MANSIONI INFERIORI ED AUTOTUTELA DEL LAVORATORE La pronuncia che si segnala stabilisce che il rifiuto del lavoratore di eseguire mansioni non equivalenti, qualificabile come eccezione di inadempimento ex art. 1460 c. c., è contraria a buona fede quando il datore di lavoro adempie l’obbligazione retributiva e quella assicurativa, perché ad un inadempimento parziale si reagisce con un inadempimento totale. La sentenza interviene su una questione già altre volte affrontata dalla giurisprudenza, quella concernente i limiti in cui il lavoratore a fronte dell’adibizione a mansioni inferiori, in violazione quindi dell'art. 2103 c. c., può rifiutarsi di eseguire le mansioni non equivalenti. Questione su cui si registrano in giurisprudenza approcci sensibilmente diversi. Il primo punto su cui è emerso un dissidio interpretativo verte sulla configurazione teorica del rifiuto del lavoratore ed in particolare nella sussumibilità o meno dello stesso entro l’ambito dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c. c. Secondo una pronuncia della S. C. (Cass. n. 13187/91), il rifiuto del lavoratore di eseguire le mansioni inferiori non è neppure qualificabile in termini di rifiuto di adempimento, a motivo della totale estraneità del comportamento datoriale al programma contrattuale. Infatti, dice la S. C., “in tanto l'esercizio di un diritto potestativo produce l'effetto di immutare la pregressa situazione giuridica con incisione sull'altrui sfera giuridica, in quanto esiste realmente e viene esercitato con le modalità prescritte. Il diritto potestativo esiste in presenza dei presupposti e delle condizioni, stabilite dalla legge o dal contratto. In particolare, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., lo ius variandi è attribuito all'imprenditore solo nell'ambito delle mansioni equivalenti a quelle già esercitate dal lavoratore. In difetto, il contratto di lavoro non subisce alcuna modifica nei contenuti, e l'ordine impartito al dipendente di svolgere le nuove mansioni si colloca del tutto al di fuori L'inottemperanza del ad contenuto esso, pertanto, contrattuale. non può costituire inadempimento. Diviene a questo punto irrilevante per la decisione della controversia stabilire, a livello di discorso sistematico, se il datore di lavoro che tenga simili comportamenti si renda anche inadempiente all'obbligo contrattuale di organizzare le energie lavorative messe a disposizione e quindi di consentire lo svolgimento della prestazione, inadempimento di fronte al quale, il rifiuto opposto dal lavoratore potrebbe concretare un'eccezione d'inadempimento ai sensi dell'art. 1460 cod. civ. (come più volte questa Corte ha giudicato: sentenze n. 6609 del 1988, n. 178 del 1985, n. 2231 del 1984, n. 186 del 1984, ed altre conformi). Si tratta infatti del generale problema della qualificazione della cooperazione creditoria sempre come onere, nell'impossibilità di affermare un diritto del debitore ad adempiere, oppure, con specifico riguardo al complesso contenuto del contratto di lavoro subordinato, dell'esistenza di un diritto del lavoratore a svolgere effettivamente l'attività lavorativa, problema che, come sopra detto, non è necessario risolvere ai fini della decisione, dal momento che il rifiuto di svolgere mansioni estranee al contenuto del contratto non è qualificabile in termini di rifiuto di adempimento”. Secondo questa impostazione, ciò che unicamente importa è la legittimità o meno dell’adibizione a mansioni diverse; dunque il fatto che le mansioni nuove siano equivalenti o meno a quelle da ultimo svolte. Questo approccio può ormai dirsi ampiamente superato dalla successiva giurisprudenza, che non esita a riportare la tematica in parola entro il paradigma dell’eccezione d'inadempimento ex art. 1460. Di conseguenza, il problema viene articolato nei seguenti termini: occorre appurare se il rifiuto del lavoratore, che è rifiuto di adempimento della prestazione lavorativa, sia conforme a buona fede, così come per l’appunto prescrive l’art. 1460 c.c. Che queste siano le coordinate entro cui ricondurre la questione in esame è un dato che può dirsi ormai acquisito. Entro questa prospettiva di fondo, in ordine alla valutazione della conformità del rifiuto del lavoratore al canone di buona fede, schematizzando, si possono individuare sostanzialmente tre soluzioni. Secondo una prima soluzione, che è quella fatta propria dalla sentenza in oggetto, il rifiuto di eseguire le mansioni considerate non equivalenti è contrario a buona fede, a fronte dell’adempimento da parte del datore di lavoro di tutte le altre fondamentali obbligazioni, ossia quella retributiva e quella contributiva. In presenza dell’adempimento di tali obbligazioni, vi è sproporzione tra inadempimento del lavoratore e inadempimento datoriale; il primo essendo totale, il secondo parziale. Ad esito vistosamente diverso conduce un’altra posizione, quella secondo cui il rifiuto del lavoratore è conforme a buona fede se vi è l’offerta a continuare a prestare le mansioni originarie o comunque altre equivalenti (Cass. n. 8939/96, Cass. n. 2691/77). Se nella prima impostazione l’accento cade sul comportamento datoriale, in questa l’accento cade sul comportamento del lavoratore. Si riscontra poi una terza soluzione, quella fatta propria da Cass. n. 12121/95, che ha riguardo al raffronto tra mansioni rifiutate e mansioni pregresse. Recita la massima: “L'illegittimo provvedimento del datore di lavoro di mutamento "in peius" delle mansioni del lavoratore, può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. Il rifiuto può considerarsi in buona fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate, in relazione ai legami di corrispettività e contemporaneità delle medesime” (Cassazione civile , sez. lav., 23 novembre 1995, n. 12121). Questa soluzione appare a chi scrive la preferibile, in quanto fa riferimento ad un elemento attinente all’inadempimento di cui si discute, ed appare più coerente con l’insopprimibile esigenza di flessibilità nella valutazione propria del canone di buona fede. È plausibile ritenere che, al fine di valutare la proporzionalità dell’eccezione di inadempimento, occorre in primo luogo avere riguardo alla gravità dell’inadempimento, ossia alla gravità del demansionamento. Non ogni demansionamento possiede uguale gravità. Potendo variare molto la concreta gravità del demansionamento, in termini di incidenza sulla professionalità e di ricadute esistenziali, appare troppo rigido ed aprioristico - e perciò stesso non congruente rispetto alla flessibilità del parametro della buona fede - il criterio che stima decisivo l’adempimento dell’obbligazione retributiva e contributiva. Non meno aprioristico appare il criterio fondato sulla semplice offerta da parte del lavoratore dell’esecuzione delle mansioni pregresse o equivalenti. È preferibile ritenere che questi siano solo elementi, tra gli altri, di cui tener conto, nella valutazione di conformità a buona fede, in uno con la gravità del demansionamento.