Trieste - Teatro Miela - Piazza Duca degli Abruzzi, 3 Raffaele Viviani: la sua presenza a Trieste ed il Teatro regionale Venerdì, 4 maggio, ore 20 Tavola Rotonda con Silvana Monti, preside della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Trieste e docente di Storia del teatro. Achille Mango, preside della Facoltà di magistero di Salerno e docente di Storia dello spettacolo Alberto Farassino, docente di Storia del cinema, Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Trieste (Mancano le trascrizioni dell’intervento della prof. Monti e del prof Farassino- Gli altri interventi trascritti non sono stati visionati dai relatori) Giovanni Esposito – Indirizzo di saluto Autorità, Signore e Signori, benvenuti e buonasera. Quarant’anni fa, nel mese di marzo del 1950, moriva Raffaele VIVIANI, autore teatrale, poeta, e grandissimo attore. Questo convegno vuole ricordarlo. L 'idea, nata dall’Associazione Amici del Caffè Gambrinus, un nuovo sodalizio formato da campani e Triestini, è stata sposata dal1'Università degli studi di Trieste, facoltà di Lettere e Filosofia, in modo particolare dalla prof.ssa Monti e dal prof. Farassino che, con la loro adesione, hanno dato prestigio alla manifestazione. Perché Caffè Gambrinus, anzi Gambrinùs avrebbe pronunciato Viviani, in quanto i napoletani hanno un vezzo: dicono Gambrinùs invece di Gambrinus e Piazza Càvour al posto di Piazza Cavoùr. Quando l’Associazione era sola un’intenzione, fui incaricato di trovare un nome al sodalizio. Ho pensato al Caffè Gambrins e l’idea è stata subito condivisa da tutti. Dovendoci assegnare un nome ho cercato di coniugare l'origine territoriale e culturale di molti di noi con la tradizione della terra che ci ospita. Parlare di Caffè è indicare una civile tradizione di questa città. Ci porta subito alla mente il Caffè Tommaseo ed il Caffè S.Marco. Gambrinus, inoltre, è il mitico re nordico della birra, una bevanda tipicamente mitteleuropea. Gambrinus è, nello stesso tempo, un caffè storico napoletano, uno dei luoghi dove si dava convegno la cultura napoletana, insieme a1 sa1otto di Croce ed al Mattino di Scarfoglio. Viviani vivo, nessuno di questi tre luoghi, probabilmente frequentò. Oggi, in nome del Gambrinus, qui a Trieste è ricordato e onorato. Come prima manifestazione di rilievo, il nostro sodalizio, ha proposto Raffaele Viviani e la sua presenza a Trieste. Invito chi non l’avesse ancora fatto, a visitare, nell’intervallo, la bella mostra allestita dal Dr. Dugulin, direttore del Museo del Teatro di Trieste, con l’esposizione di locandine, rassegna stampa e documenti curiosi dell’epoca quali ad esempio il registro degli incassi. La visione del Film, dopo gli interventi dei relatori, La tavola dei poveri, l’unico che ci resta interpretato da Viviani per la regia di Alessandro Blasetti, non ha difficoltà di comprensione perché in italiano, il che dimostra, qualora ce ne sia bisogno, che l'opera di Viviani ha una sua ragione poetica, indipendentemente dal dialetto napo1etano. Per agevolare la comprensione dello spettacolo di domani sera, saranno distribuiti i testi con un glossario dialettale. Mi sia consentito, ora, di fare una considerazione. Quando si parla di bosco si pensa ad una macchia verde ad un insieme d’alberi. Se dovessimo avvicinarci man mano, con una lente d’ingrandimento scopriremmo fili d'erba, formichine ed altri dettagli. Allo stesso modo Amici del Caffè Gambrinus è una dizione generica, dietro vi sono uomini e donne che operano. So di andare contro la loro naturale ritrosia, ma desidero ricordare chi si è adoperato per la realizzazione di questo progetto. Il dott. Coassin, con la sua importante presidenza; Il dott. Severino che, da giornalista, ha consentito quei contatti indispensabili in questi casi; Il Dott. Volpe che ha speso molte energie per far venire, per lo spettacolo di domani, il Centro Attività Teatrale di Castel1ammare di Stabia, paese d'origine di Viviani; Il dott. Fredella che forse ha assolto il compito ingrato di far 1 quadrare il bilancio economico. E qui vanno ringraziati gli Enti Pubblici e privati che ci hanno aiutato. E poi il dott. Cioffi, il prof. Alfè, le signore Tracanzan e Coassin, Rino Del1a Marra e tutti gli altri che hanno apportato uti1i suggerimenti. Ho voluto citare nomi e persone non per evidenziare personalismi e presenzialismi, che finirebbero per esseri sterili se fini a se stessi, ma per mettere in luce che il volontariato, in questo caso volontariato culturale, quanto è libero, disinteressato e motivato può essere un utile raccordo tra i compiti delle istituzioni, in questo caso l'Università, e le attese di una società civile. Termino. In un momento in cui imperversano le varie lighe e leghe gli amici del Caffè Gambrinus hanno un programma diverso, vale a dire quello della reciproca conoscenza degli aspetti culturali e delle tradizioni tra le genti de1 sud e di questa Regione. Al prof. Mango, dell'Università di Salerno, che saluto e ringrazio, un invito: ci metta alla prova, come ha fatto la professoressa Monti. Desidereremmo portare nel Sud qualche aspetto culturale di Trieste per far partecipi gli amici che sono laggiù dell'amore immenso che nutriamo per questa regione, per questa città. Achille Mango: Raffaele Viviani uno e due II mio primo incontro con Raffaele Viviani avviene tanti anni fa, diciamo agli inizi degli anni trenta. Spettatore accanito di film e di rappresentazioni teatrali, vedo in un piccolo cinema di Viterbo La tavola dei poveri, giusto il film che verrà, proiettato qui, in questi giorni. Il mio secondo incontro si verifica parecchi anni più avanti, presso a poco a metà. degli anni cinquanta, sulle pagine della non sempre corretta ma utilissima edizione della ILTE, curata da Vito Pandolfi. Utilissima, dicevo, e oggi abbondantemente superata da quella filologicamente più attendibile, alla quale sta dando vita l'editore napoletano Guida ed è curata da un illustre italianista, geloso custode anche di cose teatrali: Guido Davico Bonino. Il terzo incontro qualche tempo più avanti ancora, per la coraggiosa iniziativa di quel teatrante Istintivo che era Nino Taranto, ma soprattutto per le raffinate operazioni condotte da Achille Millo e dalla compianta Marina Pagano, autori e interpreti di quei singolari collages di poesie e canzoni, le cui abitudini si sono un po' perse oggi, ma anni addietro si portavano molto, sulla scorta della moda lanciata dai cabaretisti e fatta propria da Strehler e Milva, per quanto riguarda il mondo tedesco, in particolar modo Brecht. Il quarto incontro a metà degli anni sessanta, quando Peppino Patroni Griffi, artista ben conosciuto nell'ambie te triestino, mette in scena Toledo di notte,, un montaggio molto sofisticato di due commedie del repertorio più popolare di Viviani: Caffè di notte e giorno e Musica di ciechi. L'ultimo incontro, in ordine di tempo, quello che si sta verificando qui, e fa seguito a un breve convegno napoletano di qualche anno addietro, a una messa in scena di Guappo di cartone da parte di Maurizio Scaparro, alla delibazione dei primi quattro dei cinque volumi previsti per l'edizione Davico Boniino, e che ha fra i protagonisti, curatrice della parte filologica, la cara Antonia Lezza. Cara la chiamo, perché una delle perle giovani della mia Facoltà salernitana. Non sono pochi, questi incontri, con un autore ohe ha avuto una doppia sfortuna nella sua carriera di scrittore, teatrante, attore: di non essere riuscito gradito al regime fascista, e di essersi imbattuto con concorrenze più popolari e, quindi, di successo, giusta o non giusta che la considerazione sia. Ma l'impressione che ho ricavato da questi impatti, portatori di aperture su orizzonti critici nuovi, è di una assoluta genialità dal punto di vista drammaturgico e delle ipotesi di resa scenica dei testi, da un lato, da un altro di intervento, programmatico o non che sia, sulle questioni vitali del teatro, a cominciare dalla funzione assegnabile alla struttura teatra le e ai motivi formali dì cui essa si serve. Tanto che mi viene comodo Riferirmi a uno scritto del 1913 di Hermann Broch, in cui si sostiene, con una legittimità che io sottoscrivo a piene mani, che "(...) le valutazioni etiche e le valutazioni estetiche sono rigorosamente coordinate.", per aggiungere poco più avanti che "(...) è anche lecito, dato che la storia universale è un giudizio universale, risalire dai residui esteti ci della storia agli atti etici i quali appunto riescono a conservarsi per l'eternità soltanto in ciò che ai loro soprav vive esteticamente." (il male nel sistema di valori dell'arte, in Il Kitsch, trad. it., Einaudi, Torino 1990, p.125). Intendosi do con questo affermare, affermare io naturalmente, che nell 1 opera poetica e teatrale di Viviani le componenti di carattere estetico -e poetico, aggiungo io, in quanto rimandano a u na vera e propria ideologia dell'arte- sopravvivono perché ci restituiscono un mondo morale perfettamente individuato e con figurato, e tradotto, come non può non avvenire nelle epoche dei grandi turbamenti politici e 2 ideologici, nelle professio ni non solo rifiutate, addirittura censurate. Ma che hanno a che vedere i torinesi ILTE e Davico Sonino, il non napoletano Vito Pandolfi, vale a dire coloro che, nel tempo lontano e nel tempo recente, si sono occupati di lui, con uno scrittore come Raffaele Yiviani, impastato, secondo la più corriva , delle tradizioni, di dialetto e di napoletanità? Niente e tutto contemporaneamente, perché se è indubbio che le atmosfere vissute nelle opere vivianesche sono certamente pregne di Napoli e dei suoi problemi, dei suoi personaggi cosiddetti caratteristici, della sua lingua, che non voglio qui chiamare dialetto, se cioè esse, le atmosfere, sembrano garantire della impossibilità di rapporti che non siano da napole tano a napoletano; altrettanto vero è che il discorso di Vivia ni si allarga ben prestoa a considerazioni e indicazioni che, liberato il clima da quanto lo costringeva in ambiti troppo rigidamente regionalistici, rendendo per qualche verso addirittura insopportabili le figure delineate, si allarga, dice= vo, al punto che tutto ciò che un momento prima sembrava, e forse era, tutto sommato, circoscritto in aree di periferia culturale, ora diventa la faccia più chiaramente delineata di una situazione e di una condizione sufficientemente generaliz zata, che l'artista interpreta ricorrendo alla divina interfe renza della metafora. Il che lo definisce, appunto, artista. Esistono, certo, raffigurate con l'intenzione non sottintesa di caratterizzare, figure che non si fa fatica a individuare come legate al sottobosco dal quale provengono, ma si farebbe, credo io, torto grave allo scrittore se si ritenesse che sono esse, queste figure, le autentiche pietre angolari dell'edifi= ciò ricco e robusto che le opere di Yiviani sono. Ciò che, invece, le rende effettivamente un supporto considerevole dell’intero sistema drammaturgico nazionale è proprio quel sollevarsi su un piano universale, su cui è possibile collocare le im magini -conosciute, amate e odiate nello stesso tempo- senza che esse assumano l'aspetto gratuito e non poche volte fasti dioso di macchiette, cui l'hanno condannate talune interprete zioni in chiave folclorica o, se si vuole, troppo strettamente legate alla dimensione della sceneggiata, dalla quale Viviani proviene, che ha, anzi, inventato e glorificato. E' vero, le fisionomie convenzionali dell'intero bagaglio rappresentativo di Viviani non mancano mai, si può dire. C'è il guappo da po chi soldi, il diseredato, il mendicante, il nobile spiantato, il suonatore ambulante, " 'o scopatore", " 'o malommo", la "capera", la "vaiassa", ci sono gli abitanti del vicolo, a de finire le consistenze, ma le più superficiali, del tragitto scenico di Viviani. Ma essi, lungi dal costituire l'esaltazione di uno stato dell'essere, o addirittura l'emblema di un in tero sistema sociale, sono le frange di un milieu, la cui essenza vera si trova radicata nella profonda contraddizione che oppone gli umili ai superbi. Dove a "umili" e "superbi" potreb be essere sostituita una terminologia più conveniente alla cond dizione del pensiero materialistico. Facevo ricorso alle indi cazioni di Eroch, perché nessun artista meglio di Viviani ha messo in scena la profonda drammaticità dell'ethos. Risultano, così, primarie non le costruzioni bozzettistiche, da tanto ma, linteso realismo e poi neorealismo esaltate fino alle vette fastidiose e quasi ridicole della irriducibilità, bensì il ruolo di portatore di principi morali, che Viviani sembra assegna re alla dimensione teatro, sulla scorta dei grandissimi che lo hanno preceduto e accompagnato: da Shakespeare a Pirandello a Brecht. Eticità e ricerca di una funzione politica che accomu na singolarmente, al di là delle differenze radicali, Viviani ad Antonin Artaud, nell'opera del quale si trovano le medesime esigenze che muovono le istanze del grande napoletano, la pres soché assoluta contemporaneità dei due artisti, se da sola non è sufficiente a dimostrare la loro vicinanza speculativa ed espressiva, è comunque una testimonianaa piuttosto puntuale del punto di rottura cui, nel primo quarantennio del nostro secolo, è pervenuto il teatro/teatro, quando è stata dichiarata la sua sublime frontalità rispetto al teatro/spettacolo. D'altra par te, è successa la stessa cosa in altri tempi. Per esempio, nel seicento, allorché, nello spazio di appena un ventennio, si è trascorsi dagli atti affascinanti de La tempesta seespiriana ai meccanismi da gioco delle scatole cinesi di Le Bue commeddie in commedia di Giovan Battista Andreini e de L'illusion comique di Corneille. Artaud. SI muove, evidentemente, su un terreno nel quale non c'è spazio per sorrisi e lacrine, ma so lo per la malattia e la morte. Per il sangue. Viviani, al con Erario, getta l'ancora proprio là dove il pianto si conìuga con lo sghignazzo, e il dolore cupe dell'anima è coperto e co me nascosto sotto il velo non del tutto intrasparente dell'ironia. In ambedue, comunque, è prevalente il tema della desti nazione, che può confinare in uno statuto di inutilità tutto quanto viene, in altre situazioni, considerato struttura portante. In questo più o meno platealmente espresso rifiuto del linguaggio come avvenimento che definisce un genere, Viviani e Artaud si trovano singolarmente vicini nella reciproca ignoranza l'uno dell'altro. Vicini nel senso, almeno, che il linguaggio è considerato da ambedue uno strumento, mobile, mobi lissimo, ma niente di più. di uno strumento al servizio del mezzo. E' anche l'indicazione, da 3 Artaud proveniente, inequivoca, riguardante la inevitabile morte del teatro, quando egli af= ferma che questo non può non avvenire, perché il teatro ha perduto completamente l'accezione mistica e religiosa che ne costituiva il senso (La messa in scena e la metafisica, in Il teatro e il suo doppio, trad.it., Einaudi, Torino 1968, p. 137), trova un analogo, suggestivo e singolare nel modello iperrealistico al quale Viviani consegna e situazioni e personaggi. Nell'uno e nel l'altro prevalendo rappresentazioni lontane dalla realtà proprio nel momento in cui essa sembra più che mai radicata nell' ipotesi scenica. Ambedue propongono una sorta di delirio morbo so; ambedue sottolineano il senso di infusione trasudante dal le immagini di teatro, che mostrano piaghe purulente non per guarirle, per guarire eventualmente chi le guarda. Per l'uno e per l'altro il problema della moralità e dell'esistenza del teatro restando circoscritto al problema della moralità e del l'esistenza dell'artista teatrale. Il riscatto, la rivincita si potrebbe dire, di Viviani nel secondo dopoguerra è dovuto probabilmente a due fattori: in primo luogo, all'esigenza di restituire agli ambienti della cultura e del teatro un personag io tenuto a vegetare sotto la polvere, durante l'ultima parte del ventennio fascista; quindi perché le istanze sociologiche, o in tal senso intese, dell'opera di Viviani sono diventate il cavallo di battaglia, uno dei cavalli di battaglia, del materialismo imperante e dei suoi riflessi nell'ordine della critica. In un caso e nel. l'altro si è corso il rischio di rendergli un cattivo servizio, anche se il solo fatto di averlo liberato dal silenzio che per troppo tempo lo ha avvolto va salutato come fattore positivo. Ma i neorealisti hanno preso l'abbaglio di intendere come discorsi diretti istanze che andavano, invece, assunte unicamente come metafore molto spesse per indicare condizioni e statò sociali riferiti non a un ambiente specificamente ma all'insieme assoluto del mondo. Viviani conosce perfettamente quali siano le condizioni determinate da ideologie fondate sul principio della divisione sociale atei lavoro, per non sapere che tutto quanto si verifica dentro questa società da quel principio è statutariamente mosso. Perciò, lungi dal ritene re perseguitile l'ipotesi di un teatro che a quella concezio ne in qualche maniera si opponga, ma non accettando, nel con tempo, l'ideologia teatrale corrente, accosta l'occhio così intensamente alla realtà che intende rappresentare da ingigantir ne gli aspetti, nella iterazione continua e ripetuta che deforma, al punto da toglierle proprio carattere e valore di realtà. Diventa, allora, leggermente insostenibile il punto di vista di chi sostiene il realismo, quando non addirittura il neorealismo di Viviani, aggrappandosi»!, magari anche dispera tamente, agli elementi interni delle opere, quasi che essi siano, di per se, il senso delle opere, appunto. L'analisi va condotta con occhio appuntato oltre l'orizzonte delle co= se affermate, per apprenderne il significato effettivo nella loro coniugazione con il modello che le contiene e le espri me. L'esasperazione della teatralità, che Viviani si trascina appresso dagli anni dell'esperienza maturata nel genere sceneggiata, dovrebbe suonare come un campanello d'allarme e mettere sugl'avviso gli studiosi avventati, che ritengono di poter fare a meno di tutto quanto non rientra nell'ordine dei discorsi sociologici, Se mi si passa l'immagine, è come se pretendessimo di individuare le ragioni prime della natura di Marilyn . onroe dalle immagini ravvicinate proposte dall' occhio indiscreto di Andy Wharol che si accosta così da pres so all'oggetto descritto da cancellare ogni sia pur semplice parvenza di realtà. Anni addietro, un artista italiano, che in quel periodo si segnalava per i suoi interessi di rappresenta tore di alcune istanze e figure del cinema americano, riprese in più di una immagine Robert Altman e la sua famiglia, nel pe riodo in cui il regista girava un film su matrimonio. Quelle immagini trasferiscono certamente un senso di realtà, in quanto Altman e i suoi vengono detti nella più icastica delle maniere. Però, a mano a mano che l'artista avvicina il suo oc chio all'oggetto rappresentato, questa icasticità si perde, e l'ultima immagine: realistica senza realtà, ci racconta soltanto la fibbia della cinghia dei pantaloni del regista che, fuori e oltre una contesto, ha perso ogni attendibilità. Il teatro di Viviani è, in qualche modo, così, nel senso che la realtà è detta in misure tanto macroscopiche da esser divenuta una cosa diversa. Una iperrealtà, appunto. La stessa sua figura fisica è fatta per suggerire immagini del genere: piccolo, brutto, claudicante, cieco d'un occhio, sembra uscito da un quadro di Brueghel. Alla stessa maniera dell'artista fiammingo mostrando non la realtà, bensì la sua esasperazione. Ma per tornare, un momento, al tema della eticità, vorrei sottolineare un aspetto che mi sembra fondamentale nella drammaturgia di Viviani. Come occorre in quasi tutti, si può dire, i grandi protagonisti dell'avventura teatrale, specialmente in quelli che, nel nostro tempo, hanno affrontato il problema del. la metateatralità con una consapevolezza sconosciuta ad altre epoche, Viviani non distingue valori estetici da valori etici. Li tiene, anzi, cosi vicini gli uni agli altri che il senso del teatro finisce con il risiedere completamente nella forza assunta dalla sua destinazione. Il che non vuol dire, 4 certo, che la sua azione si consuma interamente in problemi di natura più o meno vagamente sociologica e nei temi proposti dalla com mittenza, sì, invece, che il teatro diviene, per Viviani, la via ideale attraverso la quale pervenire se non alla liberazio ne dell'uomo, certo alla indicazione, che gli viene fatta, del le questioni che lo riguardano. Vuol dire, allora, che le indi cazioni provenienti da analisi avventurose risultano spiazzate completamente da interpretazioni tendenti a riqualificare le intenzioni liberatorie dell'artista piuttosto che ad accentare le componenti di altro segno. Le iniziative, perciò, di teatran ti pur coraggiosi! ai quali spetta il merito di aver riproposto un'opera e un artista all'attenzione di critica e pubbli co, ma questo soltanto spetta loro, vengono soverchiate dalle misure eleganti e cariche di ironia interpretativa del Patroni Griffi di Toledo di notte, che costituisce ancora oggi, a venticinque anni di distanza, un modello esemplare e forse irripetibile. E anche le letture critiche, che vogliono legare troppo rudemente Vivìani alla tradizione del cabaret e della sceneggiata, vengono smentite e superate dalle più spregiudi cate e smaliziate analisi, che consegnano l'artista alla for mula dell'impegno, a quel tipo di impegno che il teatro preten de e conosce: l'impegno di mettere in scena il teatro e non i problemi del popolo napoletano. Allora, le parentele di cui si è largamente favoleggiato con Nino Taranto, Petrolini, Fabriz zi, che pure hanno attraversato stagioni abbastanza simili a quella di Viviani, vengono miseramente a cadere, perché mentre nel caso delle persone appena sopra indicate il marchio cabare tistico non solo non viene cancellato, risulta addirittura dominante, in Viviani perde i connotati che evidentemente po_s sedeva, per acquistarne altri, di marca strettamente personale. A questo proposito, le fortunate esibizioni di Achille Millo e Marina Pagano confortano il giudìzio dello studioso che in clina piuttosto sui versanti speculativi, in quanto i due at tori hanno contribuito la loro parte a indicare le matrici autentiche della poetica vivianesca. Arrivati a questo punto, non resta che un argomento da sciorinare, quello delle analogie fra Viviani e Brecht. Di cui si è a lungo, con ragione e senza ragione, favoleggiato. Quando, nel 1930, l'opera da tre soldi di Brecht arriva in Italia sotto le mentite spoglie di La veglia dei lestofanti, Raffaele Viviani ha consumato la parte più significativa della sua attività, consegnata alla storia dello spettacolo: e, contempo raneamente, alla dimensione più convenientemente e consistente mente documentabile della scrittura testuale. Quelli che assi stettero a quella rappresentazione brechtiana nel Teatro Filo drammatici di Milano, semplici spettatori 0 critici che fossero, sapevano ben poco di quello sconosciuto scrittore tedesco e, soprattutto, non individuavano, nella ri duzione che ne aveva fatto Bragaglia, la sostanziale carica politica contenuta nel testo di Brecht. Ignoravano, fra le altre cose, la funzione effettiva delle musiche, ritenendo che esse servissero a stemperare in qualche modo la tensione drammati ca, non a creare quel tipo di clima e di linguaggio che, di lì a qualche tempo, lo stesso Brecht avrebbe battezzato con l’etichetta di "teatro epico". Proprio l'esistenza di parti musicali in buona parte dell'opera di Viviani ha fatto gradi re più di uno studioso alla parentela fra lui e lo scrittore tedesco. In effetti, come si riconosce nelle partiture presen tate da Pasquale Scialò nell'edizione di Davico Sonino, la fun zione delle musiche di Viviani è abbastanza diversa da quella delle musiche di Kurt Weill per L'opera da tre soldi, per esempio. Nella prospettiva critica del teatro brechtiano, le musi che vengono adoperate secondo una concezione completamente nuo va, che distanzia consistentemente i criteri della musiga gestuale, come la chiama Brecht, da qualsiasi altro tipo di musica. Così egli scrive in La musica nel teatro epico: "in essa (L'opera da tre soldi) le musiche di scena vennero per la prima volta usate secondo una prospettiva moderna. L'innovazione con sisté nel fatto che le parti musicali erano nettamente distin te dalle altre; ciò veniva anche sottolineato dalla collocazi£ ne dell'orchestra, piazzata visibilmente sul palcoscenico. Per le parti cantate (song) era previsto un cambiamento di luci, l'orchestra veniva illuminata, e sullo schermo disposto con= tro la parete di fondo apparivano i titoli dei singoli numeri (...) " ( In Scritti teatrali. In Teoria e tecnica dello spetta colo 1918-1942. trad.it., Einaudi, Torino 1975, pp.243-244). Secondo l'uso previsto da Brecht, la musica diventa uno degli elementi, e forse addirittura il motivo fondamentale, per ope rare quella presa di distanza, che consenta un approccio cri tico con lo spettacolo. In Viviani, nulla di tutto questo. Nonché non essere concepite in funzione critica, le musiche scritèe da Viviani risentono del clima respirato dall'autore negli anni della sceneggiata, vengono in qualche misura determinate dalla tradizione della canzone napoletana, sono la spiegazione e il prolungamento dell'azione drammatica, non la sua frontalizzazione. Come avviene nel teatro di varietà, da cui ha preso abbondantemente le mosse. La musica di Viviani presenta caratteri di maggiore cantabilità, maggiore rispet to anche ad alcune asprezze dell'espressionismo tedesco, come ai invera nelle musiche di Kurt Weill, poi di Hans Eisler, di Paul Dessau, di Paul Hindemith, musicisti tutti cari a 5 Brecht. Una cantabilità che, anche quando realizza uno scarto sostan= siale fra recitato e cantato, non si discosta mai troppo dai livelli di gradevolezza e di discorsività caratteristici d« la canzone di palcoscenico, genere magistralmente inteso dai numerosi "attori "buffi" in voga nella Napoli di inizio secolo, e che, alla fine dell'ottocento, aveva preso vita dall'idea di Ferdinando Russo di creare "(...) cose che non siano la ve ra e propria canzone (...) una canzonetta appena cantata e un po' sussurrata" (F.Russo, Piedigrotta oggi, in "La Tribuna", 18 agosto 1925). Che sia trattato di un'altra cosa, forse addirittura leggermente evanescente, sembra confermato da quanto scrive Pasquale Scialò, secondo il quale "Le musiche, in genere fini e molto agili (...) risentono però del loro cattere "esterno" e di puro accompagnamento risultando, alcune volte, prevedibili a causa dell'insistente uso di "sberlef fi sonori" realizzati, ad esempio, con frequenti "glissandi" dei tromboni" (Le musiche. Prefazione, in R.Viviani, Teatro, a cura di G. Davico. Sonino, A.Lezza, P. Scialò, vol.I, Guida, Napoli 1987( pp.308-309). Del resto, Nicola Maldacea, uno degli 'attori buffi" più famosi e che di questi problemi doveva intendersene, ha scritto che "La garbata musica d'accompagna mento, perciò non mi dava fastidio, poiché non soverchiava le parole (...) non motivi per i versi, ma garbate caricature del poeta" (N. Maldaoea, Memorie» Bideri, Napoli 1933, p.110). cari cature, appunto. L'equivoco, l'innocente equivoco che avvici na fra di loro due artisti così diversi è sorto per una serie di ragioni. Soprattutto, forse, per l'ansia di far salire di grado un artista che, fra l'altro, di queste operazioni implau sibili non aveva "bisogno; e perché, all'occhio di osservatori disattenti e superficiali, la presenza di un elemento così i nusitato, nel teatro di prosa, come sì diceva un tempo, finiva quasi con il costringere all'accostamento innaturale. Fra l'altro, Brecht è impastato di cultura tedesca, comunque pro viene da una aristocrazia culturale; Viviani e nato vicino Na poli, è vissuto creativamente a Napoli, a contatto con un ambiente plebeo, che gli ha suggerito determinati stimoli: l'iperrealismo, per esempio, ma gli ha tolto non poche possibili tà di risoluzioni sofisticate. I paragoni non sono, comunque, proponibili mai. A Viviani ciò che è di Viviani. Per tornare un momento a Broch e finire con lui, nella disposizione crea tiva di Viviani mancava quella ricerca dell'imperativo estetico, che spinge a lavorare per l'effetto e allontana l'ogget to artistico dal suo ethos. Viviani va a caccia di valori veri, e perciò lavora sul presente, sul suo presente, perché il pas sato (...) sa ciò che è giù. stato, che viene trasposto a fi ne di valore, a 'falso' obiettivo di valore, ed elevato a fal so soggetto di valore (...) (H.Broch, Il male nel sistema di valori dell'arte cit. , p.152). Se l'arte è il modo non di di menticare la realtà, ma di avvicinarsi a essa come ci si avvi cina a Dio, allora anche Viviani crea cose che abbagliano 1' uomo e gli fanno vedere la verità (H. Broch, Note sul problema del Kitsch, in II Kitsch cit., p.200). 6