Sistema di rivelazione

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Daniela Crivellin
A.A. 2003/2004
Laboratorio di fisica nucleare
RELAZIONE
PROPOSTA DI UNITA’ DIDATTICA
FISICA NUCLEARE IN MEDICINA
A cura di
Daniela Crivellin
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Daniela Crivellin
A.A. 2003/2004
Laboratorio di fisica nucleare
Collocazione nell’iter didattico
Tale proposta di unità didattica è un percorso, una traccia che fornisce elementi per eventuali
approfondimenti, a seconda dell’interesse mostrato dalla classe.
L’argomento radioterapia è lo spunto attraverso il quale si possono trattare tre argomenti: lo studio
delle particelle elementari, gli acceleratori ed i rivelatori di particelle.
L’argomento, tratto dall’attualità, offre la possibilità sia di stimolare la curiosità degli allievi nei
confronti del mondo sub atomico, sia di mostrare loro il funzionamento di alcuni strumenti di
utilizzo nella fisica nucleare, esibendo il forte rapporto fra fisica e tecnologia.
I tre filoni proposti (particelle, acceleratori e rivelatori), possono essere trattati in sequenza o in
alternativa, scegliendo in base al tempo a disposizione, all’interesse mostrato dagli allievi, o in
relazione ad un’uscita didattica, quale per esempio, il CERN, o molto più semplicemente, il reparto
radioterapico delle Molinette di Torino, o ancora una mostra scientifica che si sia prestata a parlare
di fisica nucleare.
Collocazione:
quarto anno di liceo scientifico tecnologico, secondo quadrimestre
Prerequisiti:
onde, modelli atomici, cenni di elettromagnetismo
Obiettivi
Far conoscere i costituenti della materia e le diverse radiazioni, distinguendone le
caratteristiche essenziali
Mostrare agli allievi le applicazioni della fisica delle particelle
Conoscere la fisica degli strumenti utilizzati (acceleratori, rivelatori)
Introduzione
Lo studio, a partire dagli anni ’30 fino a oggi, dei nuclei atomici ha portato a chiarire molte
proprietà dei nuclei presenti lungo tutta la Tavola periodica.
La Fisica delle particelle elementari studia le componenti fondamentali della materia e le loro
interazioni. L’idea che la materia sia un aggregato di atomi fu accettata a partire dal 1900. Alla
comprensione pressoché definitiva dell’atomo si giunse alla fine degli anni ’30, dopo lo sviluppo
della Meccanica Quantistica. L’atomo è composto da un nucleo di protoni, dotati di carica elettrica
positiva, e di neutroni, privi di carica. Il nucleo è circondato da una "nuvola" di elettroni; questi
ultimi, dotati di carica elettrica negativa, sono tenuti in prossimità del nucleo a causa della carica
elettrica positiva di questo, per effetto delle interazione Coulombiana. Tuttavia, il fatto che i protoni
ed i neutroni del nucleo atomico formino un sistema stabile a dispetto della repulsione elettrostatica
fra i protoni e l’osservazione dei decadimenti radioattivi dei nuclei, che producono raggi α, β e γ,
indicano l’esistenza di altre particelle e di altri tipi di interazione. Alla stessa evidenza si giunge
dallo studio dei raggi cosmici e da quello delle collisioni ad alta energia negli esperimenti con gli
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acceleratori che hanno consentito di identificare altre particelle. Complessivamente ne sono note
oggi ben oltre 100.
Gli elettroni fanno parte di una famiglia di particelle relativamente leggere chiamate leptoni, che
finora non hanno mostrato di possedere una sottostruttura e sono quindi particelle elementari nel
senso stretto del termine. I protoni e i neutroni fanno parte di una numerosa famiglia di particelle
più pesanti, gli adroni. Gli esperimenti di collisione con gli acceleratori hanno mostrato che gli
adroni sono dotati di struttura interna, essendo formati da combinazioni di particelle più piccole, i
quark. Allo stesso modo da combinazioni di quark è formata la maggior parte delle particelle
"elementari" scoperte. Le interazioni di tutte le particelle conosciute possono essere ricondotte a
quattro tipi di interazione fondamentale: elettromagnetica, debole, forte e gravitazionale
(quest’ultima è notevolmente meno intensa delle altre e svolge un ruolo inessenziale nello studio dei
processi di collisione alle alte energie).
La trattazione unificata delle interazioni elettromagnetica, debole e forte si chiama Modello
standard delle interazioni fondamentali. Esso ha portato alla classificazione delle particelle
secondo il seguente schema:
 LEPTONI particelle elementari
→ fotone
→ neutrini
→ elettrone
→ muone
 ADRONI particelle formate da combinazioni di quark
→ MESONI (π, k, η, D, Iφ, Y)
→ BARIONI (p, n, Λ, Σ, Ξ, Ω-, 0b )

tre generazioni di leptoni: l’elettrone (e-) ed il neutrino elettronico νe, il muone (μ-) ed il
neutrino muonico νμ, la particella τ- ed il neutrino tauonico ντ; di ciascuno di questi leptoni
esiste la rispettiva antiparticella;

tre generazioni di quark: up (u) e down (d), charm (c) e strange (s), top (t) e bottom (b); di
ciascun tipo ("sapore") di quark esistono tre stati diversi, identificati convenzionalmente con
un "colore"; anche di ciascuno dei quark esiste la rispettiva antiparticella;

le particelle “mediatrici” delle interazioni fondamentali: il fotone (γ) per l’interazione
elettromagnetica, i bosoni vettoriali W± e Z° per l’interazione debole ed i gluoni per
l’interazione forte;

il bosone di Higgs, la particella responsabile del meccanismo per il quale i bosoni vettoriali
W± e Z°, i quark ed i leptoni carichi sono dotati di massa.
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Le radiazioni e la loro interazione con la
materia
Nozioni preliminari
Con il termine radiazioni si raggruppano una moltitudine di fenomeni, tra loro anche differenti, che
hanno però in comune il trasporto di energia nello spazio. Sono radiazioni, ad esempio, la luce
visibile, le onde radiotelevisive, le emissioni di particelle o di fotoni da parte di un elemento
radioattivo. L'energia trasportata dalla radiazione viene ceduta quando essa interferisce con la
materia attraversata. Se una radiazione ha energia sufficiente avviene la ionizzazione del mezzo
attraversato, ossia la produzione di cariche positive e negative. A seconda che la ionizzazione del
mezzo irradiato avvenga per via diretta o indiretta le radiazioni vengono distinte in radiazioni
direttamente ionizzanti e radiazioni indirettamente ionizzanti. Esempi di radiazioni direttamente
ionizzanti sono le particelle cariche elettricamente, come lo ione di carica +2, gli elettroni ed i
positroni. Esempi di radiazioni indirettamente ionizzanti sono invece i raggi X, i fotoni e i neutroni.
Le radiazioni possono anche essere distinte in corpuscolate, ossia dotate di massa come le particelle
cariche elettricamente e i neutroni, e radiazioni non corpuscolate, come i raggi X e i fotoni  che non
hanno né massa né carica. I fotoni viaggiano nello spazio sotto forma di onde elettromagnetiche che
sono la propagazione sinusoidale delle intensità dei campi elettrico e magnetico. L'energia dei
fotoni è direttamente proporzionale alla loro frequenza, secondo la formula E = h  dove h è la
costante di Plank pari a 6.610-34 joule sec. L'energia delle radiazioni si misura in elettronvolt (eV).
1eV è l'energia che una carica elettrica unitaria (come un elettrone) acquista attraversando una
differenza di potenziale di un Volt.
Il risultato prodotto dall’interazione fra radiazione e materia è strettamente dipendente dal tipo di
radiazione.
E’ necessario quindi suddividere la trattazione in tre parti e considerare radiazioni dovute a
particelle cariche pesanti, a radiazioni + e  - ed a radiazioni dovute a particelle neutre.
Particelle cariche pesanti
Negli ultimi decenni si è sviluppato l’utilizzo di fasci terapeutici di particelle pesanti, quali protoni,
neutroni e ioni leggeri, detti adroni.
Gli adroni portati ad alta energia da una potente macchina acceleratrice, sono lanciati come
proiettili nella zona tumorale, essi infatti sono in grado di danneggiare i tessuti malati.
Il fascio di adroni rilascia la maggior parte della sua energia alla fine del suo percorso e questo reca
meno danni ai tessuti sani circostanti rispetto alla radioterapia con raggi X. Questa proprietà è
particolarmente importante nel caso in cui il tumore sia localizzato presso organi vitali che non
dovrebbero essere irradiati.
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I tumori per i quali è indicata l'adroterapia sono quelli localizzati nella base cranica, sul fondo
dell'occhio e lungo la colonna vertebrale. Oltre a questi, i tumori pediatrici, i tumori del sistema
nervoso centrale, della prostata, del fegato, dell'apparato gastroenterico e del polmone possono
beneficiare di tale trattamento.
Si consideri una particella di carica ze, massa M e velocità v che penetra in un mezzo assorbitore di
densità  (g/cm3), composto di atomi di carica Ze. L’interazione consiste in un trasferimento di
energia, sotto forma di quantità di moto, dalla particella agli elettroni del mezzo, a causa
dell’interazione coulombiana. La perdita di energia è descritta dalla formula di Bethe-Block:

dE 4 e N A z 2

dx
me
v2
Z 
A
 2 me  2 v 2
ln
I


2 

2

C

Z
NA è il numero di Avogadro, A il peso atomico del mezzo espresso in grammi, I = h il
potenziale di eccitazione medio degli atomi dell’assorbitore,  il rapporto v /c e  il fattore di
Lorentz. Il termine  2 trae origine dalla trattazione quantistica del problema, mentre /2 è un
termine di densità e tiene conto degli effetti di polarizzazione del mezzo, normalmente viene
trascurato o approssimato a 2ln. Infine C/Z quantifica gli effetti di schermatura degli elettroni delle
orbite più interne degli atomi del mezzo assorbitore ed è significativo solo a basse velocità della
particella incidente.
Nella precedente formula si è assunto M  me e considerata costante la velocità della particella
durante l’interazione. Tale relazione è valida per tutte le particelle ad esclusione dell’elettrone, la
cui massa è me = 0,5 MeV, mentre per il protone ed il neutrone si ha mp = 932,6 MeV e mn =
939,5 MeV.
La dE/dx così definita è linearmente dipendente dalla densità del mezzo attraversato, per risolvere
questa dipendenza è utile definire una nuova grandezza:
il potere frenante di massa (mass stopping power)
dE 1 dE

dX  dx
esso è proporzionale al rapporto Z/A dell’assorbitore, ed essendo Z/A 1/2 per tutti gli elementi (con
unica esclusione dell’idrogeno per il quale tale rapporto vale 1), si può concludere che il potere
frenante è approssimativamente indipendente dal materiale attraversato e che, a parità di peso, esso
è maggiore per gli elementi leggeri.
L’andamento approssimativo della dE/dX è illustrato in figura.
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Un’altra grandezza rilevante in radioterapia è il range ovvero il percorso effettuato dalla particella
carica prima di fermarsi all’interno del mezzo:
R
E0
dE
 dE dx
0
La valutazione di tale grandezza è indispensabile, nel momento in cui si pensa di utilizzare le
particelle per la cura di tumori, poiché indica il punto, all’interno del tessuto nel quale la particella
svilupperà il suo effetto. Come è facilmente prevedibile esso dipende dalla perdita di energia per
unità di lunghezza. E0 è l’energia cinetica iniziale della particella. E’ possibile misurare il range di
una particella carica pesante interponendo fra la sorgente e un opportuno rivelatore spessore di
materiale via via crescenti.
A parità di flusso incidente si ha che il numero di particelle rivelate nell’unità di tempo è
indipendente dallo spessore frapposto fino a che questo non raggiunge un valore critico oltre al
quale tale conteggio diminuisce rapidamente fino a ridursi a zero. Tale andamento è visibile in
figura
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Esempio: le particelle 
La particella alfa è il nucleo dell’atomo di elio, costituito da due protoni e due neutroni, presenta
quindi doppia carica elettrica positiva. Può essere originata dal decadimento di atomi pesanti che si
trasformano in elementi più leggeri attraverso la perdita di 4 nucleoni. Il passaggio di una particella
alfa attraverso un mezzo provoca, a causa della carica elettrica +2 e della massa 7400 volte
maggiore di quella dell'elettrone, la ionizzazione di un gran numero di atomi (ionizzazione
primaria). Ne consegue la creazione di un gran numero di coppie di ioni, consistenti in ioni negativi
(elettroni liberi) e ioni positivi (l'atomo al quale è stato rimosso l'elettrone). Gli elettroni liberati
possono, a loro volta, produrre un'ulteriore ionizzazione del mezzo (ionizzazione secondaria). Il
processo di ionizzazione primaria causa una lenta perdita di energia cinetica alla particella alfa, che
continua la sua corsa riducendo gradualmente la velocità finché si lega a due elettroni e si trasforma
in un atomo di elio, con carica elettrica neutra. Poiché in aria ogni ionizzazione richiede in media 34
eV, una particella alfa con energia di 3.4 MeV produrrà circa 100.000 ionizzazioni e percorrerà
circa 2 cm prima di fermarsi e diventare elettricamente neutra. Il percorso di una particella alfa, a
parità di energia cinetica, è molto più breve di quello di particelle con massa minore. La radiazione
alfa presenta quindi basso range di azione ma alta densità di ionizzazione. In aria il range medio di
una particella alfa non supera i 4-5 cm, riducendosi drasticamente con l'aumentare della densità del
mezzo, tanto che la radiazione alfa, con energia cinetica fino a 3 – 4 MeV, non riesce ad attraversare
una barriera come la pelle. Oltre alla ionizzazione del mezzo attraversato, la particella alfa può
provocare l'eccitazione di atomi, che consiste nel passaggio di un elettrone orbitale ad un orbita più
distante dal nucleo portandosi in uno stato energetico più elevato. Il ritorno dell'elettrone all’orbita
originale genera l’emissione di energia sotto forma di raggi X o di radiazione luminosa.
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Particelle cariche leggere: radiazioni + e Le radiazioni + e - si presentano fisicamente come emissione rispettivamente di positroni e di
elettroni. Quando il nucleo è instabile per difetto di neutroni, un protone in eccesso emette un
positrone secondo la formula:

p  n  e   e
Il decadimento di un protone secondo questo schema può avvenire solo all’interno di un nucleo, a
spese dell’energia di quest’ultimo, poiché la sua massa a riposo è minore della somma delle masse
del neutrone e dell’elettrone. Il decadimento ß+ provoca una transizione isobara: il numero Z
dell’atomo cui il protone appartiene si riduce di una unità e l’atomo si trasforma in un elemento
chimico differente, situato a sinistra nella tavola di Mendelejev mentre resta invariato A.
Quando invece il nucleo è instabile per eccesso di neutroni, il neutrone in eccesso si trasforma in
protone secondo la formula:

n  p  e  e
Un neutrone può decadere secondo il suddetto decadimento anche quando non è contenuto
all’interno di un nucleo, essendo la sua massa a riposo maggiore della somma di quelle del protone
e dell’elettrone. Anche il decadimento beta negativo provoca quindi una transizione isobara: il
numero Z aumenta di una unità e l’atomo si trasforma in un elemento chimico differente, situato a
destra nella tavola di Mendelejev mentre resta nuovamente invariato il numero A. Il meccanismo di
perdita di energia delle particelle leggere, in questo caso di elettroni, è concettualmente analogo a
quello delle particelle cariche pesanti. Vi sono tuttavia alcune rilevanti differenze a causa delle quali
è necessaria la trattazione separata. In primo luogo non è valida l’approssimazione M me; tale
assunzione è alla base del calcolo che conduce alla formula di Bethe-Block, che non potrà quindi
essere applicata al caso degli elettroni senza alcune modifiche. Inoltre, data la piccola massa gli
elettroni sono relativistici anche a basse energie e questo introduce un termine aggiuntivo raramente
trascurabile. Inoltre, ed è il fenomeno più importante, l’elettrone, venendo a contatto con il campo
nucleare degli atomi del mezzo attraversato, subisce una deflessione, e quindi acquisisce successive
decelerazioni che lo portano a perdere energia sotto forma di irraggiamento elettromagnetico, detto
radiazione di bremsstrahlung. La perdita totale di energia per gli elettroni entranti in un mezzo è
data sostanzialmente da due contributi, la cui importanza relativa dipende dall’energia
dell’elettrone: un termine dovuto alla ionizzazione degli atomi del mezzo, che utilizzano l’energia
fornitagli dall’elettrone nell’urto per liberare elettroni atomici, ed il termine di bremsstrahlung.
dE
dE
dE


dxtot dxion dxbrem
La perdita di energia per irraggiamento è valutabile attraverso la formula:
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
Z (Z  1)
dE
183
4
N A  r02 E ln 1 
dxbrem
A
Z 3
E
X0
Dove  è la costante di struttura fine ed r0 il raggio classico dell’elettrone. X0 è invece la
lunghezza di radiazione, parametro caratteristico del mezzo assorbitore, dato dallo spessore di
materiale necessario a ridurre l’energia dell’elettrone di un fattore e. Tale formula dipende dal
quadrato del numero atomico Z del mezzo e quindi sarà maggiormente influente per elementi
pesanti.
Per il termine dovuto alla ionizzazione si distinguono due formule, a seconda che gli elettroni siano
relativistici o meno:

e- relativistici:


dE
dxion

2  N A e 4   me v 2
1
ln
 
2
2 
2
me c
  2 2I
e- non relativistici:

dE
dxion

2  N A e 4   2me v 2  3
 ln
I
me c 2
2 
2

1
1
 C
ln 8 

 
2
16
2 Z
La perdita di energia per ionizzazione cresce come 1/ 2, mentre la radiazione di frenamento
aumenta linearmente con E. Ne consegue che a basse energie predomina la ionizzazione mentre la
bremsstrahlung diviene sempre più importante per valori alti.
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Radiazioni neutre
Le radiazioni neutre (raggi X,  e neutroni), interagendo con gli atomi, cedono tutta o parte della
loro energia a particelle secondarie direttamente ionizzanti che a loro volta interagiscono con la
materia nel modo già descritto: per questo sono dette indirettamente ionizzanti. Le interazioni dei
fotoni X e  con gli atomi sono dovute alle forze elettromagnetiche, mentre i neutroni interagiscono
tramite forze nucleari. Si esaminano entrambi i casi.
Fotoni
I fotoni trasferiscono la loro energia alla materia che attraversano per mezzo di complesse
interazioni con i nuclei e gli elettroni atomici. La loro intensità decresce esponenzialmente
attraversando il mezzo secondo la legge:
I  I o e  0 x
Con 0 coefficiente di attenuazione lineare. Alcune di queste interazioni provocano la fuoriuscita di
un elettrone orbitale da un atomo, con conseguente ionizzazione, o la creazione di una coppia
elettrone-positrone. Tali elettroni producono a loro volta ionizzazione del mezzo. Il fenomeno della
ionizzazione è alla base del meccanismo per il quale le radiazioni ionizzanti producono effetti
radiobiologici e possono essere rivelate. Tra le varie possibili interazioni dei fotoni con la materia,
solo alcune possono essere di interesse in medicina nucleare:

Effetto fotoelettrico
Avviene quando un fotone, di energia medio-bassa, interagisce con un elettrone delle orbite più
interne (in genere dello strato K) cedendo tutta la sua energia. Il fotone scompare e l'elettrone
acquista un’energia cinetica pari alla differenza tra l’energia del fotone incidente e quella di legame
dell'elettrone. La ionizzazione provoca il riassestamento degli altri elettroni con emissione di
radiazioni X caratteristiche o con l'emissione di un elettrone detto Auger. L'effetto fotoelettrico è più
probabile per mezzi ad alto Z e per fotoni a bassa energia. Esso ha importanti risvolti in medicina
nucleare e in radiobiologia.

Effetto Compton
Chiamato anche scattering incoerente, avviene quando un fotone interagisce con un elettrone libero
o degli orbitali più esterni, debolmente legato al nucleo, cedendo parte della sua energia. Come
risultato si ha l'emissione di un elettrone con una sua energia cinetica e di un fotone gamma
secondario (gamma Compton) che si propaga in direzione diversa rispetto a quella del fotone
originario secondo un angolo che dipende dall'energia ceduta all'elettrone, come si può osservare
dalla formula:
 2  1  2
h

sin 2
me c
2
In cui 1 e 2 sono le lunghezze d’onda del fotone prima dell’urto e del fotone uscente dall’urto e 
è l’angolo di diffusione fra la direzione del fotone incidente e quella dell’elettrone. L'elettrone e il
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fotone di scattering possono a loro volta interagire con la materia fino ad esaurire la loro energia. Il
fotone Compton può essere deviato in qualsiasi direzione, anche retrodiffuso; maggiore è l'energia
ceduta all'elettrone, maggiore è l'angolo di deflessione (formato dalla traiettoria del fotone primario
con quella del fotone secondario). Inoltre, maggiore è l'energia del fotone incidente, maggiore è
l'energia ceduta all'elettrone. L'effetto Compton ha importanti risvolti in medicina nucleare e in
radiologia perché, tra l'altro, è causa di degradazione della qualità dell'immagine.

Produzione di coppie
Detto anche effetto fotonucleare, avviene per fotoni di energia superiore a 1.022 MeV, valore
corrispondente alla massa delle due particelle che vengono generate dal fenomeno. Il fotone,
interagendo col campo di forza del nucleo, scompare con la contemporanea creazione un elettrone e
un positrone; tutta l'energia oltre la soglia di 1.022 MeV è distribuita in ugual misura tra le due
particelle sotto forma di energia cinetica. L'elettrone così prodotto può provocare ionizzazioni,
mentre il positrone va incontro ad annichilazione, con la conseguente produzione di 2 radiazioni
gamma di 0.511 MeV dirette in direzioni diametralmente opposte. Questo fenomeno riveste poca
rilevanza per la medicina nucleare perché radionuclidi di così alta energia non sono comunemente
utilizzati in questa disciplina.
I neutroni
I fenomeni di interazione dei neutroni con la materia sono:
a) Urti elastici con i nuclei, in cui cedono una parte della propria energia cinetica al nucleo in
questione lasciandolo, dopo l’urto, nel suo stato fondamentale. Il neutrone penetra nel nucleo
cedendo ai nucleoni non soltanto la propria energia cinetica. Si forma così un nucleo composto
molto eccitato che ha però una vita media molto breve (circa 10-4 secondi). Esso decade al
livello fondamentale del nucleo di partenza emettendo un neutrone e dando luogo così ad una
reazione di diffusione elastica.
b) Urti inelastici con i nuclei, in cui il nucleo composto decade ad un livello eccitato anziché al
livello fondamentale. In questo caso il nucleo torna allo stato fondamentale solo dopo aver
emesso uno o più quanti. Nei nuclei leggeri questo effetto è meno importante del precedente
per ciò che riguarda il trasferimento di energia.
c) Cattura radiativa, si ha quando il nucleo composto si diseccita emettendo un fotone  la cui
energia è pari all’energia cinetica del neutrone più la sua energia di legame.
d) Reazioni nucleari con produzione di particelle cariche, il nucleo composto decade producendo
particelle che perdono tutta la propria energia entro una decina di m dal punto di produzione.
Questo effetto deve esser preso in considerazione quando si vogliono calcolare i danni biologici
prodotti dai neutroni.
Essendo privi di carica i neutroni non danno luogo a fenomeni di ionizzazione ed eccitazione e
quindi conservano la propria energia fino a quando non urtano un nucleo. Come accade per i fotoni,
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i neutroni che non hanno interagito subiscono un’attenuazione esponenziale con lo spessore
dell’assorbitore.
Dosimetria
La dosimetria studia gli effetti legati all’energia ceduta alla materia da un campo di radiazione allo
scopo di determinare gli effetti biologici del trattamento.
In questo paragrafo si definiscono le grandezze fisiche legate alla dosimetria.
Attività
L'attività di una sostanza radioattiva è data dal numero di disintegrazioni nucleari prodotte nell'unità
di tempo. Di solito si usa misurare l'attività per unità di massa e per unità di volume. L'unità di
misura è il Curie (Ci) che esprime l'attività di un grammo di radio 226 e corrisponde a 3,7·10 10
disintegrazioni al secondo. Nel Sistema Internazionale (SI) si usa il Becquerel. 1 Bq è l'attività di un
radionuclide che decade spontaneamente subendo in media una disintegrazione al secondo: 1 Bq =
2,7·10-11 Ci
Dose assorbita
La dose assorbita è la quantità di energia che le radiazioni ionizzanti cedono alla materia per unità
di massa di sostanza irradiata E’ quindi il rapporto tra l'energia delle radiazioni depositata e la
massa di materia interessata.
E D
m
Come unità di dose assorbita si usa il rad (rate adsorbed dose) che corrisponde a un'energia di 100
erg assorbita per ogni grammo di materia. Un grammo di tessuto esposto a 1 röntgen assorbe circa
93 erg. Nel SI la dose assorbita si misura in gray (Gy). 1 Gy è la dose che viene assorbita quando
l'energia per unità di massa, ceduta alla materia da una radiazione ionizzante, è 1 joule per
kilogrammo.1 Gy è uguale a 100 rad.
D
LET (Linear Energy Transfer)
E’ il rapporto fra l’energia EL media deposita localmente dalla radiazione in un piccolo tratto del
suo percorso, nel mezzo attraversato, e la lunghezza x del tratto stesso
LET 
E L
x
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L’unità di misura adottata per il LET è il keV/m. In prima approssimazione maggiore è il LET più
la radiazione è efficace nel danneggiamento delle cellule colpite.
Dose equivalente
L’effetto delle radiazioni, anche a parità di energia è tuttavia dipendente dal tipo di radiazione.
Perciò si è introdotto il fattore di qualità della radiazione Q che è un parametro caratterizzante il
tipo di radiazione, la grandezza che si considera diventa quindi la dose equivalente H legata alla
dose assorbita D dalla relazione: H = QD
La dose equivalente è la dose di radiazioni ionizzanti che, assorbita dal corpo umano, produce un
effetto biologico identico a quello prodotto nello stesso tessuto dall'assorbimento di raggi X o .
Questa grandezza è molto importante perché lega radiazioni ionizzanti di caratteristiche diverse,
come per esempio le particelle  e i raggi X. Infatti, uguali dosi possono dare luogo ad effetti
biologici diversi. Per elettroni, raggi X e  Q = 1, per neutroni e protoni 5 Q  20, per particelle 
Q = 20.
La dose equivalente si misura in rem (röntgen equivalent man).1 rem = 1 rad Q, e indica la quantità
di radiazioni ionizzanti che, a parità di altre condizioni, produce lo stesso effetto biologico di 1
röntgen. 1 rem è la dose biologica assorbita da un organismo vivente dovuta a 1 rad. L'unità di
misura nel SI è il sievert (Sv).1 Sv = 1 GyQ. 1 Sv è la dose equivalente che si ha quando la dose di
radiazioni assorbita, moltiplicata per un dato fattore adimensionale, è uguale a 1 J/kg
1 Sv = 100 rem. 1 rem = 0,01 Sv.
Efficacia biologica relativa (RBE)
Viene introdotta per mettere in relazione gli effetti biologici con la qualità del campo di radiazione.
Se si irraggia un sistema biologico con due campi di radiazione diversi ottenendo lo stesso effetto
biologico, si definisce efficacia biologica relativa del secondo campo rispetto al primo la quantità:
RBE 
D1
D2
Dove D1 e D2 sono le dosi assorbite nei due casi e sono mostrate in figura 1.4 nell’esempio di raggi
X e particelle pesanti.
In questa figura in ordinata è rappresentata la percentuale di sopravvivenza delle cellule del tessuto
irradiato in funzione della dose.
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Generalmente, infatti, si considera il rapporto tra una dose in rad di raggi X standard, presa come
riferimento, e la dose in rad delle radiazioni ionizzanti considerate che produce lo stesso effetto
biologico. L’RBE è un parametro molto importante.
I raggi X, i fotoni e gli elettroni di qualsiasi energia hanno un valore RBE uguale a 1.
Dose biologica efficace
La dose biologica efficace, espressa in rem, è data dal prodotto della dose assorbita in rad per il
valore (numerico) della efficacia biologica relativa.
Dose di esposizione
La dose di esposizione, che si misura in röntgen, si riferisce propriamente alle radiazioni
elettromagnetiche (X e ) e riguarda la loro capacità di produrre ionizzazione. 1 röntgen (simbolo R)
è la dose di radiazioni X (di energia pari a 250 keV) che in 1 cm3 di aria, a 760 mm di pressione e a
0 ºC di temperatura, produce due miliardi di coppie di ioni. L'intensità della dose d'esposizione, cioè
il rapporto fra la dose d'esposizione e il tempo d'esposizione, si misura in R/h (röntgen all'ora). La
dose di esposizione, e in particolare la sua intensità, è l'indice che maggiormente si considera per la
sicurezza in caso di contaminazione radioattiva. Nel Sistema Internazionale la dose di esposizione si
esprime in coulomb per kilogrammo. 1C/kg è la quantità di radiazioni X o  che produce coppie di
ioni con una carica complessiva di 1 coulomb in un kilogrammo di aria pura e secca. Un röntgen è
uguale a 2,58·10-4 C/kg.
Danni biologici da radiazioni
Interagire con la materia umana vuol dire interagire con le cellule. Come si è mostrato in figura, la
dose assorbita da un tessuto organico è legata alla frazione di sopravvivenza cellulare. Tuttavia le
radiazioni possano provocare effetti diversi. Uccidere cellule significa uccidere un tessuto. Ma se la
dose non supera una certa soglia non si avrà nessun effetto. Per provocare una mutazione è
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sufficiente invece anche un solo evento. Con l’aumentare della dose aumenta solo la probabilità che
la mutazione avvenga ma non la gravità di ciò che seguirà alla mutazione stessa, ovvero la
neoplasia. Gli effetti che sono provocati dal superamento di determinate soglie sono detti
deterministici.
Gli effetti provocati da una mutazione sono detti stocastici (effetti aventi probabilità di comparsa
proporzionale alla dose, senza avere un limite inferiore).
Se le cellule colpite sono quelle riproduttive, con molta probabilità l’effetto negativo dell’evento
ionizzante si produrrà sui discendenti del soggetto colpito. Questi tipi di effetti vengono classificati
come genetici mentre quelli che si producono sull’individuo stesso sono detti somatici.
E' quindi estremamente pericolosa l'esposizione durante la gravidanza. I tessuti più radiosensibili
sono quelli ad elevato ricambio: pelle, midollo osseo, le mucose, il feto o quelli particolarmente
esposti perché superficiali e scarsamente vascolarizzati (occhio, testicoli....), essi, infatti,
smaltiscono con difficoltà gli effetti della contaminazione radioattiva.
Entrando nel dettaglio, le radiazioni ionizzanti, trasferendo energia alle molecole, sono in grado di
rompere o modificare legami biochimici di importanza fondamentale per le funzioni vitali delle
cellule. Esistono numerosi fattori che influenzano la sensibilità alle radiazioni; essi tuttavia non
saranno qui trattati in quanto esulano dall’ambito fisico in cui questa unità didattica si colloca. Si
farà solo un breve cenno ai meccanismi di inattivazione cellulare indotti dalle radiazioni. I più gravi
danni biologici che si possono provocare in un tessuto vivente derivano dalle modificazioni del
DNA indotte nelle cellule che compongono il tessuto irradiato. Nelle cellule di mammifero si
osserva, a dosi dell’ordine delle decine di Gy, una rapida cessazione del metabolismo cellulare e la
disintegrazione della cellula stessa. Anche a dosi minori, tuttavia, i danni provocati al suo interno
sono tali da inibirne la funzione riproduttiva, a seguito della perdita della capacità di sintesi del
DNA, dell’RNA e delle proteine. Come conseguenza la popolazione cellulare post-irradiazione è
sterile e può essere considerata inattiva, benché non presenti segni evidenti di danno biologico.
Infatti, in questa fase le cellule si presentano fisiologicamente e morfologicamente normali; tuttavia
esse vanno incontro ad un numero limitato di divisioni generando una progenie sterile che non è in
grado di garantire, a medio ed a lungo termine, la sopravvivenza del tessuto irradiato. Questo
processo è indicato con il nome di morte riproduttiva.
I tre tipi principali di danno che si riscontrano a carico del DNA sono:
Rottura della catena singola: si ha per energie dell’ordine già della decina di eV, per cui
avviene anche a basse dosi. Nei mammiferi i meccanismi di riparazione della rottura di catena
singola sono molto rapidi ed efficienti, per questo motivo esse sono considerate poco importanti
ai fini dell’induzione alla morte cellulare. D’altra parte però si deve considerare che non tutte le
rotture sono riparate e che queste possono prendere parte alla formazione di rotture di catena
doppia, biologicamente ben più rilevanti.
Rottura della catena doppia: il rapporto fra la dose ed il numero di tali rotture non è noto con
certezza. Esse sono il frutto diretto di un evento ionizzante o del concorso di due rotture di
catena singola indipendenti non riparate. La riparazione di una rottura doppia della catena del
DNA è, anche teoricamente, molto complessa e la possibilità o meno della cellula di metterla in
atto è tuttora un argomento dibattuto; in generale esse sono considerate lesioni letali.
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Distruzione delle basi; vi è un rapporto lineare fra dose e danno a carico delle basi di
collegamento delle due catene. Questo fenomeno è ritenuto molto importante nelle cellule degli
organismi superiori. Esistono, infatti, numerosi indizi del fatto che le alterazioni delle basi non
riparate costituiscano un fattore determinante della sopravvivenza cellulare.
Da queste considerazione si conclude ovviamente che, nel trattamento della zone tumorali mediante
radiazioni ionizzanti, va riportata la massima attenzione a limitare la zona esposta esclusivamente a
quella malata, per evitare l’insorgere di un ulteriore danno biologico sul tessuto sano.
Le sorgenti di radiazione
Gli acceleratori di particelle
La produzione del fascio di radiazione da utilizzare per la terapia avviene mediante macchine
acceleratrici, ovvero macchine che permettono di portare ad energie elevate particelle atomiche o
subatomiche elettricamente cariche, mediante azione accelerante di campi elettrici. Si possono
classificare in "circolari" e "lineari", che impiegano anche campi magnetici, ed in "elettrostatici",
che impiegano esclusivamente un campo elettrostatico. Questi ultimi esulano dalla nostra
trattazione in quanto non utilizzati per la produzione dei fasci per radioterapia.
Negli acceleratori circolari il campo di guida B, nel quale si muovono le particelle di carica q e
velocità v, incurva la traiettoria delle particelle per effetto della forza di Lorentz il cui modulo vale
F=qvB. Caratteristiche del moto della particella, oltre alla carica q e alla massa m, sono il raggio r
dell'orbita e la frequenza f di rotazione (detta anche frequenza di ciclotrone o frequenza
giromagnetica). Per l'accelerazione si utilizzano un campo elettrico oscillante o un campo
d'induzione elettromotore (nel caso del betatrone). L'accelerazione, ciclica, viene impressa in modo
da mantenere il sincronismo tra la frequenza con cui si inverte il campo elettrico accelerante e la
frequenza del moto circolare delle particelle. La camera di accelerazione, cilindrica (nel ciclotrone,
sincrociclotrone e microtrone) o anulare a forma di ciambella (nel betatrone e nel sincrotrone), è
posta nel traferro di un elettromagnete che genera il campo di guida. Negli acceleratori circolari per
l'estrazione del fascio è necessario un particolare dispositivo di deviazione detto deflettore. E’
inoltre particolarmente importante il dispositivo di focalizzazione che assicura la stabilità dell'orbita
del fascio (stabilità orbitale) affinché durante l'accelerazione non vi sia dispersione spaziale delle
particelle lungo la traiettoria. Si sfruttano a tal fine le proprietà focalizzanti di un campo d'induzione
magnetica B non uniforme, cioè a gradiente non nullo, ottenuto dando alle espansioni polari
dell'elettromagnete una particolare configurazione. Con un particolare tipo di focalizzazione, detta
focalizzazione forte a gradiente alternato, il campo di guida presenta un'alternanza di regioni del
campo focalizzanti e defocalizzanti.
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L'utilizzo di questo metodo di focalizzazione, migliorando la stabilità orbitale, permette di ridurre
notevolmente l'apertura delle espansioni polari dell'elettromagnete.
Gli acceleratori lineari sono invece composti da numerosi elettrodi (cavità acceleratrici) allineati,
alimentati da un campo elettrico oscillante. Le particelle emesse dalla sorgente si muovono in linea
retta e aumentano progressivamente la velocità attraversando i vari intervalli di accelerazione
Acceleratori lineari per elettroni
Ogni sezione dell'acceleratore è costituita da una guida d'onda, a forma di conduttore cilindrico,
alimentata da un generatore a radiofrequenza, oscillante a 3000 MHz. All'interno della guida, in cui
si propaga un'onda elettromagnetica di lunghezza d'onda l, a intervalli regolari, sono posti dei
diaframmi attraverso cui passa il fascio e che riducono la velocità di fase dell'onda progressiva alla
velocità della luce. Gli elettroni, iniettati da un cannone elettronico o da un acceleratore
elettrostatico a velocità praticamente costante e prossima alla velocità della luce (c), viaggiano in
fase con l'onda elettromagnetica che si propaga lungo la loro stessa direzione e vengono
permanentemente accelerati dal campo elettrico. In queste condizioni, e per valori molto elevati del
campo elettrico, l'accelerazione avviene conformemente al principio di stabilità di fase e le
particelle restano in tal modo legate all'onda in sincronismo con il campo massimo. Pertanto è
possibile ottenere energie sempre maggiori collegando in serie un grande numero di guide d'onda
sincronizzate tra loro. Per applicazioni industriali vengono prodotti piccoli acceleratori delle
dimensioni di qualche decina di centimetri che raggiungono energie di qualche decina di MeV.
Acceleratori lineari per protoni
Costituito da una cavità risonante eccitata da un oscillatore a radiofrequenza da 100 a 200 MHz,
questo acceleratore a risonanza per protoni è assai differente per struttura e principio di
funzionamento dagli acceleratori per elettroni. Un dispositivo a guida d'onda diaframmata non
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consentirebbe infatti di mantenere il sincronismo di fase tra l'onda e la particella, la cui velocità,
piccola rispetto a quella della luce, aumenta proporzionalmente alla radice quadrata dell'energia.
Nell'acceleratore lineare per protoni si ottiene sincronismo tra il campo elettrico di frequenza f
(campo stazionario e diretto lungo l'asse della cavità) e la particella di velocità v introducendo nella
cavità cilindri di lunghezza crescente e di diametro decrescente distanziati di v/f. Il protone impiega
allora esattamente un periodo della radiofrequenza per viaggiare da un tubo all'altro e, rimanendo
sincronizzato con il campo elettrico, si ha accelerazione a ogni passaggio.
Acceleratori lineari per ioni pesanti
Sullo stesso principio sono basati gli acceleratori per ioni pesanti, operanti alle frequenze di
risonanza di 70 MHz. Questi acceleratori consentono di ottenere fasci intensi di ioni pesanti la cui
energia raggiunge i 10 MeV per nucleone.
Sorgenti per radioterapia
Come sorgenti di radiazione per la moderna terapia con fasci collimati, i radioterapisti utilizzano
oggigiorno acceleratori lineari che accelerano elettroni nell'intervallo energetico tra 3-4 MeV e 2025 MeV. Tali acceleratori, generalmente del tipo a onda stazionaria dove l'energia richiesta per
l'accelerazione degli elettroni è fornita da microonde (alla frequenza di alcuni GHZ) generate da un
klystron, sono in grado di produrre:


fasci di elettroni praticamente monoenergetici, ad energie variabili tra 3-4 MeV e 20-25 MeV e
sezione compresa tra alcuni cm2 e alcune decine di cm2 a distanze di trattamento dell'ordine di 1
m;
fasci di fotoni, ottenuti rallentando gli elettroni accelerati in un bersaglio spesso fruttando
l’effetto bremsstrahlung; tali fasci sono caratterizzati da uno spettro energetico continuo, con
energia massima corrispondente all'energia degli elettroni e hanno sezioni uguali a quelle dei
fasci di elettroni.
I fasci di elettroni sono caratterizzati da un percorso massimo nel tessuto (che dipende dall'energia
iniziale del fascio) al di là del quale si ha una coda di bassa intensità, dovuta ai fotoni di
bremsstrahlung. Il percorso massimo, espresso in centimetri, è circa uguale a metà dell'energia
iniziale del fascio, espressa in MeV. Per queste caratteristiche, i fasci di elettroni sono adatti al
trattamento di focolai superficiali o semiprofondi (qualche centimetro dalla superficie cutanea).I
fasci di fotoni sono caratterizzati da un assorbimento di tipo esponenziale. La posizione del
massimo corrisponde al percorso massimo degli elettroni secondari prodotti dai fotoni primari negli
strati più superficiali del tessuto irraggiato. Come conseguenza di questo "effetto di build-up" in
un'irradiazione con fotoni a alta energia la dose alla cute è relativamente bassa.
Un moderno acceleratore lineare utilizzato per trattamenti con fotoni ed elettroni ruota intorno al
paziente in modo da poter essere indirizzato sul bersaglio da direzioni diverse.
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Questo dispositivo è chiamato "gantry" (testata isocentrica). I fasci di fotoni di un acceleratore
lineare, ugualmente caratterizzati da una bassa diffusione locale, sono adatti per un trattamento
molto efficace dei tumori "profondi" situati molti centimetri dalla cute. Per irraggiare in modo
selettivo tali bersagli sono state sviluppate tecniche sofisticate, che implicano la necessità di
utilizzare, in tempi successivi, più punti d'entrata del fascio focalizzato su un punto solitamente
coincidente con il centro geometrico del bersaglio (tecnica isocentrica e di fasci multipli
convergenti).
Per applicare queste tecniche di irradiazione, è necessario che l'intera struttura dell'acceleratore
lineare di elettroni ruoti intorno a un punto fisso nello spazio (l'isocentro del tumore) in modo da
poter utilizzare qualsiasi punto d'entrata del fascio prestabilito rispetto al paziente. Questo
costituisce un fattore limitante nel trattamento di molti tipi di tumori, specialmente se questi sono
situati in prossimità di organi critici, che sono particolarmente soggetti a essere danneggiati dalla
radiazione e per i quali il rapporto terapeutico non é favorevole.
Trattamento conformazionale
I1 principale obiettivo della radioterapia è l’eliminazione del tumore e dei possibili cammini di
diffusione delle cellule tumorali (radioterapia loco-regionale).
Per raggiungere questo obiettivo, si deve far assorbire al focolaio tumorale che può essere
considerato in termini fisici come il "bersaglio", una dose abbastanza alta da distruggerlo,
mantenendo allo stesso tempo la dose nei tessuti sani circostanti, inevitabilmente irradiati, entro
limiti tali da non comportare complicazioni e danni gravi, o addirittura irreversibili. I miglioramenti
straordinari, nell'ultimo decennio, delle modalità convenzionali di diagnostica, in particolare, la
Tomografia Computerizzata, la Tomografia a Risonanza Magnetica, la Tomografia a Emissione di
Positroni, permettono una migliore definizione della zona da trattare ed anche un maggiore
controllo durante il trattamento. Nell'ipotesi di una identificazione del bersaglio sufficientemente
accurata, è possibile valutare la probabilità di ottenere un controllo locale del tumore attraverso
l'analisi delle cosiddette "curve dose-effetto".
Queste rappresentano:
1) per i tessuti tumorali, la possibilità di ottenere il controllo del tumore in funzione della dose
assorbita (TCP: tumor control probability)
2) per i tessuti sani, la probabilità di provocare danni seri o irreversibili, sempre in funzione della
dose assorbita dai tessuti stessi. (NTCP normal tissue control probability)
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Il rapporto terapeutico è definito come il rapporto D2/D1 fra la dose D2 che ha una probabilità del
50% di provocare complicazioni serie a tessuti sani e la dose D1 che ha la stessa probabilità di
produrre il controllo locale del tumore.
Sulla base di queste considerazioni, è evidente che la probabilità di curare il tumore senza indurre
effetti collaterali indesiderati aumenta con la "selettività balistica" o “conformità" dell'irradiazione,
cioè con la differenza tra la dose al bersaglio e la dose ai tessuti sani coinvolti nell'irradiazione
stessa.
La terapia conformazionale è una tecnica radioterapica sviluppata per impartire una dose più alta al
tumore, risparmiando al contempo gli organi sani. La distribuzione di dose ottimale al bersaglio può
essere ottenuta con diversi artifici tecnici, quali la combinazione di radiazioni di diversa natura,
l'uso di campi multipli statici o dinamici, od ancora, mediante le più moderne tecniche di
radioterapia conformazionale basate sulla simulazione virtuale. Si definisce come tale una tecnica di
alta precisione basata sulla definizione volumetrica, tridimensionale, del tumore e dell'anatomia
degli organi critici. La ricostruzione digitale di questi volumi è resa possibile dall'acquisizione da
parte dei moderni apparecchi di tomografia computerizzata di una serie di sezioni trasversali e
contigue della regione da trattare.
Questa procedura, condotta mediante un apparecchio TAC dedicato, prevede una preventiva scelta
della posizione del paziente e l'uso di sistemi (maschere termoplastiche, gusci di poliuretano) che ne
garantiscano la riproducibilità per tutta la durata della successiva terapia. Sulla base di quanto
ottenuto è quindi possibile simulare, ancora in una realtà totalmente virtuale, qualsiasi orientamento
dei fasci di irradiazione, ponendosi in una situazione che consente all'operatore di vedere il paziente
ed il bersaglio in modo coincidente con la sorgente radiogena e lungo l'asse del fascio che da essa
origina (opzione BEV, "Beam's Eye-View).
In questo modo è possibile ottimizzare la geometria del trattamento, scegliere il numero e l'angolo
di incidenza di ogni singolo campo, conformarne in modo assai preciso la dimensione dello stesso
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in rapporto alla particolare forma del bersaglio. Specifici accessori di cui possono essere dotati gli
acceleratori lineari, chiamati collimatori multilamellari, consentono poi di realizzare nella pratica
questi aggiustamenti. La radioterapia 3D-conformazionale prevede inoltre che il calcolo della dose
sia condotto sull'intero volume trattato e non, come avviene convenzionalmente, sulla sola
superficie trasversale ricavata dalla definizione del contorno del corpo del pazienti. Particolari
istogrammi, definiti dose-volume, consentono di confrontare piani di distribuzione della dose e di
individuare il miglior trattamento possibile, in termini di probabilità di controllo locale e di
complicazioni attese.
La radioterapia 3D-conformazionale trova oggi applicazione in particolari situazioni, nelle quali,
per ottenere un buon risultato terapeutico, è necessario somministrare dosi più elevate, anche del
20-30%, di quelle possibili con tecnica convenzionale, riducendo così il rischio di complicazioni. E’
possibile superare questo modello, inserendo la possibilità di variare la distribuzione della dose in
modo dinamico, modulando, mediante l'inserimento temporaneo di appositi filtri, l'intensità
dell’irradiazione durante la stessa fase di erogazione.
Queste nuove tecniche, definite di "intesity modulation", potranno consentire un ulteriore progresso
rendendo possibile creare distribuzioni della dose sempre più irregolari, che seguano però la
configurazione volumetrica del bersaglio da trattare. E' evidente che la procedura necessaria per la
realizzazione della radioterapia 3D-conformazionale è più complessa e costosa di quella
convenzionale.
L'uso di sistemi totalmente automatici, gestiti da computer, è la sola via per adeguare i procedimenti
relativi all’assicurazione ed alla verifica della qualità del trattamento.
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Sistema di rivelazione
Concetti di base
Dalle considerazioni svolte appare chiara la necessità di controllare nel migliore modo possibile le
caratteristiche del fascio da usare nella terapia.
Si impiegano quindi rivelatori di particelle, dispositivi in grado di fornire un segnale registrabile del
passaggio di una particella al loro interno. Sfruttando tale caratteristica è possibile localizzare in
modo molto preciso la posizione spaziale e la fluenza della radiazione.
Il loro utilizzo è quindi indispensabile come sistemi di monitoraggio per il controllo della dose
impartita, della posizione e dell’uniformità spaziale della radiazione inviata alla massa tumorale, ma
vengono altresì utilizzati per il controllo dell’intero apparato costituito dall’acceleratore, dal sistema
di scansione ed estrazione del fascio.
Fra i diversi tipi di rivelatori di particelle, quelli che meglio si adattano alle esigenze radioterapiche
sono i rivelatori a gas, di cui le camere a ionizzazione sono l’esempio più comune.
Rivelatori a gas
Il principio su cui si basano i rivelatori a gas è la misura delle cariche liberate, per ionizzazione,
all’interno di una opportuna miscela gassosa. La camera a ionizzazione, esempio più semplice di
questa tipologia di rivelatori, consiste in un volume di gas all’interno del quale si trovano due
elettrodi piani paralleli tenuti ad una differenza di potenziale V0, la quale genera un campo elettrico
E. Una particella carica che attraversa la camera cede un’energia E, libera un numero nt di coppie
elettrone – ione, il campo elettrico presente nella camera convoglia queste cariche libere verso gli
elettrodi, generando un segnale che può essere registrato. Lo schema generale è mostrato in figura.
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Indicando con W il potenziale medio di ionizzazione del gas, si ha:
E = W nt
dove il numero di coppie create è frutto contemporaneamente della ionizzazione primaria, prodotta
direttamente dalla particella e della ionizzazione secondaria, dovuta sia agli elettroni secondari che
essa mette in moto, sia ai fotoni emessi dagli atomi eccitati aventi energia sufficiente a ionizzare
altri atomi.
nt = np + ns
Se il rivelatore possiede una capacità C, le coppie raccolte produrranno una
V 
nt e
C

E e
CW
A seconda della V applicata si possono distinguere quattro zone, mostrate nel grafico
Ricombinazione parziale
In questa zona il numero di cariche che concorrono alla formazione del segnale è minore del
numero di cariche nt prodotte nel gas dalla particella incidente a causa del fatto che non tutte
raggiungono gli elettrodi. Il campo elettrico indotto nel volume sensibile dalla tensione V0 applicata
agli elettrodi è responsabile della migrazione delle cariche all’interno del rivelatore. Gli elettroni,
essendo negativi sono attratti dal piano di anodo, mentre gli ioni positivi, migrano in direzione
opposta verso il catodo. Durante il moto di deriva le cariche possono subire fenomeni di urto che
provocano la neutralizzazione di una coppia elettrone – ione.
Tipico è il processo di “attaccamento”, nel quale un gas fortemente elettronegativo cattura un
elettrone, lo ione carico negativamente può in seguito interagire con uno ione positivo dando
origine al trasferimento di carica. Una coppia è stata quindi annichilata prima di raggiungere gli
elettrodi e questo provoca una diminuzione dell’ampiezza del segnale V. Il Processo di
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attaccamento è più probabile per bassi valori del campo elettrico; è quindi necessario applicare una
tensione V0 sufficientemente elevata da ridurre al minimo la probabilità di ricombinazione. ( V0 
100 V/cm).
Raccolta totale
In questa zona la mobilità delle cariche è sufficientemente elevata da fare in modo che raggiungano
tutte gli elettrodi. La V risultante è dunque esattamente quella che ci si attende. Si osserva inoltre
che un ulteriore aumento della V0 non determina un corrispondente aumento dell’altezza
dell’impulso, al contrario, esso si mantiene costante in un ampio intervallo di tensione applicata, nel
quale il suo valore è esclusivamente funzione del numero di coppie primarie prodotte. Il range di
tensione di alimentazione all’interno del quale il guadagno della camera si mantiene unitario, si
estende da poche centinaia di Volt /cm, a qualche migliaio. Questa è la regione ottimale di lavoro
per le camere a ionizzazione.
Moltiplicazione
In questa regione il segnale è maggiore di quello corrispondente alla raccolta totale. Nella zona
sensibile, infatti, gli elettroni prodotti sono accelerati dalla forza F esercitata dal campo elettrico E,
e dopo un cammino libero medio  sono dotati dell’energia cinetica:
Te = F  = e E  
Quando il prodotto E è tale per cui l’energia cinetica risultante superi il potenziale di ionizzazione
medio del gas, l’elettrone accelerato diventa a sua volta ionizzante, dando origine a nuove coppie
elettrone – ione che si aggiungono a quelle primarie.
Dato un numero nt di elettroni primari, dopo un percorso x nel gas si avrà un numero di elettroni
pari a:
n(x) = nt  e x
essendo  un parametro caratteristico del gas impiegato, noto con il nome di “primo coefficiente di
Townsend”. Per x dell’ordine delle dimensioni della camera si ottiene quindi un segnale:
V 
n( x ) e
ne
 t
C
C
Nella zona di moltiplicazione il segnale, maggiore che nella zona di raccolta, è proporzionale
all’energia rilasciata dalla particella, secondo un fattore detto, appunto, di moltiplicazione.
Scarica
Aumentando ancora la tensione applicata agli elettrodi si entra in una zona di limitata
proporzionalità, nella quale l’altezza dall’impulso non riproduce proporzionalmente il numero di
coppie primarie generate. Incrementando ulteriormente la tensione ogni proporzionalità, sia pur
limitata, viene persa; tutto il volume sensibile viene interessato dalla ionizzazione secondaria, ed i
segnali non sono distinguibili l’uno dall’altro, risultando quindi saturati.
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Formazione del segnale
La carica depositata sugli elettrodi, necessaria a produrre la differenza di potenziale V0 applicata, è
legata è legata alla capacità C dalla relazione:
Q0 = C  V0
Se gli elettrodi sono ben isolati, tale carica vi resta indefinitamente. Sottoponendo la carica ad un
campo di radiazione, sotto l’effetto del campo elettrico dovuto alla tensione V0, gli ioni positivi si
mettono in moto verso il catodo e gli elettroni verso l’anodo, neutralizzando parte della carica
depositata, facendo quindi diminuire la differenza di potenziale fra i due elettrodi. Misurando la
nuova differenza di potenziale V si può ricavare la carica Q che si è depositata.
(Q0 – Q) = C (V0 – V)
Questa carica è data dalla somma dei contributi degli ioni positivi e degli elettroni, secondo la
formula:
Q

0
l d
ne
d x

l

d
0
ne
d x
l
Dove si è indicato con n il numero di coppie liberate dalla particella incidente, con l la distanza fra
gli elettrodi, con d la distanza fra l’anodo ed il punto in cui si forma la coppia, e con e la carica
dell’elettrone.
L’impulso di tensione generato dalla radiazione sarà quindi, supponendo infinita la resistenza agli
elettrodi:
q (t )
q (t )
 
C
C
Con q-(t) e q+(t) rispettivamente segnale indotto dagli elettroni e dagli ioni dati da:
V (t ) 
n e ( t d / l Tel )
per
t  Tel
ne(d/l)
per
t  Tel
q (t ) 
con Tel 
d
 el
e
 el velocità di deriva degli elettroni.
n e t (l – d) / l Tion
per t  Tion
n e ( l – d) / l
per t  Tion
q (t ) 
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(l  d )
e  ion
velocità di deriva degli ioni.
 ion
La forma del segnale generato dalla camera è mostrato in figura.
con
Tel 
Il segnale che si sviluppa all’anodo in funzione del tempo, come si è visto in figura, essendo
TionTel è una funzione crescente con tre diverse inclinazioni, eccetto i casi in cui d  l .

t  Tel
V (t ) 
ne t d
C l Tel
V( t ) è funzione solo del contributo elettronico.

Tel  t  Tion
V (t ) 
n e d n e t (l  d )

C l
C l Tion
V( t ) è costituita da una parte costante nel tempo, il contributo elettronico, e dal contributo ionico.

t  Tion
V (t ) 
n e d n e t (l  d )

C l
C
l
I contributi elettronico e ionico sono costanti nel tempo.
Possibilità di utilizzo
Ogni anno in Italia sono attesi circa 280.000 nuovi casi di patologie oncologiche, la metà dei quali,
secondo le stime correnti, necessita di un trattamento radioterapico come modalità esclusiva o
associato alla chirurgia o ad altre tecniche terapeutiche. La tempestività e l'accuratezza con cui il
trattamento viene eseguito ha un'importanza cruciale nella probabilità di guarigione del paziente. E'
necessario, quindi, mettere a punto delle metodiche che garantiscano la qualità della definizione e
dell'attuazione del piano di trattamento radioterapico. Per la riuscita del trattamento è importante
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applicare controlli e azioni correttive che consentano uno standard di qualità elevato. In particolare
è necessario attuare tutte le procedure di valutazione che prendano in esame non solo le fasi di
pretrattamento, di pianificazione del trattamento e somministrazione della dose, ma anche l'esito
della terapia, nonché la struttura stessa in cui vengono eseguite le prestazioni radioterapiche.
Treatment Planning
L’irraggiamento di un paziente è un processo molto complesso a causa della molteplicità delle
strutture anatomiche coinvolte, che assorbono in modo diverso la radiazione, determinando depositi
locali di energia molto differenziati. La capacità di fornire la dose richiesta in una condizione
geometrica semplice è, quindi, la premessa indispensabile per irraggiamenti più complessi, quali
quelli di un paziente. Il lavoro del fisico sanitario deve procedere quindi di pari passo a quello del
medico nella stesura dei cosiddetti treatment planning, ossia piani di trattamento per poter
localizzare la radiazione in maniera appropriata a seconda della zona.
Anche se i sistemi utilizzati per effettuare piani di trattamento variano nei dettagli, sono basati su
principi comuni. Tradizionali simulatori sono impiegati per determinare il posizionamento del
paziente per definire un provvisorio isocentro (centro del tumore) e per determinarne i punti di
riferimento sulla pelle. Immagini CT sono utilizzate per realizzare ricostruzioni tridimensionali ad
alta risoluzione, necessarie al complesso calcolo delle dosi 3D da allargare a tutto il volume del
tumore e ai circostanti tessuti sani. Diversi algoritmi sono usati per il calcolo della dose in tre
dimensioni, ma più avanzati metodi di calcolo come l’algoritmo del fascio concentrato con
correzione non omogenea pixel dopo pixel, sono necessari per ottenere la massima precisione dei
piani di trattamento. Le immagini del volume bersaglio e degli organi sani sono poi ricostruite
graficamente al computer. Sono dunque eseguiti i calcoli della dose ed è valutata l’adeguatezza
della copertura dell’obiettivo con la dose prescritta sulle curve di distribuzione di isodose o sugli
istogrammi dose-volume (DHV). La visualizzazione DHV riassume i dati delle dosi e rappresenta
graficamente il volume dell’organo che deve ricevere una determinata dose. Una DHV è realizzata
per il tumore e una per ciascun organo coinvolto nel piano di trattamento. La compilazione delle
curve è impiegata per valutare l’adeguatezza di un piano preposto e per confrontare piani diversi.
L’apertura del fascio è regolata automaticamente dal computer operando una continua variazione
d’apertura con un margine di 0.5 cm attorno al contorno del bersaglio tumorale.
E’ ora evidente come la possibilità di avere un fascio più preciso e segmentato sia legata
all’esigenza di poter controllare, tramite una camera con una analoga precisione, la pianificazione e
il risultato dell’irraggiamento. Ecco quindi la necessità di utilizzare una camera a monitor, la quale
suddividendo l’area di rilevamento in pixel della dimensione del millimetro, aumenta notevolmente
la risoluzione della rivelazione. L’informazione di ciascun pixel viene poi portata dai
corrispondenti canali all’elettronica di lettura. L’utilizzo di una camera monitor a pixel si colloca
quindi come strumento ottimale per il monitoraggio del fascio ed il conseguente calcolo del piano di
trattamento.
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