La cura degli oggetti - University of Cambridge

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Pierpaolo Antonello
La verità degli oggetti:
la narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
Nel saggio introduttivo a Things that Talk, Lorraine Daston si pone una
domanda solo all’apparenza banale — in risposta a una frase di W. H. Auden,
per il quale i poeti non possono celebrare gli scienziati, “because their deeds are
concerned with things, not persons, and are, therefore, speechless” (9). La
questione posta dalla storica della scienza statunitense va al di là del semplice e
trito discrimine fra poesia e scienza e racchiude un’istanza filosofica
fondamentale: che cosa sarebbe un mondo senza cose, all’apparenza mute nella
loro stolida incapacità comunicativa? La Daston così commenta:
Imagine a world without things. It would be not so much an empty world as a blurry,
frictionless one: no sharp outlines would separate one part of the uniform plenum from
the other; there would be no resistance against which to stumb a toe or test a theory or
struggle stalwartly. No would there be anything to describe or to explain, remark on,
interpret, or complain about — just a kind of porridgy oneness. Withought things, we
would stop talking. We would become as mute as things are alleged to be.
(9)
Danston, in questa disamina, non prospetta tanto un’apologia delle cose, ma una
rinnovata considerazione della loro capacità di diventare le nostre stesse parole,
il serbatoio apparentemente silenzioso su cui si fonda la possibilità di articolare
il mondo e noi stessi. Questa premessa prelude alla riconsiderazione, affrontata
in Things that Talk, del rapporto narrativo e epistemologico instauratosi nella
contemporaneità con una serie di oggetti e artefatti che affollano il nostro
panorama percettivo: nelle arti figurative come in quelle architettoniche, nella
scienza come nell’universo mediatico. Quello che rimane però inevaso è la
questione del rapporto fra gli oggetti e la letteratura, fra il mondo della
narrazione e il mondo delle cose. È possibile di fatto parlare di una narrazione
degli oggetti che vada al di là di una mera strategia descrittiva? Possiamo
individuare e definire una tradizione di scrittura che si sia misurata in senso non
preconcettualmente oppositivo con la materialità del panorama oggettuale che ci
circonda? Ci sono delle poetiche e degli autori che nell’esercizio della propria
mimesi artistica hanno preferito affacciarsi verso il mondo delle cose piuttosto
che verso il proprio universo biografico e personale? E che tipo di corollari
letterari, stilistici, epistemici e filosofici emergono da un esercizio narrativo di
questo genere? Che tipo di immagine del mondo e quale comprensione della
realtà e della letteratura si possono inferire da questi testi?
Annali d’Italianistica 23 (2005). Literature and Science
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Pierpaolo Antonello
Per tentare di rispondere a questa serie di domande, mi servirò, come
paradigma di analisi e di discussione, del lavoro di uno degli scrittori italiani più
avvertiti a riguardo: Daniele Del Giudice, un autore che ha da sempre tentato,
sia nei suoi interventi saggistici che nella concreta pratica letteraria, di capire
come potesse articolarsi una “letteratura delle cose”. Questa attenzione verso
l’oggettualità del mondo e verso la sua componente “volgarmente”
materialistica è una delle matrici comuni attraverso cui l’esercizio della scrittura
e la dinamica conoscitiva della scienza e della tecnica possono fare emergere
una comprensione integrata della realtà, un’epistemologia convergente che
fornisca, dal lato della letteratura, una più ampia e aggiornata comprensione del
mondo che non si riduca alle sole derive narcisistiche dell’autore; e, dal lato
della scienza, una più compiuta consapevolezza della dimensione etica di
qualsiasi esercizio epistemico.
Modernità e oggetto
Cercando di formalizzare un quadro di riferimento filosofico e epistemologico
generale rispetto al rapporto istituito dalla modernità letteraria con il mondo
degli oggetti, possiamo tentare di definire a grandi linee uno sviluppo
periodizzante che individui alcuni passaggi chiave nella comprensione
ideologica di questa prospettiva oggettuale all’interno della storia culturale e
letteraria del ventesimo secolo. In senso molto generale, potremmo dire che se
l’esperienza modernista ha individuato nel mondo interiore dell’individuo, nella
soggettività più ripiegata e scissa, l’orizzonte ultimo delle proprie istanze
rappresentative (da Virginia Wolf a Dorothy Richardson, da Marcel Proust a
James Joyce, da Italo Svevo a Luigi Pirandello), la stagione letteraria che ne è
seguita — sia per il progressivo esaurimento dell’esperienza estetica e
gnoseologica precedente che per precisi mutamenti epocali — si è fatta carico di
sondare e rappresentare i cambiamenti culturali e epistemologici occorsi nella
seconda metà del secolo, individuando nel mondo oggettuale un inedito e poco
esplorato universo di discorso.
All’avanzare di quello che Calvino in un saggio del 1959 chiamava il “mare
dell’oggettività”, cioè la deriva verso una debordanza della materia oggettuale
sia all’interno della nostra esperienza quotidiana, che del discorso culturale e
delle pratiche artistiche della nostra contemporaneità (Saggi 52-60), la risposta
di molti scrittori e intellettuali è stata ambivalente, se non apertamente critica.
Ovviamente, questa posizione oppositiva veniva mediato soprattutto da una
comprensione marxista della realtà, che vedeva nell’industria e nei prodotti del
consumo di massa, gli strumenti più tipici del processo di alienazione dell’uomo
nella società capitalistica. Si è inoltre ipostatizzata una separatezza umanistica
tra l’artificialità della produzione materiale e l’autenticità di un rapporto
immediato, socialmente produttivo, con l’alterità fenomenica, alterità che si
richiedeva sempre e soprattutto umana. Come avvertiva Lukács: “le cose vivono
poeticamente solo in quanto stanno in rapporto con le vicende umane” (308).
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
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Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura, concordemente ci dice che
l’oggetto moderno è qualcosa di ambiguo: “[…] dotato di un’opacità infausta,
[…] assimilato a uno stato inumano della natura, si è pensato alla sua
proliferazione con un sentimento di apocalisse e di malessere; l’oggetto
moderno è o il soffocamento (Ionesco) o la nausea (Sartre)” (90). Lucien
Goldmann, analizzando l’esperienza del Nouveau Roman, e in particolare
dell’école du regard, sottolinea come questo tipo di racconto, sintonizzato sulla
registrazione del mondo oggettuale, testimoni in senso marxiano l’avvenuta
reificazione del mondo (179). Anche Jean-Paul Sartre, commentando l’opera di
Francis Ponge, scrive che le cose che gremiscono il suo racconto “mantengono
la loro inerzia, la loro frammentazione, la loro ‘stupefazione’, quella perpetua
tendenza al crollo che Leibniz chiamava la loro stupidità” (261).
Certamente non si può negare che questa comprensione, prettamente
disforica, abbia colto nel segno rispetto ai nuovi rapporti fra soggettività e
oggettualità e alle nuove configurazioni di senso istruiti all’interno di una
cultura mercificata come quella imposta dal tardo-capitalismo nelle società
occidentali avanzate. Quello che è stato trascurato è forse una più articolata pars
construens, una possibile relazione positiva o emancipativa col mondo degli
oggetti che avesse uno sguardo più attento, rispettoso, aperto con la natura
“umana” delle cose.
Con il suo secondo romanzo, Atlante occidentale, Del Giudice sembra
tentare di sopperire a questa carenza, inventandosi nella figura di Ira Epstein, un
romanziere alle soglie del Nobel, proprio “lo scrittore che nel Novecento non c’è
mai stato — cioè lo scrittore in grado di ‘sentire’ il potere evocativo e
comportamentale degli oggetti, e di legarlo via via al sentimento di sé, e di sé
nel mondo, e di sé con gli altri che hanno gli uomini” (Raccontare oggetti 16).
Gli oggetti chiedono infatti un’adeguazione cognitiva e sentimentale che
corrisponde alla loro umiltà fenomenica e alla loro transitorietà. La figura di
Epstein, oltre a tentare di definire una nuova sensibilità, può dirsi anche
compendiaria rispetto a una serie di esperienze di scrittura che, in maniera più o
meno esplicita, hanno tentato nel Novecento di riscattare l’oggetto dalla sua
marginalità epistemica e rappresentativa sino a definire all’interno della
letteratura contemporanea una vera e propria “poetica delle cose.” In un saggio
dal titolo Gli oggetti, la letteratura e la memoria, incluso in un volume
antologico su L’esperienza delle cose curato da Andrea Borsari, Del Giudice
cerca di categorizzare questa genealogia e di individuare le varie facce di questo
scrittore che “nel Novecento non c’è mai stato”. In particolare, il Ventesimo
secolo sembra aprirsi con un’immagine trionfale delle nuove cose — quella
della conquista del volo — che però dischiude anche una dimensione di perdita,
di funerale degli oggetti e della memoria. In un campo d’aviazione a
Montichiari, vicino a Brescia, dove si celebra il grande monumento della
meccanizzazione e della tecnica dell’uomo, due famosi poeti della modernità si
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sfiorano: da una parte Gabriele D’Annunzio, la cui opera può essere interpretata
come “una specie di pompa funebre degli oggetti, che vengono raccolti,
catalogati, mostrati nel loro carattere funerario” (dove il Vittoriale diviene un
“enorme cimitero delle cose”); dall’altra, Franz Kafka, che nel romanzo America
racconterà di un uomo, Karl Rossmann, che “perde continuamente oggetti,
oggetti che rappresentano pezzi della sua identità, della sua memoria” (Gli
oggetti 93), indicando uno spazio di corrispondenza metonimica fra soggettività
e oggettualità.
Descrivere il mondo
Passando poi a considerare le esperienze estetiche della seconda met`a del
secolo, in un’epoca che già prelude al postmoderno, Del Giudice proietta le
proprie intenzioni critiche e di poetica su una triade di scrittori che hanno
partecipato
all’esperienza
del
laboratorio
linguistico-matematico
dell’Ou.li.po.(Ouvroir de litterature potentielle): Raymond Queneau, Georges
Perec, Italo Calvino, tutti punti d’entrata imprescindibili per ogni considerazione
sul rapporto fra cose e letteratura. In particolare, vengono citati lo Chant du
Styrene di Quenau; Les Choses, Cantatrix Sopranica L., e La Vie mode d’emploi
di Perec, nonché Palomar di Calvino (Gli oggetti 102): quel signor Palomar il
cui primo esercizio è quello di tentare di leggere un oggetto, nella fattispecie un
oggetto elusivo come un’onda del mare.
A questo proposito dobbiamo ricordare come Calvino sia stato un punto di
partenza con cui Del Giudice ha dovuto immediatamente misurarsi: non solo
perché rappresentava una pietra di paragone imprescindibile nel contesto
letterario nazionale, ma anche per il fatto che era stato proprio Calvino a
presentare a Einaudi il primo romanzo di Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon.
Ispirato da Ponge e da Queneau, ma anche dal descrittivismo dell’école du
regard, Calvino si era da tempo impegnato a discutere del problema della
descrizione come strategia narrativa. In un saggio del 1972, Lo sguardo
dell’archeologo (pubblicato nell’80 in Una pietra sopra), Calvino parla appunto
di descrizione e di catalogo come strategie narrative (Saggi 324-27). Nella
dizione calviniana, la descrizione si presenta come un “problema da risolvere”,
in un cammino progressivo verso l’esattezza, ma anche come attività
categoriale, ordinativa; inoltre si impone come metodo, e come istruzione
pedagogica. La descrizione si pone come un problema ad un tempo letterario e
scientifico: letterario, perché si riconnette a una tradizione consolidata (non solo
il già citato Ponge o Gadda, ma anche certa ”filosofia naturale” classica, da
Plinio a Cardano); scientifico, perché ogni attività categoriale è possibile solo a
partire da riduzione e semplificazione della realtà fenomenica, da una messa in
scena sperimentale, galileiana, dell’oggetto o del processo che si vuole
osservare. La descrizione mostra, nelle parole di Calvino, come “il desiderio di
conoscere trovi nello scrivere un modo di realizzarsi, chiarendo sensazioni,
impressioni, idee” (Osservare 88-89; corsivo mio), che valorizza soprattutto la
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
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dimensione icastica della descriptio, come teorizzata nella lezione americana
sulla Visibilità, e traduce il concetto greco-latino di enàrgheia o evidentia.
Considerando l’opera di Del Giudice come una sorta di filiazione di quella
calviniana, Giuliano Manacorda aveva concordemente definito i registri
narrativi dello scrittore romano come “in lato senso calviniani per un tendenziale
doppio nitore scientifico che, per un verso, si alimenta dal contatto con le
scienze fisiche, per un altro, si manifesta in un’espressione che cela emozioni ed
angosce dietro una lingua imperturbabile nel suo descrittivismo meticoloso,
quasi da école du regard” (370). Rispetto ai problemi relativi alla descrizione in
letteratura, Del Giudice adotta però puntualizzazioni ulteriori, cercando di
superare la lettera programmatica dell’autore di Palomar e evitando quella
distanza tutta mentale dell’occhio di Calvino attento a rendere conto soprattutto
della “superficie inesauribile del mondo”. A questo proposito Del Giudice
scrive:
[…] non credo nella descrizione come forma di aderenza del mondo, ma credo nella
descrizione come forma narrativa, perché solo la descrizione mi permette di tenere
intrecciate una complessità di relazioni e di dar conto del fatto che tra osservatore e cosa
osservata c’è indistinguibilità e reversibilità
(Il tempo 85)
Rispetto alle prescrizioni calviniane bisogna poi aggiungere che Del
Giudice spinge più a fondo l’acceleratore della precisione, insistendo su una
prosa che fa del rigore descrittivo e soprattutto nomenclatorio, un valore
assoluto, e che diventa, in chiave di poetica personale, un esempio di quello che
lui definirà come “rispetto per le cose”. Un esempio esatto lo si trova in Atlante
occidentale, dove gli aerei parcheggiati in un hangar non sono solo generici
velivoli ma Piper, Caessna, SIAI Marchetti, Dornier, Lyncoming (Atlante 9). Più
avanti, gli oggetti d’uso in un laboratorio di fisica delle particelle non sono
generici “pezzi di ricambio” ma:
scaffali di ricambi per il vuoto spinto, con tubi isolanti, giunti in lega, giunti rotanti,
labirinti, sbarramenti gassosi, valvole di regolazione criogenetica per temperature
dell’elio liquido [...] magneti di focalizzazione e magneti di curvatura.
(Atlante 69)
Verso la fine del romanzo i fuochi d’artificio che esplodono sopra il lago di
Ginevra non assomigliano vagamente a sbuffi o pennacchi colorati ma sono:
fiori luminosi con lunghi stami rossi proiettati in cime ombrelliformi come gli eucalipti,
[...] fiori dal calice allungato che scoppiava in una corona doppia e tripla di sfumature
viola come la granadilla, fiori con grosso piumino di stami rabbuffati al centro della
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corolla giallo oro come l’iperico, fiori che esplodevano in terminali oblunghi lasciando
fuoriuscire petali filiformi bianchi e rossi e rosa e violacei come il papavero da oppio.
(Atlante 149-50)
In questi lunghi elenchi non ci troviamo mai di fronte a quel processo che Leo
Spitzer ha definito come enumeración caotica, tipico di scrittori come Borges o
Calvino e che ripropongono da una parte il problema dell’arbitrarietà di ogni
classificazione (si ricordi le pagine iniziali di Les mots et le choses di Michel
Foucault); dall’altra la dimensione straniante dell’accumulo descrittivo. Per Del
Giudice questa nomenclatura serve invece a riconoscere le cose in quanto tali,
ad averne un rispetto icastico e a potenziare il serbatoio di possibilità analogiche
e metaforiche della lingua letteraria allargandone la base espressiva,
metabolizzando un lessico rigoroso, attinto dal sovrabbondante (e solo
all’apparenza arido) patrimonio linguistico delle scienze esatte e delle tecniche. 1
In questa direzione si supera la dimensione prettamente descrittiva e si entra in
un territorio in cui gli oggetti si fanno portavoci di se stessi, dove parlano
attraverso la loro lucida superficie denotativa, che al lettore esperto darà il senso
della precisione e dell’aderenza mimetica al mondo delle cose e del lavoro, e al
lettore ingenuo un effetto certamente straniante, ma che non di meno restituisce
all’attenzione questi oggetti in maniera netta, assieme al loro mistero di cose
inusuali. In questo senso gli oggetti diventano strumenti epifanici: non della loro
transizione o trascrizione simbolica, ma nella loro esatta proprietà di essere
oggetti d’uso, un uso iper-specializzato, un uso tecnico, un uso carico di
conoscenza pregressa che può essere raggiunto solo attraverso un costante
esercizio pratico, un esercizio di “familiarità” che va al di là di qualsiasi teoresi
o espressione proposizionale.
Rispetto a questo regime di esattezza nomenclatoria e di competenza
tecnica, più che la mediazione di Calvino, ha esplicitamente agito quella di
Carlo Emilio Gadda, ingegnere-filosofo, materialista convinto, campione
dell’euforia e della precisione descrittiva, dell’hypotyposis, e poeta delle cose.
Meglio di altri Gadda aveva infatti già spiegato che gli oggetti non sono “pacchi
postali”, cioè “entità immobili, neutre, chiuse in se stesse”, ma sono “nuclei di
relazioni”: relazioni fra le cose e relazioni fra individui e cose (Scritti vari 689).
Il riferimento di Del Giudice va in particolare a un suo saggio programmatico
del 1929, Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche, dove Gadda
spiega come le tecniche abbiano “recato alla espressione contributi essenziali,
non soltanto con apporto di forme, di materiali già concreti” (Saggi, giornali
482). “L’elaborazione espressiva, nell’ambito proprio d’una tecnica determinata,
morde ‘in corpore veritatis’ — e cioè lavora sui fatti, gli atti, sulle cose, sulle
relazioni, sulla esperienza insomma […] e si aggruma in cognizioni ferme,
1 Per una esauriente analisi del linguaggio tecnico-scientifico nell’opera di Del Giudice si
veda Zublena (119-47).
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
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sistemate in una intelligenza, in una abilità, in una maestria, o almeno in una
pratica, in un’abitudine” (479). Anche Primo Levi — altro scrittore a cui Del
Giudice dedica una lettura attenta (Introduzione) — esprime posizioni analoghe
spiegando come i propri modelli letterari non si ispirino tanto a Petrarca o a
Goethe, ma al “rapportino di fine settimana, quello che si fa in fabbrica o in
laboratorio, e che deve essere chiaro e conciso, e concedere poco a quello che si
chiama il ‘bello scrivere’” (Levi, Conversazioni 40), cioè a qualsiasi affettazione
retorica o alla prosa d’arte. Sia Gadda che Levi imparano il mestiere di scrittore
attraverso il laboratorio, che fornisce loro “un inventario di materie prime, di
‘tessere’ per scrivere, un po’ più vasto di quello che possiede chi non ha una
formazione tecnica”, appunto perché nasce l’esigenza di “evitare il superfluo”, e
la necessità della “precisione”, della “concisione”, dell’abitudine all’obiettività,
e “a non lasciarsi ingannare facilmente dalle apparenze” (Levi-Regge 59).
Rispetto a queste indicazioni e a queste esperienze letterarie, stilistiche e
epistemiche, Del Giudice individua un comune denominatore in Joseph Conrad,
autore del lavoro e dell’abilità tecnica. In Conrad — per Calvino, come per Levi
o Gadda — si scorge quel “senso di una integrazione nel mondo conquistata
nella vita pratica, il senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, nella
morale implicita nel suo lavoro, l’ideale di saper essere all’altezza della
situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina” (Calvino, Saggi 815);
“Conrad è pure uno degli scrittori in cui più si dovrà riconoscere un’umanità che
vanti la propria unica nobiltà nel lavoro” (Calvino, Saggi 40). La tecnica e il
lavoro manuale diventano metodi di disciplina e di misura stilistica ed
espressiva, tanto stringenti nelle loro prescrizioni di poetica da definire anche
una sorta di canone letterario assolutamente incongruente e eccentrico rispetto
alle nozioni abituali di prosa. Nel saggio Gli oggetti, la letteratura, la memoria,
Del Giudice si chiede:
È mai esistita una letteratura delle cose? Sì, è esistita, sebbene nessuno storico oserebbe
mai inserirla in un profilo della narrazione otto-novecentesca […]. Nel secolo scorso e
nel nostro questa letteratura è stata fatta dai libretti di istruzione e di manuntenzione,
dalle “istruzioni per l’uso” che accompagnavano gli oggetti. I linguaggi tecnici, i
linguaggi speciali sono metafore del linguaggio più generale, e dunque potremmo dire
che [i] manuali erano anche dei piccoli libri di formazione: “raccontavano” che cosa
bisognava fare [...]. Ora non vorrei che venisse misconosciuto il carattere altamente
formativo dei libretti di istruzioni per l’uso, perché essi parlano del nostro rapporto con le
cose, parlano della vita, al punto che Pêrec ha potuto intitolare il suo più importante
romanzo La vita istruzioni per l’uso (ma potrei citare anche Conrad: che libro trova
Marlow in Cuore di tenebra risalendo il fiume Congo? Non la Bibbia né Shakespeare, ma
un libretto dal titolo Indagine su alcuni aspetti dell’arte marinaresca).
(100-01)
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È importante sottolineare come questi manuali non ci indichino solo una mera
dimensione stilistica, ma dischiudano anche un rapporto morale con il mondo:
Nei manuali c’erano i nomi della natura, i nomi delle cose, la descrizione del loro
funzionamento, ciò che bisognava fare [...]. Ogni manuale era per me un libro di galateo
applicato, un romanzo di formazione. Con ogni cosa nuova imparavo anche una nuova
nomenclatura, ed era come un’alfabetizzazione del corpo: i nomi corrispondono ai gesti, i
gesti ai sentimenti, i sentimenti a un atteggiamento.
(Atlante 68)
Ed è sempre Conrad che aveva legato l’attenzione all’oggetto e alla sua
descrizione esatta e precisa, con una dimensione squisitamente etica.
Particolarmente importante per Del Giudice è infatti un saggio minore dello
scrittore anglo-polacco, eloquentemente intitolato: Out of literature. In questo
saggio Conrad parla dei “Notices to Mariners”, cioè delle istruzioni che i
marinai devono seguire per potere entrare in porto senza pericolo, istituendo un
legame esatto fra precisione della scrittura, fedeltà all’oggetto e disposizione
etica alla responsabilità:
The Notices to Mariners are good prose but I think no critic would admit them into the
body of literature. […] In those compositions which are read as earnestly as anything that
ever came from printing press, all suggestions of Love, of Adventure, of Romance, of
Speculation, of all that decorates and ennobles life, except Responsibility, is barred.
(Out of literature, Last Essays 39-40)
Quasi-oggetti
Nel dibattito sociologico e filosofico degli ultimi anni, si è imposta una vulgata
— attraverso letture troppo ideologicamente precostituite e restrittive — che
vuole l’oggetto delle società occidentali ad un tempo merce, feticcio e segno,
secondo quell’asse di comprensione che parte da una rilettura di Marcel Mauss e
arriva a Jean Baudrillard e al suo Le Systéme des objects. L’oggetto in una
prospettiva postmoderna è stato ridotto alla sua monetizzazione all’interno di
rapporti istituiti dalla progressiva feticizzazione dell’immaginario, con una
deriva dello stesso a puro simbolo all’interno di un meccanismo permutativo di
sostituzione. L’oggetto-merce non ha valore in se stesso ma in quanto moneta di
scambio simbolico o in quanto oggetto di consumo, programmato dal capitale a
diventare obsoleto nel momento stesso della sua acquisizione, o nella migliore
delle ipotesi come feticcio, come schermo proiettivo del desiderio più o meno
sessualizzato.
Rispetto al destino del Novecento come secolo di oggettualità transitiva, derealizzata, di oggettualità sempre più virtuale e simbolica, Del Giudice si è
espresso esplicitamente a più riprese. In Gli oggetti, la letteratura e la memoria
egli sottolinea come le cose nella nostra contemporaneità stiano perdendo di
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
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spessore, di materialità; non siano più luoghi di memoria, diventando sempre più
oggetti d’uso e non più oggetti “lavorati”. Paradigmatici di questo processo nella
narrativa di Del Giudice non sono però gli oggetti del consumo o i feticci
dell’immaginario postmoderno, ma oggetti più elusivi e più radicalmente
instabili come quelli della fisica particellare. Pur non trascurando un discorso di
carattere più squisitamente teorico o sociologico, Del Giudice non adotta mai
posizioni à la Baudrillard sul “de-realizzarsi” del nostro rapporto con il mondo
reale, ma piuttosto intende sondare la radice della nuova instabilità ontica
proposta dalla nuova scienza contemporanea. Nella scelta, in Atlante
occidentale, di narrare la storia di un esperimento di fisica particellare Del
Giudice non può esimersi dal sussumere tutta una serie di implicazioni
epistemiche che questa materia si porta appresso: la nuova fisica delle
particelle, e la meccanica quantistica che la descrive, ridefiniscono non solo il
modo in cui adoperiamo e viviamo gli oggetti, ma il modo in cui li pensiamo.
Atlante occidentale ha al suo centro proprio l’interrogazione di questa
oggettualità: una oggettualità che ha una precarietà assoluta, che non assomiglia
a niente di quello che abbiamo conosciuto finora e che non risponde a nessuna
delle categorie ontologiche con cui abbiamo raccontato il mondo per migliaia di
anni. Lo statuto dell’oggetto scientifico è cambiato storicamente rispetto a
modificazioni delle modalità di pratica scientifiche che hanno presupposto un
atteggiamento prima proiettivo (fisica antica), poi oggettivo (fisica newtoniana)
e quindi interattivo o costruttivo (meccanica quantistica). La fisica subatomica e
la meccanica quantistica, che sono alla base della nostra capacità di descrivere
questa nuova realtà oggettuale, sono di fatto al di là del visibile e al di là anche
dell’immaginabile (se non attraverso matematiche e geometrie rigorose), e ci
costringono a riformulare tutte le nostre categorie di oggetto e di soggetto, di
presenza e di assenza, di permanenza e di stabilità.
Per dare un breve resoconto sui problemi ontologici pressuposti dalla
meccanisca quantistica, possiamo fare riferimento innanzitutto al famoso
principio di indeterminazione di Heisenberg, assolutamente paradigmatico per
definire alcuni spostamenti epistemici fondamentali del ventesimo secolo, e che
prescrive l’inseparabilità fra soggetto e oggetto, fra osservatore e osservato. Il
principio è descritto da una equazione (Dpx
x è il momento
e x è la posizione) che dipende da una costante, quella di Plank (h), che è una
costante universale irriducibile (Gibbins 10). Ovviamente non si tratta di mera
incapacità o imprecisione strumentale o osservativa. Secondo un’interpretazione
ontica del principio heisemberghiano, l’indeterminazione non è tanto de dicto,
cioè una indeterminazione conoscitiva, ma una indeterminazione de re, che
riguarda la cosa stessa (Gibbins 55). È intrinsecamente impossibile conoscere
allo stesso tempo il momento e la posizione di una particella. Non esiste una
completa rappresentazione degli oggetti della microfisica.
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A questo proposito bisogna premettere che più che a posizioni speculative
di stampo squisitamente filosofico, la meditazione narrativa di Del Giudice a
riguardo si basa soprattutto — come del resto è giusto attendersi da uno scrittore
— sull’apporto che la scienza può recare ad un nuovo o diverso modo di
descrivere la realtà, e sulla sentita necessità di accrescere il contatto fra le due
culture, nella comune esigenza di ritrarre la complessità del mondo: “Allo
scrittore” — spiega Del Giudice — “interessa se una nuova idea possa produrre
o meno un mutamento o un arricchimento nella percezione concreta del mondo e
delle cose”:
il reale influsso che la scienza ha sulla letteratura ha luogo quando una conoscenza
scientifica diventa percezione, si trasforma in rappresentazione mitopoietica del mondo.
Tante volte invece la letteratura si limita a ‘usare’ una conoscenza scientifica
trasferendola pari pari nella propria descrizione, senza trasformarla realmente in un
nuovo modo di vedere e quindi di rappresentare le cose.2
Ecco allora che le posizioni epistemologiche di reversibilità e
interscambiabilità heisenberghiana fra oggetto e soggetto, fra osservatore e
osservato, non vengono semplicemente tematizzate o presentate
didascalicamente da Del Giudice, ma inserite nel tessuto narrativo del romanzo
con semplici operazioni di ribaltamento prospettico. In Atlante occidentale, ad
esempio, Del Giudice cerca di descrivere le posizioni reciproche e le distanze fra
le persone attraverso la luce, assieme al punto di vista della luce o descrivendo
un decollo di un aereo dal punto di vista dell’aria:
L’aereo si mosse in avanti. […] da quel momento l’aria non fu più la stessa: cercò l’elica,
cercò l’aereo, aderì alle ali e alla fusoliera e ai piani di coda formando un velo immobile.
(Atlante 113)
Questa “reversibilità continua del punto di vista” non significa però “dubbio,
non significa incertezza, non significa pluralismo”, come il principio di
Heisenberg è stato troppo spesso inteso dalla vulgata umanistica; invece
“significa rendere l’interrelazione operante nella complessità” (Il tempo 87).
La nuova fisica delle particelle ci porta inoltre all’interno del significato
profondo di possibilità e di probabilità. Ogni particella è descritta da una
funzione d’onda che indica l’ampiezza di probabilità della particella stessa. Il
quadrato della funzione d’onda dà la densità di probabilità di trovare una data
particella in una certa regione di spazio. L’oggetto è solo probabilmente lì, mai
2 Intervento di Daniele Del Giudice, Verbale n. 10 del Seminario del Settore “Linguaggi
Letterari e Linguaggi Scientifici” del Laboratorio Interdisciplinare per le Scienze Naturali
ed Umanistiche, ISAS-SISSA (International School for Advanced Studies) di Trieste e
dedicato al tema “Scienza e Letteratura”, 28-29 maggio 1991.
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
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esattamente in quel luogo. Concordemente Del Giudice fa riferimento ad una
componente probabilistica della scrittura che vuole definirsi metaforicamente
attraverso la probabilità intrinseca di queste nuove cose e di questi nuovi oggetti:
anche il linguaggio, secondo l’autore romano, dovrebbe essere usato “in una
dimensione di probabilità, e con un certo stupore, lo stupore che il linguaggio e
le storie aggancino ogni volta probabilmente e forse anche misteriosamente, ciò
che chiamiamo la ‘realtà’” (Conversazione 194). La mimesi per tanto non si
definisce attraverso un’aderenza immediata e incondizionata alla realtà, ma
secondo una scommessa, un tentativo, spesso fallibile, di portare faticosamente
alla luce un mondo. Tutte queste particelle sono infatti fisicamente delle
potenzialità, delle possibilità, che vengono attualizzate solo attraverso
l’interazione. Esistono in quanto l’uomo si cura di cercarle e di portarle alla
luce. Come osserva Max Waryosky: “We’re dealing with a world fundamentally
characterizable, physically, as a set of […] potentialities […] waiting to be
actualized by interactions” (211-12). Gli oggetti della fisica particellare sono
quasi-oggetti, per dirla con Serres e Latour: sono, allo stesso momento, eventi
naturali e culturali; sono fenomeni rappresentabili solo come interazione fra
soggetto osservante e oggetto osservato. Sono metà oggetto e metà soggetto, non
potendo essere definiti da nessuna di queste due polarità.
In questa trasposizione metaforico-mimetica della meccanica quantistica nel
dettato letterario, le posizioni della nuova fisica possono avere anche un impatto
sulla sintassi, nella fattispecie, come scrive ancora Manacorda, piegata per
tentare di “esprimere quel concetto mutevole e quasi inafferrabile del tempo che
è [...] uno dei motivi centrali del romanzo [...]. [Atlante occidentale] tende infatti
a rendere dall’interno stesso delle sue strutture linguistiche l’entrata in crisi delle
categorie spazio-temporali e introduce per questo un’articolazione dei tempi
grammaticali che di continuo rimette in discussione i valori oggettivi e i loro
rapporti” (L’atlante). Le particelle elementari create negli acceleratori non
hanno infatti un presente. Agiscono nel futuro come campo di possibilità
potenziali e nel passato prossimo. Non li governa il remoto, non sono narrativi,
sono accaduti già prima di accadere. Il loro “avvenire” è il registrato. Abitano un
tempo che fluttua in avanti e recede all’indietro ma di pochissimo. Un passato
prossimo e un futuro anteriore. Il presente è piuttosto il tempo del nucleo
massiccio e materiale: il protone che decade con tempi cosmici, se decade. È il
segno della gravità e della pesantezza, mentre il resto è luce leggera che stria la
camera a bolle del rilevatore di particelle, è l’infinitesima probabilità dell’evento
che accade, la leggera fluttuazione dell’energia in una forma composta,
l’apparizione del fantasma di una materia quasi terribile per le energie messe in
gioco e che si addensa per un tempo infinitesimo, lasciando solo un ricordo
labilissimo, computerizzato, già organizzato nei cache di memoria del
calcolatore.
12
Pierpaolo Antonello
Per rendere questa temporalità così instabile Del Giudice propone un uso
particolare del passato prossimo che corre lungo il romanzo. Un passato
prossimo definito anch’esso come segno della probabilità (Borsari, Il volo 9).
Brahe avrebbe allargato le braccia ma pensò che qualsiasi cenno più ampio di un saluto
potesse turbare Epstein. Senza smettere di camminare Epstein ha indossato la giacca […]
ha detto: “Debbo offrirle qualcosa”.
Bevevano succo di lampone nel bar della hall, (...). Sopra lo specchio del bar un orologio
[...] segnala le nove e un quarto. “È tardi per lei?” ha domandato Epstein.
(Atlante 15)
Salì all’ultimo piano, posò i libri sul tavolo [...]. Più tardi leggeva uno dei due romanzi.
(Atlante 92)
“No. Però potevi fare prima”, ha detto Brahe alzandosi e sistemandosi dietro.
Scendono verso la città nuova […].
(Atlante 106; corsivi miei)
Ci troviamo di fronte ad un elusivo passaggio da passati remoti a imperfetti, da
presenti a passati prossimi con un’irruzione nel testo di tempi commentativi, che
producono, come dice Harald Weinrich, “l’attenzione dell’ascoltatore
sull’eventuale problema di una relazione fra tempo testuale e tempo reale” (79).
Sembra qui di fatto metabolizzata quell’indicazione fatta da Elio Vittorini
all’inizio degli anni ’60, per cui “la trasposizione letteraria della nuova fisica, la
nuova biologia, la nuova psicologia ecc.” deve avvenire soprattutto “nel sistema
delle relazioni, nella novità di descrizione, di dialogo ecc. dal punto di vista
tecnico ch’essa mette in opera” (12). E Del Giudice si presenta come un esempio
persuasivo di come la scienza ci costringa a riconsiderare le nostre categorie e a
adeguare i nostri strumenti rappresentativi ad esse.
Tecnica, cosa?
Nell’esplorazione della nuova oggettualità contemporanea, Del Giudice si
sofferma a più riprese sugli oggetti tecnologici, su tutte quelle cose che in senso
generico potremmo definire come macchine. La scelta di raccontare la storia di
un fisico sperimentale e non teorico in Atlante occidentale non è casuale. Per
l’autore romano non si dà scienza senza quella parte che lui chiama “tecnologiascienza in atto”: “[…] a me interessa l’interfaccia tra la scienza e la tecnologia,
per questo ho scelto come protagonista un fisico sperimentale e non un teorico”
(Raccontare oggetti). Concordemente Pietro Brahe, uno dei protagonisti di
Atlante occidentale, viene costantemente rappresentato attraverso le macchine
che usa: il LEP, il poderoso acceleratore di 27 chilometri di diametro,
l’aeroplano che lo fa incontrare con Epstein, la sua Fiat 131 blu con cui va
spesso a fargli visita (e che a distanza di vent’anni risulta come un tocco di
resistenza “affettivo-archeologica” nel ritmo dell’obsolescenza degli oggetti
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
13
meccanici). Rispetto a altre esperienze letterarie di approccio al mondo
tecnologico, non si trova in Del Giudice nessuna estasi o esaltazione
modernolatrica (Futurismo), né alcun rifiuto ideologico o preconcettuale (da
Carducci a Buzzati, dalla Morante a Volponi): è un approccio conoscitivo e
sentimentale rispetto ad un mondo affollato di una oggettualità straripante che ci
influenza nel profondo, chiamandoci a una presa di coscienza di una nuova
complessità del reale: “L’impiego di questi oggetti, l’abitare in questa
tecnologia, in questa percezione ci richiederebbero come sempre, una strepitosa
maturità d’animo” (Gli oggetti 98).
Per Del Giudice la tecnologia è inoltre lo strumento che ha permesso
all’uomo di realizzare i suoi miti. Se la contemporaneità, riprendendo il Barthes
di Mythologies, si presenta come un’epoca di mitografizzazione degli oggetti,
bisogna considerarne anche il movimento contrario. In Staccando l’ombra da
terra, Del Giudice ribalta infatti i termini della proposizione parlando del
Novecento come di un secolo di realizzazione di miti:
Io, […], appartenevo al secolo della traduzione in cose, il secolo più realistico che mai si
sia visto, un secolo che solidificava le fantasie in oggetti (e più tardi, superando se stesso,
sarebbe diventato il secolo della sparizione delle cose, sostituite dalla loro immagine). Per
ogni mito inevaso dalla storia, per ogni sogno o semplice narrazione fantastica, prima o
poi si riusciva a costruire l’oggetto che ad essi corrispondeva perfettamente, l’oggetto
fisico capace di realizzarsi sul serio.
(Staccando 27)
Negli oggetti tecnici si vede compiersi un tragitto inventivo dell’umanità,
figure dell’hybris, che dalla fantasia prometeica arrivano a comporsi in cose e
meccanismi concreti e disponibili. Secolarizzando il mito attraverso la macchina
l’uomo istituisce inoltre un rapporto imitativo con la natura, dispiegando una
teratologia oggettificata: nella macchina vi è infatti nascosto, annidato l’animale.
Le macchine, come dice Del Giudice, “conservano qualche cosa del nostro
rapporto con il mondo animale […] conservano qualche cosa del mito tutto
prosaicizzato, qualche cosa del nostro mitico rapporto con il mondo”; “[…]
com’è che le macchine si chiamano Topolino, Jaguar?” (Il volo 15). Ecco perché
il bambino non si confonde mai di fronte a una macchina, non la respinge, non
la considera un mostro, ma la accoglie, perché capisce che nel congegno è insito
un motivo di gioco, di divertimento, di invenzione e intuisce in essa una
struttura germana, un modello da imitare. Per questo Del Giudice ricorda una
sua fantasia infantile: “Da grande avrei fatto l’aeroplano più grande, un
quadrielica, crescendo in copertura alare e cavalli vapore” (Staccando 13).
Questa idea della tecnica si pone evidentemente in netto contrasto con gran
parte della filosofia novecentesca, alquanto critica nei confronti dello sviluppo
tecnologico-industriale. Filosofi come Heidegger, Jünger, Arendt e in Italia
Vattimo, Severino o Galimberti, hanno visto la tecnica come nichilismo, fine
14
Pierpaolo Antonello
della metafisica o come dominio. A parte qualche rara eccezione, non c’è stata
nel contesto italiano una corrente filosofica o delle voci intellettuali che abbiano
tentato di definire una disposizione non oppositiva nei confronti della tecnica,
lasciando paradossalmente alla ricerca letteraria questo compito, quasi
costringendola a diventare vero e proprio momento di esemplificazione
filosofica. In Del Giudice — ma già prima in scrittori-tecnici come Primo Levi,
Gadda o Leonardo Sinisgalli —, la tecnica si dissocia dall’idea di tecnologia
come “sovrastruttura automatizzata”, o come strumento d’alienazione,
recuperando il suo significato etimologico di arte (techné), di procedura
costruttiva con fini conoscitivi, estetici e etico-pratici.3 Come ha scritto
Nicoletta Pireddu a proposito:
Techné returns through a concrete relationship with matter that is regulated by the law of
exactness but that is simultaneously a making as a form of creative labor, therefore
founded upon aesthetic principles, and delimiting not simply the locus of the human but
an arena for the survival or the resurrection of the inhuman, beyond the response to
otherness and the answerability for otherness as obsessive proximity, and towards the
proximity of the other as sympathy, sharing, symmetry.
(212)
La cura degli oggetti
Mentre la scoperta del puro paesaggio naturale, nella separazione netta di
matrice sei-settecentesca fra soggetto e oggetto, tipica della fisica newtoniana e
del cartesianesimo, presupporrebbe una teologia, un’estasi; il paesaggio
artificiale presuppone invece sempre un’antropologia e una prassi. Se lo
sguardo panoramico, generalizzante, di certa filosofia non riesce a cogliere il
dettaglio di tutte le trasformazioni istituite dalla complessità del panorama
oggettuale moderno e postmoderno, nella pagina di Del Giudice gli oggetti
vengono invece avvicinati, assecondati, studiati e rispettati, mai allontanati, mai
ridotti a puro simulacro, ma investiti di “una partecipazione, una passione, una
cura” (Gli oggetti 102):
Molto presto — disse Epstein — mi sono reso conto che avevo un’altra passione oltre
alle persone, ed erano gli oggetti. Ero capace di sentire come è fatta una cosa, ero capace
di percepire la sua forma in un modo diverso da ciò che normalmente si intende per
percepire […]. Mi sembrava che ogni oggetto avesse una sua vita; non solo quella della
materia, lavorata in forma, la sua vita era il pensiero che c’era dietro e il comportamento
in cui si prolungava. Qualcuno disegnava l’inclinazione di una sedia ed era come se ti
aggiustasse le spalle e le braccia, come se ti dicesse: “Siediti così”.
(Atlante 66-67)
3 Una più esaustiva discussione di questa posizione si trova nel mio Il ménage a quattro.
Scienza, filosofia, tecnica nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier,
2005.
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
15
L’antropologo Remo Guidieri, nel volume L’esperienza delle cose, ricorda come
l’oggetto sia “un vincolo che crea vincoli. Lo è come instrumentum, cioè come
medium tertium tra bisogni e fini […]. Ma lo è anche in quanto diventa esso
stesso bisogno. È anzi perché esiste un bisogno di vincolo e un bisogno di
sfruttare il vincolo creato dall’oggetto stesso che l’oggetto è creato o prescelto:
che diventa oggetto necessario per instaurare vincoli” (184-85). Allo stesso
modo in Del Giudice gli oggetti costruiscono vincoli strumentali e vincoli con e
fra gli uomini; ma non tanto in senso disforico, dove l’uomo si scopre succube
della pletora merceologica o tecnologica del mondo, ma come possibilità di
relazionamento con l’altro, con il pensiero e il lavoro dell’altro. Gli oggetti sono
strumenti e occasioni di pensiero che diventano forme di strutturazione del
comportamento, nonché strumenti di solidarietà tacita. Qualsiasi indifferenza
verso l’oggetto è una indifferenza verso l’uomo, verso la mano e il pensiero che
ha creato e posto in essere quell’oggetto che ci viene ora reso disponibile,
donato. In Atlante occidentale, ad esempio, nel descrivere l’ordine “artificiale”
di un giardino, pieno di regole di potatura, innaffiatura, orientamento,
esposizione alla luce o all’ombra, o all’umidità, Del Giudice fa dire al suo
protagonista: “[…] è abbastanza mortificante usufruire di qualcosa, anche
soltanto di un rilassamento, senza sentire bene il pensiero che c’è dietro”
(Atlante 33). L’oggetto racchiude tutta una storia dello sforzo umano, una storia
di intelligenza e passione. E nel riconoscimento di questa disposizione si
dischiude un’etica del rispetto e della cura.
Vi è inoltre una relazione dinamica fra oggettualità e comportamenti umani,
dove il dialogo di confronto e adattamento scorre nelle due direzioni. Gillo
Dorfles, in Nuovi riti nuovi miti, cita il lavoro di G. W. Hewes in cui si parla
dell’importanza delle posture e “alla necessità di tenere conto nella
progettazione di oggetti della nostra civiltà tecnologica, delle Habitudes
corporelles. Le posture […] e le abitudini motorie ad esse relazionate, sono
intimamente legate con molti aspetti della vita quotidiana: incidono sul design
dei vestiti, delle scarpe, dell’ammobiliamento, dei veicoli, utensili e macchine”
(73). Noi modifichiamo gli oggetti perché corrispondano meglio al nostro corpo
e ai nostri gesti, e allo stesso tempo questi oggetti entrano in relazione con la
nostra corporalità, modificando la nostra visione del mondo, i nostri
comportamenti e il nostro rapporto dinamico con la realtà e con le nostre abilità
percettivo-motorie.
L’oggetto come testimone
In un suo famoso saggio, Heidegger ricorda che la cosa è etimologicamente,
nelle lingue germaniche, mediazione, “il riunirsi”, gathering fra gli uomini
(116). Thing in inglese ha originariamente proprio il senso di riunione, di
assemblea (Oxford English Dictionary), dall’olandese medievale, dinc, con il
16
Pierpaolo Antonello
significato ancora di “corte, assemblea”, allo stesso modo in cui cosa deriva dal
latino causa, nel senso di azione legale e giudiziale. Le cose uniscono e sono
oggetto di disputa, in un perfetto “doppio vincolo” alla Bateson, o come
dimensione propria dell’acquisizione mimetica, come previsto dall’ipotesi del
principio di ominizzazione proposta da René Girard. Nel descrivere un
laboratorio di fisica sperimentale, Del Giudice mette in evidenza proprio questo
ruolo dell’oggetto scientifico come strumento di assemblea, di negoziazione, di
riunione, associato a quella collegialità di intenzioni che spesso manca alla
cultura umanistica: il radunarsi attorno a degli oggetti concreti, definiti, per
trovarne conoscenza e attraverso questa conoscenza sperimentare il vincolo
associativo che questi impongono. In particolar modo, sono proprio i quasioggetti, come definiti da Michel Serres, che attraversano e costruiscono i gruppi
sociali, mediando e trasformando le identità personali e collettive e le relazioni
all’interno dei network, permettendo così di passare dall’ottusità dell’io alla
fluidità del noi (Parasite 225-27).4
Un esempio preciso è dato in Atlante occidentale, quando un gruppo di
fisici di varie nazionalità e lingue si riuniscono davanti a uno schermo di
computer, per osservare i risultati numerici di un rivelatore che ha registrato il
passaggio istantaneo della particella, il “candidato”, per cui l’intero esperimento
è stato costruito. Ed è l’oggetto che garantisce questa traducibilità e
comprensione reciproca:
Mark si è girato, ha detto piano: “Allora, cosa vi pare?”
“Qui apre bene. Però chiude subito” ha detto Rüdinger.
“Ma sale da questa parte, vedi?”
“Sì però fa un rigonfio, — ha detto Rüdinger, guardando con la coda dell’occhio Brahe.
— E tu Pietro?
“È qui che è troppo basso. E poi qui è troppo corto”, ha detto Brahe indicando le cifre.
Guardò Mark, che lo guardava col braccio attorno allo schienale […], e guardò Rüdinger
[…] che aspettava una risposta, e smise di pensare ai numeri, sicuro ormai che non ci
fosse niente da vedere, e si chiese invece se avrebbe ricordato tutto questo; pensò a come
fossero diversi tra loro eppure uniti dalla circostanza, e gli sembrò che questa amicizia e
solidarietà potesse essere spesa soltanto qui, istante per istante, e non pensata altrove.
(Atlante 87)
L’uso di un linguaggio assolutamente colloquiale per parlare di oggetti
inimmaginabili mette l’accento proprio su questa complicità di base, sorretta da
un intento comune, e da una conoscenza condivisa, posta in essere non da
alleanze o appartenze di carattere personale, tribale, ma da competenze,
capacità, epistemologia e linguaggi tecnici. Non è casuale che Atlante
4 Oltre a Le Parasite di Serres e Conversation on Science, Culture and Time di Serres e
Latour, si può vedere anche di Latour, Science in Action e Do scientific Objects Have a
History?.
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
17
occidentale sia la storia di una amicizia: l’amicizia fra uno scrittore e un fisico,
che si incontrano e vengono convocati dagli oggetti che usano (gli areoplani, le
automobili, il LEP). È ancora Michel Serres che sostiene che la filosofia del
sospetto e il veleno della rivalità e della violenza nascono quando le comunità
vengono private degli oggetti e quindi di un reality check, quando si chiudono
nella cieca tautologia delle relazioni: “[c]ommunities deprived of objects, either
by their own wish or by the cruelty of others, give themselves over to the delight
of policing, of the political jail. The sciences that have no objects know only the
methods of the detective or the policemen; they are a part of myth” (Panoptic
30-31).
Se quindi Lorraine Danston sottolinea il fatto che nel discorso teorico
contemporaneo c’è una “enduring ambivalence of idols and evidence that still
surrounds things that talk” (13), dove l’accento viene spesso posto sulla
dimensione mistificante degli oggetti, sulla “malleability of interpretation” e su
“the mutability of things in recontextualization” (17), la traiettoria poetica e
epistemica individuata da Del Giudice sembra invece spostare il peso delle cose,
degli oggetti, dal lato dell’evidence, della prova tangibile, dell’elemento di
confronto, vera e propria “pietra di paragone.”
Questo diventa particolarmente evidente soprattutto nel racconto più
toccante, più lacerante di questa poetica degli oggetti individuata da Del
Giudice, laddove lo scrittore raggiunge il punto massimo della sua tensione etica
e epistemologica: Unreported inbound Palermo. Si tratta di un racconto sulla
tragedia di Ustica, sul DC-9 Itavia inabissatosi con ottantotto persone a bordo
nel mare di Ustica il 28 giugno 1980 (Staccando 97-104). Un racconto scritto
tutto tra parentesi, quasi in segno di rispetto per quell’evento che ancora oggi, a
distanza di venticinque anni, non trova dei responsabili né una narrativa
storicamente condivisa. Anche in questo caso, come nell’episodio già citato di
Atlante occidentale, la narrazione non viene condotta dal punto di vista dei piloti
o dei passeggeri, ma dal punto di vista dell’aereo: si racconta innanzitutto il
dramma dell’aereo, la sua storia, la maniera in cui è stato ridotto a pezzi, e poi
recuperato dal fondo del Tirreno e assemblato in un hangar come un grottesco e
tragico mosaico, come un grosso animale preistorico.
Ma che storia può raccontare un amasso di rottami? Che cosa può dirci il
relitto di un oggetto meccanico? In realtà l’aereo sa benissimo cosa è successo
quella sera del 28 giugno 1980 sopra i cieli di Ustica. Perché lui lì c’era. Ed è
l’unico testimone sopravvissuto. E come tale può essere interrogato, attraverso il
suo linguaggio particolare: il linguaggio materiale delle tracce e delle spie che
radunano una storia di eventi, un percorso narrativo che ci parla della storia di
questi oggetti:
Ogni piccolo particolare era una deduzione, gli strumenti di bordo come i tappetini e la
moquette, tranciata di netto all’altezza della quarta fila di sedili. Che ne sanno gli oggetti
18
Pierpaolo Antonello
delle trame e delle azioni? Che ne sanno dei mandanti e degli esecutori, gli oggetti sono
lì. Sarebbe la storia dell’aereo, perché l’aereo conosce la sua storia, quanti la conoscono
al mondo?, in mancanza di parole sarebbe una storia di cose, storia di metallo offendente
e metallo offeso, la fusoliera sa che cosa ha prodotto una frantumazione diseguale poco
prima della coda, la pinna sinistra dello stabilizzatore di coda sa che cosa gli ha aperto un
taglio a croce sul fondo […] ogni pezzo di metallo e plastica o tessuto sa quale altro
oggetto, quale scheggia, e di che cosa, l’ha ridotto così.
(Staccando 99-100)
Pian piano “l’aereo cominciava a farsi leggere come un testo frammentario, ogni
pezzo si offriva al racconto di una possibilità dell’accaduto” (Staccando 101).
L’oggetto dice poche cose ma forse sono le sole cose a cui si possa veramente
credere. E il ritorno all’ostinata stolidità dell’oggetto ci potrà forse salvare dalle
mistificazioni dell’opinione e della politica, dalle troppe parole spese a riguardo:
“Plus il y a de politique, moins il y a d’object”, ricorda Michel Serres
(Hominiscence 310). Meno ci accorgiamo dell’oggetto, meno ce ne prendiamo
cura, e più ci consegniamo all’ideologia e a ogni possibile mistificazione. Nel
suo Quaderno dei Tigi — diario di preparazione dello spettacolo teatrale nello
spettacolo I-Tigi. Canto per Ustica, scritto assieme all’attore Marco Paolini —
Del Giudice concordemente scrive: “Ustica è una storia tecnologica, ad alta
tecnologia”; “gli elementi di questa storia non sono di esperienza comune né di
comune conoscenza. Il linguaggio, le parole che normalmente ci aiutano a
rappresentare, sono qui un ostacolo, e come ostacolo e ritardo alla comprensione
sono state usate nei vent’anni che ci separano da quella sera” (Quaderni 8).
L’oggetto è quindi il compagno più leale in questo attraversamento
dell’esperienza testimoniale, perché si affida a una razionalità che risponde a
quel paradigma indiziario esplicitato da Carlo Ginzburg in Miti, emblemi, spie.
Sono le prove circostanziali, l’oggettualità fedele a se stessa, innavvertita ma
cocciutamente stabile, che garantiscono un margine di “verità” maggiore di
qualsiasi opinione o giudizio, maggiore persino di una prova testimoniale
diretta.5 Del resto, uno dei sogni più drammatici di Levi ad Auschwitz era
quello di tornare a casa e di non essere creduto.
Su quelle tracce lasciate dai decoder, sulle “impronte numeriche dei nastri e
tracciati radar,” sui frammenti di metallo recuperati dal fondo del mare, il
giudice Rosario Priore ha ricostruito giudizialmente — in 5000 pagine redatte in
un italiano che Del Giudice invita a prendere a modello di prosa — quello che è
accaduto un quarto di secolo fa; come gli eventi si sono svolti e come Del
5 “In science, as in the courts, circumstantial evidence is not an inferior substitute for the
evidence of eyes and ears: it is the very foundation of knowledge” (Hocart 11). “There is
a popular, but natural, delusion that direct evidence is necessarily better than
circumstantial, in fact that it is the only satisfactory kind of evidence. [...] Direct evidence
not only fails to explain; it may even suggest the wrong explanation; because it tells us
only a fraction of the facts, while seeming to tell all” (22).
La narrativa di Daniele Del Giudice fra descrizione e testimonianza
19
Giudice e Paolini hanno scelto di narrarli. “Ogni frase, ogni elemento del
racconto dev’essere fondato, solo così avrà la sua efficacia. Più illazioni, più
errori o imprecisioni faremo, più debole sarà il nostro racconto. […] Più ci
smarriremo e faremo confusione nei termini tecnici, per l’indispensabile che
dovremo usarli, più risulteremo inattendibili” (Quaderni 9-10). Ovvero: più
racconteremo di oggetti e più ci accosteremo alla verità.
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