Trascrizione convegno - Associazione culturale "Amici del Caffè

Trieste - Teatro Miela - Piazza Duca degli Abruzzi, 3
Raffaele Viviani: la sua presenza a Trieste ed il Teatro regionale
Venerdì, 4 maggio, ore 20
Tavola Rotonda con
 Silvana Monti, preside della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Trieste e docente di
Storia del teatro.
 Achille Mango, preside della Facoltà di magistero di Salerno e docente di Storia dello
spettacolo
 Alberto Farassino, docente di Storia del cinema, Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di
Trieste
(Mancano le trascrizioni dell’intervento della prof. Monti e del prof Farassino- Gli altri interventi
trascritti non sono stati visionati dai relatori)
Giovanni Esposito – Indirizzo di saluto
Autorità, Signore e Signori, benvenuti e buonasera.
Quarant’anni fa, nel mese di marzo del 1950, moriva Raffaele VIVIANI, autore teatrale, poeta, e
grandissimo attore.
Questo convegno vuole ricordarlo. L 'idea, nata dall’Associazione Amici del Caffè Gambrinus, un
nuovo sodalizio formato da campani e Triestini, è stata sposata dal1'Università degli studi di Trieste,
facoltà di Lettere e Filosofia, in modo particolare dalla prof.ssa Monti e dal prof. Farassino che, con la
loro adesione, hanno dato prestigio alla manifestazione.
Perché Caffè Gambrinus, anzi Gambrinùs avrebbe pronunciato Viviani, in quanto i napoletani hanno un
vezzo: dicono Gambrinùs invece di Gambrinus e Piazza Càvour al posto di Piazza Cavoùr.
Quando l’Associazione era sola un’intenzione, fui incaricato di trovare un nome al sodalizio. Ho
pensato al Caffè Gambrins e l’idea è stata subito condivisa da tutti. Dovendoci assegnare un nome ho
cercato di coniugare l'origine territoriale e culturale di molti di noi con la tradizione della terra che ci
ospita.
Parlare di Caffè è indicare una civile tradizione di questa città. Ci porta subito alla mente il Caffè
Tommaseo ed il Caffè S.Marco. Gambrinus, inoltre, è il mitico re nordico della birra, una bevanda
tipicamente mitteleuropea. Gambrinus è, nello stesso tempo, un caffè storico napoletano, uno dei luoghi
dove si dava convegno la cultura napoletana, insieme a1 sa1otto di Croce ed al Mattino di Scarfoglio.
Viviani vivo, nessuno di questi tre luoghi, probabilmente frequentò. Oggi, in nome del Gambrinus, qui
a Trieste è ricordato e onorato.
Come prima manifestazione di rilievo, il nostro sodalizio, ha proposto Raffaele Viviani e la sua
presenza a Trieste. Invito chi non l’avesse ancora fatto, a visitare, nell’intervallo, la bella mostra
allestita dal Dr. Dugulin, direttore del Museo del Teatro di Trieste, con l’esposizione di locandine,
rassegna stampa e documenti curiosi dell’epoca quali ad esempio il registro degli incassi.
La visione del Film, dopo gli interventi dei relatori, La tavola dei poveri, l’unico che ci resta
interpretato da Viviani per la regia di Alessandro Blasetti, non ha difficoltà di comprensione perché in
italiano, il che dimostra, qualora ce ne sia bisogno, che l'opera di Viviani ha una sua ragione poetica,
indipendentemente dal dialetto napo1etano.
Per agevolare la comprensione dello spettacolo di domani sera, saranno distribuiti i testi con un
glossario dialettale.
Mi sia consentito, ora, di fare una considerazione. Quando si parla di bosco si pensa ad una macchia
verde ad un insieme d’alberi. Se dovessimo avvicinarci man mano, con una lente d’ingrandimento
scopriremmo fili d'erba, formichine ed altri dettagli. Allo stesso modo Amici del Caffè Gambrinus è una
dizione generica, dietro vi sono uomini e donne che operano.
So di andare contro la loro naturale ritrosia, ma desidero ricordare chi si è adoperato per la
realizzazione di questo progetto. Il dott. Coassin, con la sua importante presidenza; Il dott. Severino
che, da giornalista, ha consentito quei contatti indispensabili in questi casi; Il Dott. Volpe che ha speso
molte energie per far venire, per lo spettacolo di domani, il Centro Attività Teatrale di Castel1ammare
di Stabia, paese d'origine di Viviani; Il dott. Fredella che forse ha assolto il compito ingrato di far
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quadrare il bilancio economico. E qui vanno ringraziati gli Enti Pubblici e privati che ci hanno aiutato.
E poi il dott. Cioffi, il prof. Alfè, le signore Tracanzan e Coassin, Rino Del1a Marra e tutti gli altri che
hanno apportato uti1i suggerimenti.
Ho voluto citare nomi e persone non per evidenziare personalismi e presenzialismi, che finirebbero per
esseri sterili se fini a se stessi, ma per mettere in luce che il volontariato, in questo caso volontariato
culturale, quanto è libero, disinteressato e motivato può essere un utile raccordo tra i compiti delle
istituzioni, in questo caso l'Università, e le attese di una società civile.
Termino. In un momento in cui imperversano le varie lighe e leghe gli amici del Caffè Gambrinus
hanno un programma diverso, vale a dire quello della reciproca conoscenza degli aspetti culturali e
delle tradizioni tra le genti de1 sud e di questa Regione.
Al prof. Mango, dell'Università di Salerno, che saluto e ringrazio, un invito: ci metta alla prova, come
ha fatto la professoressa Monti. Desidereremmo portare nel Sud qualche aspetto culturale di Trieste per
far partecipi gli amici che sono laggiù dell'amore immenso che nutriamo per questa regione, per questa
città.
Achille Mango: Raffaele Viviani uno e due
II mio primo incontro con Raffaele Viviani avviene tanti anni fa, diciamo agli inizi degli anni trenta.
Spettatore accanito di film e di rappresentazioni teatrali, vedo in un piccolo cinema di Viterbo La
tavola dei poveri, giusto il film che verrà, proiettato qui, in questi giorni. Il mio secondo incontro si
verifica parecchi anni più avanti, presso a poco a metà. degli anni cinquanta, sulle pagine della non
sempre corretta ma utilissima edizione della ILTE, curata da Vito Pandolfi. Utilissima, dicevo, e oggi
abbondantemente superata da quella filologicamente più attendibile, alla quale sta dando vita l'editore
napoletano Guida ed è curata da un illustre italianista, geloso custode anche di cose teatrali: Guido
Davico Bonino. Il terzo incontro qualche tempo più avanti ancora, per la coraggiosa iniziativa di quel
teatrante Istintivo che era Nino Taranto, ma soprattutto per le raffinate operazioni condotte da Achille
Millo e dalla compianta Marina Pagano, autori e interpreti di quei singolari collages di poesie e
canzoni, le cui abitudini si sono un po' perse oggi, ma anni addietro si portavano molto, sulla scorta
della moda lanciata dai cabaretisti e fatta propria da Strehler e Milva, per quanto riguarda il mondo
tedesco, in particolar modo Brecht. Il quarto incontro a metà degli anni sessanta, quando Peppino
Patroni Griffi, artista ben conosciuto nell'ambie te triestino, mette in scena Toledo di notte,, un montaggio
molto sofisticato di due commedie del repertorio più popolare di Viviani: Caffè di notte e giorno e
Musica di ciechi. L'ultimo incontro, in ordine di tempo, quello che si sta verificando qui, e fa seguito a
un breve convegno napoletano di qualche anno addietro, a una messa in scena di Guappo di cartone da
parte di Maurizio Scaparro, alla delibazione dei primi quattro dei cinque volumi previsti per l'edizione
Davico Boniino, e che ha fra i protagonisti, curatrice della parte filologica, la cara Antonia Lezza. Cara
la chiamo, perché una delle perle giovani della mia Facoltà salernitana. Non sono pochi, questi
incontri, con un autore ohe ha avuto una doppia sfortuna nella sua carriera di scrittore, teatrante, attore:
di non essere riuscito gradito al regime fascista, e di essersi imbattuto con concorrenze più popolari e,
quindi, di successo, giusta o non giusta che la considerazione sia.
Ma l'impressione che ho ricavato da questi impatti, portatori di aperture su orizzonti critici nuovi, è di
una assoluta genialità dal punto di vista drammaturgico e delle ipotesi di resa scenica dei testi, da un
lato, da un altro di intervento, programmatico o non che sia, sulle questioni vitali del teatro, a
cominciare dalla funzione assegnabile alla struttura teatra le e ai motivi formali dì cui essa si serve.
Tanto che mi viene comodo Riferirmi a uno scritto del 1913 di Hermann Broch, in cui si sostiene, con
una legittimità che io sottoscrivo a piene mani, che "(...) le valutazioni etiche e le valutazioni estetiche
sono rigorosamente coordinate.", per aggiungere poco più avanti che "(...) è anche lecito, dato che la
storia universale è un giudizio universale, risalire dai residui esteti ci della storia agli atti etici i quali
appunto riescono a conservarsi per l'eternità soltanto in ciò che ai loro soprav vive esteticamente." (il
male nel sistema di valori dell'arte, in Il Kitsch, trad. it., Einaudi, Torino 1990, p.125). Intendosi do con
questo affermare, affermare io naturalmente, che nell 1 opera poetica e teatrale di Viviani le
componenti di carattere estetico -e poetico, aggiungo io, in quanto rimandano a u na vera e propria
ideologia dell'arte- sopravvivono perché ci restituiscono un mondo morale perfettamente individuato e
con figurato, e tradotto, come non può non avvenire nelle epoche dei grandi turbamenti politici e
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ideologici, nelle professio ni non solo rifiutate, addirittura censurate.
Ma che hanno a che vedere i torinesi ILTE e Davico Sonino, il non napoletano Vito Pandolfi, vale a
dire coloro che, nel tempo lontano e nel tempo recente, si sono occupati di lui, con uno scrittore
come Raffaele Yiviani, impastato, secondo la più corriva , delle tradizioni, di dialetto e di napoletanità?
Niente e tutto contemporaneamente, perché se è indubbio che le atmosfere vissute nelle opere
vivianesche sono certamente pregne di Napoli e dei suoi problemi, dei suoi personaggi cosiddetti
caratteristici, della sua lingua, che non voglio qui chiamare dialetto, se cioè esse, le atmosfere,
sembrano garantire della impossibilità di rapporti che non siano da napole tano a napoletano; altrettanto
vero è che il discorso di Vivia ni si allarga ben prestoa a considerazioni e indicazioni che, liberato il
clima da quanto lo costringeva in ambiti troppo rigidamente regionalistici, rendendo per qualche verso
addirittura insopportabili le figure delineate, si allarga, dice= vo, al punto che tutto ciò che un
momento prima sembrava, e forse era, tutto sommato, circoscritto in aree di periferia culturale, ora
diventa la faccia più chiaramente delineata di una situazione e di una condizione sufficientemente
generaliz zata, che l'artista interpreta ricorrendo alla divina interfe renza della metafora. Il che lo definisce,
appunto, artista. Esistono, certo, raffigurate con l'intenzione non sottintesa di caratterizzare, figure che
non si fa fatica a individuare come legate al sottobosco dal quale provengono, ma si farebbe, credo io,
torto grave allo scrittore se si ritenesse che sono esse, queste figure, le autentiche pietre angolari
dell'edifi= ciò ricco e robusto che le opere di Yiviani sono. Ciò che, invece, le rende effettivamente un
supporto considerevole dell’intero sistema drammaturgico nazionale è proprio quel sollevarsi su un
piano universale, su cui è possibile collocare le im magini -conosciute, amate e odiate nello stesso
tempo- senza che esse assumano l'aspetto gratuito e non poche volte fasti dioso di macchiette, cui
l'hanno condannate talune interprete zioni in chiave folclorica o, se si vuole, troppo strettamente legate
alla dimensione della sceneggiata, dalla quale Viviani proviene, che ha, anzi, inventato e glorificato.
E' vero, le fisionomie convenzionali dell'intero bagaglio rappresentativo di Viviani non mancano mai,
si può dire. C'è il guappo da po chi soldi, il diseredato, il mendicante, il nobile spiantato, il suonatore
ambulante, " 'o scopatore", " 'o malommo", la "capera", la "vaiassa", ci sono gli abitanti del vicolo, a de
finire le consistenze, ma le più superficiali, del tragitto scenico di Viviani. Ma essi, lungi dal costituire
l'esaltazione di uno stato dell'essere, o addirittura l'emblema di un in tero sistema sociale, sono le
frange di un milieu, la cui essenza vera si trova radicata nella profonda contraddizione che oppone gli
umili ai superbi. Dove a "umili" e "superbi" potreb be essere sostituita una terminologia più conveniente
alla cond dizione del pensiero materialistico. Facevo ricorso alle indi cazioni di Eroch, perché nessun
artista meglio di Viviani ha messo in scena la profonda drammaticità dell'ethos. Risultano, così, primarie
non le costruzioni bozzettistiche, da tanto ma, linteso realismo e poi neorealismo esaltate fino alle vette
fastidiose e quasi ridicole della irriducibilità, bensì il ruolo di portatore di principi morali, che Viviani
sembra assegna re alla dimensione teatro, sulla scorta dei grandissimi che lo hanno preceduto e
accompagnato: da Shakespeare a Pirandello a Brecht. Eticità e ricerca di una funzione politica che
accomu na singolarmente, al di là delle differenze radicali, Viviani ad Antonin Artaud, nell'opera del
quale si trovano le medesime esigenze che muovono le istanze del grande napoletano, la pres soché
assoluta contemporaneità dei due artisti, se da sola non è sufficiente a dimostrare la loro vicinanza
speculativa ed espressiva, è comunque una testimonianaa piuttosto puntuale del punto di rottura cui,
nel primo quarantennio del nostro secolo, è pervenuto il teatro/teatro, quando è stata dichiarata la sua
sublime frontalità rispetto al teatro/spettacolo. D'altra par te, è successa la stessa cosa in altri tempi. Per
esempio, nel seicento, allorché, nello spazio di appena un ventennio, si è trascorsi dagli atti
affascinanti de La tempesta seespiriana ai meccanismi da gioco delle scatole cinesi di Le Bue
commeddie in commedia di Giovan Battista Andreini e de L'illusion comique di Corneille. Artaud. SI
muove, evidentemente, su un terreno nel quale non c'è spazio per sorrisi e lacrine, ma so lo per la
malattia e la morte. Per il sangue. Viviani, al con Erario, getta l'ancora proprio là dove il pianto si
conìuga con lo sghignazzo, e il dolore cupe dell'anima è coperto e co me nascosto sotto il velo non del
tutto intrasparente dell'ironia. In ambedue, comunque, è prevalente il tema della desti nazione, che può
confinare in uno statuto di inutilità tutto quanto viene, in altre situazioni, considerato struttura
portante. In questo più o meno platealmente espresso rifiuto del linguaggio come avvenimento che
definisce un genere, Viviani e Artaud si trovano singolarmente vicini nella reciproca ignoranza l'uno
dell'altro. Vicini nel senso, almeno, che il linguaggio è considerato da ambedue uno strumento, mobile,
mobi lissimo, ma niente di più. di uno strumento al servizio del mezzo. E' anche l'indicazione, da
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Artaud proveniente, inequivoca, riguardante la inevitabile morte del teatro, quando egli af= ferma che
questo non può non avvenire, perché il teatro ha perduto completamente l'accezione mistica e
religiosa che ne costituiva il senso (La messa in scena e la metafisica, in Il teatro e il suo doppio, trad.it.,
Einaudi, Torino 1968, p. 137), trova un analogo, suggestivo e singolare nel modello iperrealistico al
quale Viviani consegna e situazioni e personaggi. Nell'uno e nel l'altro prevalendo rappresentazioni
lontane dalla realtà proprio nel momento in cui essa sembra più che mai radicata nell' ipotesi scenica.
Ambedue propongono una sorta di delirio morbo so; ambedue sottolineano il senso di infusione
trasudante dal le immagini di teatro, che mostrano piaghe purulente non per guarirle, per guarire
eventualmente chi le guarda. Per l'uno e per l'altro il problema della moralità e dell'esistenza del teatro
restando circoscritto al problema della moralità e del l'esistenza dell'artista teatrale.
Il riscatto, la rivincita si potrebbe dire, di Viviani nel secondo dopoguerra è dovuto probabilmente a
due fattori: in primo luogo, all'esigenza di restituire agli ambienti della cultura e del teatro un
personag io tenuto a vegetare sotto la polvere, durante l'ultima parte del ventennio fascista; quindi
perché le istanze sociologiche, o in tal senso intese, dell'opera di Viviani sono diventate il cavallo di
battaglia, uno dei cavalli di battaglia, del materialismo imperante e dei suoi riflessi nell'ordine della
critica. In un caso e nel. l'altro si è corso il rischio di rendergli un cattivo servizio, anche se il solo fatto di
averlo liberato dal silenzio che per troppo tempo lo ha avvolto va salutato come fattore positivo. Ma i
neorealisti hanno preso l'abbaglio di intendere come discorsi diretti istanze che andavano, invece,
assunte unicamente come metafore molto spesse per indicare condizioni e statò sociali riferiti non a un
ambiente specificamente ma all'insieme assoluto del mondo. Viviani conosce perfettamente quali siano
le condizioni determinate da ideologie fondate sul principio della divisione sociale atei lavoro, per non
sapere che tutto quanto si verifica dentro questa società da quel principio è statutariamente mosso.
Perciò, lungi dal ritene re perseguitile l'ipotesi di un teatro che a quella concezio ne in qualche maniera
si opponga, ma non accettando, nel con tempo, l'ideologia teatrale corrente, accosta l'occhio così
intensamente alla realtà che intende rappresentare da ingigantir ne gli aspetti, nella iterazione continua
e ripetuta che deforma, al punto da toglierle proprio carattere e valore di realtà. Diventa, allora,
leggermente insostenibile il punto di vista di chi sostiene il realismo, quando non addirittura il
neorealismo di Viviani, aggrappandosi»!, magari anche dispera tamente, agli elementi interni delle
opere, quasi che essi siano, di per se, il senso delle opere, appunto. L'analisi va condotta con occhio
appuntato oltre l'orizzonte delle co= se affermate, per apprenderne il significato effettivo nella loro
coniugazione con il modello che le contiene e le espri me. L'esasperazione della teatralità, che Viviani
si trascina appresso dagli anni dell'esperienza maturata nel genere sceneggiata, dovrebbe suonare
come un campanello d'allarme e mettere sugl'avviso gli studiosi avventati, che ritengono di poter fare
a meno di tutto quanto non rientra nell'ordine dei discorsi sociologici, Se mi si passa l'immagine, è
come se pretendessimo di individuare le ragioni prime della natura di Marilyn . onroe dalle immagini
ravvicinate proposte dall' occhio indiscreto di Andy Wharol che si accosta così da pres so all'oggetto
descritto da cancellare ogni sia pur semplice parvenza di realtà. Anni addietro, un artista italiano, che in
quel periodo si segnalava per i suoi interessi di rappresenta tore di alcune istanze e figure del cinema
americano, riprese in più di una immagine Robert Altman e la sua famiglia, nel pe riodo in cui il regista
girava un film su matrimonio. Quelle immagini trasferiscono certamente un senso di realtà, in quanto
Altman e i suoi vengono detti nella più icastica delle maniere. Però, a mano a mano che l'artista
avvicina il suo oc chio all'oggetto rappresentato, questa icasticità si perde, e l'ultima immagine:
realistica senza realtà, ci racconta soltanto la fibbia della cinghia dei pantaloni del regista che, fuori e oltre
una contesto, ha perso ogni attendibilità. Il teatro di Viviani è, in qualche modo, così, nel senso che la
realtà è detta in misure tanto macroscopiche da esser divenuta una cosa diversa. Una iperrealtà,
appunto. La stessa sua figura fisica è fatta per suggerire immagini del genere: piccolo, brutto,
claudicante, cieco d'un occhio, sembra uscito da un quadro di Brueghel. Alla stessa maniera dell'artista
fiammingo mostrando non la realtà, bensì la sua esasperazione.
Ma per tornare, un momento, al tema della eticità, vorrei sottolineare un aspetto che mi sembra
fondamentale nella drammaturgia di Viviani. Come occorre in quasi tutti, si può dire, i grandi
protagonisti dell'avventura teatrale, specialmente in quelli che, nel nostro tempo, hanno affrontato il
problema del. la metateatralità con una consapevolezza sconosciuta ad altre epoche, Viviani non
distingue valori estetici da valori etici. Li tiene, anzi, cosi vicini gli uni agli altri che il senso del teatro
finisce con il risiedere completamente nella forza assunta dalla sua destinazione. Il che non vuol dire,
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certo, che la sua azione si consuma interamente in problemi di natura più o meno vagamente
sociologica e nei temi proposti dalla com mittenza, sì, invece, che il teatro diviene, per Viviani, la via
ideale attraverso la quale pervenire se non alla liberazio ne dell'uomo, certo alla indicazione, che gli
viene fatta, del le questioni che lo riguardano. Vuol dire, allora, che le indi cazioni provenienti da
analisi avventurose risultano spiazzate completamente da interpretazioni tendenti a riqualificare le
intenzioni liberatorie dell'artista piuttosto che ad accentare le componenti di altro segno. Le iniziative,
perciò, di teatran ti pur coraggiosi! ai quali spetta il merito di aver riproposto un'opera e un artista
all'attenzione di critica e pubbli co, ma questo soltanto spetta loro, vengono soverchiate dalle misure
eleganti e cariche di ironia interpretativa del Patroni Griffi di Toledo di notte, che costituisce ancora oggi, a
venticinque anni di distanza, un modello esemplare e forse irripetibile. E anche le letture critiche, che
vogliono legare troppo rudemente Vivìani alla tradizione del cabaret e della sceneggiata, vengono
smentite e superate dalle più spregiudi cate e smaliziate analisi, che consegnano l'artista alla for mula
dell'impegno, a quel tipo di impegno che il teatro preten de e conosce: l'impegno di mettere in scena il
teatro e non i problemi del popolo napoletano. Allora, le parentele di cui si è largamente favoleggiato
con Nino Taranto, Petrolini, Fabriz zi, che pure hanno attraversato stagioni abbastanza simili a quella
di Viviani, vengono miseramente a cadere, perché mentre nel caso delle persone appena sopra indicate
il marchio cabare tistico non solo non viene cancellato, risulta addirittura dominante, in Viviani perde i
connotati che evidentemente po_s sedeva, per acquistarne altri, di marca strettamente personale. A
questo proposito, le fortunate esibizioni di Achille Millo e Marina Pagano confortano il giudìzio dello
studioso che in clina piuttosto sui versanti speculativi, in quanto i due at tori hanno contribuito la loro
parte a indicare le matrici autentiche della poetica vivianesca.
Arrivati a questo punto, non resta che un argomento da sciorinare, quello delle analogie fra Viviani e
Brecht. Di cui si è a lungo, con ragione e senza ragione, favoleggiato. Quando, nel 1930, l'opera da tre
soldi di Brecht arriva in Italia sotto le mentite spoglie di La veglia dei lestofanti, Raffaele Viviani ha
consumato la parte più significativa della sua attività, consegnata alla storia dello spettacolo: e,
contempo raneamente, alla dimensione più convenientemente e consistente mente documentabile della
scrittura testuale. Quelli che assi stettero a quella rappresentazione brechtiana nel Teatro Filo drammatici
di Milano, semplici spettatori 0 critici che fossero, sapevano ben poco di quello sconosciuto scrittore
tedesco e, soprattutto, non individuavano, nella ri duzione che ne aveva fatto Bragaglia, la sostanziale carica
politica contenuta nel testo di Brecht. Ignoravano, fra le altre cose, la funzione effettiva delle musiche,
ritenendo che esse servissero a stemperare in qualche modo la tensione drammati ca, non a creare quel
tipo di clima e di linguaggio che, di lì a qualche tempo, lo stesso Brecht avrebbe battezzato con
l’etichetta di "teatro epico". Proprio l'esistenza di parti musicali in buona parte dell'opera di Viviani ha
fatto gradi re più di uno studioso alla parentela fra lui e lo scrittore tedesco. In effetti, come si riconosce
nelle partiture presen tate da Pasquale Scialò nell'edizione di Davico Sonino, la fun zione delle musiche
di Viviani è abbastanza diversa da quella delle musiche di Kurt Weill per L'opera da tre soldi, per
esempio. Nella prospettiva critica del teatro brechtiano, le musi che vengono adoperate secondo una
concezione completamente nuo va, che distanzia consistentemente i criteri della musiga gestuale,
come la chiama Brecht, da qualsiasi altro tipo di musica. Così egli scrive in La musica nel teatro epico: "in
essa (L'opera da tre soldi) le musiche di scena vennero per la prima volta usate secondo una
prospettiva moderna. L'innovazione con sisté nel fatto che le parti musicali erano nettamente distin te
dalle altre; ciò veniva anche sottolineato dalla collocazi£ ne dell'orchestra, piazzata visibilmente sul
palcoscenico. Per le parti cantate (song) era previsto un cambiamento di luci, l'orchestra veniva
illuminata, e sullo schermo disposto con= tro la parete di fondo apparivano i titoli dei singoli numeri
(...) " ( In Scritti teatrali. In Teoria e tecnica dello spetta colo 1918-1942. trad.it., Einaudi, Torino 1975,
pp.243-244). Secondo l'uso previsto da Brecht, la musica diventa uno degli elementi, e forse addirittura
il motivo fondamentale, per ope rare quella presa di distanza, che consenta un approccio cri tico con lo
spettacolo. In Viviani, nulla di tutto questo. Nonché non essere concepite in funzione critica, le
musiche scritèe da Viviani risentono del clima respirato dall'autore negli anni della sceneggiata,
vengono in qualche misura determinate dalla tradizione della canzone napoletana, sono la spiegazione
e il prolungamento dell'azione drammatica, non la sua frontalizzazione. Come avviene nel teatro di
varietà, da cui ha preso abbondantemente le mosse. La musica di Viviani presenta caratteri di maggiore
cantabilità, maggiore rispet to anche ad alcune asprezze dell'espressionismo tedesco, come ai invera
nelle musiche di Kurt Weill, poi di Hans Eisler, di Paul Dessau, di Paul Hindemith, musicisti tutti cari a
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Brecht. Una cantabilità che, anche quando realizza uno scarto sostan= siale fra recitato e cantato, non
si discosta mai troppo dai livelli di gradevolezza e di discorsività caratteristici d« la canzone di
palcoscenico, genere magistralmente inteso dai numerosi "attori "buffi" in voga nella Napoli di inizio
secolo, e che, alla fine dell'ottocento, aveva preso vita dall'idea di Ferdinando Russo di creare "(...) cose
che non siano la ve ra e propria canzone (...) una canzonetta appena cantata e un po' sussurrata" (F.Russo,
Piedigrotta oggi, in "La Tribuna", 18 agosto 1925). Che sia trattato di un'altra cosa, forse
addirittura leggermente evanescente, sembra confermato da quanto scrive Pasquale
Scialò, secondo il quale "Le musiche, in genere fini e molto agili (...) risentono però del loro cattere
"esterno" e di puro accompagnamento risultando, alcune volte, prevedibili a causa dell'insistente uso di
"sberlef fi sonori" realizzati, ad esempio, con frequenti "glissandi" dei tromboni" (Le musiche.
Prefazione, in R.Viviani, Teatro, a cura di G. Davico. Sonino, A.Lezza, P. Scialò, vol.I, Guida, Napoli
1987( pp.308-309). Del resto, Nicola Maldacea, uno degli 'attori buffi" più famosi e che di questi
problemi doveva intendersene, ha scritto che "La garbata musica d'accompagna mento, perciò non mi
dava fastidio, poiché non soverchiava le parole (...) non motivi per i versi, ma garbate caricature del
poeta" (N. Maldaoea, Memorie» Bideri, Napoli 1933, p.110). cari cature, appunto. L'equivoco, l'innocente
equivoco che avvici na fra di loro due artisti così diversi è sorto per una serie di ragioni. Soprattutto,
forse, per l'ansia di far salire di grado un artista che, fra l'altro, di queste operazioni implau sibili non
aveva "bisogno; e perché, all'occhio di osservatori disattenti e superficiali, la presenza di un elemento
così i nusitato, nel teatro di prosa, come sì diceva un tempo, finiva quasi con il costringere
all'accostamento innaturale. Fra l'altro, Brecht è impastato di cultura tedesca, comunque pro viene da
una aristocrazia culturale; Viviani e nato vicino Na poli, è vissuto creativamente a Napoli, a contatto
con un ambiente plebeo, che gli ha suggerito determinati stimoli: l'iperrealismo, per esempio, ma gli
ha tolto non poche possibili tà di risoluzioni sofisticate. I paragoni non sono, comunque, proponibili
mai. A Viviani ciò che è di Viviani. Per tornare un momento a Broch e finire con lui, nella
disposizione crea tiva di Viviani mancava quella ricerca dell'imperativo estetico, che spinge a lavorare
per l'effetto e allontana l'ogget to artistico dal suo ethos. Viviani va a caccia di valori veri, e perciò
lavora sul presente, sul suo presente, perché il pas sato (...) sa ciò che è giù. stato, che viene trasposto a fi ne
di valore, a 'falso' obiettivo di valore, ed elevato a fal so soggetto di valore (...) (H.Broch, Il male nel
sistema di valori dell'arte cit. , p.152). Se l'arte è il modo non di di menticare la realtà, ma di avvicinarsi
a essa come ci si avvi cina a Dio, allora anche Viviani crea cose che abbagliano 1' uomo e gli fanno
vedere la verità (H. Broch, Note sul problema del Kitsch, in II Kitsch cit., p.200).
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