COTTURRI

annuncio pubblicitario
Giuseppe Cotturri
Cittadinanza attiva e sussidiarietà circolare
Cittadinanza attiva e sussidiarietà sono fenomeni e principi nuovi, che soprattutto
negli ultimi quindici-venti anni hanno modificato profondamente il sistema politico e
la pubblica amministrazione nel nostro paese. Si è anzi modificato più nel profondo –
ed è tempo di darne ragione - il modo stesso in cui si può produrre e orientare quel
che chiamiamo sfera pubblica. Attraverso un processo molto complesso e, direi,
anche confuso - privo di guide politiche o culturali significative e affidabili - si sono
delineate tuttavia talune modalità di relazioni positive, di concorso “virtuoso” tra
cittadini e istituzioni: sussidiarietà reciproca, e in questo senso circolare appunto, tra
pubblico e privato. Tali fenomeni e principi nuovi, peraltro, sono comparsi dopo una
lunga stagione di conflittualità acuta, crisi di fiducia, sprechi intollerabili e tuttavia
quotidiani, acerbe spinte antiistituzionali e contrapposizioni talvolta violente e
eversive, nonché illusori intenti di “normalizzazione” elitaria tramite un rilancio
dell’autorità dei partiti. Si manifesta dunque il segno di un apprendimento diffuso e
dal basso rispetto a tutto ciò: possiamo dire che è in formazione una controtendenza
consapevole a quei mali e a quelle dissipazioni di capitale umano e sociale, sospinta
da un ripudio della restrizione partitocratica della politica, dissipazione e mali che per
decenni hanno contrastato la crescita collettiva, e una democrazia compiuta.
Il segno positivo, che sto sottolineando, non è tuttavia frutto di un percorso lineare,
ma piuttosto di un cammino alquanto accidentato. A maggior ragione se ne deve
apprezzare la valenza. Vi hanno contribuito molte forze, alcune dislocate tra le classi
dirigenti tradizionali. Altre egualmente rilevanti sono cresciute all’interno degli
apparati di pubblica amministrazione. E infine ci sono quelle, direi decisive, diffuse
tra le persone comuni, i “cittadini attivi” appunto. I movimenti sviluppati da questi
ultimi sono divenuti anzi punto di riferimento delle culture riformatrici e sostegno
delle migliori pratiche di governo. Al punto che la democrazia “partecipativa” –
segnata appunto dalla presenza di cittadinanza attiva - è invocata anche per il rilancio
di istituzioni classiche della rappresentanza politica, come le assemblee parlamentari.
E’ un’idea di questo tipo, credo, quella che assegna a questa relazione il compito di
aprire i lavori. Ne sono molto onorato, ringrazio il presidente Tippolotti per
l’occasione e spero di corrispondere alle aspettative.
Non è scontato che la nuova stagione, che si prefigura, dispieghi con successo le sue
potenzialità. Ma il disegno alternativo ha una sua forza, tanto da essere entrato nel

Relazione al convegno “I Parlamenti regionali come luoghi della democrazia. Le esperienze di edemocracy” promosso dal Consiglio Regionale dell’Umbria, con il patrocinio del Formez, a
Perugia il 27-28 novembre 2008
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dettato costituzionale, con la revisione del Titolo V nel 2001: nell’art.118, quarto
comma, infatti è esplicitamente riconosciuta la capacità dei cittadini comuni – anche
singoli! - di realizzare con autonoma iniziativa attività idonee a soddisfare l’interesse
generale, e di conseguenza è imposto alle istituzioni di ogni livello, dallo Stato ai
Comuni, di favorire tali interventi. Quello fu il punto di arrivo di vicende
trasformative che avevano segnato tutti gli anni Novanta. Le diverse trasformazioni
non traevano origine da un compiuto disegno – che tuttavia in qualche momento si
manifestò con una qualche coerenza - ma soprattutto derivavano da un metodo di
approssimazione “per prova ed errore” alle questioni più critiche da parte di politici
assai indeboliti, nel pieno di quell’uragano che spazzò via la prima Repubblica. E
tuttavia, come cercherò di mostrare, alcune linee si sono composte, al di là di
contraddizioni che pure permangono, e hanno configurato un sistema allargato di
governo, che integra più livelli di responsabilità e attori di diversa natura, istituzionali
e sociali. La novità di questa creazione sta nell’inverare un tipo di democrazia mista,
rappresentativa e partecipativa insieme. Da tale combinazione deriva anche quel
carattere propulsivo, che si cerca di indicare con l’ espressione “circolarità del
reciproco sostegno” tra attori istituzionali e attori sociali. La sperimentazione di
questo modulo può consentire il superamento di una democrazia soltanto di partiti.
Già all’inizio degli anni Novanta due importanti leggi avevano inteso avviare una
riforma della pubblica amministrazione: la 142/1990 per il decentramento alle
autonomie locali e la 241 dello stesso anno, sul procedimento amministrativo e i
nuovi diritti dei cittadini. Ne conseguì una stagione di elaborazione di nuovi statuti
comunali e provinciali – che però risultarono ripetitivi e poco aperti a vere
innovazioni. Non fu quella stagione a portare cambiamenti sostanziali nelle
amministrazioni locali, quanto la introduzione della elezione diretta di sindaci e
presidenti di giunte provinciali e regionali, primo effetto delle spinte di riforma dei
sistemi elettorali che potenti ondate referendarie riversavano sul sistema dei partiti (in
particolare per sindaci e presidenti di province si tratta della legge 81/1993 e per i
presidenti di giunte regionali della legge 43/1995 detta “Tatarellum”). Sorretti dal
voto diretto, gli esecutivi locali e regionali si rafforzarono e, di riflesso, le
rappresentanze consiliari, tanto di maggioranza che di opposizione, apparvero
indebolite. Entrarono “in sofferenza” i rapporti interni alle stesse coalizioni di
maggioranza e più in generale le assemblee, come istituzioni della rappresentanza,
cominciarono a interrogarsi sul proprio ruolo. Contestualmente, il rafforzamento di
leadership territoriali così legittimate completava quel processo di spostamento del
baricentro del potere dalle direzioni politiche nazionali dei partiti alle forze più
radicate nel territorio, avviato con la costituzione delle regioni e con le politiche di
decentramento nei decenni precedenti. L’intera costruzione istituzionale della
rappresentanza politica (partiti, assemblee parlamentari) appariva dunque scossa: alle
pressioni esterne si cercava di corrispondere con un moto di rinnovamento
dall’interno, che postulava si rimettesse il governo su altre basi di potere.
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La concentrazione su leadership personali corrispondeva del resto alla trasformazione
profonda della politica dovuta alla potenza crescente dei mezzi di comunicazione di
massa nell’era della televisione. La televisione infatti ha indotto un processo di
riduzione della politica alle esigenze della comunicazione quotidiana per immagini.
Spettacolarizzazione e personalizzazione hanno marginalizzato figure, riti, procedure
collettive e sedi decisionali non adatte a queste esigenze della visibilità. Il tornante è
negli anni Ottanta: è avvenuto allora perfino un ribaltamento nei rapporti tra uomini
della rappresentanza e uomini della rappresentazione. Prima, e fino a quel passaggio,
i politici pretendevano di infeudare la sfera dei secondi. Ma i detentori di potere
televisivo, per la forza del mezzo, incombevano ormai sempre più direttamente sullo
spazio politico: il fenomeno non è solo italiano, ma in Italia negli anni Novanta esso
ha avuto particolare irruenza a seguito delle condizioni di monopolio e poi
“duopolio” garantito per legge, che hanno connotato la storia della emittenza
televisiva (Menduni).
Cito quest’ordine di trasformazioni per segnalare che, nel ridimensionamento dei
ruoli di rappresentanza politica e di governo, hanno avuto peso anche quelle più
profonde trasformazioni culturali e antropologiche, portate dalla modernizzazione
telematica. L’universo di cittadini-elettori, che per la cultura politico-democratica
tradizionale è (ancora) popolo sovrano, di fatto con la televisione commerciale vive
la condizione e le emozioni di una platea dell’intrattenimento, audience conquistata e
fidelizzata da un immaginario privatistico. Quello che ai tempi dei partiti di massa e
dei movimenti sociali contestativi era, complessivamente, un universo variamente
partecipante, con la predominanza del modello commerciale di TV appare in
maggioranza consumismo di massa guidato da una “emittenza sovrana”: passività
sociale organizzata molecolarmente, allo stesso tempo consenziente ed eterodiretta. I
dati multiscopo dell’Istat ad es. mostrano che, dal 1993 al 2001, solo il 22,5 % di
italiani ha vissuto episodiche occasioni di “socializzazione politico-culturale”
(sommando tutto, tra partiti, sindacati, volontariato, associazioni culturali,
ambientaliste ecc.: La Valle). Tutti gli altri sono individui atomizzati, chiusi ciascuno
nella sua casa, davanti a un televisore, misurabili per share, variazioni di ascolto
nell’audience televisiva.
In questo contesto, l’idea che l’esercizio individuale di voto potesse essere il perno di
un cambiamento di sistema – come sembravano credere nei tumultuosi primi anni
Novanta i promotori dei referendum sui sistemi elettorali – era quanto meno
incongrua e disarmata. Chi parlava della necessità di nuovi contrappesi, dalla parte
dei cittadini, era vox clamans in deserto (Giovanni Moro). Nella costruzione del
movimento referendario prese il sopravvento piuttosto una “mitologia” e una nuova
retorica politica (potere immediato dei cittadini, restituzione dello scettro al principe
popolare, riduzione quasi miracolosa da un pluralismo partitico frammentato al
modello bipartitico, ecc.). Mentre s’avviava di fatto tutt’altra storia: una strenua lotta
di sopravvivenza di un ceto partitico, già allargato oltre misura, ma premuto ormai da
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nuovi “imprenditori politici” tra Leghe territoriali e “discesa in campo” del padrone
di Fininvest.
E’ l’insieme di tutti questi fattori, l’insieme cioè di condizioni pesanti e per molti
aspetti negative nella esperienza politico-istituzionale di fine secolo, che spiega come
certe concessioni alla cosiddetta “società civile”, fatte nel pieno della crisi della
politica in quel decennio e ancora dopo, siano state figlie di una debolezza del
sistema rappresentativo, piuttosto che frutto di un vasto e lungimirante disegno
riformatore. Penso alla serie di leggi di promozione e sostegno del volontariato e
dell’associazionismo: la legge 266/1991 sul volontariato, la 381 dello stesso anno
sulla cooperazione sociale, il decreto 460/1997 sulle Onlus (cosiddetta legge
Zamagni); poi la legge sulle associazioni di promozione sociale 383/2000; poi tutte le
leggi regionali derivate, i vari tentativi di riforma del titolo relativo alle associazioni e
fondazioni nel codice civile, o la raccolta in un Testo Unico, e da ultimo la legge
sull’impresa sociale (118/2005 e successivo decreto 155/2006). Queste leggi non
procedevano da una visione generale di riforma, anche perché i soggetti collettivi
destinatari hanno teso piuttosto a conquiste separate di leggi di favore. Un limite
“corporativo” di questo approccio alla lunga si è rivelato: l’insieme di quello che poi
è stato chiamato Terzo Settore – né Stato né mercato - non è cresciuto come
componente di sistema, capace di rimodulare spazi e poteri delle due componenti
primarie.
Il Terzo Settore, rinchiuso in un meccanismo di riconoscimento “a canne d’organo”,
non comunicanti tra loro – che esso stesso ha concorso a formare – resta paralizzato
da contrasti velati (o ammessi con imbarazzo) per l’accesso a risorse essenziali per la
sopravvivenza di ciascuna figura associativa. La ricchezza di valori e intenti, invece
di costituire valore aggiunto per l’espansione di questa modalità di partecipazione
sociale, alimenta conflitti identitari che riducono le potenzialità comuni,
e
configurano come “nicchia” i rispettivi ambiti di intervento e spazi di influenza. La
legislazione “promozionale”, quando la politica ha superato la fase di maggior
debolezza, si è così rovesciata in un marchingegno di controllo burocratico
nell’accesso dei soggetti sociali a risorse pubbliche (iscrizione in registri, concessione
di contributi, stipula di convenzioni ecc.), non di rado tornando a moduli clientelari.
E’ deludente constatare che soprattutto le grandi associazioni, riunite in un cartello
rappresentativo (Forum del Terzo Settore, dal ’94), pur rendendosi conto delle
contraddizioni e delle difficoltà, non riescano ancora a trovare l’intesa e le idee per
spezzare questo involucro e riprendersi la loro autonomia e capacità di progettazione
sociale.
Le tendenze di volontariato e associazionismo al ripiegamento sulle proprie
contraddizioni interne, tuttavia, in qualche momento sono state corrette dall’impatto
di due linee di riforma, connesse alla difficile costruzione europea. Da un lato
dobbiamo riferirci al grande sforzo di configurazione, con la Unione europea, di un
sistema di governo multilivello, risultante da un inedito intreccio tra poteri
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sovranazionali, statali e substatuali: l’Europa per intervenire ha bisogno anche di
oltrepassare gli apparati statalnazionali e i poteri accentrati. In assenza di Regioni già
istituite – ad esempio in Grecia e in Portogallo - la Comunità europea identificò
ugualmente aree territoriali limitate e comitati di forze economico-sociali di
riferimento per espletare il proprio intervento. E’ in questo percorso che l’idea
sussidiaria, intesa come intervento dall’alto per sostenere lo sviluppo di chi ha meno
capacità o risorse, ha trovato una prima ragione di affermazione: questo avvenne col
Trattato di Maastricht, nel 1992. Dall’altro lato, nel contesto di questa costruzione
istituzionale complessa, si deve aver chiaro che c’è stata una linea di mobilitazione di
forze e risorse sociali aggiuntive per la difesa dei sistemi di welfare, che la
esposizione globale e i vincoli di bilancio assunti nell’Unione avevano messo in
condizioni di stress o addirittura restrizione. In questa prospettiva gli apporti del
Terzo settore, certo liberi e autonomi, sono stati messi in conto, si è cioè fatto
affidamento anche su di essi per tracciare un quadro di interventi integrati, che nel
nuovo millennio gli studiosi più attenti hanno chiamato welfare mix (Ascoli, Ranci).
In questa prospettiva si parla acutamente di sussidiarizzazione delle politiche sociali
europee, nel duplice senso appunto che sono chiamate a intervenire tanto le istituzioni
di livello superiore che le forze sociali direttamente (Kazepov).
Si sono mosse in sintonia con queste tendenze le riforme, che nella seconda metà
degli anni Novanta, e fino all’inizio del nuovo millennio, in Italia hanno provato a
rilanciare il decentramento e riformare la pubblica amministrazione. Le leggi
Bassanini, a partire dalla 59/1997 (poi la 127/1997, 191/1998 e 50/1999), hanno
messo al centro il nodo della efficacia e efficienza della amministrazione, facendo
perno su una cultura della valutazione dei risultati, destinata a spostare
progressivamente forze interne agli apparati dalle prassi di controllo rituale degli atti
secondo criteri di legittimità formale, al controllo dei risultati delle prestazioni
secondo una responsabilità e una mentalità di tipo imprenditivo. Rivoluzione
culturale difficile, ma innescata con decisione e che ancora muove parti importanti
della amministrazione: non esito a affermare che si è formata nell’ultimo decennio
una nuova élite amministrativa, parte necessaria nella composizione di classi di
governo adeguate alla complessità contemporanea, che altri paesi hanno e che in
Italia appunto si sta formando appena ora.
Si devono ricordare poi due leggi legate alla ministra Turco: la legge 285/1997 prima
(progetti e interventi sociali, coordinati dalle istituzioni del territorio, per le aree ove i
minori sono maggiormente a rischio), e poi la legge 328/2000 per un sistema
nazionale integrato di assistenza. Queste leggi hanno puntato al recupero di risorse
finanziarie e politiche europee, disegnando un concreto modello di cooperazione
istituzionale di tipo federalista, con una decisa apertura alla “sussidiarietà sociale”
(nella L.59 di Bassanini ce n’era una prima formulazione limitata alle famiglie). Così
è stato di fatto anticipato e preparato uno sviluppo costituzionale, che poi è
intervenuto come s’è detto con la revisione del 2001.
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Concorrente con questi indirizzi, e rilevante per la concreta formulazione del
principio sussidiario nella revisione, fu l’iniziativa in quegli stessi anni di un piccolo
cartello di associazioni, che aveva preso il nome di “Parte Civile”, il quale riuscì a
comporre un fronte unitario e guidò una delegazione del Forum del Terzo settore,
allorché fu possibile intervenire per tentare una riforma della seconda parte della
Costituzione. Il Terzo Settore propose alla Commissione parlamentare bicamerale
incaricata di questo, nel 1997-8, una formulazione di largo respiro del principio di
sussidiarietà orizzontale (intervento dei cittadini sullo stesso piano delle istituzioni),
che affiancandoci all’intervento dall’alto di istituzioni di livello superiore
(sussidiarietà verticale), coerente col disegno di un nuovo federalismo, prefigurava
quel modello di relazioni circolari, di cui s’è detto. La proposta allora non fu raccolta,
mentre la stessa Bicamerale falliva peraltro il suo obiettivo. Ma poi nella revisione
del 2001 la proposta fu ripresa quasi alla lettera (ho ricostruito questa vicenda poco
tempo fa: Cotturri 2007).
La revisione del Titolo V aveva alla base tre ordini di motivazioni politiche: la crisi
dei partiti, che appariva spia della crisi del principio stesso di rappresentanza politica;
la pressione secessionista- devolutiva di poteri dal governo centrale, esercitata dalla
Lega Nord; la decisa strategia dell’Unione europea di dare aiuto alle regioni più “in
ritardo” nei rispettivi stati, per contribuire allo sviluppo dell’intera Unione. Il
disegno tracciato nel nuovo Titolo V aveva però macchinosità e lacune, che resero
problematica l’attuazione. Ma soprattutto forti furono le contraddizioni politiche e
sociali, incidenti su ciascun tipo di obiettivo e motivazione, così che presto si giunse
all’arresto del processo. Della tortuosa strada con cui i partiti hanno cercato di
attenuare la propria situazione critica abbiamo detto: ci furono cedimenti di potere,
ma poi è subentrato un tentativo di restaurazione partitocratica dalle molte facce.
Circa gli altri aspetti di contrasto con l’intento della revisione, è noto che la
coalizione di centrodestra, vittoriosa quello stesso anno alle elezioni politiche, ne
sospese l’attuazione, lavorando a un proprio e diverso disegno di riforma della
costituzione. Il referendum del 2006 ha però bocciato la riforma decisa da questa
coalizione. Infine c’è stata una contraddizione su cui pochi si soffermano: il
Mezzogiorno d’Italia, che nel periodo 1996-2001 aveva manifestato forte spinta di
ripresa - riuscendo per la prima volta in una storia secolare a crescere relativamente
più in fretta del Nord (Viesti) - in tutti gli anni Duemila non ha potuto trarre alcun
vantaggio dai fondi integrativi europei. Perché quei fondi, che dovevano essere
aggiuntivi a quel che lo stato doveva destinare comunque al recupero del ritardo del
Sud, per tacita convergenza di entrambe le coalizioni succedutesi al governo sono
stati invece in larga parte sostitutivi di quote del bilancio nazionale, altrimenti
destinate a grandi opere (Berlusconi, ponte sullo Stretto) o al risanamento di bilancio
(Prodi).
Siamo così ora in una situazione che appare “sospesa”, in bilico tra passato e futuro e
come in attesa di una qualche fortunosa scossa che rimetta in moto il processo.
Esistono spinte, ma il blocco determinato dai fatti, per ragioni diverse, ne scarica la
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forza e ne riduce il valore trainante. Ad esempio, le élite amministrative, di cui ho
sottolineato l’importanza, segnalano in modo pressoché unanime che il dispiegarsi
della capacità progettuale nelle regioni in applicazione della 328 è contrastato da
carenze nella valutazione delle politiche, e da attriti e sfiducia tra apparati di
amministrazione e personale politico elettivo (Maretti). In entrambe le direzioni
gioverebbe la presenza di un soggetto terzo, attraverso l’empowerment della
cittadinanza attiva: sul piano del controllo e valutazione cinque regioni hanno
accettato di sperimentare il metodo dell’audit civico, ma per ogni ulteriore intervento
della cittadinanza forti permangono le resistenze.
Altra spinta che è stata frenata: il Servizio Civile Nazionale, ridotto
considerevolmente da quest’anno per una politica di tagli indiscriminati di bilancio. Il
SCN, dalla sua istituzione nel 2001, ha consentito l’impegno volontario di centinaia
di migliaia di giovani, all’interno di progetti presentati da associazioni e
corrispondenti a finalità di sviluppo civile, piuttosto che non conformi a doveri di
difesa armata della patria. Da tempo sostengo la necessità di riforma della legge
istitutiva, per collocare il SCN nel quadro della sussidiarietà: è evidente infatti che
l’intera esperienza appare ora una straordinaria attuazione da parte dello stato della
politica della sussidiarietà cui è tenuto dall’art.118.4 (Cotturri 2002 e poi 2008). Nel
2006 e 2007 i giovani erano giunti a essere 45mila l’anno, in prevalenza meridionali
(55%: vedi UNSC): dalla ripartizione preferenziale dei giovani volontari tra i diversi
progetti è possibile peraltro ricavare indicazioni di indirizzo di governo, ma i tagli
appunto prescindono da tutto ciò.
Se passiamo ora a considerare quale sia il terreno su cui si attestano le più forti
resistenze a dare spazio alla cittadinanza attiva, dobbiamo partire da una distinzione.
L’intervento autonomo dei cittadini infatti può riguardare il processo decisionale ma
anche quello propriamente attuativo di politiche pubbliche: nel secondo caso anzi il
protagonismo civico è più stringente ed efficace, perché la eventuale qualità di certo
agire sociale (quando attuativo di interessi generali) indirizza e trascina l’intervento
delle istituzioni. A me sembra che è soprattutto questo più forte vincolo – e cioè il
senso più originale e profondo della sussidiarietà – che viene eluso. Importanti leggi
ed esperienze regionali, che stanno articolando la partecipazione dei cittadini –
esemplare la legge n.69 approvata dal Consiglio della Regione Toscana nel dicembre
2007 - si riferiscono infatti solo alla partecipazione al processo decisionale.
Certamente così si toccano aspetti molto rilevanti, ma in questa prospettiva
l’intervento civico resta ancora delimitato alla sfera per dir così “retorica” della
politica, a quella definizione dei bisogni e delle “domande”, per la cui effettiva
soddisfazione ci si dovrebbe rimettere poi a una autorità esecutiva separata e sovrana.
Al contrario, lo “sfondamento” che il principio di sussidiarietà orizzontale ha attuato
riguarda anche la sfera della sovranità amministrativa (Arena 2006). La norma del
118.4 infatti non evoca soggetti collettivi da favorire per un dialogo (e in questo
senso fuoriesce dall’ottica corporativa che ha segnato l’orizzonte della legislazione
ordinaria di favore), ma richiama alla concreta e diretta attività dei cittadini, se e
quando realizza interessi generali, imponendo ai governi un fascio di obblighi
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correlativi (per ora poco esplorati, ma comunque sinteticamente racchiusi
nell’obbligo di favorire).
Si deve ammettere che esperienze di questo tipo sono ancora poco diffuse e
eccezionali: il movimento Cittadinanzattiva, ad es., nel 2003 ha promosso una
campagna di realizzazione di pedane per facilitare l’accesso a edifici pubblici di
portatori di handicap, obesi, anziani, mamme con carrozzine ecc.; e poi dal terremoto
in Molise realizza una campagna nazionale per la sicurezza nelle scuole, addestrando
studenti e insegnanti a fronteggiare emergenze di vario tipo. La maggior parte delle
esperienze ascritte al principio di sussidiarietà, invece, non va molto oltre l’intervento
nelle fasi di progettazione o monitoraggio delle politiche pubbliche. Gli attivi del
Terzo Settore cioè, quando escono dalle attività di nicchia cui dedicano le loro cure,
in genere mostrano timidezza: si attestano su moduli tradizionali di intervento
politico (proporre, rivendicare, protestare), limitandosi al dire, mentre il
riconoscimento costituzionale di autonomia consentirebbe un fare ben altrimenti
incidente. Diverse sono le influenze culturali che concorrono a trattenere sulla soglia
della vecchia politica il nuovo principio: da un lato il retaggio della cultura
partecipazionista degli anni Settanta (democrazia discutidora), dall’altro più recenti
suggestioni dell’esperienza di bilancio partecipativo di Porto Alegre. Poi un rilancio
della concezione anglosassone di democrazia deliberativa, che dà grande rilevanza al
pubblico dibattito che deve precedere le decisioni responsabili delle istituzioni
rappresentative (Ginzborg). Infine pesa specificamente la concezione neoliberista,
che intende il principio di sussidiarietà come mera limitazione all’intervento dello
stato, quando il privato può fare da sé. Tutte queste posizioni fraintendono e
misconoscono il “valore aggiunto” della sussidiarietà circolare, come noi la
intendiamo, che consiste nella possibilità di dar corso a una inedita collaborazione per
realizzare quanto né lo stato da solo, né i cittadini da soli possono fare
(Montebugnoli). La esperienza storica delle limitate capacità e risorse satisfattive di
diritti e bisogni sociali, da parte di apparati burocratici pubblici, sospinge infatti a
concepire e sperimentare forme di amministrazione condivisa (Arena 1997). Tuttavia
questa è ancora in gran parte solo indicazione per il futuro. Il quadro tracciato però,
con questa sua più ambiziosa tensione innovativa, deve essere tenuto presente anche
per orientarsi in quei dilemmi e quelle obiezioni che tuttora frenano l’espansione
democratica, anche quando l’esperienza si attesta solo su quella parte del problema
che riguarda la partecipazione al processo decisionale.
Fino al 2006 con l’esperienza di “Cantieri” del Dipartimento della Funzione Pubblica
si è riflettuto su processi decisionali inclusivi, depositando un compendio di ideeregolative su quando far intervenire la partecipazione (“il prima possibile”), in quali
occasioni (“solo quando necessario”), da parte di chi (“chi patisce effetti dalle
decisioni”) ecc.. Temo che in questo approccio una preoccupazione restrittiva si lasci
sfuggire il segno propulsivo della materia. Non è infatti alla partecipazione come
processo collettivo di crescita – quindi come valore per se stessa – che si pensa. Ma al
processo decisionale appunto, che si ritiene possa essere migliorato con limitate
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aperture agli “interessi lesi” e purchè non ne derivino eccessivi ritardi e intoppi.
L’interesse di razionalizzazione istituzionale dunque prevale sull’interesse allo
sviluppo democratico e sociale. Il discorso che ho premesso invece indica che la
posta della “scommessa sulla sussidiarietà” è nella qualità sociale complessiva che è
possibile attingere: la norma costituzionale rimette al centro gli interessi generali, i
“beni comuni”, come criterio di legittimazione di un agire sociale che deve
raccogliere il favore dei governi e, in definitiva, ne vincola l’indirizzo. Quindi la
ricerca e le azioni a questo dirette acquistano rilevanza strategica: il nodo cruciale di
ogni discorso sta nei processi cognitivi e comunicativi (Priulla) attraverso cui un tale
cambiamento dello “spirito pubblico” e della convivenza reale può essere
determinato. Stiamo parlando di processi culturali e morali, necessari a una diversa
espansione della politica come attività socialmente diffusa, e non più separata e
delegata. Attestarsi pregiudizialmente su posizioni restrittive dell’esperienza, in
questo caso, è già un rifiuto di quella che ho chiamato una scommessa. Ma è bene
ricordare che, se di scommessa si tratta, è una scommessa scritta in Costituzione.
Naturalmente non sono da sottovalutare le difficoltà pratiche e teoriche della
trasformazione delineata e attesa. Ma le affronteremo meglio, se sgombriamo il
campo da un equivoco ricorrente all’inizio di ogni discorso sulla partecipazione.
Molti, ma soprattutto i governanti investiti del problema, pongono domande del tipo:
che legittimazione hanno i cittadini più attivi, i quali peraltro notoriamente sono
sempre minoranze? Chi rappresentano o, che è lo stesso, come riconoscere
rappresentatività alle loro posizioni? Coloro, che pongono in questi termini la
questione, senza rendersene conto invero cercano giustificazioni per operare (o
rifiutarsi a) quella che loro pare una “cessione di sovranità” dalle istituzioni
rappresentative a gruppi ristretti di attivi. Si richiede così – e la cosa è evidentemente
incongrua - che la cittadinanza attiva riposi su un titolo di legittimità omologo a
quello delle istituzioni: un potere di rappresentanza o, ma si tratta già di attenuazione
arbitraria, una qualche vaga “rappresentatività sociale”. Nella migliore delle ipotesi è
come se si accettasse una “supplenza” o una integrazione occasionale e eccezionale
della rappresentanza, in ragione della riconosciuta crisi delle istituzioni. Ma è un
errore ragionare così.
La responsabilità di chi è eletto con processo democratico universale non è
rinunciabile, né tollera supplenze. Bisogna lavorare a un recupero di credibilità delle
istituzioni e questo richiede che se ne verifichi costantemente la responsabilità, non
che si consenta ad abdicazioni. La partecipazione non è supplenza e/o sostituzione
degli organi responsabili. E’ affiancamento, per funzioni e capacità altre e distinte,
che i comuni cittadini hanno e che utilmente si congiungono alle funzioni e capacità
già possedute dalle istituzioni, le quali palesemente non bastano in società ormai
molto complesse. I cittadini attivi sono e restano comuni cittadini, si presentano per
se stessi, non hanno rappresentanza di altri. E tuttavia, se l’azione posta in essere
realizza un interesse generale, quella azione – non gli attori concreti – gode del
favore pubblico. C’è insomma una indicazione pratica ai governi: acquisire e
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preservare gli effetti di azioni utili alla comunità, ancorché prodotte da autonome
iniziative di minoranze. Consolidare i risultati, non premiare gli intenti. Che come tali
non rilevano. E quanto alla legittimazione, le azioni realizzative di beni comuni
traggono legittimazione direttamente dalla Costituzione. Naturalmente occorre
passare per una interpretazione condivisa e, in caso di opinioni contrapposte tra gli
attori civici e l’autorità di governo, sarà necessario fare ricorso al giudice. Qui si
coglie la ragione di una convergenza possibile tra una magistratura democratica,
interprete autonoma e progressiva della costituzione, e movimenti dei cittadini. Senza
approfondire oltre, è sufficiente aver chiarito che la sussidiarietà dei cittadini riposa
sull’accordo fondamentale della convivenza, contenuto in quei documenti solenni che
ricomprendono maggioranza e minoranze e per questo vincolano le occasionali
maggioranze di governo. I cittadini attivi, quindi, non in quanto minoranza assistita
da un inspiegabile privilegio di azione, ma in quanto attuatori della Costituzione si
pongono accanto alle istituzioni, che hanno non diverso compito ma di fatto
arrancano (o deragliano, sotto il peso di potenti interessi di parte) e quindi non
possono che giovarsi di apporti liberi e autonomi orientati allo stesso fine.
Spostare tutto il discorso dalla logica dei soggetti e quindi del controllo di essi
(intenti, legittimazione, costituzione e ordinamento interno) alla logica dei fatti e dei
risultati (valutazione di impatto, efficacia, benessere diffuso) aiuta a concentrarsi
precipuamente sulle politiche pubbliche, e cioè sulla pratica reale di governo
(AICCON, Bertinoro). E’ una cultura politica realista e di governo che viene
promossa e diffusa. Diventano allora centrali i saperi, centrale l’informazione: hanno
bisogno di saperi non solo le istituzioni, ma l’opinione pubblica, che per formarsi
deve avere garanzia che circoli un massimo di informazioni, che ne sia preclusa la
manipolazione, che chiunque possa sollevare interrogativi e chiedere ulteriori
approfondimenti. Da questo punto di vista le esperienze di e-democracy, che ci
accingiamo a conoscere meglio, non sono solo esempio di trasparenza e apertura nei
processi decisionali: sono un modo in cui la istituzione stessa migliora i propri
processi di apprendimento e quindi la propria capacità di intervento. L’esistenza di
una domanda esterna di apertura e migliore informazione non deve quindi essere
intesa e vissuta come ritiro di fiducia e riduzione di potere delegato: non è la
delegittimazione delle istituzioni, che ne consegue, ma se mai il contrario. La
presenza di richieste indilazionabili di questo tipo, infatti, è la precondizione di un
recupero di qualità e competenze anche interne alle istituzioni: se il capitale umano in
un dato ambiente è infatti complessivamente accresciuto, il capitale sociale – cioè
l’intelligenza collettiva a disposizione dei problemi comuni – è per ciò stesso
aumentato.
Significativo, a questo punto, è che la cura di investimenti in questa direzione sia
presa dalle assemblee regionali. Perché a fronte della concentrazione e
personalizzazione del potere, intervenute negli ultimi due decenni del secolo scorso e
che ho descritto, le istituzioni della rappresentanza e del controllo politico possono
ritrovare ruolo e funzionalità attestandosi sul terreno strategico della produzione di
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nuovo capitale umano e sociale. Una parte di questo intervento richiede risorse
rilevanti e molta cura nel costruire banche dati, sistemi informativi, reti di dialogo, e
offrire tutto questo per la crescita di cittadinanza attiva informata, competente,
matura: partner necessario di un altro modo di governo. L’altro aspetto di una tale
strategia di riqualificazione delle istituzioni richiede che cambino le forme della
organizzazione politica: e questo necessariamente avverrà, se la politica non si riduce
a estrazione della delega ma riesce a essere pratica socialmente diffusa di
partecipazione concreta alle politiche di governo. Di riflesso, in un tempo non certo
breve, ma di necessità, il peso e il costo degli apparati pubblici della rappresentanza
potrà essere ridotto e, con la riduzione delle spinte inflative del potere indotte da un
ceto politico ipertrofico, anche il tema della maggiore qualificazione e selezione dei
governanti potrà riproporsi con concretezza.
Questo versante del discorso, che da anni viene evocato con la formula “riforma della
politica”, naturalmente sta fuori da un convegno come il nostro, che ha scelto di
occuparsi delle esperienze di e-democracy: ma è strettamente connesso e di fatto
implicato. Ho voluto sottolinearlo, perché credo e spero che il dialogo che oggi
avviamo avrà ragioni, argomenti e appuntamenti non occasionali, legandoci in un
impegno comune di non breve respiro.
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