969, n. 128).
Se un controllo continuo e analitico di tutte le attività che si svolgono nel
reparto è inesigibile, il primario ha comunque
<<il dovere di informarsi dello stato di ogni paziente ricoverato, di seguirne il decorso anche quando non
provveda direttamente alla visita, di dare le istruzioni del caso o comunque di controllare che quelle impartite dagli altri
medici siano corrette e adeguate. E ciò quand'anche abbia affidato l'ammalato ad un medico in sottordine (il che,
peraltro, come s'è sopra rilevato, non è stato provato nel caso di specie), volta che l'affidamento determina la
responsabilità del medico affidatario per gli eventi a lui imputabili che colpiscano l'ammalato, ma non esime il primario
dell'obbligo di assumere, sulla base delle notizie acquisite o che aveva il dovere di acquisire, le iniziative necessarie per
provocare in ambito decisionale i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche (cfr., a contrario, Cass.
pen., n. 11696/94)>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 22).
Nel caso di specie, la delicatezza della situazione e la mancanza del
cardiotocografo avrebbero richiesto un ruolo più attivo del primario e una
completa informazione del paziente:
<<I giudici del merito hanno in sostanza ritenuto, in riferimento a quanto apprezzato anche in sede di consulenze
tecniche e con valutazione niente affatto irragionevole, che il preannunciato parto prematuro a seguito del ricovero della
paziente per rottura delle membrane con abbondante perdita di liquido amniotico, in un contesto connotato dalla
indisponibilità del cardiotocografo, strumento essenziale per il costante controllo dello stato del feto, richiedessero un
interessamento attivo da parte del primario, un controllo del battito cardiaco più frequente di quanto fosse stato fatto
durante tutto il periodo di ricovero, anche nei giorni che precedettero l'inizio del travaglio, ed interventi più decisi e
tempestivi durante tale fase, durata ben 19 ore, parte della quale svoltasi durante l'orario di servizio in ospedale del prof.
V.. Il quale neppure ha mai affermato di aver disposto di essere informato in relazione a un caso che comunque non
presentava le caratteristiche di un parto di routine, tanto meno in relazione alla contingente mancanza del
cardiotocografo, la cui non imputabilità al primario evidentemente non lo esime dal dovere di adottare (o di disporre e
controllare che siano adottati) i possibili accorgimenti sostitutivi, e finanche di informare la paziente del maggior rischio
connesso ad un parto che si svolga senza il presidio dello strumento (cfr., in fattispecie di affermata responsabilità del
primario per l'omessa verifica della perfetta funzionalità della sala operatoria, Cass. pen. n. 4385/95)>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 22).
64
Antonio Antonio Costanzo
Secondo la Cassazione, anche se nella legislazione italiana
<<manca […] uno standard di riferimento degli strumenti di cui una struttura
sanitaria pubblica deve necessariamente disporre>>, il medico responsabile
della cura ha il dovere di informare i pazienti
<<della possibile inadeguatezza della struttura per l'indisponibilità, anche solo momentanea, di strumenti
essenziali per una corretta terapia o per un'adeguata prevenzione di possibili complicazioni, tanto più se queste siano
prevedibili in relazione alla particolare vulnerabilità del prodotto del concepimento, specialmente se esso venga alla luce
in condizioni di prematurità o immaturità>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 23).
Quanto alla posizione del medico curante che sia dipendente della struttura
sanitaria pubblica presso cui la persona è ricoverata, la Corte osserva che
l’avvenuto ricovero ospedaliero non esclude una responsabilità del medico in
base al rapporto di natura privatistica col paziente. Dunque, una responsabilità
(non da contatto sociale, ma) da contratto d’opera professionale.
I due profili (attività svolta quale medico di fiducia e quale dipendente
ospedaliero) vanno tenuti distinti.
Il medico di fiducia non può vedersi imputate le carenze della struttura
pubblica presso cui svolge le funzioni di medico ospedaliero né le condotte
colpose di altri dipendenti dell'ente, <<connotato da regole organizzative
insensibili al rapporto privatistico tra medico e paziente>>, ma ha comunque un
duplice obbligo: da un lato, quello di
<<di informare il paziente dell'eventuale, anche solo contingente, inadeguatezza della struttura nella quale è
inserito e presso la quale il paziente sia ricoverato, tanto più se la scelta sia effettuata in ragione proprio dell'inserimento
del medico di fiducia in quella struttura pubblica>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 25);
dall’altro, quello di
<<prestare al paziente ogni attenzione e cura che non siano assolutamente incompatibili con lo svolgimento delle
proprie mansioni di pubblico dipendente (cfr., nel senso della compatibilità tra mansioni ospedaliere ed obbligo assunto
dal medico di assistere la propria paziente al parto e sull'obbligo del medico di adoperarsi per rendere compatibili i suoi
diversi doveri, Cass., n. 2750/98)>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 25).
Pertanto, dovendosi valutare la condotta del dott. A.T. non quale
dipendente della struttura pubblica, ma in base al rapporto contrattuale col
paziente, non è corretto affermare, in relazione all’art. 2232 c.c., che
l’intervenuto ricovero in ospedale esclude ogni obbligo a carico del medico di
fiducia:
<<dovendosi invece stabilire - il che è stato omesso dalla corte d'appello - se egli avrebbe in ipotesi dovuto
sconsigliare il ricovero in relazione all'eventuale consapevolezza dell'indisponibilità del cardiotocografo da parte
dell'ospedale, provvedere ad un'accorta auscultazione del battito cardiaco del feto nelle ore nelle quali era di turno in
ospedale, recarsi in ospedale anche al di fuori del proprio orario di servizio, segnalare la delicatezza del caso al primario
ed agli altri medici, chiedere di essere informato dell'inizio e del decorso del travaglio anche dalla ostetrica,
raccomandare che il parto fosse accelerato, e così via>>
(Cass. 16.5.2000 n. 6318, Guida dir., 2000, n. 20, 25).
6.5. Omessa o insufficiente vigilanza.
65
Antonio Antonio Costanzo
I doveri di prudenza, diligenza, imparzialità e legalità, come si è
visto, costituiscono un limite esterno alla discrezionalità della p.a.. Tale limite
riguarda anche l’operato della p.a. nell’esercizio dei poteri istituzionali di
vigilanza e controllo su attività come l’importazione, la distribuzione e la
commercializzazione di farmaci emoderivati (v. da ultimo Trib. Roma 20.6.2002,
FI, 2002, I, 3225) che sono oggettivamente pericolose e dalle quali può derivare
un grave danno da lesione del diritto alla vita, alla salute e all’integrità fisica.
Su tali premesse, Trib. Roma 27.11.1998 (FI, 1999, I, 313) ha ritenuto
configurabile in astratto la responsabilità ex art. 2043 c.c. del Ministero della
sanità per i danni sofferti da emofilici e talassemici che nel corso degli anni
ottanta hanno contratto il virus dell’Hiv o dell’epatite B o C in occasione della
necessaria assunzione di trasfusioni e farmaci emoderivati.
In concreto, il Tribunale ha osservato che dalla generale competenza di
<<provvedere alla tutela della salute pubblica>> (art. 1, 1° comma, l. 13.3.1958,
n. 296, istitutiva del Ministero della sanità) deriva <<una specifica responsabilità
qualificata>> del Ministero della sanità non solo ex art. 2043 c.c., ma anche ex
artt. 2050 e 2049 c.c., con le conseguenze sul piano dell’onere della prova.
L’insufficienza del semplice esame dei certificati di origine; la sistematica
mancanza di effettivi controlli, sia pure a campione, su plasma ed emoderivati;
la carenza di verifiche nonostante le conoscenze sui pericoli di contagio anche
in relazione a nuove e letali forme virali, sono poste a fondamento della
decisione:
<<[…] nel lasso di tempo dal 1967 al 1994, pur in assenza di una compiuta normativa sulla plasmaferesi ed in
mancanza di un piano nazionale del sangue, la convenuta pubblica amministrazione aveva comunque l’obbligo
quantomeno di sorvegliare sul plasma importato dall’estero e sui canali di approvvigionamento e distribuzione di cui si
avvaleva in via non sussidiaria, ma quantitativamente sufficiente (case farmaceutiche, ospedali, farmacie, ecc.).
Il convenuto ministero, per la pericolosità insita nell’attività peraltro gestita per il tramite di strutture sussidiarie e
da esso comunque autorizzate e/o dipendenti e controllabili, era ed è, quindi, responsabile dei danni cagionati a terzi. E
ciò, con responsabilità ex art. 2043 c.c., nonché 2050 e 2049 c.c.
In ogni caso la pubblica amministrazione evocata in giudizio deve ritenersi incorsa in grave responsabilità nel
mancato esercizio ed attivazione dei propri poteri-doveri di istituto nella sorveglianza e nel ritiro degli emoderivati non
sottoposti al trattamento al calore antivirucidico>>
(Trib. Roma, 27.11.1998, FI, 1999, I, 328).
Trib. Roma 27.11.1998, ravvisata - sulla sola base della documentazione
sanitaria e dei verbali delle commissioni medico-ospedaliere ex l. art. 4, l. n.
210/92 - la prova del nesso causale fra il danno da emoderivato infetto e
condotta omissiva della p.a., ha pronunciato la condanna generica del Ministero
al risarcimento dei danni <<materiali, morali, alla vita di relazione e biologici>>;
ha inoltre affermato la possibilità di cumulare l’indennizzo previsto dalla l.
201/92, avente carattere assistenziale, e l’integrale risarcimento dei danni (cfr.
App. Milano 22.10.1996, Danno resp., 1997, 734).
Con maggiore chiarezza, e con un più approfondito esame delle questioni
in fatto e diritto, Trib. Roma 14.6.2001 (CorG, 2001, 1204; RCP, 2002, 835) ha
fondato unicamente sull’art. 2043 c.c. la responsabilità (non esclusiva) del
66
Antonio Antonio Costanzo
Ministero della sanità (oggi della salute) per omesso controllo o
negligente vigilanza in relazione ai danni da contagio causati dall’uso di sangue
o emoderivati infetti. Trib. Roma 14.6.2001 ha precisato che l’attività pericolosa
non è quella di chi esercita la vigilanza in materia sanitaria e di uso di
emoderivati, ma semmai quella sottoposta a vigilanza (sia essa la pratica
terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso di emoderivati oppure la
produzione e commercializzazioni di tali prodotti; conf. Trib. Roma 8.1.2003, FI,
2003, I, 622). Il Tribunale ha escluso il cumulo integrale di indennizzo ex l. n.
210/92 e risarcimento del danno, in adesione alla c.d. teoria dello scomputo
<<il giudice del giudizio risarcitorio è tenuto a detrarre dall’eventuale maggior importo del danno risarcibile (nel
caso di illecito colposo dell’amministrazione) a quello (eventualmente minore) liquidato dalla stessa amministrazione a
titolo di indennizzo, con la conseguenza che, nel caso in cui quest’ultimo sia invece maggiore (o uguale) all’importo del
danno risarcibile, la domanda risarcitoria deve essere rigettata>>
(Trib. Roma 8.1.2003, FI, 2003, I, 628)
e con richiamo altresì al principio della compensatio lucri cum damno.
Considerato che al Ministero viene addebitato un comportamento omissivo
e che è ipotizzabile il concorso di altri soggetti (art. 2055 c.c.), due sono i punti
problematici: l’individuazione delle norme fonti dell’obbligo di agire,
l’accertamento del nesso causale tra condotta omissiva ed evento.
Nel caso esaminato da App. Firenze 7.6.2000 (FI, 2001, I, 1722), l’infezione
da virus dell’epatite C si era manifestata dopo quattro mesi dalla trasfusione di
sangue in un paziente che risultava immune da tale patologia al momento del
ricovero in ospedale per ulcera gastrica sanguinante con shock emorragico.
Due delle undici sacche di sangue impiegate per la trasfusione non erano
numerate e provenivano così da persona ignota. Ravvisata, sulla base di un
giudizio probabilistico, la causalità tra condotta colposa dei sanitari ed evento
lesivo, la corte fiorentina ha affermato la responsabilità della USL ex art. 2043
c.c.
<< che comporta il diritto al risarcimento dei danni di natura patrimoniale, biologico e morale, quest’ultimo perché
la condotta riferita integra anche il delitto di lesioni di cui all’art. 590 c.c., in relazione all’art. 583, 2° comma, n. 1 , c.p.,
accertata solo a fini risarcitori in questa sede in assenza di procedimento penale>>
(App. Firenze 7.6.2000, FI, 2001, I, 1727).
6.5.1. Danno da contagio e prescrizione.
Nell’ipotesi di danno da contagio, quando inizia a decorrere la prescrizione?
R.M. ha contratto la poliomelite da neonata. Una volta maggiorenne,
leggendo articoli su un caso simile, apprende che la malattia potrebbe esserle
stata trasmessa dai cuginetti, sottoposti a vaccinazione obbligatoria. Agisce
quindi per i danni contro il Ministero della sanità, addebitando al convenuto la
colpa di non aver stabilito alcuna precauzione contro il rischio da contagio per
contatto con soggetti vaccinati. I giudici di merito rigettano la domanda.
Secondo la Corte d’appello, il diritto al risarcimento dei danni è prescritto, il dies
a quo risale al 1968, quando si è verificato l’evento danno.
67
Antonio Antonio Costanzo
Cass. 21.2.2003, n. 2645, accoglie il ricorso di R.M. che,
invocando il principio della conoscibilità dell’evento dannoso, sosteneva di aver
potuto scoprire il nesso di causalità tra la vaccinazione e le conseguenze
morbose, e addebitare il fatto ad un terzo determinato, solo dopo la consulenza
d’ufficio.
Osserva la Corte che:
a) secondo la direttiva desumibile dall’art. 2935 c.c. (<<la prescrizione
comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere>>), il
termine di prescrizione decorre non dal momento in cui il diritto risulta violato,
ma dal momento in cui se ne può sperimentare la tutela;
b) l’art. 2947, 1° comma, c.c. (<<il diritto al risarcimento del danno derivante
da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è
verificato>>) viene normalmente interpretato nel senso che la prescrizione inizia
a decorrere (non dal momento della commissione dell’illecito o della ontologica
produzione del danno, ma) dal momento in cui la produzione del danno si
manifesta all’esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile
(Cass. 9.5.2000, n. 5913; Cass. 28.7.2000, n. 9927):
<<Il dato rilevante di questa giurisprudenza è quello di interpretare il “fatto” di cui all’art. 2947 c.c., primo comma
comprensivo, non solo del comportamento doloso o colposo, ma anche dell’evento dannoso. In tal modo la prescrizione
decorre non dalla cessazione della condotta generatrice del danno, ma dall’esteriorizzazione del danno stesso>>
(Cass. 21.2.2003, n. 2645, http://www.ipsoa.it/dronline/news/0302645.pdf);
c) alla direttiva enunciata in generale dall’art. 2935 c.c. è ispirata la
disciplina della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti
dall’impiego di energia nucleare (art. 23, 1° co., l. 21.12.1962, n. 1860, nel testo
novellato dal d.p.r. 10.5.1975, n. 519) e da prodotti difettosi (art. 13, 1° e 2° co.,
d.p.r. 24.5.1988, n. 224), e ciò va considerato nell’interpretazione dell’art. 2947,
1° co., c.c.;
d) un riferimento alla conoscenza del danno e alla sua addebitabilità ad un
terzo era già contenuto in Cass. 6.2.1982, n. 685, sia pure relativa a diversa
fattispecie (lesione di un immobile);
e) per poter segnare l’esordio della prescrizione, occorre che il “fatto” cui fa
riferimento l’art. 2947, 1° co., c.c., comprensivo di condotta ed evento,
<<sia percepito - o possa esserlo usando l’ordinaria diligenza -, non nella sua realtà fenomenica che può essere
giuridicamente insignificante, ma – secondo la previsione dell’art. 2043 cod. civ. – in tutte le sue circostanze e modalità
fattuali che rendono ingiusto il danno sofferto per effetto di un comportamento, doloso o colposo di un terzo (o
comunque imputabile ad un terzo).
Nel caso di specie è stato prospettato un danno per malattia da contagio da persona sottoposta a trattamento
sanitario obbligatorio (vaccinazione antipolio). In questo caso, la decorrenza della prescrizione non può essere fissata
dalla percezione della malattia in sé, ma dalla conoscenza o dalla conoscibilità, secondo l’ordinaria diligenza e secondo
la diffusione delle conoscenze scientifiche dell’epoca, che la malattia potesse essere stata indotta da contagio da
persona sottoposta a vaccinazione. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può
iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a
concretizzare il “fatto” che l’art. 2947, primo comma individua quale esordio della prescrizione.
In conclusione il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per
contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell’art. 2947 primo comma c.c.,
non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui la
malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno
ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della
diffusione delle conoscenze scientifiche>>
68
Antonio Antonio Costanzo
(Cass. 21.2.2003, n. 2645, http://www.ipsoa.it/dronline/news/0302645.pdf).
Anche per Trib. Roma 8.1.2003, la prescrizione decorre dal momento in cui
<<la condotta illecita abbia inciso nella sfera giuridica del danneggiato con effetti esteriorizzati e conoscibili dal
medesimo, nel senso che la persona abbia avuto reale e concreta consapevolezza dell’esistenza e gravità del danno (v.
App. Roma n. 3242 del 4 ottobre 2000)>>
(Trib. Roma 8.1.2003, FI, 2003, I, 626).
6.5. Custodia di neonati.
Bibliografia Mazzia 1988.
Un neonato di due giorni viene sottratto da ignoti penetrati nel “nido”
dell’ospedale S. Spirito di Ventimiglia: inutili le ricerche della polizia, del
bambino si perdono le tracce. Dopo la nascita, il bambino era stato posto nel
“nido” (ambiente riservato ai neonati), la cui porta di accesso, priva di serratura
e di facile rotazione, non rimaneva chiusa durante le ore di apertura
dell’ospedale al pubblico per le visite ai ricoverati. I genitori citano in giudizio
l’ente ospedaliero e ne chiedono la condanna al risarcimento dei danni,
attribuendo il rapimento del figlio alla carente sorveglianza del “nido” del reparto
pediatrico.
Il Tribunale rigetta la domanda. La Corte d’appello pronuncia invece la
condanna generica della USL, succeduta per legge all’ente ospedaliero.
Secondo la Corte, che accerta una <<situazione di quasi totale carenza di
custodia del bambino>>, si tratta di responsabilità da inadempimento (art. 1218
c.c.) per violazione dell’obbligo di custodia direttamente imputabile alla cattiva
organizzazione del reparto pediatrico. Accanto all’obbligo di cura, afferma il
giudice, l’ente ospedaliero assume l’obbligo di <<salvaguardare l’incolumità
fisica dei ricoverati incapaci>>.
<<La sentenza impugnata osserva tra l’altro: 1) Tra la persona ricoverata in un ospedale e l’ospedale stesso si
instaura un rapporto obbligatorio, avente, ad oggetto la cura del ricoverato, e se costui, per età o invalidità o malattia, è
incapace, anche la custodia dello stesso. Ne deriva la conseguenza che tra l’ente ospedaliero S. Spirito e i genitori del
piccolo […], col fatto stesso della nascita di costui nell’ospedale, si costituì un particolare rapporto disciplinato dalla
legge, in forza del quale l’ospedale era tenuto a prestare al bambino le opportune cure neonatali ed a custodirlo. Si è in
presenza quindi di una responsabilità contrattuale, disciplinata dall’art. 1218 c.c.
2) In termini generali, non può considerarsi ristretta al solo profilo sanitario la vigilanza dei ricoverati, essendo
invece obbligatoria e necessaria anche una sorveglianza atta a salvaguardare l’incolumità fisica dei ricoverati incapaci.
In particolare per la sala neonatale, in ogni ospedale ben organizzato, le porte di accesso sono chiuse, in modo che
non possa accedervi nessuno, tranne il personale addetto, e all’interno del “nido” vi sono sempre delle infermiere
vigilatrici d’infanzia. Ovviamente, queste cautele hanno una diretta finalità sanitaria. Ma allo stesso tempo, con tal
sistema si realizzano indirettamente ma efficacemente, anche quelle che l’appellata chiama strutture contro i rapimenti.
E’ vero anche che un piccolo ospedale con un solo bambino nel “nido”, non può essere in condizioni di tenervi sempre
una infermiera vigilatrice d’infanzia. Ma in questo caso deve ricorrere ad altre cautele, atte ad impedire a chiunque
l’accesso alla sala neonatale>>
(Cass. 4.8.1987, n. 6707, FI, 1988, I, 1632).
Nel caso di specie, l’aggressione alla libertà della persona proveniva
dall’esterno. La Corte d’appello ritiene sussistente il nesso di causalità tra
condotta ed evento, affermando che l’omissione della custodia aveva preparato
le condizioni ideali per il rapimento del neonato (fatto doloso del terzo).
Non conosciamo la sorte di quel bambino. I giudici si sono occupati del
danno subito dai genitori della vittima del sequestro, privati delle gioie, delle
69
Antonio Antonio Costanzo
esperienze, dell’arricchimento interiore che derivano dal fatto di
allevare ed educare un figlio atteso, di condividere con lui un tratto della vita. Il
danno, dunque, consiste innanzitutto nella rottura del legame familiare appena
costituito.
Questi aspetti non traspaiono dalla sentenza della Cassazione che, nel
rigettare il ricorso della USL, fonda la responsabilità della p.a. sulla tutela della
salute del ricoverato, prospettando un’eventuale profilo di responsabilità
extracontrattuale:
<<Nell’analisi giuridica esperita dal giudice, l’inadempimento – causa di responsabilità per danni – è propriamente
rapportato all’obbligazione istituzionale primaria dell’ente ospedaliero, quella, cioè, della cura delle persone ricoverate (o
presentate per il pronto soccorso). La tutela de <<la salute come fondamentale diritto dell’individuo>> (art. 32, 1°
comma, Cost., e art. 1 l. 23 dicembre 1978 n.833) non si esaurisce, per quanto attiene agli ospedali, nella mera
prestazione delle cure mediche, chirurgiche generali e specialistiche (cioè compiti espressi degli enti ospedalieri a
norma dell’art. 2 l. 12 febbraio 1968 n. 132), ma include la protezione delle persone di minorata o nulla autotutela che
siano destinatarie dell’assistenza ospedaliera. Per tali persone, la protezione è parte essenziale, a volte la massima
parte, della cura sanitaria, sicché è implicita nello stesso concetto di “cura”, il quale dev’essere assunto come includente
nel comportamento dovuto tutte le attività essenziali per l’effettiva realizzazione dell’utilità perseguita dall’obbligazione.
Inquadrata, dunque, la responsabilità dell’ente nell’adempimento di un’obbligazione legale, addirittura
istituzionale, di esso, non può esimere l’ente medesimo la circostanza che esso non si fosse autodeterminato mediante
proprio regolamento all’adempimento specifico di cui si tratta. Nell’ipotesi, il diritto soggettivo conferito all’”individuo”
dalla legge (persino costituzionale) esclude qualsiasi discrezionalità dell’ente obbligato, per quanto attiene
all’estrinsecazione del comportamento dovuto, e l’assenza di normazione secondaria è sopperita, secondo il principio di
correttezza, dalle regole elementari della particolare disciplina tecnica e dall’imprescindibile dovere di diligenza che
presiedono comunque l’adempimento, anche quando esso è dovuto da un p.a. Orbene, poiché è affatto ragionevole, e
correttamente orientato in diritto, l’apprezzamento del giudice di merito, secondo cui la custodia – rectius, la protezione
– del neonato era nel contenuto dell’obbligazione dell’ospedale, la relativa responsabilità dell’ente, anche nell’eventuale
profilo aquiliano, non è eliminata dalla mancanza di regolamentazione interna di quell’attività dovuta>>
(Cass. 4.8.1987, n. 6707, FI, 1988, I, 1639).
Le cronache del 2000 hanno narrato una vicenda veramente singolare.
La mattina del 1 gennaio 1998, poco dopo la mezzanotte, nell’ospedale di
una cittadina siciliana nascono due bambine, a breve distanza l’una dall’altra.
Le bambine hanno quasi tre anni quando un banale episodio fa sorgere i
primi dubbi in una delle coppie di genitori: la signora era andata a prendere la
figlia all’asilo ma per errore le era stata consegnata l’altra bambina; la maestra
si era giustificata facendo notare alla donna che la piccola le somigliava molto.
La coppia, dopo le prima analisi del sangue, informa gli altri genitori. Le due
famiglie si parlano. Gli accertamenti eseguiti (analisi del sangue, DNA)
confermano l’iniziale sospetto: vi era stato uno scambio delle bambine nella
culla (forse dovuto all’involontario scambio di tutine prima che venissero messi i
braccialetti,
La
Repubblica
del
14.10.2000,
http://www.repubblica.it/online/cronaca/scambiate/scambiate/scambiate.html).
Le famiglie decidono che le bambine devono tornare dai genitori biologici e
iniziano a frequentarsi assiduamente. Vengono intraprese le azioni legali per
ristabilire la conformità dei vincoli giuridici al dato biologico; psicologi e
specialisti in psichiatria assistono genitori, nonni, sorelline e bambine nel difficile
cammino
intrapreso
(La
Repubblica
del
27.12.2000,
http://www.repubblica.it/online/cronaca/scambiate/tornano/tornano.html).
6.6. Servizi psichiatrici.
70
Antonio Antonio Costanzo
Bibliografia Cendon 1990.
Ancora aperto nel nostro paese il tema dell’assistenza psichiatrica.
<<Salute mentale: posti letto e strutture in linea con le indicazioni della programmazione nazionale, con una
ripartizione fifty-fifty tra pubblico e privato. Ma niente ottimismi: la situazione del personale è ancora in alto mare,
soprattutto a livello domiciliare, dove sarebbe invece fondamentale il supporto ai malati e alle famiglie. Che chiedono,
comunque, ben altra assistenza e ben altro supporto da quello attuale […].
La fotografia scattata in questi giorni dal ministero della Salute sulla situazione dell’assistenza psichiatrica nel
2001, mette in evidenza un forte impulso alla crescita dei posti letto residenziali, un aumento di assistenza nei Centri
diurni e una new entry: la presenza di posti letto nei Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24. Soprattutto in quattro
Regioni: Friuli Venezia Giulia (50 posti letto), Emilia Romagna (63), Toscana (44) e Campania (20). E si tratta, a giudizio
degli operatori, di un elemento innovativo che per anni è rimasto patrimonio quasi esclusivo di Trieste, indicata come
esempio di eccellenza per i servizi di salute mentale dalla stessa Oms, e che ora sembra estendersi in altre zone del
Paese.
Una residenzialità che cresce, quindi, in sintonia con alcune proposte di legge in discussione al Parlamento. In
particolare con quella che dovrebbe essere il “testo base” per la revisione della 180/1978: la Pdl dell’azzurra Maria
Burani Procaccini.Si è passati infatti dagli 11.066 posti letto del 1998 ai 17.101 posti letto con uno standard di 2,96 ogni
10mila abitanti, ben superiore all’uno ogni 10mila abitanti previsto nel Progetto obiettivo tutela della Salute mentale e
confermato nei Livelli essenziali di assistenza.
[…] Un secondo dato significativo è l’aumento dell’offerta di Centri diurni che passano da 481 (1,26 ogni 150mila
abitanti) nel 1998 a 612 (1,59) nel 2001, ben superiore allo standard di uno.
[…]
Ma il rovescio della medaglia è il personale, carente soprattutto nei Dipartimenti di salute mentale. Nel 2001,
infatti, gli operatori erano 30.711, mentre per rispettare gli standard (uno ogni 1.500 abitanti) avrebbero dovuto essere
almeno 38.751. E anche inserendo altre figure professionali rilevate nell’indagine del ministero (3.735 tra operatori di
cooperative sociali, animatori, assistenti sanitari, maestri d’arte e così via) la carenza resta sempre elevata>>
(Il Sole 24 Ore, 9.12.2002).
L’assistenza dei disabili psichici pone delicati problemi anche sotto il profilo
della prevenzione dei danni che queste persone possono arrecare a sé o ad
altri (a partire dai familiari).
Quali sono i compiti dei servizi psichiatrici? come va organizzata l’attività
assistenziale? come inquadrare gli eventuali profili di responsabilità?
6.6.1. Sorveglianza dell’incapace.
Il caso trattato da Trib. Trieste 12.12.1990 si caratterizza per l’assoluta
gravità dei precedenti riportati dall’incapace.
U.Z., già autore di violenza carnale nei confronti della figlia tredicenne, nel
1974 aveva ucciso a martellate la convivente e nel 1976, rinchiuso nel
manicomio giudiziario, aveva inferto gravi lesioni ad un uomo, a colpi di
mattone. Nel 1984 U.Z. viene dimesso dal manicomio giudiziario e affidato alla
USL – Centro di igiene mentale di Trieste allo scopo di permetterne il
reinserimento sociale. Nel 1987 uccide la figlia B.Z. Il giudice istruttore dichiara
non doversi procedere nei confronti di U.Z. perché totalmente incapace di
intendere e di volere e ne ordina il ricovero in ospedale giudiziario psichiatrico
per la durata minima di dieci anni.
Il marito della vittima nella sua veste di legale rappresentante del figlio
intenta una causa civile contro la USL triestina, quale datore di lavoro dei
sanitari “custodi” dell’incapace.
Secondo il Tribunale, anche dopo la soppressione della legislazione
71
Antonio Antonio Costanzo
“custodialistica” per effetto della l. 13.5.1978, n. 180 è configurabile
una responsabilità della USL quale soggetto tenuto alla sorveglianza
dell’incapace ex art. 2047 c.c. A tale conclusione il giudice perviene dopo una
rilettura dell’art. 2047 c.c. alla luce della nuova regolamentazione dei servizi
psichiatrici:
<<Ora, l’attuale disciplina dei servizi psichiatrici ha modificato quella precedente, caratterizzata da una
concezione “custodialistica” sugli incapaci: il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale è considerato
adesso una misura eccezionale molto circostanziata; può svolgersi in condizioni di degenza ospedaliera solo se vi sono
interventi terapeutici urgenti da fare, interventi che richiedono il ricovero in ospedale; di regola i trattamenti psichiatrici
sono, in base alla nuova legge (art. 1, 1° comma l. 180/78; art. 33, 1° comma l. n. 833/78) volontari, ed il ricovero è
finalizzato essenzialmente al malato di mente.
Riflettendo su tali mutamenti, si avverte il contrasto tra la normativa dei rapporti tra servizi psichiatrici e malato di
mente, che ha soppresso l’aspetto “custodialistico” della sorveglianza, e la responsabilità prevista dall’art. 2047 che
presuppone poteri e possibilità di “sorveglianza” se non soppressi, senz’altro ridotti a seguito della riforma psichiatrica>>
(Trib. Trieste12.12.1990).
Ad avviso del Tribunale, l’esigenza di difesa sociale e la possibilità di
assegnare all’art. 2047 c.c. una funzione preventiva grazie all’imputazione al
sorvegliante della responsabilità <<in termini di colpa>> (ossia, per non aver
svolto una sufficiente azione preventiva di sorveglianza) consentono di
configurare a carico dei servizi psichiatrici <<doveri con contenuti di
sorveglianza>> compatibili con la riforma ex l. n. 180/78:
<<Ed in vero il rapporto che viene a realizzarsi tra il malato di mente ed i servizi psichiatrici per la cura del primo,
rende attuale una serie di doveri che, in relazione alla natura ed alla gravità della malattia, prevedono l’accertamento
della pericolosità sociale del malato, desumibile anche dall’anamnesi personale, la frequenza dei contatti terapeutici,
l’acquisizione di informazioni ed avvisi sulla pericolosità, associata al tipo di disturbo mentale, informazioni ed avvisi alle
persone che dividono la vita quotidiana con il malato od a quelle che sono destinatarie delle sue minacce>>
(Trib. Trieste12.12.1990).
Come l’art. 2048 c.c., osserva il Tribunale, così anche l’art. 2047 c.c. non
presuppone un controllo assoluto e continuo della persona da sorvegliare, ma
affida a chi è tenuto alla sorveglianza
<<la valutazione dell’intensità e dei modi con cui realizzare tale sorveglianza, in maniera da garantire un giusto
equilibrio tra la libertà di movimento e di esplicazione della personalità dei soggetti sottoposti a controllo e la necessaria
tutela dei terzi che dalle norme citate viene attuata>>
(Trib. Trieste12.12.1990).
In concreto, esaminata anche la perizia medico-legale svolta in sede
penale, il Tribunale ritiene che gli enunciati <<doveri con contenuti di
sorveglianza>>, riconducibili al principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. e
rispondenti ai principi della legge di riforma dei servizi psichiatrici, non siano
stati rispettati:
<<In buona sostanza l’anamnesi dello Z. non solo non permetteva di azzardare “scommesse” sul suo recupero
alla collettività, ma, anzi, imponeva massicci interventi terapeutici diretti a ridurre tale pericolosità. Imponeva poi
l’acquisizione, attraverso le persone che con lui s’intrattenevano, di continue ed aggiornate informazioni sulle sue
abitudini e comportamenti.
Niente di tutto ciò risulta che sia stato effettuato dai servizi psichiatrici se dagli elementi acquisiti nell’istruttoria
penale – utilizzabili per costante giurisprudenza anche nel processo civile (v. Cass. 27/3/73 n. 840; Cass. 11/5/71 n.
1346) – risulta che lo Z. continuava ad intrattenere un rapporto incestuoso con la figlia che è stato poi, come ritenuto dal
Collegio dei periti nominati dal Giudice Istruttore penale, quello che ha scatenato il meccanismo criminogenetico dello Z.
Inoltre, nella perizia medico-legale, mentre si afferma che “la malattia mentale persiste più o meno immodificata
ormai da molti anni” (pag. 34), si rileva, più avanti (pag. 38) “non sappiamo, con riferimento a questi ultimi (id est: gli
operatori psichiatrici) come e se è stato assistito e curato”.
In presenza di tali circostanze, deve addebitarsi all’USL di non aver svolto alcuna seria e meditata azione
preventiva di cura e sorveglianza nei confronti di U.Z. – adeguata ad evitare il compimento dell’illecito, alla luce della
pericolosità ampiamente dimostrata da quest’ultimo.
72
Antonio Antonio Costanzo
Né l’USL triestina ha provato, o si è offerta di provare, circostanze che dimostrassero che l’omicidio
di B.Z. non sarebbe stato evitato anche se fossero state realizzate adeguate misure preventive
(colpevolmente mai attuate a fronte di una malattia – la schizofrenia - destinata a mai recedere ed, al contrario a
manifestarsi con ricorrenti, ed agghiaccianti, episodi)>>
(Trib. Trieste12.12.1990).
6.6.2. Assistenza inadeguata.
Anche Trib. Reggio Emilia 18.11.1989 (NGCC, 1990, I, 549) si occupa di un
omicidio commesso da un incapace affidato alla USL.
L’11 giugno 1985, il diciannovenne L.M., lasciato nottetempo
l’appartamento assegnatogli dal Comune di Guastalla, si introduce
nell’abitazione della famiglia S., preleva dal letto una bambina di tre anni e la
getta nel fiume provocandone la morte per annegamento.
L.M. aveva una storia travagliata alle spalle: a undici anni, dopo la
declaratoria di decadenza dei genitori dalla potestà sui figli minori, insieme al
fratello era stato affidato al consorzio socio sanitario di Reggio Emilia e
collocato in istituto; nel febbraio 1983, trasferito a Guastalla, veniva “preso in
carico” dal servizio materno infantile della locale USL; in quel periodo L.M. era
andato ad abitare col fratello in un appartamento di proprietà comunale: lo
seguivano un neuropsichiatra, una psicologa e una assistente sociale del
servizio materno infantile. Nel luglio 1984 L.M. diventa maggiorenne ma il
servizio decide di continuare l’assistenza, lasciando il giovane
nell’appartamento che gli era stato assegnato e continuando l’intervento
educativo, secondo i criteri sperimentati negli anni precedenti, in attesa di
reperire una sistemazione in istituto: l’assistenza di base viene fornita da un
educatore a tempo pieno e da un obiettore di coscienza ed integrata da una
consulenza specialistica. Ad un certo punto, però, cessa l’ordinaria assistenza
notturna da parte dell’educatore:
<<Dalla fine di aprile 1985 il M. era stato (anche con un educatore) seguito solo durante il giorno, essendo stata
l’assistenza notturna limitata ai soli momenti in cui il M. appariva particolarmente agitato (teste G.).
[…] il M. era risultato, all’esame del neuropsichiatra del servizio infantile, affetto da “destrutturazione della
personalità, con comportamenti di tipo psicotico accompagnati a mutismo elettivo e a debolezza mentale” (certificato
medico 12 marzo 1985) e si era mostrato difficilmente inseribile nel contesto sociale commettendo furti anche di lieve
entità e, in un’occasione, rinchiudendo in un gabinetto dell’oratorio una bambina, liberata poco tempo dopo>>
(App. Bologna 4.1.1996).
Dopo meno di due mesi avviene l’omicidio della bambina. Il giudice
istruttore dichiara che al momento del fatto L.M. era totalmente incapace di
intendere e di volere. I genitori della vittima, in proprio e quali rappresentanti dei
due figli minori, iniziano allora la causa civile contro la USL di Guastalla.
Il Tribunale, esaminata la domanda risarcitoria nella prospettiva dell’art.
2047 c.c. (l’unica espressamente indicata in citazione), esclude la
responsabilità. Osserva il giudice che la USL non era tenuta alla sorveglianza
dell’incapace (oramai maggiorenne e non interdetto); che l’art. 2047 c.c., norma
di carattere eccezionale, si applica solo nei confronti dei soggetti che abbiano
un preordinato dovere di sorveglianza; che in ogni caso la USL non aveva mai
73
Antonio Antonio Costanzo
assunto spontaneamente il compito di prevenire o impedire azioni che
potessero recare danni a terzi:
<<Difatti la sua decisione di continuare l’assistenza dopo la maggiore età del M. è stata determinata solo dalla
necessità di ricercare nel frattempo “un istituto adatto a seguire il caso”, sia perché il M. stesso “non forniva alcuna
garanzia in ordine al suo comportamento sociale” (v. deposizione G. davanti al G.I. penale), sia perché l’unità sanitaria
mancava di “personale sufficiente e dell’organizzazione necessaria a seguire” una vicenda come questa “24 ore su 24”
(v. lettera dell’USL al Sindaco di Guastalla in data 26.8.1985).
La convenuta non ha nemmeno creato nei terzi il legittimo affidamento che il Mozzi fosse persona adeguatamente
controllata.
Tanto è vero che delle difficoltà insorte soprattutto con la maggiore età del giovane ha, in particolare, tenuto
sempre informata la forza pubblica, con la quale era in continuo contatto (v. punto 4 della citata lettera e dichiarazioni
del F. davanti ai C.C. in data 14.6.1985)>>
(Trib. Reggio Emilia 18.11.1989, NGCC, 1990, I, 550).
I genitori della bambina impugnano la sentenza, rilevando fra l’altro che il
giudice, al quale spetta il potere di qualificare la domanda sulla base dei fatti
prospettati, aveva omesso di considerare gli artt. 2043 e 2049 c.c.
Disposta una consulenza tecnica d’ufficio, la Corte d’appello accoglie la
domanda, ravvisando una responsabilità della USL per fatto proprio colposo
derivante dalla violazione dell’obbligo di sorveglianza, spontaneamente assunto
con l’intervento di tipo educativo, e dei doveri istituzionali di assistenza medica,
violazione aggravata dalla brusca interruzione dell’assistenza notturna.
In primo luogo, osserva la Corte, la USL avrebbe potuto e dovuto
considerare la pericolosità sociale del soggetto:
<<Il consulente tecnico, nominato nel presente grado di giudizio, ha, con congrua e adeguata motivazione,
accertato che il M. era, al momento del fatto, affetto da debolezza mentale grave con complicanze psicotiche
(schizofrenia d’innesto); che, per l’esistenza di tale malattia mentale, doveva essere considerato pericoloso per l’altrui
incolumità; e che la malattia del M. e la sua pericolosità potevano, con la normale perizia, essere diagnosticata dal
medico della USL che l’aveva in cura>>
(App. Bologna 4.1.1996).
In secondo luogo, richiamati gli artt. 1 e 2, l. n. 180/78, in tema di
accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, e gli artt. 14, 33, 34,
2° co., l. n. 833/78, istitutiva del servizio sanitario nazionale, la Corte afferma
che spettava alla USL il compito di attuare gli interventi necessari a contenere
la pericolosità dell’incapace:
<<l’accertata malattia mentale dalla quale era affetto il M. e la pericolosità di quest’ultimo per la incolumità altrui
imponevano alla USL – sia per la sussistenza di un obbligo di sorveglianza scaturente dalla spontanea assunzione da
parte del servizio infantile dell’intervento di tipo educativo (Cass. 12.5.1982 n. 3142) sia in esecuzione dell’obbligo
(rientrante nei suoi doveri istituzionali) di prestare la dovuta assistenza medica per le malattie fisiche e psichiche – di
promuovere e attuare (attraverso i medici che avevano in cura il M.) il trattamento terapeutico necessario a contenere la
pericolosità del M. stesso (né l’accertamento, sotto tale ultimo profilo, della responsabilità – sempre per fatto proprio della USL è precluso dal richiamo, nell’atto introduttivo del giudizio, all’art. 2047 c.c. essendo la mancata prestazione
dell’assistenza al M. sussumibile pur sempre nella previsione di cui alla citata norma avendo la legge n. 180 del 1978
previsto la cura degli infermi di mente anche in funzione della salvaguardia della collettività sociale, con conseguente
obbligo di vigilanza degli infermi stessi da parte delle strutture sanitarie pubbliche, e attenendo, comunque, il richiamo
all’art. 2047 c.c. alla qualificazione giuridica della domanda, a fondamento della quale era genericamente invocata, in
fatto, una situazione di affidamento del M. infermo di mente, alla USL con il conseguente obbligo per quest’ultima di
prestargli le cure dovute)>>
(App. Bologna 4.1.1996).
La Corte mette a fuoco il dovere di assistenza e di custodia gravante sulla
USL
<<In particolare, secondo il consulente tecnico, le manifestazioni morbose del M. (facilmente diagnosticabili – al
pari della sua pericolosità per l’incolumità altrui – dai medici che lo avevano in cura) imponevano alla USL di “trattare” le
manifestazioni stesse con neurolettici (che, nei momenti di agitazione e di eccitamento, era opportuno somministrare nel
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Antonio Antonio Costanzo
tipo dotato di spiccata azione sedativa); e imponevano, altresì, un’assistenza continuata (con educatore,
psicologo, assistente sociale e psichiatra) che integrasse la terapia farmaceutica.
Nell’ambito, poi, delle manifestazioni acute psicotiche la USL avrebbe dovuto prendere in considerazione anche il
trattamento sanitario obbligatorio (con degenza ospedaliera o extra ospedaliera).
Il predetto trattamento terapeutico integrato (non attuato dalla USL) avrebbe avuto l’effetto di neutralizzare la
pericolosità del M. per l’altrui incolumità: pericolosità, come già osservato, facilmente diagnosticabile anche in ragione
degli “incomprensibili atteggiamenti, aggressivi e impulsivi, tenuti in precedenza dal M.” (pag. 33 della relazione)>>
(App. Bologna 4.1.1996)
sino a ravvisare nella condotta colposa dell’apparato sanitario una condizione
del verificarsi dell’evento lesivo:
<<Accertata, dunque, la colpevole inosservanza da parte della USL dei doveri ad essa imposti dalla normativa in
tema di assistenza e cura degli infermi di mente (inosservanza aggravata dalla brusca interruzione dell’assistenza
notturna al M., integrante, secondo il consulente tecnico, un’imprudenza che può aver contribuito a far assumere al M.
medesimo condotte incongrue, inadeguate e pericolose: pag. 31 della relazione) ed essendo, altresì, incontestato sulla
base delle considerazioni svolte dal consulente tecnico (secondo cui il trattamento terapeutico omesso avrebbe
neutralizzato la pericolosità del M.), il rapporto di causalità tra l’accertata condotta colposa e l’evento lesivo (previa
precisazione al riguardo, che quando come nella specie, si verte in tema di illecito omissivo, la causalità si fonda
necessariamente su un giudizio ipotetico sì che, per ritenere sussistente il rapporto di causalità, è sufficiente che
l’evento sia conseguenza altamente probabile della condotta omissiva), va affermata la responsabilità (per colpa) della
USL in ordine all’omicidio commesso dal M.
Passando alla determinazione dei danni deve ritenersi insussistente il lamentato danno patrimoniale da lucro
cessante.
[…]
Risarcibile per contro (integrando la condotta colposa dei dipendenti della USL ipotesi di reato) è il danno non
patrimoniale: che, avuto riguardo alla giovanissima età della vittima, va equitativamente liquidato – ai valori monetari
correnti alla data di deliberazione della presente sentenza – in L. 60.000.000 per ciascuno dei genitori e in L.
15.000.000 per ciascuno dei fratelli.
Sulle somme predette spettano gli interessi di legge dal giorno del fatto all’effettivo saldo […]>>
(App. Bologna 4.1.1996. La decisione della corte bolognese è divenuta definitiva: Cass. 18.2.2000 n. 1868 ha
dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla Azienda USL di Reggio Emilia).
6.6.3. Strutture di riabilitazione.
Nella notte del 15 dicembre 2001, a San Gregorio Magno, in provincia di
Salerno, un incendio ha distrutto la struttura intermedia riabilitativa (SIR) che
ospitava disabili mentali: diciannove degenti sono morti. A quanto riportato dalla
stampa, si trattava di una struttura prefabbricata, donata dal governo francese
al Comune dopo il terremoto del 1980 ed inaugurata nel 1984 come centro
sociale. Nel 1997 era stata adibita ad accogliere portatori di handicap mentale.
Era composta da sette padiglioni intercomunicanti e realizzata in metallo e
vetroresina.
Presso la struttura intermedia di riabilitazione erano ricoverate ventinove
persone con gravi handicap psichiatrici, alcune anche con deficit motorio, di età
compresa tra i trenta e i sessanta anni, assistite da tre infermieri.
Con delibera del Senato 8 maggio 2002 è stata istituita una commissione
parlamentare d’inchiesta sia sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario
nazionale
<<Art. 1.
1. Ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione, è istituita una Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e
l’efficienza del Servizio sanitario nazionale. La Commissione è composta da venti senatori, oltre il Presidente, ed è
finalizzata all’acquisizione di tutti gli elementi conoscitivi relativi alle condizioni organizzative ed ai modelli produttivi delle
strutture sanitarie pubbliche e private, di ricovero o di assistenza extraospedaliera.
2. La Commissione verifica lo stato di attuazione delle politiche sanitarie sull’intero territorio nazionale,
controllando la qualità dell’offerta di servizi ai cittadini utenti e lo standard delle condizioni di accesso. Più in generale
essa dovrà fornire al Parlamento e alle amministrazioni dello Stato, a livello centrale e periferico, indicazioni utili sullo
stato della realtà sanitaria, avanzando proposte e suggerimenti e possibili direttrici per l’ammodernamento del settore.
3. La Commissione per il suo lavoro acquisisce tutta la documentazione prodotta o raccolta dalle precedenti
Commissioni d’inchiesta in materia sanitaria>>
75
Antonio Antonio Costanzo
(Deliberazione Senato 8.5.2002 istitutiva della Commissione parlamentare d’inchiesta)
che sul tragico evento di San Gregorio Magno:
<<Art. 2.
1. Con riferimento all’incendio sviluppatosi nella notte tra il 15 e 16 dicembre 2001 nei prefabbricati destinati
all’accoglienza dei portatori di handicap situati nel comune di San Gregorio Magno e alle cause dei ritardi della
riorganizzazione e dell’adeguamento dei servizi ospedalieri e sul territorio forniti dalla azienda sanitaria locale (ASL)
SA/2, la Commissione ha il compito di:
a) accertare le responsabilità di amministratori locali, operatori sanitari e parasanitari, rappresentanti del distretto
sanitario e della ASL SA/2, nonché di quanti altri, a qualsiasi titolo, abbiano concorso alla creazione delle condizioni che
hanno favorito lo sviluppo dell’incendio di cui al presente comma ed il tragico bilancio di vittime che ne è seguito;
b) accertare lo stato di applicazione delle norme vigenti in materia di assistenza ai disabili e, in particolare, ai
portatori di handicap mentali, da parte della ASL SA/2 e, per quanto di competenza, della regione Campania;
c) accertare l’esistenza di disposizioni impartite dalla regione Campania o da altre istituzioni a seguito di accertata
inidoneità e mancanza di sicurezza delle strutture utilizzate per l’assistenza ai degenti e lungodegenti affetti da patologie
mentali;
d) svolgere indagini per accertare la qualità ed il tipo di assistenza assicurata ai ricoverati nella notte tra il 15 ed il
16 dicembre 2001 nei prefabbricati di San Gregorio Magno, nonché il grado di qualificazione del personale assegnato ai
turni notturni e diurni dal responsabile della struttura>>.
(Deliberazione Senato 8.5.2002 istitutiva della Commissione parlamentare d’inchiesta)
7. Scuola.
Bibliografia Di Ciommo 2002 - Ronconi 2002.
Come si dividono, famiglie e servizi pubblici, i compiti di vigilanza sui minori
che frequentano la scuola? Che affidamento possono riporre i genitori
sull’operato dei pubblici dipendenti incaricati di accompagnare, assistere e
sorvegliare i loro figli? E’ configurabile una responsabilità per il metodo di
insegnamento e di educazione scelto dall’insegnante?
7.1. Vigilanza sugli allievi.
In un piccolo centro di provincia, il Comune ha adibito un automezzo a
trasporto gratuito degli alunni della scuola materna ed elementare: lo guida una
guardia comunale. Finite le lezioni, una bambina di nove anni, alunna della
scuola elementare, torna a casa con lo scuolabus: alla fermata, nessuno la
aspetta. Scesa dallo scuolabus, attraversa da sola la strada provinciale per
raggiungere la propria abitazione e viene travolta da un autoveicolo.
L’automobilista, imputato di omicidio colposo, viene assolto. I familiari (genitori
e sorelle) agiscono in sede civile e chiedono al Comune il risarcimento dei
danni, assumendo che il fatto andava ascritto all’omissione, da parte del
dipendente comunale, della doverosa cautela idonea ad assicurare l’incolumità
della minore.
Il Tribunale rigetta la domanda, osservando che
<<il servizio di trasporto gestito dal Comune non comprendeva necessariamente il passaggio nelle immediate
vicinanze dell’abitazione dell’alunna e che era scontato che la stessa, lasciata sulla strada, quivi doveva essere
prelevata dai genitori, per cui non era ravvisabile una colpa del conducente il cd. scuolabus, il quale, al momento
della discesa della
bimba dal veicolo, non aveva avvertito che stava per sopraggiungere l’autovettura
investitrice>>
(Cass. 19.2.2002, n. 2380, FI, 2002, I, 2440).
In appello il Comune viene condannato a pagare, quale risarcimento del
danno morale, la somma di lire 250.000.000 a favore di ciascuno dei genitori e
76
Antonio Antonio Costanzo
lire 70.000.000 a ciascuna delle sorelle della minore deceduta.
Secondo la Corte d’appello, l’organizzazione del servizio pubblico di
trasporto predisposto dal Comune deve essere ispirato principalmente agli
interessi dell’utenza piuttosto che a criteri di stretta economicità. Ciò
premesso, la Corte afferma la responsabilità del Comune in virtù del rapporto di
preposizione ex art. 2049 c.c., osservando che nei punti di salita e di discesa
dall’automezzo i bambini non dovrebbero essere lasciati in condizioni di
insicurezza solo perché sul posto manca chi debba prenderli in consegna
(genitori o altri): in concreto, il conducente, gravato da un dovere di vigilanza di
natura extracontrattuale, aveva omesso ogni cautela proprio nel momento più
pericoloso, quello dell’attraversamento della strada da parte della minore, in
un punto a maggiore densità di traffico ed in una situazione di scarsa
percepibilità del pericolo a causa dell’ingombro rappresentato dal pulmino
"scuolabus".
Cass. 19.2.2002, n. 2380, rigetta il ricorso del Comune.
La Corte non si sofferma sulla natura, pubblica o privata, del gestore del
servizio di trasporto, ma afferma, in termini generali, che chi si incarica di
trasferire bambini e ragazzi dall’ambito di tutela familiare alla scuola deve
garantire il servizio <<nel suo complesso>>, predisponendo cautele e misure di
sicurezza adeguate alle caratteristiche degli utenti:
<<Questo giudice di legittimità, in tema di responsabilità della pubblica amministrazione nella istituzione e
nella organizzazione di un servizio di autotrasporto riservato agli alunni delle scuole di un comune, ha, in via
generale, ritenuto (Cass., n. 4290/91) che nella gestione di detto servizio - riservato ad una particolare categoria
di utenti, privi della sufficiente capacità di autodisciplina per età, inesperienza e naturale esuberanza – il
soggetto pubblico organizzatore non è tenuto soltanto ad operare scelte discrezionali circa i costi, i mezzi
meccanici da usare, i tempi e le altre modalità tecniche del trasferimento dei giovani passeggeri dall’ambito
familiare di tutela a quello della scuola. Non diversamente da ogni altro privato, infatti, che organizzi e gestisca
trasporti dello stesso tipo, anche la pubblica amministrazione
è tenuta all’adozione di tutte quelle idonee
cautele, che, in concreto, si rendano necessarie per la sicurezza del trasporto e del servizio nel suo complesso, e la
predisposizione delle
misure
occorrenti deve essere commisurata al limitato affidamento che può
ragionevolmente farsi sul grado di prudenza e di disciplina degli scolari, costituendo dette misure una prestazione
accessoria, indefettibilmente dovuta in virtù dell’obbligo di osservanza delle regole comuni della prudenza e della
diligenza, la cui violazione, con pregiudizio per il privato, concreta fatto illecito lesivo dei diritti soggettivi.
Più in particolare, inoltre, questa Corte ha precisato (Cass., n. 13125/97) che, in tema di affidamento a terzi
di un servizio parascolastico relativo a studenti minorenni e consistente nell’accompagnamento a mezzo di cd.
scuolabus, la conduzione del minore dalla fermata dell’automezzo alla sua abitazione compete di regola ai genitori o
ad altri soggetti da costoro incaricati, senza tuttavia che da ciò possa desumersi la esenzione da responsabilità
dell’autista del veicolo tutte le volte che quest’ultimo, non essendo presente alla fermata alcuno dei soggetti
predetti, non abbia cura di adottare le ordinarie cautele, suggerite dalla normale prudenza, in relazione alle specifiche
circostanze di tempo e di luogo, quali anche l’assistenza nell’attraversamento di una strada.
Analogo principio, del resto, questa Corte aveva già espresso (Cass., n. 5424/86) statuendo che
l’affidamento di un minore alla persona, alla quale un istituto scolastico ha assegnato il compito di effettuarne il
trasporto dall’abitazione al luogo ove si svolge l’attività di istruzione e viceversa, comporta il particolare dovere di
controllare che lo stesso non venga a trovarsi in una situazione di pericolo per la sua incolumità, per cui la vigilanza
deve essere svolta dal momento dell’affidamento sino a quando ad essa si sostituisca quella, effettiva o
potenziale, dei genitori, senza che possano costituire esimenti della responsabilità dell’istituto e del suo incaricato le
eventuali disposizioni date dai genitori medesimi (quale quelle di lasciare il minore in un determinato luogo)
potenzialmente pregiudizievoli per il pericolo che da esse può derivare all’incolumità dello stesso minore>>.
(Cass. 19.2.2002, n. 2380, FI, 2002, I, 2441).
Nell’ambito scolastico, la vigilanza spetta agli insegnanti.
Se un allievo arreca danni a terzi (ad es., ad un compagno di scuola) si
applica la presunzione di cui all’art. 2048, 2° co., c.c. Tale norma, infatti, si
riferisce in modo espresso al danno cagionato dall’illecito dell’allievo e
77
Antonio Antonio Costanzo
presuppone un fatto obiettivamente antigiuridico, lesivo del terzo. In
questi termini, da ultimo, si è espressa Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346. Le
Sezioni unite, sulla scia di una diffusa opionione, intendono l’art. 2048 c.c.
<<come norma di “propagazione” della responsabilità in quanto, presumendo una culpa in educando o in
vigilando, chiama a rispondere genitori, tutori, precettori e maestri d’arte per il fatto illecito del minore a terzi: la
responsabilità civile nasce come responsabilità del minore verso i terzi e si estende ai genitori, tutori, precettori e
maestri d’arte.
E giova osservare che nel senso che la norma in esame sia dettata a protezione dei terzi, esposti al rischio di un
danno conseguente all’agire dei minori, è orientata la prevalente dottrina>>
(Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346, RCP, 2002, 1019) .
Invece, nel caso di danno arrecato dall’allievo a se stesso non è
configurabile una responsabilità per fatto altrui, mentre può ipotizzarsi una
diretta responsabilità del precettore verso l’alunno per fatto illecito proprio,
consistente nel non aver impedito, in violazione dell’obbligo di vigilanza,
l’attuazione della condotta autolesiva:
<<In conclusione, componendo il contrasto, deve escludersi che sia invocabile la presunzione di responsabilità
posta dall’art. 2048, comma 2, nei confronti dei precettori, al fine di ottenere il risarcimento dei danni che l’allievo abbia
procurato a se stesso.
Il contrario assunto postula infatti una radicale alterazione della struttura della norma, che delinea una ipotesi di
responsabilità per fatto altrui, in quanto il precettore risponde verso il terzo danneggiato per il fatto illecito compiuto
dall’allievo in danno del terzo, per non averlo impedito in ragione di una presunzione di culpa in vigilando, laddove nel
caso di autolesione il precettore sarebbe ritenuto direttamente responsabile verso l’alunno per un fatto illecito
proprio, consistente nel non aver impedito, violando l’obbligo di vigilanza, che venisse compiuta la condotta
autolesiva>>
(Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346, RCP, 2002, 1019).
A tal proposito, Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346, pronunciandosi obiter, ha
offerto un’articolata ricostruzione delle responsabilità, dell’istituto scolastico e
dell’insegnante, nel caso di autolesione dell’allievo:
<<Per completezza d’esame (la questione non ha infatti formato oggetto del presente giudizio nelle fasi di
merito) è utile precisare che, nel caso di danno arrecato dall’allievo a se stesso, appare più corretto ricondurre la
responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non già nell’ambito della responsabilità extracontrattuale,
con conseguente onere per il danneggiato di fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito di cui
all’art. 2043 c.c., bensì nell’ambito della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del regime
probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c.>>
(Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346, RCP, 2002, 1019).
Per un verso, la Corte fa leva sulla ritenuta natura contrattuale del rapporto
tra l’allievo e l’istituto scolastico. Come a dire che l’ammissione ad un servizio
pubblico instaura tra le parti una relazione (la sentenza parla di <<vincolo
negoziale>>) riconducibile alla disciplina delle obbligazioni, preesistente dunque
al verificarsi di eventi lesivi e fonte di obblighi protettivi (in tema responsabilità
dell’amministrazione per lesione di interessi legittimi, cfr. Cass. 10.1.2003.n.
157, FI, 2003, I, 78, che si richiama alla l. n. 241/90 e al nuovo rapporto tra
cittadino e pubblica amministrazione):
<<Quanto all’istituto scolastico, l’accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione
dell’allievo determina infatti l’instaurazione di un vincolo negoziale, in virtù del quale, nell’ambito delle obbligazioni
assunte dall’istituto, deve ritenersi sicuramente inclusa quella di vigilare anche sulla sicurezza e l’incolumità
dell’allievo nel tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che
l’allievo procuri danno a se stesso (in tal senso, espressamente, v. sent. n.2485/58 e n. 2110/74, entrambe relative ad
istituti privati, ma il principio è da ritenere operante anche in relazione alla scuola pubblica)>>
(Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346, RCP, 2002, 1019).
Per altro verso, passando alla relazione precettore-allievo la Corte
78
Antonio Antonio Costanzo
ripropone la figura del contatto sociale, già impiegata per la
responsabilità del medico ospedaliero:
<<Quanto al precettore dipendente dall’istituto scolastico, osta alla configurabilità di una responsabilità
extracontrattuale il rilievo che tra precettore ed allievo si instaura pur sempre, per contatto sociale, un rapporto
giuridico, nell’ambito del quale il precettore assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche
uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona.
Circa l’onere probatorio, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei
confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, l’attore dovrà quindi soltanto provare che il danno si è verificato nel
corso dello svolgimento del rapporto, mentre sarà onere dei convenuti dimostrare che l’evento dannoso è stato
determinato da causa a loro non imputabile>>
(Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346, RCP, 2002, 1019).
Gli insegnanti statali non possono essere citati direttamente per culpa in
vigilando: solo l’amministrazione è legittimata passiva. La limitazione della
responsabilità del personale ai soli casi di dolo o colpa grave (art. 61, 2° co., l.
n. 312/80) vale unicamente verso l’ammistrazione, ossia nell’ambito
dell’eventuale giudizio di rivalsa (Cass. S.U. 27.6.2002, n. 9346).
7.2. Cattivi maestri.
Scopo essenziale del servizio scolastico è quello di provvedere alla
formazione e istruzione dei giovani.
Fallimenti della missione educativa conseguono talora a condotte
riprovevoli degli insegnanti. I repertori di diritto penale riportano casi
emblematici. Non può comunque escludersi la configurabilità di una tutela civile
e di una responsabilità (contrattuale, si direbbe nel solco di Cass. S.U.
27.6.2002, n. 9346) dell’istituto scolastico, soprattutto quando la disfunzione, il
disagio, l’offesa, perdurino da tempo senza interventi a tutela degli alunni. Il
pregiudizio potrà riguardare sia la ridotta qualità dell’offerta formativa che le
ripercussioni e l’influenza sul morale, lo stato d’animo, l’equilibrio, l’attenzione o
la futura carriera scolastica degli allievi.
Cass. 28.12.2002, n. 43673, ha confermato la condanna per violazione
degli articoli 81 cpv. e 572 c.p. inflitta ad una maestra elementare che, nell’arco
di un anno scolastico, aveva sottoposto a maltrattamenti gli scolari ad essa
affidati, con ripetute ingiurie, imposizioni mortificanti e, in alcuni casi, anche atti
di violenza fisica. Vittime, bambini della prima e seconda elementare, appena
passati dall’ambiente familiare a quello scolastico:
<<Il giudice di merito ha accertato che il metodo di insegnamento e di educazione della C. era caratterizzato
dall’imposizione di un regime di vita scolastica assolutamente ed inutilmente umiliante e vessatorio per i piccoli discenti,
costretti a subire ogni sorta di mortificazione e a respirare un clima di vero e proprio terrore, con intuibili riflessi negativi
sull’equilibrio del loro sviluppo psichico e sullo stesso profitto didattico: i bambini venivano costretti a stare in piedi per
ore, a imitare gli animali, ad assistere - impotenti - alla distruzione di giochi che avevano portato da casa; venivano
aggrediti verbalmente con espressioni ingiuriose e, a volte, anche fisicamente con percosse.
Tale ricostruzione fattuale, confortata da precisi e convergenti elementi di prova, analiticamente apprezzati e
valutati in sede di merito, conclama la configurabilità, nella condotta tenuta dalla prevenuta, dal contestato reato di
maltrattamenti: si coglie, invero, l’abituale sofferenza imposta a bimbi che si erano appena avviati dall’esperienza
scolastica e che, dovendosi rapportare ad un ambiente nuovo e diverso rispetto a quello più ristretto e protettivo della
famiglia, avrebbero avuto bisogno di massimo affetto e di grande comprensione, per superare il trauma naturalmente
connesso alla scolarizzazione (si consideri che trattasi di scolari della prima e seconda classe elementare). Il metodo
della maestra C., invece, connotato - come accertato dalla Corte territoriale - da atteggiamenti lesivi del patrimonio
morale e dell’integrità fisica dalle piccole vittime, rese abitualmente dolorosa e sofferta la relazione di queste con la loro
insegnante>>
(Cass. pen. 28.12.2002, n. 43673, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,22707|7,00.html).
79
Antonio Antonio Costanzo
Una simile vicenda, come sarebbe stata valutata in sede civile?
Pare difficile negare l’occasionalità necessaria richiesta per il giudizio di
responsabilità nei confronti dell’amministrazione:
<<Il mancato esame della documentazione asseritamente favorevole all’imputata […] non riveste carattere di
decisività, considerato che l’assenza di iniziative disciplinari a carico della C. o comunque di interventi da parte degli
organi collegiali scolastici nei confronti della medesima non esclude la veridicità di quanto accertato a suo carico.
Né i lunghi periodi di assenza da scuola della C., nel corso dell’anno scolastico 1994-95, devono indurre ad
escludere il reato e a ritenere episodici i singoli fatti verificatisi.
Ad integrare l’abitualità della condotta, invero, è sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, unificati dalla
medesima intenzione criminosa, anche se succedutisi per un limitato o per limitati periodi di tempo e anche se gli atti
lesivi si siano alternati con periodi di normalità, determinati - per altro - dall’assenza dell’agente. Avuto riguardo, infatti, ai
metodi educativi praticati dalla C., non può considerarsi ogni singolo episodio vessatorio in modo parcellizzato ed avulso
dal generale contesto probatorio, ma la condotta della predetta va valutata nel suo insieme, proprio perché espressione
del suo rapportarsi, come insegnante, agli alunni, con l’effetto che i periodi di assenza dalla scuola della prevenuta
vanno apprezzati come mere "parentesi", le quali non determinarono alcuna soluzione di continuità della censurabile
scelta educativa della predetta>>
(Cass. pen. 28.12.2002, n. 43673, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,22707|7,00.html).
8. Disabilità e integrazione scolastica.
L’art. 12, l. 5.2.1992, n. 104, l. quadro per l’assistenza, l’integrazione
sociale e i diritti delle persone handicappate, garantisce il diritto all’educazione
e all’istruzione della persona handicappata.
L’art. 13, l. n. 104/1992, afferma che l’integrazione scolastica della persona
handicappata si realizza nelle sezioni e nelle classi comuni delle scuole di ogni
ordine e grado e nelle università.
Secondo quanto riporta il Programma d’azione per le politiche di
superamento dell’handicap approvato dal Consiglio dei ministri il 28 luglio 2000,
il processo di inserimento nel sistema scolastico è avvenuto
<<prima in modo spontaneo, poi in modo sempre più diffuso e sistematico a partire dalla legge 517 del 1977 con
l’istituzione degli insegnanti di sostegno, e, successivamente, con gli accordi di programma tra scuole ed enti locali.
Nell'ultimo anno scolastico, 1998 - 1999 sono stati circa 120.000 i bambini con disabilità che hanno frequentato la
scuola di tutti. L’integrazione ha interessato oltre 100.000 sezioni e classi comuni dei vari ordini e gradi d’istruzione. Ben
59 mila insegnanti di sostegno hanno rafforzato l'organico docenti. Sono dati ormai consolidati, omogenei su tutto il
territorio nazionale, che dimostrano un impegno forte e determinato dell'intero sistema scolastico che ha altresì
consentito ad un numero limitato ma crescente di giovani disabili di approdare agli studi universitari. Si stimano in circa
4.000 gli iscritti nell'ultimo anno accademico ai diversi atenei. L'esperienza dell'integrazione, per quanto ancora da
migliorare sul piano dell'organizzazione e della qualità del servizio, non solo ha determinato una forte crescita sul piano
sia culturale che sociale delle persone disabili, ma ha altresì contribuito significativamente alla diffusione in Italia della
nuova cultura dell'integrazione.
[…]
La scelta della piena integrazione scolastica è stata avviata, in Italia, all’inizio degli anni Settanta, prima in forma
spontanea, poi dal legislatore e dal potere esecutivo. Nell’anno scolastico 1997/98, (ultimi dati ufficiali Ministero della
Pubblica Istruzione) gli alunni con disabilità inseriti nei vari ordini di scuola ammontavano, su un totale di 7.589.395
alunni, a 117.643 unità. Erano 10.045 nella scuola materna, 50.950 nelle elementari, 43.180 nelle scuole medie, e
13.468 nelle secondarie superiori. Oggi questa capillare esperienza interessa oltre 100.000 sezioni e classi comuni dei
vari ordini e gradi di scuola e coinvolge quasi 59 mila docenti per il sostegno (alcune migliaia dei quali, tuttavia, non
sono in possesso di una specializzazione). Inoltre, chiama in causa per legge Regioni, Province, Comuni, Comunità
montane e Aziende sanitarie locali ad assicurare, nei rispettivi compiti e ruoli, il supporto all’integrazione.
L'avvio graduale e concreto del processo di autonomia delle istituzioni scolastiche deve quindi riguardare anche
l’esperienza pluridecennale di integrazione. Tale impegno riguarda Governo e Parlamento, ma anche le singole
istituzioni scolastiche comuni e ciascuna professionalità ivi operante, chiamate dalle leggi vigenti a garantire
l’educazione e l’istruzione di tutti gli allievi, all’interno delle sezioni e classi comuni, indipendentemente dalla tipologia e
dalla gravità dell'handicap (legge n. 104/1992, artt. 12 e segg.).
La scelta dell'integrazione va oggi riconfermata e considerata irreversibile. Ed in questo quadro è possibile ed
opportuno migliorare ulteriormente la qualità del servizio scolastico, dotandolo di tutte quelle competenze, condizioni,
ausili e tecnologie che possano garantire la migliore fruizione possibile da parte degli alunni con diverse tipologie di
disabilità.
Tale indirizzo deve valere anche nella scuola dell’autonomia, in relazione a numerosi fattori: a) ai rapporti tra i
diritti umani e civili ed integrazione sociale; b) al quadro legislativo e normativo vigente; c) alla constatazione, validata
80
Antonio Antonio Costanzo
dall’esperienza italiana e internazionale, che l’impegno per l’integrazione nella scuola di tutti rappresenta la
strategia fondamentale per lo sviluppo, la crescita e la conquista delle autonomie e costituisce la
condizione fondamentale per la successiva integrazione sociale e, se possibile, lavorativa delle persone disabili; d) alla
considerazione dei vantaggi che tale situazione comporta per gli altri alunni e all’esperienza umana, culturale e
professionale maturata da un’ampia fascia di operatori scolastici ed extrascolastici; f) al fatto che l’esperienza italiana
rappresenta ormai un modello cui guarda l’Europa come occasione di scambi, di confronto e di reciproco
incoraggiamento per innalzare la qualità del servizio scolastico.
Tutto ciò sottolinea la necessità di collocare il diritto all'educazione, all'istruzione, all'acquisizione di competenze
ed all’integrazione sempre più nel quadro dei sistemi scolastico e formativo, lavorativo, socio – assistenziale ecc.,
portando al centro dell'attenzione i bisogni fondamentali della persona in situazione di handicap, i suoi familiari, il suo
contesto abituale di vita, e richiamando competenze e obblighi che le leggi vigenti assegnano anche a Enti locali e
Servizio Sanitario>>.
(Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per gli Affari Sociali, Piano d’azione per le politiche di
superamento dell'handicap approvato il 28.7.2000, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,7128|32,00.html).
Da ultimo, la legge finanziaria 2003, all’art. 35, 7° co., dispone che:
<<Ai fini dell'integrazione scolastica dei soggetti portatori di handicap si intendono destinatari delle attività di
sostegno ai sensi dell'articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, gli alunni che presentano una
minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva. L'attivazione di posti di sostegno in deroga al
rapporto insegnanti/alunni in presenza di handicap particolarmente gravi, di cui all'articolo 40 della legge 27 dicembre
1997, n. 449, è autorizzata dal dirigente preposto all'ufficio scolastico regionale assicurando comunque le garanzie per
gli alunni in situazione di handicap di cui al predetto articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104. All'individuazione
dell'alunno come soggetto portatore di handicap provvedono le aziende sanitarie locali sulla base di accertamenti
collegiali, con modalità e criteri definiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanare, d'intesa con la
Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e previo parere delle competenti
Commissioni parlamentari, su proposta dei Ministri dell'istruzione, dell'università e della ricerca e della salute, entro
sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge>>
(art. 35, 7° co., l. 27.12.2002, n. 289) .
8.1. Assistenza sanitaria a scuola.
Il Tribunale di Roma, sezione lavoro, ha esaminato la questione
dell’assistenza sanitaria in classe: l’occasione, un procedimento cautelare
promosso dai genitori di un alunno di scuola elementare affetto da allergia e
riconosciuto come portatore di handicap grave (art. 3, 3° co., l. n. 104/92).
I ricorrenti, agendo quali legali rappresentanti del figlio, avevano chiesto al
giudice di ordinare alla competente ASL che fosse assicurata, con la presenza
di personale qualificato all’interno dell’edificio scolastico, l’assistenza sanitaria
necessaria a consentire al bambino di frequentare la scuola senza pericolo. La
ASL, senza contestare i fatti posti a fondamento della domanda, aveva
sostenuto che la soluzione più opportuna era quella del ricovero del minore in
day hospital presso una struttura ospedaliera attrezzata anche per l’attività
didattica ai sensi dell'art. 12, 9° co., l. 104/92. Il giudice monocratico aveva
respinto la domanda ritenendo insufficiente la prova del periculum in mora.
I genitori propongono reclamo: il periculum, essi affermano, riguarda
l’impossibilità di continuare a sostenere le spese necessarie a garantire
privatamente l'assistenza sanitaria al minore durante l'orario scolastico;
l’indifferibilità e l’urgenza della somministrazione di terapia farmacologica in
caso di insorgenza di crisi allergiche – allo scopo di evitare le cure di pronto
soccorso ospedaliero (ovvero di garantire la sopravvivenza del minore durante il
tempo occorrente al trasporto presso il pronto soccorso) - attengono invece al
fumus boni iuris e sono documentate. La convenuta ribadisce le proprie difese:
alle ASL sono affidati compiti di prevenzione collettiva e non di assistenza
81
Antonio Antonio Costanzo
individuale; l’assistenza infermieristica non è idonea, mentre un
ricovero in day hospital può consentire l’esercizio del diritto all'istruzione
garantito dalla legge ai minori ricoverati.
Il Tribunale in composizione collegiale accoglie il reclamo. In primo luogo
osserva che la documentazione acquisita offre ampia prova della situazione di
rischio gravante sul minore:
<<Dai diversi certificati medici emerge come le crisi di orticaria-angioedema e di asma bronchiale sono
imprevedibili e di rapida insorgenza e possono comportare una insufficienza respiratoria sicché e indispensabile che il
bambino abbia a disposizione personale sanitario in grado di riconoscere i sintomi e somministrare i diversi farmaci
prescritti con certificato del 25.9.2001 (doc. 8) in relazione alla tipologia della crisi in atto.
Le patologie certificate in atti hanno comportato il riconoscimento al minore della condizione di handicap grave ai
sensi dell'art. 3, 3° co., l. 104/92>>
(Trib. Roma ord. 28.2-6.3.2002, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,17478|7,00.html);
quindi passa ad analizzare le tutele offerte dalla l. 5.2.1992, n. 104
<<Orbene gli artt. 12 e 13 della citata legge ribadiscono il diritto all'educazione ed all'istruzione della persona
handicappata all'interno delle classi comuni delle istituzioni scolastiche, prevedendo diverse modalità di integrazione
della persona handicappata nelle classi comuni.
Ed invero, proprio sulla base degli obblighi di integrazione mediante programmazione coordinata dei servizi
scolastici con quelli sanitari sanciti dalla lett. A) dell'art. 13 l. 104/92, la ASL ha disposto la presenza di personale
sanitario al fine di affrontare le eventuali emergenze connesse allo stato di salute del minore, limitatamente però ai primi
15 giorni di frequentazione scolastica. Lo stesso Direttore del Dipartimento Materno Infantile della ASL RM E (cfr.
allegato 10 della produzione di parte resistente), ha evidenziato che, durante il periodo di "sorveglianza sanitaria", pur
non essendosi verificate situazioni cliniche acute, e stato necessario in due occasioni ricorrere a "terapia inalatoria con
Ventolin spray" ed ha riconosciuto l'opportunità che eventuali soluzioni funzionali riguardanti simili problematiche nel
contesto di ambienti didattici siano determinate da azioni straordinarie adottate dagli organi superiori competenti,
(Trib. Roma ord. 28.2-6.3.2002, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,17478|7,00.html)
anche in relazione ai compiti assegnati al sistema sanitario nazionale:
<<A fronte dei precisi obblighi di integrazione dei minori portatori di handicap nelle classi comuni delle scuole
sanciti dalla legge, la soluzione prospettata dalla ASL resistente in merito al ricovero dei bambino in day hospital al fine
di consentirgli la frequentazione delle speciali classi istituite presso i centri di ricovero dei minori appare del tutto
illegittima. Né può condividersi la prospettazione di parte resistente in merito ai limiti imposti dalle competenze
istituzionali della ASL, che si assumono finalizzate a compiti di prevenzione collettiva e non già individuale, stante il
disposto degli artt. 1 e 2 e soprattutto dell'art. 14, lett. c), h) ed i) della legge 833/78. In particolare l'art. 2 stabilisce che il
conseguimento delle finalità di tutela dei diritto individuale e dell'interesse collettivo alla salute di cui al precedente art. 1
è assicurato anche mediante la prevenzione delle malattie in ogni ambito e "la promozione della salute nell'età evolutiva,
garantendo l'attuazione dei servizi medico-scolastici negli istituti di istruzione pubblica e privata di ogni ordine e grado, a
partire dalla scuola materna, e favorendo con ogni mezzo l'integrazione dei soggetti handicappati”. Il successivo art. 14,
nel fissare le competenze delle USL, prevede testualmente compiti di "prevenzione individuate e collettiva delle malattie
fisiche o psichiche" (lett. c). nonchè l'assistenza medica ed infermieristica sia ambulatoriale che domiciliare (lett. h ed i).
L'infondatezza dell'assunto è inoltre desumibile dalla condotta della ASL che, anche se per soli 15 giorni, si è assunta il
compito di monitoraggio e prevenzione delle patologie e delle crisi che avrebbero potuto colpire il bambino durante
l'orario scolastico.
Inoltre deve rilevarsi che, di fronte alle precise e dettagliate prescrizioni mediche (cfr. doc. 8 di parte ricorrente) la
terapia idonea a tamponare le crisi a cui potrebbe improvvisamente andare soggetto il minore può essere, quantomeno
nella fase di immediatezza, somministrata da un infermiere, il quale potrà eventualmente riconoscere i sintomi e, se
necessario, richiedere il tempestivo intervento di un medico o addirittura il ricovero ospedaliero in pronto soccorso.
(Trib. Roma ord. 28.2-6.3.2002, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,17478|7,00.html).
Secondo il Tribunale, nel caso concreto l’attuazione del diritto previsto
dall’art. 12, l. n. 104/92, può avvenire solo assicurando un presidio
infermieristico presso la scuola:
<<In sostanza questo Tribunale ritiene dei tutto inadeguata la soluzione adottata dalla ASL al fine di ottemperare
ai suoi compiti di prevenzione e di assistenza nonché di integrazione del minore portatore di handicap. Invero, come si
evince dalla documentazione prodotta da parte resistente, la ASL ha adottato tre tipi di intervento:
1) sorveglianza sanitaria per un limitato periodo di due settimane da parte dei medici della Medicina Preventiva;
2) organizzazione di un corso di Pronto Soccorso per i docenti delta scuola;
3) assegnazione alla scuola di un'assistente educativa (A.E.C.) che si occupi dei bambino.
A prescindere dalla inutilità dell'assegnazione di un insegnante di sostegno in relazione alla tipologia
dell'handicap sofferto dal minore, che non incide di certo sulle sue capacita di apprendimento, deve rilevarsi la
inidoneità, evidenziata dalle stesse insegnanti con lettera del 2.10.2001 (allegato 10 di parte resistente) del personale
docente a riconoscere i sintomi e provvedere alla somministrazione dei necessari medicinali per superare i sintomi delle
reazioni allergiche o addirittura di farmaci salvavita.
82
Antonio Antonio Costanzo
In altri termini, dalla documentazione prodotta in atti può desumersi, con la necessaria
approssimazione che caratterizza la presente fase di giudizio, che il diritto all'istruzione del minore ed
all'inserimento nella scuola ordinaria può essere attuato solo garantendo la presenza di personale sanitario in grado di
riconoscere e di intervenire tempestivamente nell'eventualità di reazioni allergiche a carico del minore, la cui insorgenza
e gravità è, come comprovato dalla documentazione sanitaria in atti, del tutto improvvisa ed imprevedibile.
Deve pertanto ritenersi la sussistenza del fumus boni iuris in merito alla pretesa di parte ricorrente di ottenere, in
attuazione dei precisi obblighi di prevenzione individuale e collettiva nonché di assistenza ed integrazione del portatore
di handicap gravanti sulla ASL, la presenza di un presidio infermieristico presso l'istituto scolastico frequentato dal
minore, quantomeno durante l'orario scolastico obbligatorio>>.
(Trib. Roma ord. 28.2-6.3.2002, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,17478|7,00.html).
Il raffronto tra redditi del nucleo familiare e spese per assistenza
infermieristica induce il collegio a ravvisare il periculum in mora:
<<In merito al periculum in mora il Tribunale osserva che, sulla base della documentazione attestante i redditi del
nucleo familiare del minore (circa € 3.000 mensili) e le spese correnti mensilmente sostenute (circa € 1.100 per canoni
di locazione, utenze e rate automobile) nonché delle fatture relative ai costi dell'assistenza infermieristica che i genitori
istanti si sono accollati per tutelare le esigenze sanitarie del minore durante la frequentazione scolastica (superiori a
2.000 € mensili) sussiste il fondato pericolo del verificarsi di un pregiudizio imminente ed irreparabile inerente
all'impossibilità di soddisfacimento delle esigenze alimentari e di sopravvivenza dignitosa della famiglia durante il tempo
occorrente alla instaurazione e definizione di un giudizio ordinario.
Il reclamo pertanto appare fondato e di conseguenza, in totale riforma dell'ordinanza del GL monocratico, deve
essere accolta la domanda cautelare, anche se limitatamente alla durata dell'anno scolastico in corso ed all'orario
scolastico di frequentazione obbligatoria, non potendosi ravvisare, nella sommarietà della presente fase di giudizio,
l'apparente fondatezza della pretesa azionata con riferimento all'ulteriore corso scolastico del minore ed ai periodi di
permanenza nell'Istituto non direttamente riconducibili all'adempimento degli obblighi scolastici>>.
(Trib. Roma ord. 28.2-6.3.2002, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,17478|7,00.html).
Il Tribunale dispone quindi che l’ASL provveda ad assicurare, durante
l'intero orario scolastico di frequenza obbligatoria del minore, la presenza in
istituto di un infermiere per tutelare le esigenze terapeutiche del minore stesso.
La misura cautelare viene concessa per il solo anno scolastico in corso:
<<Il reclamo pertanto appare fondato e di conseguenza, in totale riforma dell'ordinanza del GL monocratico, deve
essere accolta la domanda cautelare, anche se limitatamente alla durata dell'anno scolastico in corso ed all'orario
scolastico di frequentazione obbligatoria, non potendosi ravvisare, nella sommarietà della presente fase di giudizio,
l'apparente fondatezza della pretesa azionata con riferimento all'ulteriore corso scolastico del minore ed ai periodi di
permanenza nell'Istituto non direttamente riconducibili all'adempimento degli obblighi scolastici>>
(Trib. Roma ord. 28.2-6.3.2002, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,17478|7,00.html).
8.2. Sostegno scolastico.
C. è una bambina di sei anni affetta da handicap grave (un ritardo
psicomotorio di origine sconosciuta) che frequenta la scuola materna con un
orario giornaliero di otto ore: l’insegnante di sostegno presta però un servizio di
sole due ore e mezza al giorno, assolutamente insufficienti a soddisfare le
esigenze di studio e di inserimento della bambina nell’ambiente scolastico. I
genitori A. e B., quali esercenti la potestà sulla figlia, presentano al giudice della
sezione civile un ricorso d’urgenza: l’inadeguato sostegno, essi affermano,
rende vani gli sforzi della famiglia volti ad assicurare alla minore gli stimoli
necessari allo sviluppo della personalità e all’apprendimento mediante terapie
psicomotorie e logopediste; occorre dunque un provvedimento giudiziale che
garantisca alla bambina <<un apporto completo di ore di sostegno, per l’intera
giornata scolastica>>; nella causa di merito, precisano i ricorrenti, verrà chiesta
la condanna delle amministrazioni convenute (il Ministero dell’istruzione, il
Provveditorato agli studi, l’istituto scolastico) al risarcimento dei danni
economici e morali.
83
Antonio Antonio Costanzo
Il procedimento viene istruito anche con una c.t.u. affidata ad un
neuropsichiatra dell’età evolutiva e pediatra.
Il Tribunale afferma innanzitutto la giurisdizione del giudice ordinario. E’
vero che le controversie in materia di pubblici servizi sono devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo, ma restano escluse le controversie,
quale quella in esame, aventi ad oggetto <<rapporti individuali di utenza con
soggetti privati>> nonché quelle <<risarcitorie che riguardano il danno alla
persona>> (art. 33, 2° co., lett. e, d.lgs. 31.3.1998, n. 80)
Da un lato, i <<soggetti privati>> di cui parla la norma non vanno identificati
con i gestori del servizio, quanto piuttosto con gli utenti:
<<Secondo la condivisibile interpretazione della Corte di Cassazione, infatti, sono devolute al giudice ordinario le
controversie tra utenti fruitori e soggetto (sia esso privato o pubblico) erogatore del servizio pubblico (v. Cass. S.U. n.
558/2000), sicché a nulla rileva che ad erogare il servizio (nel caso in esame, di istruzione scolastica) sia un soggetto
pubblico.
La diversa interpretazione che vorrebbe devolute al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto i
rapporti di utenza riguardanti i servizi erogati da soggetti pubblici (ritenendo che l’espressione "soggetti privati",
contenuta nell’art. 33 lett. e), sia riferita al soggetto erogatore del servizio) non è condivisibile per diverse ragioni, oltre a
quella che fa leva sull’evidente irragionevolezza di un criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla natura pubblica o
privata del gestore (con l’irrazionale conseguenza che, ad esempio, vista la riserva al giudice ordinario delle
controversie risarcitorie riguardanti il danno alla persona, un paziente sottoposto a cure mediche dovrebbe rivolgersi al
giudice ordinario per il risarcimento del danno biologico subito a causa di un intervento chirurgico eseguito presso la Usl
ed al giudice amministrativo per l’eventuale risoluzione del contratto avente ad oggetto la prestazione della medesima
prestazione professionale e/o per il rimborso del corrispettivo pagato alla stessa Usl). E’ ben strano, infatti, in un
contesto normativo segnato, ai fini dell’identificazione della stessa categoria concettuale di "pubblica amministrazione",
dalla centralità del perseguimento dei fini sociali o dell’interesse pubblico in generale mediante lo svolgimento di
un’attività produttiva di servizi destinati alla collettività, a prescindere dalla struttura formale del soggetto deputato alla
cura di quell’interesse (si pensi alla tematica degli organismi di diritto pubblico, all’art. 6 della legge n. 205/2000 ecc.),
che il legislatore abbia ridato decisiva rilevanza alla struttura formale del soggetto utilizzandola come criterio di riparto
della giurisdizione. Il riferimento (contenuto nell’art. 33 lett. e) ai "soggetti privati", quindi, si spiega perché tali sono
coloro che normalmente fruiscono del servizio pubblico, di qui l’interesse del legislatore di fare ad essi riferimento
(senza che, ovviamente, da ciò si possa desumere, in mancanza di una diversa indicazione normativa espressa, la
devoluzione al giudice amministrativo delle controversie in cui fruitore del servizio sia un soggetto formalmente
pubblico)>>.
(Trib. Roma ord. 18.12.2002, http://www.edscuola.it/archivio/norme/varie/ordtrroma_181202.pdf).
Dall’altro, il <<danno alla persona>> va inteso in senso ampio, come
conseguenza della violazione di diritti fondamentali:
<<Inoltre, quanto al concorrente criterio della natura risarcitoria della controversia, il riferimento al "danno alla
persona" non va inteso nel senso riduttivo di danno all’integrità psico-fisica ma nel senso estensivo di pregiudizio
arrecato o minacciato alla persona a causa della violazione di un diritto fondamentale dell’uomo (qual è quello
all’educazione ed all’istruzione), sicché, anche sotto questo profilo, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario,
avendo gli attori preannunciato l’azione per il risarcimento dei danni nel giudizio di merito.
Se si condivide la tesi, degna della massima considerazione, che interpreta l’esclusione della giurisdizione
amministrativa (in materia di rapporti di utenza nei pubblici servizi) come riferita non solo a quella esclusiva ma anche a
quella generale di legittimità, con un significativo effetto espansivo della giurisdizione ordinaria, null’altro vi sarebbe da
aggiungere per ritenere correttamente adito il tribunale ordinario di Roma (questa tesi, si osserva, è anche coerente con
quella secondo cui, in materia di servizi pubblici economici ed anche sociali, tra il soggetto erogatore e l’utente
interviene un contratto ovvero un rapporto obbligatorio, avente ad oggetto la prestazione, derivante dalla legge ovvero
mediato da un mero atto amministrativo che, in quanto privo di contenuti provvedimentali e meramente ricognitivo dei
presupposti richiesti dalla legge per l’insorgenza del diritto alle prestazioni, è inidoneo a provocare l’affievolimento dei
diritti soggettivi, con conseguente conferma della giurisdizione ordinaria).
Ma se pure non si condivide questa tesi e si ritiene, invece, che anche nei rapporti "di utenza" vi sia spazio per la
giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, un tale spazio non sussiste nel caso in esame.
Oltre all’argomento, invero decisivo, che i ricorrenti non hanno impugnato alcun provvedimento amministrativo
(che, infatti, non esiste) ma lamentano la lesione di un diritto arrecata dal Ministero dell’istruzione ovvero dall’istituto
scolastico come effetto della organizzazione dell’attività di sostegno a servizio della figlia disabile, è decisivo il rilievo
che si tratta di un diritto inviolabile non suscettibile di degradazione, sicché la giurisdizione non può che appartenere al
giudice naturale dei diritti>>
(Trib. Roma ord. 18.12.2002, http://www.edscuola.it/archivio/norme/varie/ordtrroma_181202.pdf).
I problemi organizzativi dell’istituto scolastico, osserva il giudice, non
giustificano la violazione del diritto del bambino disabile al sostegno scolastico:
84
Antonio Antonio Costanzo
<<L’assegnazione di insegnante specializzato di sostegno al bambino disabile che frequenta la
scuola materna costituisce un diritto riconosciuto dall’art. 13, comma 3, della legge n. 104/1992 ("sono garantite attività
di sostegno …"), la cui inviolabilità discende dall’essere esso strumento necessario per la piena realizzazione del diritto
inviolabile all’educazione, allo sviluppo della personalità infantile ed all’istruzione riconosciuto dalla stessa legge n.
104/1992 nell’art. 12, comma 2 ("E’ garantito il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata nelle
sezioni di scuola materna") e comma 4 ("L’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da
difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti da disabilità connesse all’handicap") e, con riguardo alle scuole
materne, dall’art. 99 del citato d. lgs. n. 297/1994 (v. anche gli artt. 12, comma 5 ss., della legge n. 104/1992 e 312/315
del d. lgs. n. 297/1994; il diritto all’educazione, inoltre, è riconosciuto dall’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo del 1948; il diritto delle persone portatrici di handicap all’educazione, all’integrazione sociale ed alla
partecipazione alla vita della comunità ed il diritto dei bambini a crescere in un ambiente favorevole allo sviluppo della
loro personalità e delle loro attitudini, sono riconosciuti dagli artt. 15 e 17 della Carta sociale europea ratificata con legge
n. 30/1999; il diritto all’inserimento sociale dei disabili, inoltre, è riconosciuto dall’art. 26 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea approvata il 7.12.2000).
Poiché il pieno sviluppo della persona umana mediante un proficuo inserimento nella scuola ("L’integrazione
scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella
comunicazione, nelle relazioni, nella socializzazione": v. art. 12, comma 2, della legge n. 104/1992) è un obiettivo al
quale è strumentale il compito della Repubblica di apprestare i mezzi per raggiungerlo e ad esso fa riferimento l’art. 3,
comma 2, della Cost. interpretato dalla Corte cost. nella sentenza n. 215/1987 in connessione con le disposizioni di cui
all’art. 2 (che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali qual è, appunto, la scuola), 34 (che
garantisce l’effettività dell’istruzione) e 38 Cost. (che tutela con pienezza il diritto dei disabili all’educazione disponendo
che ai compiti a ciò inerenti provvedano gli "organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato"), è evidente che
l’organizzazione dell’attività di sostegno da parte delle istituzioni scolastiche non può in via di fatto comprimere o
vulnerare quel diritto riconosciuto alla persona da fonti sovranazionali, dalla costituzione e dalla legislazione ordinaria.
Il servizio reso dall’insegnante di sostegno, infatti, dev’essere garantito con modalità idonee a realizzare la sua
finalità che è quella di favorire lo sviluppo della personalità del bambino disabile che frequenta la scuola materna e di
prepararlo proficuamente alla scuola dell’obbligo (v. art. 99 del d. lgs. n. 297/1994)>>
(Trib. Roma ord. 18.12.2002, http://www.edscuola.it/archivio/norme/varie/ordtrroma_181202.pdf).
In punto di fatto, il caso viene approfonditamente analizzato anche in base
a quanto riferito dalle insegnanti, tra cui quella di sostegno, e alle valutazioni del
consulente d’ufficio, che ha ritenuto importante la patologia della minore: per un
equilibrato sviluppo della personalità della bambina e un suo proficuo
inserimento nell’ambiente scolastico è indispensabile l’assegnazione di una
sola maestra di sostegno per tutto l’anno scolastico e almeno venticinque ore
settimanali, nel rispetto della continuità educativa raccomandata dall’art. 40, 3°
co., l. 27.12.1997, n. 449;
<<"il mantenere le ore di sostegno a meno della metà delle ore di presenza a scuola non solo è inutile ma
potrebbe essere dannoso" trattandosi di soggetto che ha "bisogno di una attenzione continua per migliorare sia
l’evolutività intellettiva come pure quella motoria associata", con il rischio, altrimenti, che "si potrebbe anche mettere in
moto un meccanismo regressivo secondario. Quindi – ha concluso il c.t.u. – il sostegno deve essere il più lungo
possibile e stabile con un insegnante che segua costantemente la bambina nella sua presenza scolastica "(v. rel., p. 8).
La stessa opinione è stata espressa anche dall’insegnante di sostegno X e dall’insegnante sig.ra Y secondo cui C
avrebbe "bisogno di avere il sostegno per un maggior numero di ore" e "di essere continuamente stimolata" poiché,
altrimenti, non riesce a seguire le attività svolte in classe; anche l’altra insegnante (Z) ha riconosciuto che nelle ore in cui
ha il sostegno Arianna riesce a seguire le attività>>
(Trib. Roma ord. 18.12.2002, http://www.edscuola.it/archivio/norme/varie/ordtrroma_181202.pdf).
Ad avviso del giudice, il limitato numero di insegnanti di sostegno
nell’ambito provinciale non preclude all’amministrazione una diversa
organizzazione del servizio, più attenta alle situazioni concrete e alla gravità
degli handicap e rispettosa del diritto alla educazione e istruzione dei minori:
<<Occorre dar conto delle osservazioni mosse dai rappresentanti del Ministero dell’istruzione, i quali hanno
sostanzialmente obiettato che, in considerazione del vincolo costituito dalla dotazione organica di insegnanti di sostegno
"fissata nella misura di un insegnante per ogni gruppo di 138 alunni complessivamente frequentanti" (v. art. 40, comma
3, della legge n. 449/1997 cit.), sulla cui base si determina il numero di posti di sostegno assegnati ai singoli istituti
scolastici (in particolare, per 680 alunni bisognosi vi sarebbero 329 posti di insegnanti di sostegno), e vista la presenza
nella scuola […] anche di un altro bambino con sostegno (per 9 ore alla settimana), non sarebbe possibile assegnare a
C il sostegno per un numero maggiore di ore (altrimenti si determinerebbe uno "sfondamento dell’organico").
L’obiezione non è condivisibile perché motivata in modo astratto e teorico, cioè prescindendo del tutto dalla
gravità degli handicap dei 680 bambini bisognosi di sostegno nella scuola materna su base provinciale: le
amministrazioni convenute, in altri termini, avrebbero dovuto dimostrare concretamente che l’assegnazione a C (in
considerazione della "gravità del suo handicap" riconosciuta nella nota prot. 4147/FP del 28.10.2002 a firma del
dirigente scolastico prof.ssa H) del sostegno minimo necessario in relazione alla sua particolare patologia (di 25 ore
85
Antonio Antonio Costanzo
settimanali) comporterebbe una riduzione (al di sotto del minimo essenziale) delle ore di sostegno ad altri
bambini aventi un handicap della stessa o di maggiore gravità rispetto a quello della Amoroso (ciò è stato
riconosciuto dal rappresentante del Ministero dell’istruzione, dott.ssa P, la quale ha dichiarato che "si potrebbe
ipotizzare una soluzione diversa (…) valutando se in alcune scuole sussistano situazioni in cui il sostegno è assegnato a
bambini con patologie meno gravi di quella della C") (v. verb. ud. 30.10.2002).
L’art. 40, comma 1, della citata legge n. 449/1997, del resto, al fine di assicurare "l’integrazione scolastica degli
alunni handicappati con interventi adeguati al tipo e alla gravità dell’handicap", consente alle autorità scolastiche di far
"ricorso all’ampia flessibilità organizzativa e funzionale delle classi prevista dall’art. 21 (…) della legge 15 marzo 1997,
n. 59" e prevede anche "la possibilità di assumere con contratto a tempo determinato insegnanti di sostegno in deroga
al rapporto docenti-alunni indicato al comma 3, in presenza di handicap particolarmente gravi".
L’attribuzione a C del sostegno scolastico con modalità non adeguate alla realizzazione del contenuto essenziale
del suo diritto fondamentale alla educazione e istruzione, quindi, non è da imputare ad una scelta legislativa ma,
direttamente, alla pubblica amministrazione che lo ha, appunto, di fatto compresso>>
(Trib. Roma ord. 18.12.2002, http://www.edscuola.it/archivio/norme/varie/ordtrroma_181202.pdf).
Il provvedimento cautelare si traduce nell’ordine alle amministrazioni
convenute (Ministero, provveditorato, istituto scolastico) di assegnare all’alunna
un’insegnante di sostegno per almeno cinque ore al giorno e venticinque ore
alla settimana, possibilmente una sola maestra per tutto l’anno scolastico. La
necessità di tutelare un diritto fondamentale della persona in assenza di atti
espressione di potestà pubblica esclude l’interferenza con i poteri della p.a.:
<<In mancanza di un provvedimento amministrativo di tipo autoritativo, non avrebbe senso invocare il divieto per
il giudice ordinario di condannare la p.a. ad un facere specifico (ex art. 4 della legge n. 2248/1865, all. E), divieto che,
secondo la più moderna dottrina e giurisprudenza (v., in materia di diritto alla salute, Cass. n. 2092/1992 e 1501/1997 e,
di diritto di proprietà, Cass. n. 1636/1999), in questa ipotesi non sussiste, così come non sussiste tutte le volte in cui il
giudice ordinario sia fornito di giurisdizione quando gli sia richiesto di eliminare il pregiudizio ad un diritto fondamentale
del privato (non suscettibile di degradazione) arrecato da un comportamento della p.a. che non può essere espressione
di una potestà pubblicistica che con l’esistenza di quel diritto è, infatti, incompatibile (in questo caso, infatti, si osserva
che non sussiste il pericolo, al quale guarda la legge n. 2248/1865, di sovrapposizione del giudice al potere
amministrativo proprio perché quest’ultimo non sussiste ovvero è stato mal esercitato comprimendo illegittimamente un
diritto insuscettibile di affievolimento, sicché non viene in discussione l’esercizio del potere discrezionale "ma la
necessità di ripristino delle condizioni di legalità", v. Cass. n. 1636/1999 cit.)>>
(Trib. Roma ord. 18.12.2002, http://www.edscuola.it/archivio/norme/varie/ordtrroma_181202.pdf).
9. Affidamento di minori.
Con le sentenze 16.11.1999, E.P./Italia, e 13.7.2000, D.S. e C.G./Italia, la
Corte europea dei diritti dell’uomo ha sottoposto a valutazione l’operato delle
autorità pubbliche (servizi sanitari, Tribunali per i minorenni, servizi sociali
locali) in occasione dell’allontanamento di minori dalla famiglia d’origine e
dell’affidamento ad altri (famiglia o comunità).
Metro di paragone, l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali:
<<Diritto al rispetto della vita privata e familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua
corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale,
per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati,
per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui>>
(art. 8, Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il
4.11.1950).
In entrambi i casi è stata ravvisata una violazione dell’art. 8 della
Convenzione. Secondo la Corte di Strasburgo, pur essendo giustificato
l’intervento nella relazione familiare (la gravità dei motivi emerge chiara dalla
lettura delle decisioni), le autorità non avevano perseguito il giusto equilibrio tra
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Antonio Antonio Costanzo
gli interessi del minore e quelli del genitore sotto il profilo delle
modalità di regolamentazione del rapporto genitore-figlio dopo l’affidamento.
L’accento viene messo sulla provvisorietà della misura e sulla necessità di
salvaguardare le chances di ricostituzione del rapporto: devono dunque essere
garantiti i contatti tra genitore e figlio. Per altro verso, al genitore devono essere
date informazioni sulla scelta degli affidatari e sulle modalità dell’affidamento.
Nel caso E.P./Italia (la minore, figlia di una donna greca con problemi
psichiatrici, era stata inizialmente collocata presso il fratello della madre, poi
affidata ad una coppia e infine adottata dagli affidatari), la Corte, senza mettere
in discussione i motivi posti a fondamento dell’ingerenza delle autorità, ha
osservato che sin dall’inizio
<<l’interruzione dei contatti tra la ricorrente e la figlia è stata totale e nessun incontro è mai stato organizzato tra
loro in seguito, nonostante l’insistenza della madre al fine di essere autorizzata almeno ad incontrare la figlia “in un
luogo neutro e alla presenza degli assistenti sociali”. Con la Commissione, la Corte ritiene che una misura così rigida nei
confronti di una madre appena sbarcata in Italia con la figlioletta che parlava solo greco e del cui passato le autorità
investite della causa conoscevano così poco solleva gravi questioni>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 16.11.1999, Boll. uff. Ministero Giustizia, 2002, n. 20, 32);
che l’approccio delle autorità italiane ai problemi del rapporto madre-figlia era
stato caratterizzato da una certa approssimazione; che nessuna perizia seria
sullo stato di salute della ricorrente era stata eseguita dal Tribunale per i
minorenni prima di decidere la sospensione della potestà genitoriale e
l’adottabilità della minore; che non era stato fatto il possibile per evitare una
definitiva compromissione della relazione familiare:
<<la Corte ritiene che in realtà, sebbene la ricorrente fosse disposta a farsi seguire dai servizi sociali […], questa
non abbia avuto alcuna chance di riallacciare i contatti con la figlia. Di fatto, dopo il ritorno della ricorrente in Grecia in
seguito al suo ricovero a Melegnano, i periti non hanno mai avuto occasione di osservare il comportamento della
ragazzina in presenza della madre, e viceversa, nonché le effettive possibilità di miglioramento dello stato di salute della
ricorrente, il cui ulteriore aggravamento deve verosimilmente essere attribuito almeno in parte, secondo la Corte, allo
choc subito per essere stata separata dalla figlia così all’improvviso e in modo irreversibile. Per il resto, il governo
convenuto, che si è limitato a addurre che incontri tra la ricorrente e la figlia erano stati giudicati pregiudizievoli per
quest’ultima e che lo stato di salute della ricorrente era irrimediabile, non ha fornito alcuna spiegazione convincente che
potesse giustificare una tale rottura dei rapporti tra la ricorrente e la figlia>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 16.11.1999, Boll. uff. Ministero Giustizia, 2002, n. 20, 33).
La Corte, sussistendo nella specie violazione sia dell’art. 6, § 1
(ragionevole durata del processo) che dell’art. 8 della Convenzione, ha
accordato alla parte lesa un’equa soddisfazione (art. 41 della Convenzione),
avuto riguardo allo stato di ansia e sofferenza, via via crescente nel tempo, sino
alla decisione definitiva sull’adozione della figlia:
<<La Corte ritiene […] che la ricorrente abbia certamente subito un danno morale innanzitutto a causa della
violazione dell’articolo 8 e successivamente a causa della violazione dell’articolo 6, § 1 per la durata del procedimento.
In particolare la Corte osserva che da quando è stata separata dalla figlia nell’ottobre del 1988, la ricorrente non l’ha mai
rivista. Da allora sono trascorsi quasi undici anni e la figlia della ricorrente è ormai diventata maggiorenne. Si può
ragionevolmente presumere che ciò abbia provocato, nella ricorrente, uno stato di ansia e di sofferenza, aumentato a
mano a mano che il procedimento andava avanti e la speranza di rivedere la figlia si affievoliva, di notevolissima gravità
e intensità. Decidendo secondo equità, la Corte assegna all’interessata la somma di 100.000.000 ITL>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 16.11.1999, Boll. uff. Ministero Giustizia, 2002, n. 20, 33).
Nel caso D.S./Italia (affidamento dei due figli della ricorrente ad una
comunità), la Corte di Strasburgo, pur rilevando che nel particolare contesto
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Antonio Antonio Costanzo
esaminato (il figlio primogenito era stato vittima di atti di pedofilia) la
decadenza dalla potestà genitoriale e l’allontanamento provvisorio dei figli dalla
madre fossero giustificati dalla protezione degli interessi dei minori, ha ravvisato
la violazione dell’art. 8 della Convenzione sotto un duplice profilo: da un lato, il
protrarsi nel tempo della mancanza di contatti tra madre e figli e l’insufficiente
numero di incontri tardivamente organizzati dai servizi sociali locali, con un
sostanziale svuotamento delle decisioni del Tribunale per i minorenni; dall’altro,
l’assenza di informazioni sull’affidamento, oltretutto disposto senza l’indicazione
di un presumibile periodo di durata.
La Corte, ad avviso della quale la ricorrente era legittimata ad agire anche
in nome dei figli,
<<La Corte ricorda che, in linea di principio, un soggetto che, nell’ordinamento nazionale, non ha il diritto di
rappresentare un altro soggetto, può comunque, in talune circostanze, agire davanti alla Corte in nome e per conto di
quest’ultimo (v., mutatis mutandis, la sentenza Nielsen/Danimarca del 28.11.1988, serie A n. 144, pagine 21-22,
paragrafi 56-57). In particolare, anche i minori possono adire la Corte, e a maggior ragione, se sono rappresentati da
una madre in conflitto con le autorità, delle quali critica le decisioni e la condotta alla luce dei diritti garantiti dalla
Convenzione. Come la Commissione, la Corte ritiene che nell’ipotesi di conflitto concernente gli interessi di un minore
tra il genitore biologico e il soggetto a cui le autorità hanno affidato la sua tutela vi è il rischio che taluni interessi del
minore non siano mai portati all’attenzione della Corte e che il minore sia privato della protezione effettiva dei diritti
tutelati dalla Convenzione. Di conseguenza, come ha osservato la Commissione, benché la madre sia stata privata della
potestà di genitore, uno dei fatti che hanno dato origine alla controversia deferita alla Corte, la sua condizione di madre
biologica è sufficiente a conferirle il potere di comparire davanti alla Corte anche in nome e per conto dei suoi figlio al
fine di tutelare i loro interessi>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 13.7.2000, Guida dir., 2000, n. 33, 86)
ha attribuito una somma a titolo di equa soddisfazione sia alla madre
<<Relativamente al danno morale, la Corte rileva che la prima ricorrente lo ha certamente subito a causa del
numero insufficiente di incontri con i figli organizzati fino ad oggi, del ritardo con il qual e hanno avuto luogo,
dell’assenza di spiegazioni sulla scelta dell’autorità di affidare i minori al “F.”, e inoltre degli ostacoli alla ripresa dei
rapporti con i suoi figli conseguenti al comportamento delle persone che hanno la custodia dei minori al “F.”. La Corte
osserva, altresì, che dal loro allontanamento, il 9 settembre 1997, quindi da due anni e dieci mesi, la ricorrente ha visto i
figli solamente due volte e nessun altro incontro è stato organizzato dal 9 settembre 1999. Si può ragionevolmente
presumere che il complesso di tali circostanze hanno provocato in lei un grave stato di ansia e di sofferenza che
aumenta col passare del tempo. Decidendo in equità, la Corte concede alla prima ricorrente 100.000.000 ITL>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 13.7.2000, Guida dir., 2000, n. 33, 98).
che ai figli minori, evidenziando per questi ultimi il rischio di un’irreversibile
rottura del legame con la madre e il pericolo di future difficoltà nello svolgimento
di una normale vita familiare:
<<La Corte rileva, infine, che anche i minori hanno subito un danno personale. La Corte ha infatti considerato che
il rischio crescente di una rottura irreversibile del legame con la loro madre e il pericolo che l’affidamento prolungato al
“F.” impedisca loro di avere un giorno una vita familiare al di fuori della comunità non si conciliano con lo scopo
dichiarato delle autorità di tutelare gli interessi dei minori. La Corte ritiene quindi di dover tenere in considerazione tale
pregiudizio in relazione alla posizione dei minori in quanto ricorrenti e, decidendo in equità, concede a ciascuno di essi,
a titolo personale, la somma di 50.000.000 ITL>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 13.7.2000, Guida dir., 2000, n. 33, 98).
10. Irragionevole durata del processo.
Bibliografia Ponzanelli 2001a - Didone 2002 – Vullo 2002 - Colonna 2003.
Il diritto d’azione garantito dall’art. 24 Cost. <<implica una ragionevole
durata del processo, perché la decisione giurisdizionale alla quale è preordinata
l’azione, promossa a tutela del diritto, assicuri l’efficace protezione di questo e,
in definitiva, la realizzazione della giustizia>> (Corte cost. 22.10.1999, n. 388,
88
Antonio Antonio Costanzo
GI, 2000, 1127).
Dopo la riforma del c.d. giusto processo (l. cost. 23.11.1999, n. 2), l’art.
111, 3° co., Cost. afferma espressamente che <<la legge […] assicura la
ragionevole durata>> del processo.
Su pressione delle istituzioni europee, nel 2001 il legislatore italiano ha
introdotto l’equa riparazione del danno, patrimoniale e no, conseguente alla
irragionevole durata del processo, ossia alla violazione di un diritto previsto
dall’art. 6, par. 1, della Convenzione di Roma del 1950 per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
<<Diritto all'equa riparazione. — 1. Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di
violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della
legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1,
della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione.
2. Nell'accertare la violazione il giudice considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il
comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o
a comunque contribuire alla sua definizione.
3. Il giudice determina la riparazione a norma dell'articolo 2056 del codice civile, osservando le disposizioni
seguenti:
a) rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1;
b) il danno non patrimoniale è riparato, oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche attraverso
adeguate forme di pubblicità della dichiarazione dell'avvenuta violazione>>
(art. 2, l. 24.3.2001, n. 89).
La legge 24.3.2001, n. 89, nota anche come legge Pinto dal nome del
primo firmatario, è stata approvata a larga maggioranza al termine della
tredicesima legislatura. Essa non contiene misure strutturali capaci di incidere
sulle cause della lunga durata dei processi in Italia. L’obiettivo del legislatore
era quello di alleggerire il carico gravante sulla Corte europea dei diritti
dell’uomo di Strasburgo (investita di migliaia di ricorsi per violazione della
ragionevole durata del processo da parte dello Stato italiano) e ridurre così le
condanne inflitte al nostro paese. Le domande indirizzate alla Corte di
Strasburgo, infatti, sono ricevibili solo se il corrispondente rimedio interno è già
stato attivato.
<<La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qual’è inteso secondo i
principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della
decisione interna definitiva>>
(art. 35, 1° co., Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; v. anche l’art. 41,
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali).
La Corte di Strasburgo, dal canto suo, ha ritenuto irricevibili i ricorsi anche
se proposti prima dell’entrata in vigore della legge Pinto (Corte europea dei
diritti dell’uomo, sezione II, decisione 6.9.2001, Brusco c. Italia, in Guida dir.,
2001, n. 38, 13).
La legge Pinto intende garantire la riparazione di un danno, patrimoniale o
non patrimoniale (art. 2, 1° e 3° co.), ma non parla di risarcimento; richiama
l’art. 2056 c.c. (art. 2, 3° co.), ma qualifica le somme di denaro dovute agli
aventi diritto quali <<indennizzi>>, la cui erogazione, oltretutto, avviene <<nei
limiti delle risorse disponibili>> (art. 3, 7° co.) . Il rimedio di tutela si traduce
nell’attribuzione di una somma di denaro posta a carico dell’amministrazione
89
Antonio Antonio Costanzo
statale; nel caso di danno non patrimoniale, alla condanna pecuniaria
può aggiungersi una riparazione affidata a <<adeguate forme di pubblicità della
dichiarazione dell'avvenuta violazione>> (art. 2, l. 24.3.2001, n. 89).
L’art. 3, 3° co., l. 24.3.2001, n. 89, individua il soggetto passivo della
pretesa. La domanda di equa riparazione è proposta nei confronti del Ministro
della giustizia quando si discute di <<procedimenti del giudice ordinario>>. Se
invece si tratta di un procedimento davanti al giudice militare o al giudice
tributario, legittimato passivo è, rispettivamente, il Ministro della difesa o il
Ministro delle finanze (oggi dell’economia). Negli <<altri casi>>, e dunque in via
residuale, legittimato passivo è il Presidente del Consiglio dei ministri (v. ad es.
Cass. 8.8.2002, n. 11987, relativa a procedimento svoltosi davanti al TAR;
Cass. 15.1.2003, n. 521).
La l. 24.3.2001, n. 89, pone numerosi problemi applicativi sul piano sia
processuale che sostanziale. Esaminiamone alcuni, tenendo presente, da un
lato, i riflessi della durata delle cause sulle relazioni familiari, dall’altro, temi di
carattere più generale (contenuto e prova del danno non patrimoniale, criteri di
valutazione dell’operato delle autorità pubbliche).
10.1. I processi in materia di famiglia e diritti delle persone.
La l. 24.3.2001, n. 89, non dice quale sia la ragionevole durata del
processo, ma all’art. 2 afferma che il giudice deve considerare <<la complessità
del caso>> e valutare, in relazione ad essa, il comportamento delle parti, del
giudice e di ogni altra autorità che contribuisce alla definizione del
procedimento. Per dare concretezza al precetto i giudici italiani, pur in assenza
di un vincolo, si sono richiamati alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo
che, in via pretoria, aveva determinato in tre anni la ragionevole durata del
processo di primo grado. Si tratta di un’indicazione di carattere generale e non
assoluta (sulla misura dell’irragionevole durata e la liquidazione del danno, si
vedano, da ultimo, Cass., 14.1.2003, n. 362 e Cass., 4.2.2003, n. 1600).
Vi sono casi in cui è richiesta una speciale diligenza e celerità, una
particolare attenzione, come già affermato dalla Corte di Strasburgo.
I processi in materia di famiglia rientrano fra questi, considerate le
implicazioni - in termini di ansia, incertezza, difficoltà nei rapporti personali che la pendenza di una lite ha sull’esistenza delle persone e sul godimento del
diritto alla vita familiare (v. ad es. Corte europea diritti dell’uomo, 18.2.1999,
Laino c. Italia, Riv. int. dir. uomo, 1999, 604; FD, 1999, 421) .
La Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza 27 febbraio 2001 ha
condannato lo Stato italiano a pagare lire 60.000.000 per danno morale, oltre a
lire 20.000.000 per spese, relativamente ad un vicenda processuale svoltasi nel
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Antonio Antonio Costanzo
periodo 4 novembre 1980 – 31 marzo 2000 (CEDU, 27.2.2001, C. c.
Italia, http://www.cittadinolex.kataweb.it/Article/0,1519,11744|33,00.html). Si
trattava di un giudizio per dichiarazione di paternità promosso da una cittadina
italiana, madre di un bambino di cinque anni, inizialmente davanti al tribunale
ordinario (la Cassazione dichiarerà competente il tribunale per i minorenni) e
concluso con sentenza definitiva dopo sedici anni, quando il figlio ormai era
diventato maggiorenne. Cinque anni era invece durato il processo instaurato
per ottenere che il padre contribuisse al mantenimento del figlio.
La Corte di Strasburgo, all’unanimità, accerta la violazione dell’art. 6, § 1
della Convenzione e motiva in poche righe, affermando che il caso concreto è
l’ulteriore manifestazione della prassi contraria alla Convenzione consistente in
ripetute inosservanze del principio del termine ragionevole e già rilevata in
decisioni precedenti.
La Corte ritiene invece di non dover esaminare la seconda questione posta
dalla ricorrente, ossia se sia stato violato anche l’art. 8 della Convenzione
(diritto al rispetto della propria vita privata e familiare). Una dei componenti del
collegio, la giudice Tulkens, non ha condiviso quest’ultima decisione, ben
argomentando il suo dissenso: nelle cause concernenti lo stato delle persone il
criterio della posta in gioco (enjeu du litige) impone una diligenza particolare
nella misura in cui una lentezza eccessiva può, di per sé, violare il diritto al
rispetto della vita familiare; nel caso di specie, l’incertezza sulla situazione
giuridica si era protratta per tutta l’infanzia e l’adolescenza del figlio; è allora
difficile pensare che una simile vicenda, riguardante questioni essenziali, non
possa ledere la vita privata e familiare nel senso dell’art. 8 della Convenzione:
occorreva quanto meno esaminare anche questo aspetto.
Diversa la decisione nel caso E.P. c. Italia, già menzionato: una bambina
greca di sette anni, allontanata nel 1988 dalla madre con problemi psichiatrici,
era poi stata data in affidamento e infine dichiarata adottabile, con decisione
divenuta definitiva solo nel 1995. Con sentenza 16.11.1999 la Corte di
Strasburgo ha ravvisato la violazione sia dell’art. 6, § 1
<<52. Il periodo da prendere in considerazione è iniziato il 26 ottobre 1988, data in cui il tribunale di Roma è
intervenuto per la prima volta ordinando il collocamento provvisorio di M.-A. nella famiglia del fratello della ricorrente, per
terminare il 24 ottobre 1995, data del deposito in cancelleria della sentenza della Corte di Cassazione del 7 giugno
1995. Pertanto è durato sette anni.
53. La Corte ricorda di aver constatato in quattro sentenze del 28 luglio 1999 (si veda, ad esempio, la sentenza
Bottazzi c/Italia, di prossima pubblicazione nel Recueil des arrets ed décisions 1999), l’esistenza in Italia di una prassi
contraria alla Convenzione consistente in un cumulo di inosservanze del principio del “lasso di tempo ragionevole”. Essa
ricorda altresì che, trattandosi di un procedimento in materia di custodia dei figli, si imponeva una particolare celerità (si
veda, mutatis mutandis, la sentenza Johansen c/Norvegia del 7 agosto 1996, Recueil-III, p. 1010, 88)>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 16.11.1999, Boll. uff. Ministero Giustizia, 2002, n. 20, 28)
che dell’art. 8 della Convenzione di Roma. Sotto quest’ultimo profilo, pur
riconoscendo la serietà delle ragioni che avevano determinato l’intervento
dell’autorità,
<<diverse perizie hanno concluso che la ricorrente era affetta da turbe psicologiche che si traducevano
91
Antonio Antonio Costanzo
soprattutto in un’ossessione ipocondriaca imperniata sulla figlia e in tendenze “iperprotettive” nei suoi
confronti. Inoltre, è stato constatato che dopo aver avvertito la minaccia di un allontanamento della figlia,
per ben due volte la ricorrente ha lasciato con questa due ospedali contrariamente alle istruzioni dei medici, prima ad
Atene e poi a Roma, nell’evidente tentativo di fuggire. Per giunta, secondo le autorità italiane, la ricorrente non si è mai
mostrata incline a porre in discussione il suo comportamento e ad ammettere la sua malattia (si veda, mutatis mutandis,
la sentenza di Johansen succitata, p. 1009, 80)>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 16.11.1999, Boll. uff. Ministero Giustizia, 2002, n. 20, 28)
la Corte ha osservato che, sin dall’inizio, l’interruzione dei contatti tra la madre e
la figlia era stata totale e che la ricorrente non aveva avuto alcuna chance di
riallacciare i contatti con la figlia:
<<nonostante il margine di apprezzamento di cui godevano, le autorità competenti non hanno attuato tutte le
misure necessarie, che si potevano ragionevolmente esigere da loro nel caso specifico, al fine di non compromettere
definitivamente le chance di riallacciare un rapporto tra la ricorrente e la figlia. Pertanto, le autorità non hanno
mantenuto un giusto equilibrio tra gli interessi superiori della bambina e i diritti che l’art. 8 della Convenzione riconosce
alla ricorrente>>
(Corte europea diritti dell’uomo, 16.11.1999, Boll. uff. Ministero Giustizia, 2002, n. 20, 33).
La peculiarità della materia trattata, ossia la particolare importanza delle
situazioni soggettive coinvolte, può dunque avere rilievo sotto un duplice profilo:
da un lato, per stabilire se vi sia violazione del diritto alla ragionevole durata del
processo (anche se l’art. 2, l. 24.3.2001, n. 89, non fa espressa menzione di un
simile parametro), dall’altro, per determinare oggetto e modi della riparazione,
soprattutto nell’ipotesi di danno non patrimoniale.
A questi criteri si è attenuta la Corte d’appello di Ancona (decr. 11.7.2001,
FD, 2002, 301), chiamata ad esaminare l’andamento di un giudizio per la
dichiarazione di ammissibilità della domanda di accertamento della maternità
naturale pendente da sei anni. La pronuncia della Corte d’appello interviene
dopo che quel giudizio, preliminare rispetto alla causa di merito (art. 274 c.c.), si
era concluso in primo grado con l’inammissibilità della domanda, e dunque in
senso sfavorevole alla parte che lamentava l’eccessiva durata.
Secondo la Corte
<<anche se non può prescindersi dalle indubbie – rilevate dallo stesso ricorrente – difficoltà organizzative degli
uffici per cronica carenza di personale, per carico di lavoro arretrato, per assestamento dell’operatività funzionale delle
strutture in occasione delle recenti riforme del sistema giudiziario e processuale>>
(App. Ancona decr. 11.7.2001, FD, 2002, 302)
nel caso di specie l’autorità giudicante aveva contribuito in maniera decisiva
all’irragionevole durata del processo
<<avuto riguardo anche alla materia oggetto del contendere costituita da questione di filiazione per cui appare
rispondente all’importanza e delicatezza dell’argomento una particolare diligenza del giudicante nel non far trascorrere
un tempo eccessivo prima di adottare una pronuncia>>
(App. Ancona decr. 11.7.2001, FD, 2002, 302).
Esclusa, allo stato, l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale,
<<per quel che attiene alla determinazione dell’equa riparazione, vertendosi in tema di giudizio pendente e non
potendo, dunque, neppure prospettarsi una perdita subita dal patrimonio del ricorrente in conseguenza dell’evento
lesivo (ritardo) dato [che] non è possibile conoscere l’esito definitivo della controversia, il criterio da seguire non può che
essere quello di cui all’art. 1226 c.c. richiamato dall’art. 2056 c.c. al quale fa riferimento l’art. 2, comma 3, L. n.
89/2001>>
(App. Ancona decr. 11.7.2001, FD, 2002, 302)
in via equitativa la Corte liquida a titolo di riparazione, e dunque quale danno
92
Antonio Antonio Costanzo
non patrimoniale, una somma di denaro commisurata sia alle
connotazioni oggettive del procedimento (materia trattata, periodo eccedente
rispetto al termine ragionevole, impugnabilità della decisione) che alla
condizione soggettiva (età) dei litiganti:
<<si ritiene stimare tale risarcimento in complessive lire 6.000.000 (sei milioni) in moneta attuale (comprensiva
d’interessi e rivalutazione monetaria, senza che occorra puntualizzare le singole componenti: cfr. Cass. n. 2910/1995) in
relazione alle peculiarità del caso, sotto il profilo della materia trattata e del periodo eccedente il termine ragionevole di
cui al comma 1 della citata legge, del grado di giudizio nonché della particolare situazione soggettiva delle parti (trattasi
di persone di età avanzata per le quali il protrarsi del processo può effettivamente compromettere il soddisfacimento
delle pretese)>>
(App. Ancona decr. 11.7.2001, FD, 2002, 303).
10.2. Equa riparazione: risarcimento o indennità?
Che natura ha l’equa riparazione ex l. 24.3.2001, n. 89? L’art. 2 disciplina
un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale dello Stato, un’illecito civile
speciale e tipico ma riconducibile allo schema dell’art. 2043 c.c.? oppure
un’obbligazione indennitaria da attività lecita, svincolata dai presupposti della
responsabilità aquiliana (della pubblica amministrazione) e non soggetta al
principio dell’integrale riparazione?
Il dilemma, che ha diviso dottrina e giurisprudenza di merito, riveste una
grande importanza sia sul piano teorico-sistematico che su quello applicativo.
La natura risarcitoria è stata affermata, ad esempio, da App. Genova, decr.
29.11.2001, che alla luce del novellato art. 111 Cost., della l. 24.3.2001, n. 89, e
dell’art. 6, § 1, CEDU, ravvisa l’esistenza di un diritto soggettivo perfetto, di
rango costituzionale, alla ragionevole durata del processo, <<che dovrebbe
poter esercitarsi contro chiunque abbia dato causa al protrarsi ingiustificato del
processo, sia esso soggetto pubblico o privato>>:
<<il danno, che per esplicita indicazione della norma, è pure quello non patrimoniale, potrebbe almeno in parte
considerarsi in re ipsa: l’oggettivo trascorrere del tempo senza che si giunga ad una decisione è sicuramente fonte di
sofferenza e patemi d’animo; ma esso potrebbe altresì incidere assai negativamente (e di ciò si dovrà fornire idonea
prova) sulla salute e sull’equilibrio psicofisico della persona, sulla sua vita di relazione, sulle sue aspettative, idonee,
aspirazioni, posizioni, ecc.; in definitiva sulla sua identità e dignità di persona (e dunque potrebbe rilevare tanto il danno
biologico quanto quello che, sempre più frequentemente, si definisce come danno esistenziale). E ovviamente, pure
potrebbe rilevare il danno patrimoniale, la perdita subita ed il mancato guadagno, ancora, in connessione con
l’eccessiva durata del procedimento>>
(App. Genova decr. 29.11.2001, GM, 2003, I, 20).
Nel senso della natura indennitaria dell’equa riparazione, si veda, tra le
altre, App. Milano, decr. 29.6.2001 (Guida dir., 2001, n. 29, 30).
Il più recente orientamento propende per la seconda qualificazione, ma è
interessante notare come i principi affermati siano sostanzialmente in linea con
la tesi che, in materia di responsabilità civile della p.a., estende l’indagine
sull’elemento soggettivo anche alla “colpa dell’apparato”, da valutare alla luce
delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione (Cass. S.U.
22.7.1999, n. 500, FI, 1999, I, 2503). Si introducono così termini di riferimento
obiettivi, parametri e regole di condotta calibrati non tanto sull’operato del
singolo agente, quanto piuttosto sulla complessiva azione dell’erogatore del
93
Antonio Antonio Costanzo
servizio.
La Cassazione ha subito accolto la tesi della natura indennitaria.
Con una decisione deliberata all’udienza 10 giugno 2002 (la prima dedicata
alla legge Pinto), la prima sezione della Suprema Corte, esaminando il
problema relativo alla prova dell’an del danno, offre un inquadramento della
fattispecie che sarà confermato nelle successive pronunce. I sessanta ricorrenti
(rimasti soccombenti nel giudizio promosso davanti al TAR per ottenere
differenze salariali) sostenevano che una volta accertata la violazione della
ragionevole durata del processo il danno dovesse ritenersi in re ipsa, quanto
meno sotto il profilo dell’an. Ad avviso di Cass. 8.8.2002, n. 11987, si tratta di
una prospettazione suggestiva ma non convincente:
<<Il problema va risolto, per altro, fuori dello schema dell'illecito aquiliano, nel quale la dimostrazione del danno
sarebbe de plano a carico di chi ne pretende il risarcimento (articolo 2043 c.c.). E ciò perché, ad avviso del Collegio
all'equa riparazione, di cui all'articolo 2 legge 89/2001, va riconosciuta più propriamente natura indennitaria e non
risarcitoria>>
(Cass. 8.8.2002, n. 11987, GC, 2002, 2396; conf. Cass. 26.7.2002, n. 11046, CED RV. 558853,
http://www.equariparazione.it/Cass_11046_02.html, secondo cui la violazione della ragionevole durata è un evento ex
se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento).
La Cassazione fonda l’interpretazione indennitaria sia sul dato testuale (i
richiami all'equità e al limite delle risorse disponibili, l’assenza di riferimenti
all'elemento soggettivo della responsabilità, l'uso del termine indennizzo) che su
argomenti di carattere logico-sistematico:
<<Tra questi, la considerazione, in primo luogo, che l'equa riparazione deriva, nello schema configurato dalla
citata legge 89, da una attività lecita dell'amministrazione, quale innegabilmente è l'attività giudiziaria. La quale non
diviene illecita per il solo fatto del suo, sia pure eccessivo, protrarsi e rileva, comunque, in funzione esclusiva del suo
porsi in contrasto con il "termine ragionevole di cui all'articolo 6 della CEDU", indipendentemente - come detto - da
qualsiasi (non richiesto) connotato di colpa di organi giudiziari o di ogni altra autorità dello Stato (che può essere, in tesi,
anche quella legislativa o amministrativa per i profili, rispettivamente, disciplinatori del processo o di organizzazione
delle strutture), la cui attività possa avere inciso sulla durata della procedura (vedi articolo 2, punto 2 legge 89 citata).
La constatazione, inoltre, che l'endiadi "equa riparazione", nei contesti normativi in cui si trova già adoperata
(articoli 314 e 643 cpp, in materia di ingiusta detenzione e di errore giudiziario), è stata già del pari qualificata in termini
di indennizzo (cfr. Cassazione 2760/97).
La considerazione, infine, che, nei casi di vero e proprio illecito connesso alla durata eccessiva del processo, già
prima della legge Pinto - ed ora indipendentemente da questa - è attribuito al danneggiato una specifica azione
risarcitoria dalla legge 117/88 sulla responsabilità civile dei magistrati>>
(Cass. 8.8.2002, n. 11987, GC, 2002, 2396; conf. Cass. 2.8.2002, n. 11573, GI, 2003, 25, anch’essa deliberata
all’udienza 10 giugno 2002).
In conclusione, secondo la Corte quella disciplinata dalla legge Pinto non è
un’obbligazione ex delicto, ma un’obbligazione ex lege
<<riconducibile, nel quadro delle fonti di cui all'articolo 1173 c.c., agli "atti o fatti idonei a produrla secondo
l'ordinamento giuridico">>
(Cass. 8.8.2002, n. 11987, GC, 2002, 2397; conf. Cass. 26.7.2002, n. 11046, CED RV. 558853; Cass.
22.10.2002, n. 14885; e molte altre; Cass. 2.8.2002, n. 11573, GI, 2003, 25, parla in proposito di <<credito da fatto
lecito>>).
Ciò non toglie che la parte interessata debba offrire la prova del danno:
<<La ritenuta natura indennitaria dell'equa riparazione non conduce, però, di per sé al preteso automatismo della
sua attribuzione in favore del soggetto che lamenti violazione del suo diritto alla ragionevole durata del processo.
A siffatta violazione - accertabile in base ai criteri che l'articolo 2 legge 89/2001 mutua dall'articolo 6 della CEDU e
che rileva, si ripete, nella sua oggettività - la predetta legge 89 non ricollega, infatti, l'applicazione di una pena privata,
multa o sanzione nei confronti all'apparato, ma, appunto, una equa riparazione in favore del soggetto che "per effetto"
della eccessiva durata del giudizio, violativa del riconosciuto suo diritto ad una durata ragionevole dello stesso, abbia
subito un danno, patrimoniale o non patrimoniale.
Tale danno - che, sul piano diacronico, è correlato al solo periodo eccedente la durata della procedura - va
dunque dimostrato dalla parte legittimata a chiederne il ristoro. Ancorché, per quanto in particolare attiene al danno non
94
Antonio Antonio Costanzo
patrimoniale o cosiddetto morale, tale prova possa essere in concreto agevolata dal ricorso a presunzioni
e a ragionamenti inferenziali, che trovano fondamento nella conoscenza, in base ad elementari e comuni
nozioni di psicologia, degli effetti che la pendenza di un processo civile, penale e amministrativo provoca nell'uomo
medio>>
(Cass. 8.8.2002, n. 11987, GC, 2002, 2397).
La sentenza precisa che la lesione del diritto alla ragionevole durata del
processo non è equiparabile alle ipotesi di danno da violazione di diritti
fondamentali della persona garantiti da norme costituzionali immediatamente
precettive. A tal proposito, la Corte delimita l’ambito entro il quale può assumere
rilevanza il danno esistenziale o comunque da lesione di un diritto inviolabile
come riconosciuto da Cass. 7.6.2000, n. 7713 (diritti inerenti alla qualità di figlio
e minore provocata dal comportamento del padre) e Cass. 10.5.2001, n. 6507
(reputazione):
<<Né è sostenibile in contrario che nella lesione del diritto alla ragionevole durata del processo [l'an de] il danno
sia in re ipsa, costituendo la violazione di quel diritto, all'un tempo, sia il fatto causam dans del danno, sia l'evento in sé
di danno (danno evento), così come ritenuto nelle sentenze 7713/00 e 6507/01 di questa corte.
Dette pronunce si riferiscono ben vero, ed unicamente, ad ipotesi di "diritti fondamentali della persona" la cui
inviolabilità sia garantita da norme costituzionali immediatamente percettive e la cui violazione "non può rimanere senza
la sanzione minima risarcitoria", costituendo perciò danno evento di per sé risarcibile (così Corte costituzionale 184/86,
a proposito del diritto alla salute e del danno biologico).
Ma tale non è il caso del diritto alla ragionevole durata del processo, che trova, invece la sua fonte al livello di
legge ordinaria (89/2001 citata). E che - contrariamente a quanto pur da taluni affermato - non è direttamente
riconducibile alla previsione dell'articolo 111 della Costituzione.
Disposizione, quest'ultima , che, - per il profilo della ragionevole durata, che assume come connotato del giusto
processo - prefigura un canone oggettivo di disciplina della funzione giurisdizionale e non direttamente una garanzia del
singolo strutturata in termini di diritto soggettivo; contiene cioè una norma meramente programmatica, non utilizzabile
come strumento di controllo della durata del singolo processo (a ciò appunto ora provvedendo la legge 89/2001) e che
rileva, invece, unicamente come parametro di controllo della legge che sia in tesi in contrasto con gli obiettivi della
ragionevole durata dei processi. Spettando, dunque, in tale contesto, al legislatore bilanciare le istanze di
ragionevolezza della durata del processo con il quantum delle garanzie concedibili, al suo interno, alle parti. [Nel che,
poi, è il vero nodo, non più eludibile, del "caso Italia". Atteso che, in particolare per quel che attiene al settore civile, la
consentita esperibilità del ricorso alla corte di legittimità, sostanzialmente senza filtri, senza significativi limiti di materia e
di valore e senza il limite stesso di reiterabilità della impugnazione - da cui consegue, in ogni caso di accoglimento con
rinvio, il ritorno del processo alla fase precedente - definisce un complessivo modello di giudizio per il quale non esiste
un momento predefinibile di arresto, che potrebbe virtualmente durare all'infinito e, con tale latitudine può essere
utilizzato anche per controversie di minimo valore economico (lire 5.000 nel caso deciso da Cassazione 2670/96). Con
la conseguenza, in un sistema così conformato, che l'afflusso delle nuove controversie non è bilanciato dallo
smaltimento di quelle pregresse, per notevole parte delle quali si verifica un effetto di stagnazione, con un complessivo
sovraccarico, in progressivo incremento, delle strutture giudiziarie, tale rendere ardua la sollecita definizione dei
processi]>>
(Cass. 8.8.2002, n. 11987, GC, 2002, 2397; conf. Cass. 13.9.2002, n. 13422).
10.3. Equa riparazione e violazioni “di sistema”.
L’accertamento della violazione del diritto alla ragionevole durata del
processo non è influenzato dal riscontro di disfunzioni e ritardi riconducibili
all’organizzazione amministrativa, locale o centrale, all’insufficiente
predisposizioni di risorse umane e materiali, al sistema processuale (App.
Torino, decr. 25.6.2001, GC, 2001, 879). In questi termini si era già espressa la
Corte di Strasburgo.
La Cassazione ha precisato che il diritto all’equo indennizzo consegue al
mero accertamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6,
§ 1, CEDU: la valutazione del comportamento del giudice e delle parti serve a
stabilire quali attività processuali siano riferibili all’impulso dell’uno o delle altre
per poi stimare i tempi attribuibili al giudice inteso come apparato giustizia,
ossia come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari
95
Antonio Antonio Costanzo
all’espletamento del servizio. In altri termini, il giudice dell’equo
indennizzo non deve valutare la legittimità del comportamento del giudice della
causa presupposta; è vero invece che l’accoglimento della domanda di equa
riparazione implica un apprezzamento negativo circa la complessiva capacità
dell’apparato giustizia a rendere un servizio in tempi ragionevoli. Pertanto,
<<è del tutto arbitrario interpretare la proposizione dell’azione in oggetto (in pendenza di giudizio) come atto di
sfiducia nei confronti del giudice della causa presupposta, tale da indurlo ad astenervisi, con conseguente lesione del
principio del giudice naturale>>
(Cass., 14.1.2003, n. 362, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/362sen_03.html: la Corte ha
respinto l’eccezione del Ministero della Giustizia, secondo cui la norma che consente di proporre la domanda di equa
riparazione in corso di giudizio sarebbe in contrasto con i principi di precostituzione del giudice naturale, art. 25 Cost., e
imparzialità del giudice, art. 101 Cost.; conf. Cass. 7.11.2002 n. 15611).
Tra i comportamenti da valutare a norma dell’art. 2, 2° co., l. 24.3.2001, n.
89 possono rientrare non solo quelli degli organi giudiziari ma anche quelli
<<di ogni altra autorità dello Stato (che può essere, in tesi, anche quella legislativa o amministrativa per i profili,
rispettivamente, disciplinatori del processo o di organizzazione delle strutture), la cui attività possa avere inciso sulla
durata della procedura>>
(Cass. 8.8.2002, n. 11987, GC, 2002, 2396).
Di particolare interesse Cass. 22.10.2002, n. 14885, riguardante un
processo esecutivo (nella specie, si trattava del rilascio di un immobile ad uso
abitativo eseguito solo dopo molti anni dalla formazione del titolo, e ciò a causa
della mancata concessione dell’assistenza della forza pubblica e delle
sospensioni effetto di provvedimenti legislativi). La Corte analizza lettera e ratio
della norma per affermare che tra i comportamenti valutabili non rientrano solo
quelli del giudice, dei suoi ausiliari o di altre attività amministrative:
<<Fatto costitutivo del diritto all'equa riparazione è il "mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, par.
1, della Convenzione". Il termine è riferito, dunque, in modo specifico a quello contemplato dall'art. 6, par. 1, della
Convenzione, sicché detta norma, e il diritto vivente che intorno ad essa si è formato attraverso la giurisprudenza della
Corte europea, necessariamente vanno considerati ai fini dell'interpretazione della legge n. 89 del 2001.
In questo quadro, dunque, deve essere letto l'art. 2, secondo comma, della legge n. 89 del 2001, alla stregua del quale il
giudice, nell'accertare la violazione, considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle
parti e del giudice del procedimento, "nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque
contribuire alla sua definizione".
Fermo il punto che il richiamo è al comportamento, cioè ad un dato oggettivo, si deve subito notare che già il
dettato letterale della norma, nella sua ampia formulazione, non consente di attribuire ad essa il significato restrittivo
identificato dalla Corte trentina, secondo la quale il legislatore avrebbe inteso riferirsi agli ausiliari del giudice o ad altre
autorità amministrative.
Ma, al di là del dato testuale, non si può ignorare il contesto nel quale la legge n. 89 del 2001 è stata emanata.
Questa è stata introdotta nell'ordinamento interno per dotare l'Italia di un rimedio contro la violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo, secondo gli orientamenti emersi in sede europea (non altro significato potendosi
attribuire all'univoco richiamo all'art. 6, par. 1, della Convenzione). Pertanto, un'interpretazione della norma che
escludesse dal suo ambito applicativo tutte le violazioni "di sistema", cioè le violazioni conseguenti anche a scelte
legislative che provochino una durata non ragionevole dei procedimenti (nel caso di specie la stessa Corte di merito non
dubita che la ragionevole durata del processo "sia stata ampiamente superata"), finirebbe non soltanto per porsi, a sua
volta, in contrasto con la Convenzione, ma sarebbe altresì elusiva delle stesse finalità perseguite dal legislatore>>
(Cass. 22.10.2002, n. 14885, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/14885sen_02.html).
Il fatto che l’irragionevole durata del processo dipenda da provvedimenti
legislativi non esclude di per sé l’equa riparazione:
<<Non si tratta d'introdurre nel nostro ordinamento la responsabilità civile del legislatore, perché, come sopra si è
notato, la legge n. 89 del 2001 non contempla una fattispecie d'illecito aquiliano bensì un'ipotesi di natura indennitaria. E
neppure si tratta di mettere in discussione la soggezione del giudice alla legge, essendo ovvio che il giudice deve
applicare in ogni caso la legge, ancorché ciò conduca a risultati non compatibili con la ragionevole durata del
procedimento (salvo il potere di chiedere al giudice delle leggi lo scrutinio di costituzionalità, ai sensi dell'art. 111,
comma secondo, Cost., nel testo novellato). Il giudice nazionale resta vincolato al quadro normativo del proprio
ordinamento, che non può disapplicare né censurare. Ma proprio in ossequio a tali principi ha il dovere d'interpretare la
legge n. 89 del 2001 (che è legge dello Stato) in base al senso "fatto palese dal significato proprio delle parole secondo
96
Antonio Antonio Costanzo
la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore" (art. 12, primo comma, disp. sulla legge in
generale). E tale interpretazione, alla stregua dei precedenti rilievi, conduce ad affermare che,
nell'accertare la durata del procedimento al fine di verificarne la ragionevolezza, il giudice debba considerare anche il
ritardo conseguente alla (doverosa) applicazione di atti legislativi o, comunque, a contenuto normativo. Il detto
accertamento, infatti, non è diretto a sindacare tali atti, e le scelte ad essi sottese (e meno che mai a disapplicarli), bensì
a controllare se la durata del singolo procedimento (come conformato in base a quegli atti) si riveli compatibile con i
principi della legge n. 89 del 2001, segnatamente con il precetto di cui all'art. 2 di tale legge e, tramite questo, con il
precetto di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione.
Il provvedimento impugnato, dunque, ha errato nell'affermare che dall'ambito applicativo della legge n. 89 del
2001 andasse esclusa l'incidenza sulla durata del procedimento riferibile ad atti normativi o applicativi di questi>>
(Cass. 22.10.2002, n. 14885, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/14885sen_02.html; così già
Cass. 26.7.2002, n. 11046, CED RV. 558852, http://www.equariparazione.it/Cass_11046_02.html)
10.4. Il danno da irragionevole durata del processo.
Le prime decisioni in materia di legge Pinto evidenziano la difficoltà di
fornire, con riguardo almeno ai procedimenti civili, la prova del danno
patrimoniale, non identificabile col bene della vita che si intende conseguire nel
giudizio.
Quanto al danno non patrimoniale, va sottolineato che la legge 24.3.2001,
n. 89, ne consente la riparazione oltre i limiti di cui all’art. 2059 c.c. (e 185 c.p).
Resta il problema della prova del pregiudizio (correlato, in ogni caso, al solo
periodo eccedente la ragionevole durata).
Come si è visto, Cass. 8.8.2002, n. 11987, ritiene che tale prova possa
essere offerta, in concreto, ricorrendo a <<a presunzioni e a ragionamenti
inferenziali>> fondati sulla <<conoscenza, in base ad elementari e comuni
nozioni di psicologia, degli effetti che la pendenza di un processo civile, penale
e amministrativo provoca nell'uomo medio>>.
Anche Cass. 5.11.2002, n. 15449 nega che possa parlarsi di danno in re
ipsa. In questa pronuncia la Corte ribadisce le differenze tra violazione del
diritto alla ragionevole durata del processo e danno non patrimoniale da lesione
di diritti fondamentali della persona posti al vertice della gerarchia dei valori
costituzionalmente garantiti:
<<[...] Né, in contrario, varrebbe richiamarsi a recenti pronunce di questa Corte (Cassazione 7713/00; nonché
Cassazione 6507/01) che, con riguardo alla tutela di pregiudizi (non patrimoniali) conseguenti alla lesione di diritti
fondamentali della persona, diversi dalla salute, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti
e la cui violazione non può rimanere senza "la minima delle sanzioni (risarcimento del danno) che l'ordinamento
appresta per la tutela di un interesse" (come affermato già dalla Corte costituzionale, nella sentenza 184/86, in tema
esattamente di diritto alla salute e di danno biologico), hanno fatto riferimento ad una autonoma categoria di danno
("esistenziale od alla vita di relazione", capace di ostacolare le attività realizzatrici della persona umana") il quale va
"incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno-evento) indipendentemente dalle eventuali
ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno-conseguenza)", onde il relativo ristoro di tale lesione non
sarebbe in alcun modo collegato alla prova delle conseguenze dannose appunto che dalla anzidetta lesione siano
scaturite>>
(Cass. 5.11.2002, n. 15449, GI, 2003, 24; conf. Cass. 2.8.2002, n. 11600).
Essa sembra inoltre osservare che, secondo una prospettiva
consequenzialistica, anche nel caso di danno esistenziale occorre fornire la
prova del pregiudizio risarcibile, da considerare in ogni caso non quale oggetto
di un’autonoma categoria di danno, ma quale voce del danno non patrimoniale:
<<Al riguardo, infatti, pur a prescindere dall'ampio dibattito cui le richiamate decisioni hanno dato luogo nella
dottrina e nella giurisprudenza (anche di legittimità, là dove si è affermato che la stessa dicotomia danno-evento e
97
Antonio Antonio Costanzo
danno-conseguenza appare, quanto meno per la tematica di cui trattasi, una mera sovrastruttura teorica:
Cassazione sezioni unite 2515/02, citata), vale notare che la figura del danno "esistenziale" è stata
elaborata per sopperire alle lacune, riscontrate in punto di protezione civilistica degli attributi e dei valori della persona,
connesse all'impossibilità di giovarsi dell'articolo 185 c.p. (e di liquidare perciò il relativo danno morale) quante volte non
si fosse concretizzata una fattispecie di reato, mentre, nella materia di cui trattasi, poiché il legislatore è intervenuto
enunciando espressamente la possibilità di riconoscere il danno "non patrimoniale" al di fuori dai limiti posti dall'articolo
2059 c.c. (articolo 2, primo comma, della legge 89/2001), risulta evidente come il pregiudizio esistenziale possa
costituire, semmai, una "voce" del danno indicato da ultimo, i cui caratteri naturalistici (incidenza su una concreta attività
pur non reddituale e non mero patema interiore) non consentono, tuttavia, secondo quanto rilevato anche in dottrina, il
riferimento ad una autonoma categoria la quale sia, in sé, soggetta ad un regime risarcitorio diverso da quello previsto
per il danno non patrimoniale appunto e che non postuli, quindi, necessariamente, la relativa dimostrazione, tanto più
che detto pregiudizio, concretandosi in una modificazione dell'agire del singolo, è agevolmente accertabile altresì in via
oggettiva, ovvero sulla base di indici più sicuri (si pensi alla modifica dei propri usi di vita sociale, delle proprie scelte
abituali e così via) di quelli che suggeriscono l'esistenza di un danno morale soggettivo [...]>>
(Cass. 5.11.2002, n. 15449, GI, 2003, 24).
La legge Pinto offre alla Suprema Corte un’occasione per ripensare alla
figura del danno non patrimoniale: è riferibile solo alle persone fisiche? qual è il
suo contenuto?
Cass. 2.8.2002, n. 11573 osserva che il danno non patrimoniale
<<non trova definizione nella legge n. 89 del 2001, e nemmeno nel codice civile, il quale si limita a contemplarne
la risarcibilità nei casi espressamente previsti (art. 2059), e, pertanto, va identificato con stretta aderenza al valore
letterale della relativa espressione, comprendendo tutti gli effetti pregiudizievoli che non tocchino il patrimonio e che non
siano suscettibili di un apprezzamento di mercato.
Il danno non patrimoniale include dunque tanto il danno morale, consistente in sofferenze, turbamenti,
menomazioni dell’equilibrio psichico, quanto il danno che, pur non coinvolgendo la sfera dei sentimenti, degli affetti e
della psiche, né comportando un nocumento riscontrabile in termini monetari, si evidenzi come compromissione di
posizioni soggettive, parimenti tutelate, quali sono i diritti immateriali della personalità.
La persona giuridica, per sua natura, non può subire dolori, turbamenti od altre similari alterazioni, ma portatrice
di quei diritti della personalità, ove compatibili con l’assenza della fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al
nome, all’immagine ed alla reputazione>>
(Cass. 2.8.2002, n. 11573, GI, 2003, 29; conf. Cass. 2.8.2002, n. 11600, CED RV. 558165).
Vi è spazio, allora, per ravvisare un danno non patrimoniale in capo alle
persone giuridiche, a condizione che l’irragionevole durata del processo incida
proprio sui diritti della personalità di cui anche la persona giuridica è titolare.
Non basta dunque, allegare la tensione, la preoccupazione o il disagio
provocati dai tempi della lite, come può invece fare la persona fisica, alla quale
sarà più agevole ottenere il ristoro del danno non patrimoniale (cfr. App.
Firenze, decr. 25.1.2002, GC, 2002, I, 2284).
10.5. Errore giudiziario e ingiusta detenzione.
Come si è visto, la Cassazione ravvisa nell’equa riparazione ex l. n.
89/2001 una misura indennitaria alla pari di quelle previste per le ipotesi di
ingiusta detenzione (artt. 314 ss. c.p.p.) e di errore giudiziario (artt. 643 ss.,
c.p.p.).
A tal proposito, va segnalata App. Genova ord. 10.2.2003, relativa ad un
caso errore giudiziario con ingiusta detenzione protrattasi per oltre sette anni (la
revoca della condanna, in sede di giudizio di revisione, era intervenuta dopo
otto anni dall’inizio della privazione della libertà personale). La Corte genovese,
tra le varie voci di danno analiticamente illustrate, compreso il danno biologico
(euro 800.000),
98
Antonio Antonio Costanzo
<<L’art. 643 comma 2° c.p.p. stabilisce che l’entità della riparazione deve essere commisurata alla
durata dell’eventuale espiazione della pena (nella fattispecie sette anni, cinque mesi e dieci giorni) e alle
conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.
Devono, quindi, essere valutati tutti i danni subiti dal B., di diversa natura, non trovando applicazione il limite di
tetto massimo di un miliardo, fissato in tema di indennizzo per ingiusta detenzione preventiva dall’art. 315 c.p.p.
[…]
Danno non patrimoniale.
Danno biologico.
Tale voce di danno comprende tutti i danni alla salute, non rientranti nel danno reddituale o in quello morale.
Dalla relazione peritale in atti è emersa una grave compromissione della salute psico-fisica del Barillà,
conseguente allo stress dell’arresto e alla successiva carcerazione, protrattasi per ben sette anni, cinque mesi e dieci
giorni.
Il quadro clinico, illustrato dal C.T.U., evidenzia la presenza di una grave sintomatologia depressiva con idee di
rovina e autosoppressive, accompagnate da una sorta di ottusità emotiva, tendenza all’isolamento e al pessimismo
morale, disturbi del sonno e dell’adattamento sociale, la presenza di una sindrome ansiosa con una sintomatologia
cefalgica sovrapposta, la presenza di un’ideazione persecutoria ben delineata determinata dallo sviluppo di tematiche di
sospettosità e diffidenza.
In conclusione si può affermare che il B. sia oggi affetto da un grave disturbo depressivo con aspetti di
involuzione melanconica e di persecutorietà, ormai strutturato e radicato.
Sussiste, dunque, un danno biologico sia psichico che fisico, tenuto conto delle patologie riscontrate, anche
somatiche (cefalea e disturbi del sonno)>>
(App. Genova ord. 10.2.2003)
ha indicato anche il danno esistenziale (liquidato in euro 1.000.000) sofferto per
le privazioni sul piano dei rapporti familiari e affettivi:
<<Danno esistenziale.
Al B. non spetta alcun indennizzo per danno morale, perché l’art. 2059 c.c. contiene una clausola generale
limitativa del risarcimento del danno non patrimoniale, che confina la risarcibilità del danno morale, inteso come patema
d’animo e sofferenza spirituale, alle conseguenze dei fatti costituenti illeciti penali.
[…]
Poiché le sofferenze morali del B. hanno avuto origine in un errore giudiziario, in ordine alla cui verificazione non
risulta sia stata accertata alcuna responsabilità penale, non si può liquidare alcun indennizzo a titolo di danno morale.
Sussiste, però, un ulteriore danno risarcibile, costituito dal danno esistenziale e cioè da una nuova categoria di
danno, elaborata dalla giurisprudenza di merito e riconosciuta dalla Suprema Corte (vds. Cass. Civ. Sez. I sent.
7.6.2000 n. 7713).
La figura del danno esistenziale ha colmato un vuoto di tutela nella liquidazione del danno alla persona, perché, a
prescindere dal danno biologico, da cui si differenzia perché non ha come presupposto una patologia, consente la
risarcibilità del danno inteso come peggioramento oggettivo delle condizioni di vita della vittima in conseguenza di un
fatto ingiusto. Il danno esistenziale presuppone, come il danno biologico, il fatto ingiusto di cui all’art. 2043 c.c. e la
lesione di un diritto costituzionalmente garantito. Se il diritto alla salute è garantito dall’art. 32 della Costituzione, il diritto
alla libertà personale è garantito dall’art. 13 e dall’art. 2, che tutela i diritti fondamentali della persona.
Nella fattispecie è, quindi, risarcibile il danno esistenziale, consistente nelle obbligate rinunce alle proprie abitudini
di vita.
Il B. aveva una propria attività di lavoro come imprenditore e normali rapporti affettivi con i familiari e con la
fidanzata, nonché una normale vita di relazione nell’ambito sociale: improvvisamente ha dovuto rinunciare a tutto,
perché lo stato di detenzione gli impediva qualsiasi libera scelta di vita.
Ha dovuto rinunciare anche a formarsi una famiglia: la fidanzata, con la quale aveva avuto un rapporto affettivo
per ben tredici anni, nel corso della vicenda giudiziaria iniziò a manifestare disturbi depressivi, in conseguenza dei quali
subì un ricovero psichiatrico e cessò ogni rapporto con lui. Il B. non ha potuto essere presente in occasione del decesso
del padre, né assistere la madre o la sorella in tale dolorosa circostanza; è stato costretto a vendere la casa in cui
abitava, rinunciando, così, anche alla speranza di tornare un giorno alle sue antiche abitudini di vita; non ha potuto
impedire la chiusura dell’impresa artigiana, da lui stesso costituita qualche anno prima, né il discredito sociale, ricaduto
anche sui familiari, di venire considerato un grosso trafficante di droga.
L’entità del danno esistenziale è stata enorme per la durata della carcerazione e il conseguente venir meno di
ogni rapporto di relazione con il mondo esterno.
Anche per la liquidazione di tale danno occorre procedere con criteri equitativi, che tengano conto della durata
dell’espiazione della pena, vissuta con le difficoltà di adattamento, proprie di un innocente.
Nella fattispecie il pregiudizio esistenziale finisce per assorbire di fatto il danno morale, non liquidato come voce
autonoma, perché, nella sua valutazione e quantificazione, non si può non tener conto del carico di sofferenza
connesso al modificato regime di vita e alla privazioni della libertà personale, le cui conseguenze perdurano nel tempo,
non avendo potuto il B., dopo la scarcerazione, ripristinare le sue precedenti abitudini di vita>>
(App. Genova ord. 10.2.2003)
11. Sanzioni amministrative.
Bibliografia Bona e Casteluovo 2001.
Alcune pronunce dei giudici di pace si sono occupate del rapporto tra
sanzioni amministrative illegittime e tutela risarcitoria.
Il caso deciso da Trib. Bologna 7.2.2002 non attiene alla fondatezza della
99
Antonio Antonio Costanzo
pretesa sanzionatoria né alla condotta dell’autorità amministrativa
dopo l’istanza di annullamento in sede di autotutela (v. la nota sentenza Giudice
di pace Bologna 8.2.2001), quanto piuttosto alle modalità della contestazione
sotto il profilo della lesione della privacy e del conseguente turbamento della
serenità familiare.
X cita in giudizio l’amministrazione comunale di una località della provincia
lamentandosi dell’operato della polizia municipale. Gli agenti, dopo aver
accertato tramite autovelox la violazione dell’art. 142, 8° co., c.d.s. senza poter
procedere alla contestazione immediata, avevano notificato a mezzo posta il
verbale indirizzandolo al signor X, proprietario dell’autoveicolo in eccesso di
velocità. L’atto era stato ricevuto dalla moglie di X: la signora si era recata
presso il comando della polizia municipale e, ottenuta la fotografia scattata
dall’autovelox alle 7.30 di un giorno d’aprile, aveva scoperto che alla guida
dell’automobile non c’era il marito, come evidentemente si aspettava, ma una
donna.
Secondo quanto esposto dall’attore,
<<Il plico era stato consegnato alla moglie di X alla quale, recatasi presso il Comando di Polizia Municipale, era
stata mostrata e consegnata, su sua richiesta, la fotografia scattata dall’autovelox. Ciò facendo, la Polizia Municipale
aveva diffuso informazioni personali, lesive della privacy dell’attore, perché alla guida dell’automobile di sua proprietà
c’era una sua cliente>>
(Trib. Bologna 7.2.2002).
L’attore afferma che tale fatto aveva creato dissapori nell’ambito familiare e
chiede il risarcimento del danno morale, quantificato in lire 5.500.000, per
violazione degli artt. 9, 10, 11, 20 e 27, l. 31.12.1996, n. 675, relativa al
trattamento dei dati personali:
<<Sosteneva l’attore che la consegna della fotografia non rientrava nelle funzioni istituzionali ed avrebbe potuto
essere conservata presso il comando e consegnata solo al proprietario qualora ne avesse fatto richiesta. A seguito della
consegna della fotografia, l’attore era stato costretto a giustificarsi con la moglie ed a subirne le ire, talché la pace e
l’armonia familiare erano state seriamente compromesse ed il vincolo matrimoniale era stato messo in discussione>>
(Trib. Bologna 7.2.2002).
Il Comune svolge eccezioni di rito e di merito. La causa, iniziata in Pretura,
prosegue davanti al Tribunale quale giudice unico. Alla prima udienza di
trattazione nessuna delle parti compare personalmente. Alla successiva
udienza l’attore chiede ammettersi le prove dedotte in citazione. Il giudice,
istruita la causa solo su base documentale, condanna il convenuto al
risarcimento del danno morale liquidato nella somma di lire 2.000.000 (la
sentenza, poi appellata dal convenuto, era stata deliberata il 14.8.2001).
L’eccezione di carenza di giurisdizione viene respinta sul rilievo che l’attore
ha prospettato in modo inequivoco la lesione di un diritto soggettivo:
<<L’assunto di parte convenuta – che si difende sotto un diverso profilo, quello della legittimità dell’accesso agli
atti amministrativi – non può modificare la giurisdizione, poiché questa s’individua e si radica solo in base alla
prospettazione attorea.
Si osserva, incidenter, che l’accesso ai documenti amministativi è consentito, ex art. 22 l. 241/90, a chi abbia un
interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e non è dato capire, nella fattispecie, di quale interesse di tale
natura fosse portatrice la moglie dell’attore>>
(Trib. Bologna 7.2.2002).
100
Antonio Antonio Costanzo
Nel merito, premesso che il Comune risponde ex art. 28 Cost. dei
danni commessi dai propri dipendenti (quali sono gli agenti di polizia
municipale), il Tribunale afferma la responsabilità del convenuto ravvisando
un’ipotesi di violazione delle regole sul trattamento dei dati personali sotto il
profilo della comunicazione (art. 27, 3° co., l. 31.12.1996, n. 675).
Non si discute, dunque, della correttezza dell’accertamento o della mancata
contestazione immediata, né del fatto che il verbale sia stato trasmesso a
mezzo posta e con consegna del piego raccomandato alla moglie del
destinatario, quanto piuttosto della consegna a quest’ultima (e non al marito)
della fotografia scattata dall’autovelox (per prassi, nel verbale di contestazione
si specifica che la fotografia è a disposizione presso l’ufficio accertatore).
Il possesso del verbale da parte di soggetto diverso dall’autore dell’illecito
amministrativo o dell’obbligato in solido, questo il ragionamento del giudice, non
equivale al consenso dell’interessato a che vengano comunicati a terzi dati
personali riguardanti la riservatezza e la libertà di circolazione.
E’ poi irrilevante il fatto che al comando della polizia municipale si sia
presentata la moglie (anzi, proprio questa circostanza è posta a fondamento
della domanda risarcitoria). Ciò equivale a dire, secondo l’argomentazione
esposta in sentenza, che la tutela della riservatezza opera anche nei confronti
dei prossimi congiunti e che solo un’espressa autorizzazione del titolare
consente all’amministrazione di esibire o consegnare a terzi (coniuge
compreso) il rilievo fotografico eseguito mediante apparecchio autovelox.
La motivazione della sentenza prende le mosse da una ricognizione della l.
31.12.1996, n. 675, relativa al trattamento dei dati personali,
<<L’art. 27 l. cit. prevede che il trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici è consentito soltanto per
lo svolgimento delle funzioni istituzionali, nei limiti stabiliti dalla legge e dai regolamenti.
Tale precetto è stato senz’altro rispettato, ma l’attore denuncia la comunicazione dei dati personali alla moglie ed
al terzo comma della medesima legge si legge che “la comunicazione e la diffusione dei dati personali da parte di
soggetti pubblici a privati … sono ammesse solo se previste da norme di legge o di regolamento”.
L’art. 1 l. cit. alla lett. g) fornisce la definizione di comunicazione: il dare conoscenza di dati personali a uno o più
soggetti determinati diversi dall’interessato, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o
consultazione.
Alla lettera f) si legge che per interessato deve intendersi la persona, fisica o giuridica, l’ente o l’associazione cui
si riferiscono i dati personali>>
(Trib. Bologna 7.2.2002)
sino a concludere che l’amministrazione è responsabile:
<<Tenuto conto della finalità della legge enunciate nell’art. 1, 1° comma (La presente legge garantisce che il
trattamento dei dati personali si svolga nel pieno rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle
persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all’identità personale..) e della disciplina sopra ricordata
contenuta nell’art. 27, […] nella fattispecie concreta in esame vi fu violazione del trattamento dei dati personali, avendo
l’ente messo a disposizione di un terzo, la moglie dell’attore, dati riguardanti la riservatezza di quest’ultimo e la sua
libertà di circolazione. La comunicazione, inoltre non può dirsi effettuata in base ad una norma di legge o ad un
regolamento, né il semplice possesso, da parte della moglie, del verbale di contravvenzione notificato può ritenersi
equipollente all’autorizzazione del marito alla comunicazione dei propri dati personali. In ipotesi, infatti, il verbale può
essere notificato regolarmente nelle mani della moglie convivente (o di persona addetta alla casa, all’ufficio o
all’azienda, del portiere, del vicino di casa che accetti di riceverla) ed il marito non esserne nemmeno portato a
conoscenza prima che la consorte si rechi all’ufficio di Polizia Municipale chiedendo l’esibizione del fotogramma. Da tale
esempio discende che nessuna autorizzazione implicita può desumersi dal possesso del verbale da parte del terzo
anche se questi ha ricevuto l’atto notificato.
Versandosi in ipotesi di responsabilità ex art. 2050 c.c., così come richiamato dall’art. 18 l. 675/96, l’ente
101
Antonio Antonio Costanzo
convenuto non ha provato d’avere adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento>>
(Trib. Bologna 7.2.2002).
Il Tribunale ritiene provati i fatti e riconduce nell’ambito del danno morale
(da reato) il pregiudizio lamentato dall’attore, ossia l’alterazione (sia pur
momentanea) del rapporto col coniuge. Il giudice non richiama l’art. 29, 9° co.,
della l. 31.12.1996, n. 675, sul trattamento dei dati personali (<<Il danno non
patrimoniale è risarcibile anche nei casi di violazione dell'art. 9>>), con ciò
aderendo all’orientamento interpretativo secondo cui tale norma, che prevede la
risarcibilità del danno <<non patrimoniale>> senza i limiti di cui all’art. 2059 c.c.,
non riguarda tutte le violazioni delle regole sul trattamento dei dati personali, ma
solo quelle relative alla fase di raccolta e conservazione dei dati personali di cui
all’art. 9, l. n. 675/96:
<< Modalità di raccolta e requisiti dei dati personali. —
1. I dati personali oggetto di trattamento devono essere:
a) trattati in modo lecito e secondo correttezza;
b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in
termini non incompatibili con tali scopi;
c) esatti e, se necessario, aggiornati;
d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati;
e) conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a
quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.
1 bis. Il trattamento di dati personali per scopi storici, di ricerca scientifica o di statistica è compatibile con gli scopi
per i quali i dati sono raccolti o successivamente trattati e può essere effettuato anche oltre il periodo necessario a
questi ultimi scopi>>
(art. 9, l. 31.12.1996, n. 675).
Il Tribunale afferma in proposito:
<<L’attore chiede il risarcimento del danno morale.
Ritiene questo giudice che nel comportamento del personale comunale siano astrattamente configurabili gli
estremi del reato previsto dall’art. 36 l. 675/96. Deve pertanto accogliersi la domanda di risarcimento del danno non
patrimoniale, ex art. 2059 c.c., inteso come turbamento dello stato d’animo in conseguenza dell’offesa subita.
Tale voce di danno, attesa la peculiare natura, sfugge ad una precisa valutazione patrimoniale ed il suo
risarcimento mira a soddisfare l’esigenza di un’utitlità sostitutiva che lo compensi, per quanto è possibile, delle
sofferenze morali e psiciche. In relazione alle caratteristiche del fatto illecito, alle modalità dell’accaduto ed alle
conseguenze dello stesso, questo giudice stima equo liquidare in £. 2.000.000 con riferimento al valore della moneta
alla data odierna>>
(Trib. Bologna 7.2.2002).
Come noto, è assai raro che l’eccesso di velocità accertato mediante
autovelox venga contestato immediatamente al trasgressore. L’autore materiale
dell’illecito di regola resta sconosciuto e il verbale viene notificato al solo
proprietario dell’autoveicolo, obbligato in solido.
Secondo l’iter argomentativo proposto da Trib. Bologna 7.2.2002, la
valutazione dell’operato dell’ufficio accertatore poggia su un dato formale: la
coincidenza tra il proprietario dell’autoveicolo (quale risultante dai registri
automobilistici) e il titolare dell’interesse alla non comunicazione dei dati
personali (quelli desumibili dalla fotografia). Non è detto che il dato formale
corrisponda a quello reale, ma l’autorità amministrativa non può essere
chiamata a indagini ulteriori. Immaginiamo, introducendo una piccola variazione
al caso concreto, che l’autovettura, concessa in uso dal marito ad una sua
conoscente, fosse intestata alla moglie: il dissidio tra i coniugi sarebbe accaduto
102
Antonio Antonio Costanzo
ugualmente, ma nessun addebito avrebbe potuto muoversi alla polizia
municipale.
12. Ricongiungimento familiare.
Bibliografia Galoppini 2000 – Farina 2001.
Merita un cenno, pur in assenza di precedenti relativi alla tutela aquiliana,
la tematica del ricongiungimento familiare.
Agli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di
durata non inferiore a un anno, rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro
autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi, è riconosciuto, alle
condizioni previste dal t.u. sull’immigrazione e la condizione dello straniero
(d.lgs. 25.7.1998, n. 286, ora modificato dalla l. 30.7.2002, n. 189), il diritto a
mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri
(art. 28, 1° co., d.lgs. 25.7.1998, n. 286; quanto ai familiari stranieri di cittadini
italiani o comunitari, v. il 2° comma del medesimo art. 28).
Sul ricongiungimento familiare nei confronti degli sfollati extracomunitari si
veda ora l’art. 6 del d.lgs. 7.4.2003, n. 85, emanato in attuazione della direttiva
2001/55/CE sulla concessione di protezione temporanea in caso di afflusso
massiccio di sfollati.
Il diritto all’unità familiare (questa la rubrica dell’art. 28, d.lgs. 25.7.1998, n.
286) è un diritto soggettivo (Cass. 8.1.2001, n. 1714; Cass. 26.7.2000, n. 9793).
Spetta all’autorità amministrativa adottare i provvedimenti necessari al
ricongiungimento, mentre il controllo sugli atti amministrativi è demandato
all’autorità giudiziaria ordinaria, che ha il potere di disporre il rilascio del visto
d’ingresso (artt. 29 e 30, 6° co., d.lgs. 25.7.1998, n. 286; v. ora l’art. 9, 1o co.,
d.lgs. 7.4.2003, n. 85, relativo agli sfollati):
<<non esiste un principio costituzionale che escluda la possibilità per il legislatore ordinario, in determinati casi
(rimessi alla scelta discrezionale dello stesso legislatore), in sede di affidamento della tutela giurisdizionale dei diritti
soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione, di attribuire al giudice ordinario anche un potere di annullamento
e speciali effetti talora sostitutivi dell’azione amministrativa, inadempiente rispetto a diritti che lo stesso legislatore
considera prioritari, anche se ciò può comportare la necessità da parte del giudice di valutazioni ed apprezzamenti non
del tutto vincolati, ma sempre riguardanti situazioni regolate da una serie di previsioni legislative, che prevedano
espressamente l’esercizio di tali poteri;
[…] anzi la norma in discussione può inquadrarsi - come ritenuto anche dalla Avvocatura generale dello Stato come esempio, ormai non del tutto isolato, applicativo della specifica previsione dell’art. 113, terzo comma, della
Costituzione, soprattutto nella tendenza di rafforzare la effettività della tutela giurisdizionale, in modo da renderla
immediatamente più efficace, anche attraverso una migliore distribuzione delle competenze ed attribuzioni
giurisdizionali, a seconda delle esigenze delle materie prese in considerazione (e ciò può valere sia per il giudice
ordinario, sia per il giudice amministrativo);
[…] al giudice ordinario il legislatore ha voluto affidare la tutela relativa al diritto all’unità familiare (comprensiva
della protezione dei minori: art. 26 della legge 6 marzo 1998, n. 40, divenuto art. 28 del t.u. delle disposizioni
concernenti la disciplina della immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emanato con d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286) espressamente riconosciuto agli stranieri regolarmente presenti in Italia, titolari di carta di soggiorno o di
permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, rilasciato per lavoro (oltre ad altre ipotesi)>>
(Corte cost. ord. 17.5.2001, n. 140, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità
dell’art. 28, 6° co., l. 6.3.1998, n. 40, divenuto l’art. 30, 6° co., d.lgs. 25.7.1998, n. 286).
Nei procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati ad attuare il
diritto all’unità familiare e riguardanti i minori va considerato con carattere di
103
Antonio Antonio Costanzo
priorità il <<superiore interesse del bambino>>, come previsto dall’art.
3, 1° co., Convenzione sui diritti del fanciullo 20.11.1989, ratificata e resa
esecutiva dalla l. 27.5.1991, n. 179 (così l’art. 28, 3° co., d.lgs. 25.7.1998, n.
286).
La cerchia di familiari di cui si può chiedere il ricongiungimento è
individuata dall’art. 29, 1° e 2° co., d.lgs. 25.7.1998, n. 286 (come modificato
dall’art. 23, l. 30.7.2002, n. 189):
<<a) coniuge non legalmente separato;
b) figli minori a carico, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati ovvero legalmente separati, a
condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso;
b-bis) figli maggiorenni a carico, qualora non possano per ragioni oggettive provvedere al proprio sostentamento
a causa del loro stato di salute che comporti invalidità totale;
c) genitori a carico qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza ovvero genitori
ultrasessantacinquenni qualora gli altri figlio siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di
salute >>
(art. 29, 1° co., d.lgs. 25.7.1998, n. 286, nel testo in vigore dal 10 settembre 2002) .
Le condizioni per ottenere l’ingresso in Italia del familiare sono fissate dal
t.u. sull’immigrazione (art. 29, 3° co., d.lgs. 25.7.1998, n. 286), nell’ottica di una
minima capacità di accoglienza del nucleo di destinazione, sia sotto il profilo
abitativo che reddituale (cfr. Cass. 26.7.2000, n. 9793).
Il ricongiungimento familiare nei confronti della persona ammessa alla
protezione temporanea ai sensi del d.lgs. 7.4.2003, n. 85, sugli sfollati può
essere richiesto per:
<<a) il coniuge non legalmente separato;
b) i figli minori a carico anche adottivi, ed anche del solo coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati ovvero
legalmente separati. I minori in affidamento o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli. Ai fini del ricongiungimento si
considerano minori i figli di età inferiore a diciotto anni;
c) i genitori della persona ammessa alla protezione temporanea che vivevano insieme come parte del nucleo
familiare nel periodo in cui gli eventi hanno determinato il forzato abbandono e che erano totalmente o parzialmente a
carico del richiedente il ricongiungimento in tale periodo, qualora non abbiano altri figli nel Paese d'origine o di
provenienza, ovvero i genitori ultrasessantacinquenni conviventi nel medesimo periodo e a carico, anche parzialmente,
degli stessi richiedenti, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati gravi motivi di
salute;
d) i figli maggiorenni della persona ammessa alla protezione temporanea che vivevano insieme come parte del
nucleo familiare nel periodo in cui gli eventi hanno determinato il forzato abbandono e che erano totalmente o
parzialmente a carico del richiedente il ricongiungimento in tale periodo, qualora non possano per ragioni oggettive
provvedere al proprio sostentamento a causa del loro stato di salute che comporti invalidità totale>>
(art. 6, 1° comma, d.lgs. 7.4.2003, n. 85; la disciplina di dettaglio dovrà essere adottata con d.p.c.m., cfr. gli artt. 3
e 4, d.lgs. n. 85/2003)
e comporta il rilascio ai familiari ricongiunti di un permesso di soggiorno per
protezione temporanea avente durata pari a quella del familiare che ha chiesto
il ricongiungimento (art. 6, 3° co., d.lgs n. 85/2003).
12.1. Ricongiungimenti “a catena”.
Il diritto di chiedere il ricongiungimento spetta non solo a chi versi in una
delle situazioni espressamente previste dall’art. 28, 1° co., d.lgs. n. 286/98, ma
anche allo straniero che, venuto in Italia per ricongiungersi con un proprio
familiare ed ottenuto il permesso di soggiorno (art. 30, d.lgs. n. 286/98), chieda
a sua volta il ricongiungimento per i suoi familiari (art. 29, d.lgs. n. 286/98),
fermo restando l’accertamento dei requisiti concernenti abitazione e reddito. In
104
Antonio Antonio Costanzo
questi termini si è espressa Cass. 8.1.2001, n. 1714 che, sulla base
della lettura coordinata del quadro normativo (ora in parte modificato dalla l.
30.7.2002, n. 189), ha ravvisato l’irragionevolezza della diversa e più restrittiva
interpretazione fondata sul solo dato testuale,
<<Fermo il punto che il legislatore ha inteso consentire il ricongiungimento come modo per realizzare il diritto
all'unità familiare (sia pure nei limiti soggettivi definiti dall'art. 29) non è ragionevole, e conduce a conseguenze
discriminatorie, riconoscere il diritto a chiedere il ricongiungimento allo straniero titolare di permesso di soggiorno,
rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo (ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi), e negarlo allo
straniero in possesso di permesso di soggiorno per motivi familiari.
Infatti, come si desume dal contesto normativo sopra richiamato : a) quanto alle facoltà inerenti al soggiorno, il
permesso per motivi familiari può essere utilizzato anche per le altre attività consentite, come il permesso rilasciato per
motivi di lavoro subordinato o lavoro autonomo (art. 6, comma I°); b) il permesso di soggiorno per motivi familiari
consente (tra l'altro) l'iscrizione nelle liste di collocamento e lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo (art. 30,
comma II°); c) il permesso di soggiorno per motivi familiari ha la stessa durata del permesso di soggiorno del familiare
straniero in possesso dei requisiti per il ricongiungimento, ai sensi dell'art. 29, ed è rinnovabile insieme con quest'ultimo
(art. 30, comma III°).
Se, dunque, il titolare di permesso di soggiorno rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo può
esercitare il diritto all'unità familiare, lo stesso diritto deve essere riconosciuto al titolare di permesso di soggiorno per
motivi familiari, al quale del pari è consentito lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo (sicché le due situazioni
giuridiche vengono a coincidere) e che è portatore di un permesso utilizzabile anche per le altre attività consentite,
proprio come il permesso rilasciato per motivi di lavoro subordinato o autonomo.
In altre parole, si vuol dire che i due permessi di soggiorno (per motivi di lavoro o familiari) attribuiscono facoltà
analoghe se non identiche, onde un trattamento giuridico differenziato non sarebbe neppur costituzionalmente legittimo
(si noti che l'art. 2, comma secondo, del D. L.vo n. 286 del 1998 concede allo straniero regolarmente soggiornante in
Italia i diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, nel cui novero va compreso anche il diritto all'eguaglianza di
trattamento desumibile dall'art. 3 della Costituzione, costituente principio fondamentale dell'ordinamento).
D'altro canto, se la ratio legis è quella di favorire l'unità familiare nei limiti soggettivi definiti dall'art. 29 (e il
ricordato contesto normativo non sembra lasciare dubbi in proposito), questa intenzione del legislatore non può essere
ignorata in forza di una lettura meramente letterale dell'art. 28, primo comma, del D. L.vo n. 286 del 1998, trascurando
del tutto i pur significativi elementi d'interpretazione emergenti dal testo coordinato di tale norma e di quelle in
precedenza richiamate>>
(Cass. 8.1.2001, n. 1714, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/1714sen_01.html; v. anche DFP,
2001, I, 1429, con nota critica; GC, 2001, I, 924)
e ciò anche alla luce del criterio rappresentato dal <<superiore interesse del
bambino>>:
<<La soluzione qui condivisa trova poi, nel caso in esame, un ulteriore e determinante riscontro.
Il ricongiungimento familiare è stato chiesto dalla ricorrente per la figlia B.H., nata il 5 agosto 1982 e quindi minore
d'età all'atto della presentazione della domanda (18 giugno 1999, come emerge dal provvedimento impugnato). Infatti,
ai sensi dell'art. 29, comma secondo, del D. L.vo n. 286/1998 si considerano minori i figli di età inferiore a 18 anni; e il
requisito dell'età va verificato al momento di presentazione della domanda, perché la durata del procedimento e del
processo non può andare a detrimento della parte.
Orbene, l'art. 28, comma terzo, del citato D. L.vo stabilisce che in tutti i procedimenti amministrativi e
giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori deve essere preso in
considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art. 3,
comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della
legge 27 maggio 1991, n. 176.
Chiamata ad applicare tale norma la Corte distrettuale ha commentato con severe parole la condotta della
ricorrente, la quale avrebbe abbandonato la figlia minore sola in Marocco non per necessità "ma per il capriccio di
stabilirsi in Italia continuando a vivere a carico dei propri parenti". Il provvedimento impugnato non consente di cogliere
gli elementi in base ai quali la Corte bolognese ha maturato il convincimento che la ricorrente sarebbe venuta in Italia
"per capriccio". Dallo stesso provvedimento, però, si trae che ella aveva ottenuto dalla Questura di Bologna il prescritto
nulla osta, il cui rilascio presuppone che sia stata verificata l'esistenza dei requisiti di cui all'art. 29 (v. il settimo comma
di detta norma). Ma, a parte tale profilo, l'argomentazione della Corte di Bologna è in contrasto con il citato art. 28, terzo
comma, perché, lungi dal prendere in considerazione con carattere di priorità l'interesse della minore, si sofferma sulla
condotta materna, mentre avrebbe dovuto valutare se per la giovane donna ormai sola in Marocco fosse preferibile
rimanere in quel Paese oppure ricongiungersi con i familiari soggiornanti in Italia>>
(Cass. 8.1.2001, n. 1714, http://www.giustizia.it/cassazione/giurisprudenza/cass/1714sen_01.html).
12.2. ll silenzio dell’autorità consolare.
Contro i provvedimenti sfavorevoli l’interessato può fare ricorso al tribunale
in composizione monocratica.
Nel caso deciso da Trib. Grosseto decr. 11.11.2002, il cittadino marocchino
che aspirava al ricongiungimento di moglie e figlie aveva ottenuto sin dal 20
105
Antonio Antonio Costanzo
marzo 2002 il nulla osta della questura, senza però ricevere
dall’autorità consolare competente altra risposta che la comunicazione
dell’avvenuta chiusura, a tempo indeterminato, dell’ufficio visti:
<<il Consolato Generale di Casablanca, con comunicato del 10/10/2002 (doc. n°9 allegato al ricorso), inviato ai
procuratori del ricorrente, non ha provveduto al rilascio dei visti anzi, con fax inviato ai procuratori del ricorrente ha
comunicato la chiusura a tempo indeterminato del proprio ufficio visti senza ulteriormente indicare l’autorità supplente
alla quale rivolgersi per il disbrigo dell’iter burocratico richiesto dal R.>>
(Trib. Grosseto 11.11.2002, http://www.altalex.com/index.php?idnot=5518).
Il Tribunale, affermata la competenza del giudice ordinario, osserva che
l’autorità consolare deve provvedere con immediatezza al rilascio o al diniego
motivato (v. ora il nuovo testo dell’art. 4, 2° co., d.lgs. 25.7.1998, n. 286, come
sostituito dall’art. 4, 1° co., l. 30.7.2002, n. 189) del visto di ingresso per
ricongiungimento familiare,
<<E’ pacifico che il ricorrente ha ottenuto dalla Questura di Grosseto il Nulla Osta, possedendo i requisiti previsti
dalla legge, al ricongiungimento familiare con la moglie ed i giovani figli.
Dalla documentazione prodotta dal ricorrente, attraverso i procuratori nominati, si accerta un copioso scambio di
corrispondenza con il Consolato generale di Casablanca onde ottenere il visto per il ricongiungimento richiesto (vari
documenti allegati).
Occorre osservare che il visto per il ricongiungimento familiare è un atto sostanzialmente dovuto dall’autorità
consolare o diplomatica italiana di fronte al nulla osta della Questura competente.
Infatti una volta rilasciato il Nulla Osta il consolato, se non esistono motivi ostativi da documentare ai sensi della
vigente normativa in materia di procedimento amministrativo (legge 241/90 art.3 comma II), deve limitare la proprie
istruttoria all’esibizione del passaporto e del titolo di viaggio del cittadino straniero che richiede il visto d’ingresso senza
necessità di svolgere ulteriore attività.
Inoltre l’odierno giudice osserva che per previsione dell’articolo 6, ultimo comma, del DPR 394/99, regolamento
attuativo al T.U. sull’immigrazione, non sono concessi alle autorità consolari termini per l’adozione dell’atto
amministrativo richiesto, con la conseguenza che il visto deve essere concesso o respinto immediatamente alla richiesta
dell’interessato>>
(Trib. Grosseto 11.11.2002, http://www.altalex.com/index.php?idnot=5518).
e che le disfunzioni o difficoltà operative dell’amministrazione pubblica non
possono pregiudicare i diritti dei privati, tanto più se di rilevanza costituzionale e
sovranazionale:
<<Altro incombente a carico di questo giudice risulta essere la caratterizzazione giuridica delle risposte fatte
pervenire ai procuratori grossetani da parte del Consolato Generale d’Italia in Casablanca, a firma del Console Generale
in data 10.10.2002 prima, e poi in data 17.10.2002 a firma del responsabile ufficio visti del Consolato generale stesso,
ovvero se i due fax rivestono semplice comunicazione in merito alla richiesta o impossibilità amministrativa di rilascio del
visto di ricongiungimento.
Risulta evidente che la qualificazione giuridica di un atto amministrativo deve essere conforme al dettato previsto
dalla vigente normativa in materia; ovvero l’iter amministrativo è la sommatoria di una serie di comportamenti della P.A.
disciplinanti il regolare svolgimento che fa riferimento al capo I della legge 241/90 e successive integrazioni o
modificazioni anche attraverso i regolamenti attuativi di competenza alle varie branche della P.A.
Prima facie il tenore di quanto contenuto nelle due risposte sopra menzionate riveste, a parere del giudice
procedente, esclusivamente di una comunicazione dello stato di oggettiva difficoltà funzionale dell’ufficio consolare di
Casablanca.
Gravare il cittadino dei problemi di inefficienza della P.A., svuota di contenuto i principi costituzionali di garanzia e
la copiosa normativa, anche internazionale e comunitaria, in merito al DIRITTO ALL'UNITA' FAMILIARE E TUTELA DEI
MINORI.
Nel caso di specie è evidente che nessuna legittima giustificazione è stata addotta dal Ministero degli Affari
Esteri, rectius dal Consolato Generale di Casablanca, di fronte al mancato rilascio del visto di ingresso in favore dei
familiari del ricorrente, né il Console Generale allega una ordinanza di chiusura dell’ufficio visti emanata dal superiore
Ministero degli Affari esteri, né rappresenta, sempre il Consolato generale, l’ufficio supplente incaricato della
svolgimento dell’iter burocratico in questione, anzi nelle risposte si evince una denunciata mancata osservanza dei
criteri temporali imposti dalla normativa sopra indicata (legge 241/90) .
Dunque il comunicato del Consolato Generale di Casablanca in data 10/10/2002 trasmesso ai legali del ricorrente
con fax del 17/10/2002 è qualificabile come sostanziale mancata concessione del visto d’ingresso e comunque di
mancato, illegittimo perché immotivato, rilascio del provvedimento (visto d’ingresso) alla luce del dettato regolamentare
sopra richiamato>>
(Trib. Grosseto 11.11.2002, http://www.altalex.com/index.php?idnot=5518).
In conclusione, sostiene il Tribunale di Grosseto, il potere del giudice di
ordinare il rilascio del visto sussiste anche nel caso di mero inadempimento
106
Antonio Antonio Costanzo
della p.a., sia perché tale comportamento si traduce in un sostanziale
silenzio-rifiuto dell’amministrazione, stante la mancata previsione di termini per
la conclusione del procedimento relativo ai visti “familiari” (art. 6 del
regolamento d.p.r. n. 394/99); sia perché questa soluzione è conforme allo
spirito dell’art. 30, d.lgs. 25.7.1998, n. 286, ed è suffragata dalla motivazione di
Corte cost., ord. 17.5.2001, n. 140.
12.3. Ricongiungimento familiare e poligamia.
Come si riflettono sul diritto all’unità familiare le differenti discipline in
materia di famiglia vigenti nei vari stati?
Il confronto con ordinamenti che appartengono ad altri sistemi giuridici può
evidenziare radicali divergenze.
Il cittadino di un paese che ammette la poligamia non potrà chiedere il
ricongiungimento che per un (solo) coniuge non legalmente separato (art. 29, 1°
co., lett. a, d.lgs. 25.7.1998, n. 286; sotto il vigore della precedente normativa si
era pronunciato TAR Emilia Romagna, sez. Bologna, n. 926/1994).
Ma cosa succede se il ricongiungimento viene chiesto (non dal coniuge
poligamo, ma) dal figlio? La domanda di nulla osta al ricongiungimento del
genitore rientra nell’ipotesi prevista dall’art. 29, 1° co., lett. c), d.lgs. 25.7.1998,
n. 286, modificato in senso restrittivo dall’art. 23, l. 30.7.2002, n. 189 (prima era
solo richiesto che si trattasse di <<genitori a carico>>).
D.R., cittadino marocchino, ottenuto il nulla osta della questura di Bologna,
aveva chiesto il visto di ingresso per la madre L.F. L’ambasciata d’Italia in
Rabat aveva negato il visto, sul rilievo che la permanenza nel territorio
nazionale della cittadina straniera L.F. avrebbe determinato un caso di
poligamia: in Italia, infatti, era già presente, e munita di permesso di soggiorno,
la signora M.B., ossia la prima moglie di D.M., padre di D.R. (su bigamia del
cittadino italiano, diniego del permesso di soggiorno alla seconda moglie
straniera ed espulsione della stessa, v. Cass. 13.4.2001, n. 5537).
Di fronte al diniego di visto, D.R. si rivolge al Tribunale.
Ad avviso del giudice, la motivazione del provvedimento impugnato non
applica correttamente l’art. 28, d.lgs. n. 286/98, né appare giustificata
dall’esigenza di tutelare <<principi di ordine pubblico>>: infatti,
<<laddove l’art. 28 della legge citata prevede che il ricongiungimento familiare debba operarsi “alle condizioni
previste nel presente testo unico”, l’autorità preposta non può spingersi – in applicazione del suddetto enunciato
normativo – a negare il riconoscimento del suddetto diritto se non laddove, pur astrattamente esistendo in capo al
titolare i requisiti ed i presupposti di legge contemplati dal successivo articolo 29, lo stesso intenda ottenere effetti
giuridici contrari alla legge o a principi di ordine pubblico>>
(Trib. Bologna 13.3.2003).
In modo convincente, il Tribunale in sostanza osserva che l’art. 29, 1° co.,
lett. a), d.lgs. n. 286/98 non si applica quando la domanda viene presentata dal
figlio per il genitore:
107
Antonio Antonio Costanzo
<<[…] nel caso di specie, il ricorrente aziona un diritto all’unità familiare di cui senz’altro lo stesso è
portatore (essendo figlio della signora L.F., e possedendo gli altri requisiti di legge), ma, secondo quanto prospettato
dalla autorità citata, la violazione della legge verrebbe a concretarsi per effetto della semplice compresenza sul territorio
nazionale di due donne con le quali il padre del ricorrente ha contratto matrimonio all’estero>>
(Trib. Bologna 13.3.2003).
Secondo il giudice, il caso concreto non presenta i tratti della fattispecie
penalmente rilevante né integra violazione della legge italiana o dell’ordine
pubblico, in quanto
<<a) il reato di bigamia, ai sensi dell’art. 556 c.p. può essere commesso solo dal cittadino italiano, e sul territorio
nazionale (art. 6 c.p.), essendo irrilevante il comportamento tenuto, all’estero, dallo straniero la cui legge nazionale
riconosce la possibilità di contrarre più matrimoni;
b) l’art. 29 comma 1 lett. a) è riferibile unicamente allo straniero che richiede il ricongiungimento: il limite ivi
stabilito sarebbe applicabile solo ove […] fosse stato l’odierno ricorrente a chiedere il ricongiungimento di due mogli,
così invocando gli effetti civili di entrambi i matrimoni nel nostro ordinamento;
c) nessun principio di ordine pubblico appare leso laddove i matrimoni contratti all’estero dal padre del ricorrente
siano privi di effetti civili per l’ordinamento italiano. Peraltro, è da rilevarsi che anche qualora ciò fosse espressamente
richiesto dagli interessati, con istanza rivolta all’Ufficiale di Stato Civile, quest’ultima potrebbe essere legittimamente
respinta, secondo quanto previsto – in via di principio generale e cogente – dall’art. 10 Cost.>>
(Trib. Bologna 13.3.2003).
In conclusione, il diniego di visto comprime ingiustamente il diritto al
ricongiungimento affermato dal ricorrente sulla base del rapporto di filiazione.
Su queste premesse il Tribunale ha annullato il provvedimento impugnato e
disposto il rilascio del visto, compensando la spese in ragione della novità delle
questioni.
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