L’inflazione è soltanto un fenomeno monetario?Un episodio non monetarista di inflazione: il caso italiano Giancarlo Bertocco Università degli Studi dell’Insubria febbraio 2002 Introduzione La pubblicazione della seconda edizione della Storia Monetaria d’Italia, di Fratianni e Spinelli (di seguito: FS), offre l’occasione per analizzare le cause dell’andamento dell’inflazione in Italia nei tre decenni che precedono l’ingresso nell’Unione monetaria europea. FS ricostruiscono la storia monetaria italiana utilizzando come schema interpretativo la teoria monetarista; essi sostengono che l’esperienza italiana costituisce una significativa conferma di questo modello teorico. I due autori concludono il loro dettagliato lavoro affermando che: “L’inflazione emerge soprattutto come conseguenza degli shock fiscali e monetari sulla domanda aggregata….. La nostra storia monetaria contraddice … (la) tesi, diventata popolare nel secondo dopoguerra, per cui l’inflazione è causata prevalentemente dalla spinta dei costi di produzione e, in ultima analisi, da un conflitto sulla distribuzione del reddito.”1 Questo lavoro si pone un duplice obiettivo. Il primo consiste nel mettere in rilievo i limiti dell’interpretazione delle cause dell’inflazione italiana elaborata da FS; il secondo consiste nel presentare una spiegazione alternativa secondo cui la dinamica dell’inflazione italiana dipende fondamentalmente dall’andamento dei costi di produzione. Il paper è diviso in due parti. Nella prima, dopo aver sintetizzato gli aspetti più significativi della tesi di FS si specificano gli elementi di debolezza di questa interpretazione. Nella seconda parte, si presenta un’interpretazione alternativa, rispetto a dell’inflazione in Italia. 1 Fratianni e Spinelli 2001, p. 724. 1 quella di FS, dell’evoluzione PARTE PRIMA: UNA FRATIANNI E SPINELLI. CRITICA ALL’INTERPRETAZIONE DI 1) L’interpretazione di Fratianni e Spinelli A prima vista l’andamento dell’inflazione in Italia negli ultimi trent’anni del novecento sembra confermare la validità delle tesi monetariste. Il forte aumento del tasso di inflazione durante gli anni settanta potrebbe essere spiegato dalla politica monetaria espansiva adottata al fine di minimizzare i costi di finanziamento dei crescenti disavanzi del settore pubblico, e soprattutto, sembrerebbe ragionevole considerare la riduzione dell’inflazione nel corso degli anni ottanta e novanta come il risultato dell’impegno determinato delle autorità monetarie nel perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi.2 Questa interpretazione sommaria non è in grado di spiegare le ragioni della crisi valutaria che si registra nel settembre 1992 quando la lira subisce una pesante svalutazione ed è costretta ad abbandonare il Sistema monetario europeo. Secondo Fratianni e Spinelli la causa fondamentale della crisi valutaria deve essere ricercata nei limiti della politica monetaria antinflazionistica adottata nel corso degli anni ottanta. Soltanto dopo la crisi del ’92 le autorità monetarie avrebbero deciso, di adottare una politica monetaria più rigorosa rispetto a quella realizzata negli anni ottanta. Grazie a queste misure, nel corso degli anni novanta viene annullato il differenziale di inflazione tra l’Italia e gli altri pesi europei. FS ritengono quindi, che esista una sostanziale discontinuità nella conduzione della politica monetaria nei tre decenni che precedono l’ingresso nell’Unione monetaria europea; nei prossimi paragrafi vengono presentate sinteticamente le conclusioni dei due autori. 2 I valori del tasso di inflazione sono riportati sulla figura 1. 2 1.a) Gli anni settanta e la ‘dominanza fiscale’ Gli anni settanta costituiscono un periodo particolarmente significativo all’interno della Storia Monetaria di FS poiché in quegli anni il fenomeno della dominanza fiscale, cioè dell’accondiscendenza della politica monetaria rispetto alla politica fiscale assume le dimensioni maggiori. A sostegno di questa tesi FS sottolineano che in quegli anni le autorità monetarie introducono misure straordinarie di carattere amministrativo costituite dal massimale sugli impieghi e dal vincolo di portafoglio, che hanno lo scopo di ridurre i costi di finanziamento del settore pubblico.3 L’accondiscendenza delle autorità monetarie crea un circolo vizioso poiché favorisce l’espansione dei disavanzi e questo costringe le autorità monetarie ad espandere ulteriormente la creazione di moneta. Tutto questo è alla base dell’esplosione dell’inflazione nel corso degli anni settanta: “La dominanza fiscale e la conseguente logica della minimizzazione dei costi politici dei disavanzi pubblici favoriscono i disavanzi crescenti e una forte creazione monetaria, che causa poi un processo inflazionistico mai sperimentato in tempo di pace per livelli e persistenza e un rapido succedersi di violente crisi valutarie.”4 FS respingono la tesi secondo cui l’inflazione degli anni settanta sia stata provocata dagli shock da offerta dovuti all’aumento del costo del lavoro e del prezzo dei prodotti petroliferi.5 “La dominanza fiscale raggiunge forme estreme nei decenni 1970 e 1980, sotto la pressione di elevati e crescenti disavanzi pubblici. Si formalizza l’accondiscendenza della politica monetaria adottando, come obiettivo intermedio, un credito totale interno che considera dato il credito al settore pubblico. Anche i massimali sugli impieghi e i vincoli di portafoglio imposti alle banche e i controlli valutari sono parte integrante della strategia dell’accondiscendenza monetaria, o della dominanza fiscale. I massimali e i vincoli di portafoglio forzano il risparmio privato verso il debito pubblico; i controlli valutari bloccano il risparmio all’interno del paese. Fratianni e Spinelli 2001, p. 721. 3 Ricordiamo che il massimale sugli impieghi fissava un limite massimo all’espansione degli impieghi bancari, mentre il vincolo di portafoglio costringeva le banche ad acquistare un volume di titoli pubblici, non inferiore ad un determinato limite. 4 Fratianni e Spinelli 2001, p.721; si veda anche p. 477. “In riferimento (agli anni settanta) è soprattutto per il tasso di inflazione che si può parlare di specificità italiana, e questa non può che trovare una spiegazione interna al paese. L’accelerazione dei prezzi è dovuta a un’esplosione dei disavanzi pubblici senza uguali negli altri paesi industrializzati. Lo shock salariale di fine anni sessanta avrebbe 5 3 1.b) Gli anni ottanta e i limiti della politica di stabilizzazione del cambio Nel corso degli anni ottanta, dopo l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo, la politica monetaria registra cambiamenti positivi; le autorità monetarie acquisiscono una maggior autonomia rispetto al Tesoro, viene abbandonato l’obiettivo intermedio Credito totale interno e vengono eliminati i vincoli amministrativi. Nonostante questi cambiamenti l’inflazione italiana, nel corso degli anni ottanta, rimane significativamente più elevata rispetto a quella di paesi come la Germania, Gli Stati Uniti e il Giappone. FS attribuiscono questo risultato insoddisfacente ai limiti della politica monetaria adottata negli anni ottanta. L’errore fondamentale compiuto dalla Banca d’Italia consisterebbe nell’aver realizzato una politica antinflazionista basata sulla stabilizzazione del tasso di cambio piuttosto che sul controllo degli aggregati monetari. Questa politica avrebbe prodotto una sopravvalutazione del cambio della lira che,a sua volta, avrebbe determinato gli squilibri che sono all’origine della crisi valutaria del 1992: “In sintesi, le autorità fanno leva sulla fissità del cambio nominale e sul conseguente apprezzamento reale della lira per disinflazionare il sistema italiano. A causa dell’insufficiente rigore della politica monetaria e della rigidità dei salari reali, l’apprezzamento risulta invece in un crescente deterioramento delle ragioni di scambio esterne e in un crescente miglioramento di quelle interne, i quali determinano uno spostamento di risorse produttive dai settori esposti alla concorrenza estera più dinamici a quelli protetti e a bassa crescita della produttività. Per cui, il crescente problema monetario-valutario finisce con il saldarsi con quello del progressivo peggioramento della struttura produttiva del paese e della conseguente caduta del suo potenziale di crescita. Il tutto rende evidente che la ‘via del cambio fisso’ alla disinflazione esiste solo nella testa di chi ignora la teoria, la prassi, le istituzioni e la storia.”6 comportato solo un aumento una tantum dei prezzi se non fossero sopraggiunte l’esplosione dei disavanzi pubblici e l’accondiscendenza monetaria.” Fratianni e Spinelli 2001, p. 452. 6 Fratianni e Spinelli 2001, p. 490. 4 I limiti di questa politica determinano la crisi del 1992. 7 FS sottolineano continuamente che la maggior inflazione italiana negli anni ottanta, si spiega con l’elevato tasso di crescita della base monetaria e della moneta; essi confrontano i dati del periodo 1979-91 con quelli di lungo periodo, relativi cioè al periodo 186198 esclusi gli anni delle guerre: “- la crescita reale annua media degli anni dello SME è dell’1,9 per cento, mentre quella di lungo periodo è del 2,7 per cento, - mediamente il canale Tesoro della base monetaria contribuisce a più del 100 per cento della creazione monetaria complessiva degli anni dello SME, e a meno del 50 per cento di quella di lungo periodo; - la creazione monetaria annua degli anni dello SME supera del 2,5 per cento quella di lungo periodo; - l’inflazione annua media degli anni dello SME è del 10,4 per cento, mentre quella di lungo periodo è del 4,4.”8 La ragione di fondo di queste scelte insoddisfacenti consiste in un errore di analisi che spinge le autorità monetarie alla: “… negazione della centralità della moneta nella spiegazione della dinamica dell’inflazione”9 Questo errore induce le autorità monetaria a ritenere di: “… non poter controllare l’inflazione con la politica monetaria.”10 Queste argomentazioni spingono FS ad esprimere una valutazione negativa nei confronti del Governatore Ciampi che ha guidato la Banca d’Italia tra il 1979 e il 1993. Essi affermano che la responsabilità delle scelte insoddisfacenti è aggravata dal fatto che il governatore aveva di fronte l’esempio virtuoso di paesi come la Germania, l’Inghilterra e gli Stati Uniti.11 A Ciampi si imputa la responsabilità di non aver percepito i limiti di una politica di stabilizzazione del cambio che non fosse accompagnata da un controllo rigoroso degli aggregati monetari. Con queste scelte Ciampi si discosta dalla corretta “… gli eventi del 1992 confermano che un sistema di cambi fissi non è sostenibile quando i fondamentali monetari e fiscali non sono opportunamente controllati. L’attacco speculativo che travolge la lira e determina un collasso di credibilità per il governo e la banca centrale non nasce nel vuoto; esso trova terreno fertile nel persistente divario inflazionistico con la Germania e in un crescente scetticismo del mercato sulla sostenibilità della finanza pubblica italiana, e quindi anche sul futuro della nostra inflazione.” Fratianni e Spinelli 2001, p. 486. 7 8 Fratianni e Spinelli 2001, p. 490. Fratianni e Spinelli 2001, p. 681. 10 Fratianni e Spinelli 2001, p. 676. 11 Fratianni e Spinelli 2001. p. 676. 9 5 impostazione seguita dal suo predecessore, P. Baffi, e dal suo successore A. Fazio: “Uno dei limiti strategici più evidenti del governatorato di Campi è la mancata percezione delle implicazioni della crescente integrazione monetaria e finanziaria dell’Italia con l’Europa e, in particolare, dei cambi fissi. Il fatto colpisce anche perché tali implicazioni venivano delineate già negli anni sessanta… Questi limiti sono resi ancora più evidenti dal fatto che, storicamente, l’operato di Ciampi si è collocato tra le due grandi rivoluzioni della politica monetaria italiana del secondo dopoguerra: quella del predecessore Baffi sul piano teorico e quella del successore Fazio sul piano pratico.”12 1.c) Gli anni novanta: la realizzazione della rivoluzione monetaria. Nel corso degli anni novanta, nonostante la forte svalutazione della lira, continua il processo di riduzione dell’inflazione e nella seconda metà del decennio si azzera il differenziale d’inflazione rispetto ai paesi europei più virtuosi. Il merito di questo risultato che ha consentito all’Italia di partecipare all’Unione Monetaria Europea, deve essere attribuito, secondo FS, al Governatore Antonio Fazio, succeduto a Ciampi nel 1993, che ha saputo attuare, a partire dalla seconda metà del 1994, una corretta politica antinflazionistica basata sul controllo degli aggregati monetari.13 FS sottolineano la relazione tra la riduzione dell’inflazione e il tasso di variazione della quantità di moneta; l’efficacia della politica monetaria è testimoniata dai valori relativi al tasso di variazione della quantità di moneta: Fratianni e Spinelli 2001, pp.676-7. Si deve osservare che nell’edizione del 1991 FS avevano formulato un giudizio molto diverso su Ciampi a cui si attribuiva il merito di aver tradotto in pratica la strategia delineata dal suo predecessore P.Baffi. 12 “Superando le resistenze dei diversi gruppi sociali e l’agnosticismo degli stessi economisti, compresa buona parte di quelli della Banca d’Italia, il Governatore Fazio … impone la strategia dell’inflation targeting e avvia così una fase di forte stretta monetaria finalizzata all’azzeramento del differenziale di inflazione con l’estero… si tratta… di un evento straordinario: infatti, prima d’ora la Banca non si è mai impegnata formalmente ad azzerare il differenziale d’inflazione con l’estero e non ha mai manovrato i tassi di interesse in modo così sistematico e deciso al fine di cogliere quell’obiettivo. La svolta storica nell’impostazione della politica monetaria genera subito ottimi risultati… Il rapido abbassamento dell’inflazione dell’inflazione e quindi anche dei tassi di interesse, risulta poi cruciale per far rientrare il paese nei parametri di ammissione all’UME.”Fratianni e 13 Spinelli 2001, p. 516. 6 “La progressiva stretta monetaria è evidente dalla drastica caduta della variazione annua dell’aggregato M2: si passa dal 9 per cento del 1991 al 7 per cento del 1993, al 3 per cento del 1995, al –5 del 1997 e al –1 del 1998 … La stretta monetaria diventa ancor più significativa se si considera la contemporanea, forte e progressiva riduzione delle aliquote della riserva obbligatoria richiesta per portare il sistema bancario italiano alla situazione prevalente negli altri paesi europei…”14 FS elogiano il Governatore Fazio per aver saputo impostare una politica antinflazionistica corretta basata sul controllo degli aggregati monetari piuttosto che sulla stabilità del cambio. Essi affermano che la stabilità del cambio è una conseguenza della stabilità dei prezzi che deve essere ottenuta attraverso il controllo della quantità di moneta, e non lo strumento da impiegare per ridurre l’inflazione. Le autorità monetarie devono manovrare i tassi di interesse con l’obiettivo di controllare la quantità di moneta e non per stabilizzare il tasso di cambio. Analizzando le relazioni lette dal Governatore Fazio, FS osservano: “E’ indiscutibile il rovesciamento di direzione di causalità tra moneta e cambio rispetto al pre-Fazio, quando si faceva dipendere la stabilità dei prezzi dalla tenuta del cambio. Anche da quel rovesciamento consegue un’analisi del rientro dell’inflazione che è da manuale in quanto sviluppata attorno ai passaggi successivi del rialzo dei tassi di interesse, del rallentamento della moneta e della frenata dei prezzi.”15 L’azione del Governatore Fazio sarebbe quindi l’espressione di un profondo cambiamento culturale che porta ad abbandonare uno schema teorico basato sull’idea che l’inflazione non sia influenzata significativamente dalla politica monetaria e che la stabilità dei prezzi debba essere ottenuta mediante il controllo dei costi di produzione e la stabilizzazione del cambio. A Fazio va il merito di aver saputo: “- recuperare alla politica monetaria e quindi alla Banca d’Italia, la responsabilità del raggiungimento e della difesa della stabilità monetaria; - mostrare che i tassi di interesse sono un efficiente strumento tecnico per il perseguimento di quegli obiettivi; - ridurre l’inflazione anche in presenza di un cambio flessibile della lira, dimostrare che la causalità va dalla bassa inflazione alla stabilità del cambio e non viceversa, e consentire al paese non solo di recuperare le grosse turbolenze valutarie del 1992-95, ma anche di rientrare in uno dei parametri di Maastricht.”16 14 Fratianni e Spinelli 2001, p. 528. Fratianni e Spinelli 2001, p.689. 16 Fratianni e Spinelli 2001, pp. 689-8. 15 7 Questo cambiamento culturale può spiegare gli importanti risultati conseguiti nel corso degli anni novanta: “Per cogliere i progressi della politica monetaria italiana e della stessa immagine della Banca Centrale nel corso del governatorato di Fazio, si può anche confrontare la situazione di fine 1988 con quella da lui ricevuta in eredità dal predecessore Ciampi agli inizi del 1993. … è indiscutibile che nei mesi che vanno dalla crisi del 1992 alla primavera del 1993 la politica monetaria italiana abbia segnato uno dei punti più bassi della sua intera storia. L’allora Governatore Ciampi si bloccava di fronte agli interrogativi sul motivo per cui fosse saltata la politica a lungo incensata del blocco del cambio e su quanto l’inflazione interna avrebbe potuto accelerare a causa della svalutazione della lira. Di conseguenza… la politica monetaria “si squagliava” completamente sottraendosi a ogni responsabilità di fornire un’àncora ai mercati…. La situazione fotografabile a fine 1998 è ben diversa…Come è potuto accadere tutto ciò? Semplicemente rimettendo ordine nella politica monetaria con la scelta di un unico e possibile obiettivo e manovrando in modo deciso gli strumenti che consentono di raggiungerlo. In sé questo non è straordinario, è esattamente quanto i banchieri centrali di altri paesi iniziavano a fare già nel decennio 1970; va comunque riconosciuto in Italia, prima di Antonio Fazio, nessuno vi era riuscito.”17 2) I limiti della spiegazione di Fratianni e Spinelli L’interpretazione di FS si basa sull’esistenza di una stretta relazione tra moneta e prezzi sulla base di quanto previsto dalla teoria quantitativa della moneta. L’elevata inflazione degli anni settanta è spiegata dalla eccessiva creazione di moneta dovuta alla ‘dominanza fiscale’. Nel corso degli anni ottanta le autorità monetarie si pongono l’obiettivo di ridurre l’inflazione seguendo però, una politica sbagliata basata sulla stabilizzazione del cambio invece che sul controllo della quantità di moneta. Nel corso degli anni novanta una corretta politica fondata sul controllo della quantità di moneta ha permesso di eliminare il divario tra l’inflazione italiana e quella degli altri paesi europei più virtuosi. Si intende mostrare che questa interpretazione non è corretta poiché, nel periodo considerato, non erano presenti in Italia le condizioni necessarie ad assicurare la validità della teoria quantitativa della moneta. L’esistenza di una relazione causale tra moneta e prezzi si fonda su tre condizioni; in primo luogo si deve assumere che l’offerta di moneta sia indipendente dalla domanda e che si 17 Fratianni e Spinelli 2001, p.699. 8 possano quindi, registrare squilibri tra domanda e offerta di moneta provocati da variazioni esogene dell’offerta. In secondo luogo si deve ipotizzare che gli squilibri tra domanda e offerta di moneta provochino significative variazioni della domanda aggregata, infine, si deve assumere che queste variazioni della domanda aggregata determinino soltanto variazioni del livello dei prezzi poiché nel lungo periodo il reddito reale è indipendente dalla quantità di moneta. Si intende mostrare che le prime due condizioni su cui si fonda la teoria quantitativa, non erano presenti in Italia nel periodo considerato. In primo luogo si intende mostrare che le variazioni della quantità di moneta registrate nel periodo analizzato sono state provocate da modificazioni della domanda e non dell’offerta, e quindi che la quantità di moneta deve essere considerata endogena e non esogena. Inoltre si spiegheranno le ragioni per le quali non è possibile associare alle variazioni osservate della quantità di moneta modificazioni significative della domanda aggregata. Queste tesi verranno sviluppate nei prossimi tre paragrafi: il primo affronterà la questione dell’endogeneità dell’offerta di moneta, il secondo quella della relazione tra quantità di moneta e domanda aggregata, infine nel terzo paragrafo si presenteranno alcuni dati che confermano i rilievi critici all’interpretazione di FS. 2.a) L’endogeneità della quantità di moneta FS sottolineano la discontinuità tra gli anni ottanta e novanta per quanto riguarda la manovra della quantità di moneta; soltanto negli anni novanta le autorità avrebbero controllato con decisione la quantità di moneta ottenendo importanti risultati in termini di riduzione dell’inflazione. Questa ricostruzione dell’ esperienza italiana non sembra corretta; la politica monetaria condotta negli anni ottanta e novanta è caratterizzata da un elemento di continuità costituito dalla manovra dei tassi di interesse; in questi anni l’azione antinflazionistica è basata sulla manovra dei tassi di interesse. Certamente nei due decenni sono cambiati i 9 criteri con i quali venivano manovrati i tassi di interesse poiché negli anni ottanta le autorità monetarie agivano in un regime di cambi fissi costituito dal Sistema monetario europeo, mentre dopo la svalutazione del ’92, esse agiscono in un sistema di cambi flessibili. Si deve sottolineare però, che né negli anni ottanta né negli anni novanta le autorità monetarie si pongono l’obiettivo di controllare r la quantità di moneta. E’ certamente vero che nel corso degli anni novanta le autorità monetarie danno maggior rilievo, rispetto al passato, agli aggregati monetari,18 e annunciano un valore programmato del tasso di crescita della quantità di moneta, ma allo stesso tempo si deve rilevare che esse non si preoccupano di rispettare i valori monetari programmati. Le autorità monetarie impostano la loro azione antinflazionistica manovrando i tassi di interesse ed accettano significativi scostamenti del tasso di crescita della quantità di moneta rispetto ai valori programmati, provocati dalla reazione della domanda di moneta alle variazioni dei tassi di interesse. Nei primi anni novanta le autorità monetarie fissano un intervallo di valori relativo al tasso di crescita della quantità di moneta; questo intervallo è pari a 5-8 per cento per il 1991 e a 5-7 per cento per gli anni successivi fino al 1994. Nel 1993 le autorità monetarie accettano un tasso di crescita della quantità di moneta più elevato rispetto al limite superiore; questo scostamento fu provocato dalla modificazione della struttura del portafoglio indotta dalle variazione dei tassi di rendimento.19 A partire dalla seconda metà del 1994 le autorità monetarie attuano una manovra restrittiva al fine di fronteggiare i segnali di un peggioramento dell’inflazione. Le autorità monetarie osservano che nel corso degli anni novanta all’interno del meccanismo di trasmissione che lega gli strumenti monetari con l’obiettivo dell’inflazione, si inserisce un importante elemento costituito dalle 18 Si vedano ad esempio: RABdI 1993, p. 163; RABdI 1994, p.173. “Nel 1993 la variazione di M2… è stata del 7,9 per cento. Una crescita poco più elevata del limite superiore della fascia programmata… trova motivazione, oltrechè nel sensibile calo del rendimento dei Bot, nelle politiche di offerta degli intermediari e nel riafflusso dei capitali dall’estero. RABI 1993, p. 168. 19 10 aspettative inflazionistiche.20 La rilevanza delle aspettative inflazionistiche è giustificata dal processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale e dalla flessibilità del tasso di cambio.21 La Banca d’Italia spiega che: “I mercati valutari normalmente agiscono con prontezza a mutamenti nelle attese e nei rischi di inflazione; i movimenti del cambio così determinati contribuiscono a tradurre le attese in inflazione effettiva, trasferendosi sui prezzi interni, in primo luogo attraverso il costo dei prodotti importati e la pressione sui prezzi dei produttori esposti alla concorrenza internazionale.”22 In queste condizioni si può sviluppare un circolo vizioso basato sulla sequenza: peggioramento delle aspettative inflazionistiche – svalutazione del cambio – aumento dei prezzi dei prodotti importati – aumento del tasso di inflazione – peggioramento delle aspettative inflazionistiche.23 Per evitare l’innescarsi di questo circolo vizioso le autorità monetarie devono agire rapidamente innalzando i tassi di interesse ai primi segnali di deterioramento delle aspettative, senza aspettare l’aumento dei prezzi. Nella seconda metà del 1994 le autorità monetarie si comportarono in questo modo, aumentando i tassi in risposta ad una svalutazione del cambio che segnalava il peggioramento delle aspettative inflazionistiche, anche se il tasso di inflazione non era aumentato. Nella relazione presentata nel maggio del 1995 il Governatore Fazio sottolinea come la manovra restrittiva sia stata molto più tempestiva rispetto ad altre manovre attuate nel 1979 e nel 1986: “… emerge che la restrizione monetaria è intervenuta lo scorso anno, con tempestività. Nel 1979 l’aumento dei tassi di interesse seguì di quasi un anno quello dell’inflazione… Nel 1986-87 l’inversione di tendenza dei tassi sui Bot, ancora influenzati direttamente con la fissazione dei tassi base alle aste, seguì di crica quattro mesi quella dell’inflazione. Nel 1994 l’aumento dei tassi ufficiali e dei rendimenti dei “Le aspettative di inflazione possono tradursi in inflazione effettiva agendo su tutte le principali componenti del processo di formazione dei prezzi: i costi degli imputs importati, quello del lavoro, i margini di profitto. Fornendo un orientamento alle aspettative, l’azione della politica monetaria può pertanto esercitare i suoi effetti sulla dinamica inflazionistica attraverso un canale che si aggiunge a quelli, più tradizionali, rappresentati dal controllo della domanda aggregata e dagli effetti diretti sul tasso di cambio.”(RABI 1995, p. 168) 21 “Come in altri paesi anche in Italia la liberalizzazione dei mercati creditizi, l’elevata mobilità internazionale dei capitali e la flessibilità del cambio hanno accresciuto, negli ultimi anni, la rilevanza delle aspettative nella trasmissione della politica monetaria e la necessità che essa agisca con anticipo per prevenire l’inflazione.”(RABI 1994, p. 177) 22 RABI 1995, p. 168. 23 Si veda: RABI 1995, p. 170. 20 11 Bot è avvenuto prima che le tensioni inflazionistiche determinassero una svolta nella dinamica dei prezzi al consumo.”24 All’aumento del tasso ufficiale di sconto pari a 0,5 punti nell’agosto del 1994, fanno seguito due aumenti nel 1995 per complessivi 1,5 punti; la manovra restrittiva continua fino alla metà del 1996; dal luglio 1996 inizia un processo di riduzione dei tassi di interesse. In corrispondenza dell’aumento dei tassi di interesse si registra una significativa riduzione del tasso di crescita della quantità di moneta. Nel triennio 1994-96 il tasso di crescita della quantità di moneta è sempre inferiore ai valori programmati. Per il 1994 la banca centrale aveva fissato un intervallo compreso tra il 5 e il 7 per cento, mentre per i due anni successivi era stato indicato un valore programmato pari al 5 per cento. Il tasso di crescita di M2 è stato in ogni anno, significativamente più basso: pari al 3,1 per cento nel 1994, all’1,9 per cento nel 1994 e al 2,6 per cento nel 1995. Questi dati nettamente inferiori ai valori programmati non hanno indotto le autorità monetarie a ritenere di aver attuato una manovra eccessivamente restrittiva, la banca centrale non si è preoccupata di rispettare il valore programmato del tasso di crescita della moneta. La Banca d’Italia ha infatti considerato la riduzione del tasso di crescita della quantità di moneta come una conseguenza della modificazione della domanda di moneta provocata dal cambiamento della struttura dei tassi di rendimento, in particolare, indotta dal crescente costo opportunità della moneta dovuto all’aumento del divario tra il rendimento delle attività alternative alla moneta e il rendimento dei depositi. Nella relazione sul 1994 si legge: “Il rallentamento dell’ultimo anno (del tasso di crescita di M2) trova corrispettivo nel forte aumento dei tassi di interesse sugli strumenti di detenzione del risparmio alternativi al deposito bancario e risente delle cautela degli intermediari, più accentuata che in passato, nel fissare i tassi sulla raccolta: il rendimento medio dei Bot è salito, tra maggio e dicembre, di quasi 2 punti percentuali, quello sui depositi bancari si è ridotto, nello stesso perido, di 0,4 punti.”25 24 RABI 1994, p. 177 RABI 1994, p. 173. Inoltre si aggiunge: “L’investimento finanziario delle famiglie si è spostato, nel 1994, dai depositi bancari verso i titoli pubblici ed esteri. Hanno contribuito alla riallocazione il forte aumento dei rendimenti dei titoli di stato, una politica di fissazione dei tassi passivi da parte delle banche volta a contenere il costo della raccolta, le aspettative di svalutazione del cambio.”(RABI 1994, p. 193) 25 12 La stessa argomentazione è usata per spiegare i dati relativi al 1995.26 Si può quindi concludere che le autorità monetarie non hanno corretto il valore del tasso di crescita del della moneta rispetto al valore programmato poiché quei valori erano coerenti con l’obiettivo del controllo dell’inflazione perseguito influenzando le aspettative inflazionistiche mediante la manovra dei tassi di interesse. In una fase in cui le autorità monetarie manovrano i tassi di interesse, l’offerta di moneta si adegua alla domanda; viene meno la prima condizione su cui si fonda la teoria quantitativa della moneta. In questa situazione le variazioni della quantità di moneta non sono espressione di uno squilibrio tra domanda e offerta di moneta. Queste considerazioni sono confermate dai dati riguardanti il 1997. In quell’anno il tasso di crescita di M2 è quasi doppio rispetto al volore programmato del 5 per cento; le autorità monetarie accettano questo scostamento che non compromette il processo di riduzione del tasso di inflazione ed arrivano ad avanzare dubbi sulla capacità del dato relativo alla crescita della quantità di moneta, di anticipare il valore del tasso di inflazione: “La crescita nel 1997 dell’aggregato monetario M2, quasi doppia rispetto all’obiettivo programmato del 5 per cento, è da collegare principalmente a mutamenti strutturali nelle scelte di portafoglio del pubblico; ciò induce a ritenere che il valore dell’aggregato come anticipatore di pressioni inflazionistiche si sia, almeno temporaneamente, ridotto.”27 Le autorità monetarie ritengono che questa modificazione del tasso di crescita della quantità di moneta sia dovuta a modificazioni delle scelte di portafoglio del pubblico indotte dal cambiamento dei rendimenti relativi.28 In conclusione, si può affermare che nel corso degli anni novanta le autorità monetarie non hanno usato la quantità di moneta come strumento al fine di controllare l’inflazione; non era quindi, verificata la prima condizione su cui si fonda la teoria quantitativa della moneta. La spiegazione dell’inflazione secondo la teoria quantitativa parte sempre 26 RABI 1995, p. 173. RABI 1997, p.186. 28 “La diminuzione del costo opportunità dei depositi dovuta al calo dei rendimenti sui titoli pubblici, il persistere, per una parte dell’anno, dell’incertezza sulle prospettive dei tassi di interesse a lungo termine e l’esigenza di mantenere riserve di attività liquide in corrispondenza delle modifiche nella composizione dei portafogli hanno indotto le famiglie ad aumentare i depositi a vista di 27.100 miliardi di lire…”(RABI 1977, p. 205) 27 13 da un improvviso incremento dell’offerta di moneta che provoca uno squilibrio tra domanda e offerta di moneta. Questi squilibri non si possono verificare quando le autorità monetarie controllano i tassi di interesse, come è avvenuto in Italia negli anni ottanta e novanta; in questo caso le variazioni della quantità di moneta che vengono osservate sono la conseguenza di variazioni della domanda di moneta, cioè di modificazioni delle scelte di portafoglio. Il comportamento delle autorità monetarie italiane non rappresenta un’eccezione rispetto a quello che si registra negli altri paesi industrializzati. La scelta fatta in molti paesi, di seguire una strategia di inflation targeting è infatti giustificata dall’elevata instabilità della relazione tra la quantità di moneta e gli obiettivi delle autorità monetarie.29 Romer (2000) osserva che la manovra dei tassi di interesse, che costituisce lo strumento fondamentale utilizzato dalle autorità monetarie dei paesi industrializzati, non mira a perseguire un particolare obiettivo in termini di quantità di moneta.30 La Bank of England che FS citano come modello, segue una strategia che non prevede il controllo di aggregati monetari.31 Un altro interessante esempio è costituito dalle scelte compiute dalla Banca centrale europea. Meltzer (2001) considera la decisione della BCE di assegnare un ruolo centrale alla quantità di moneta nella strategia finalizzata ad ottenere l’obiettivo della stabilità dei prezzi, come un esempio positivo rispetto alla scelta della Federal Reserve, di ignorare la 29 Si vedano ad esempio: Leiderman and Svensson (1995); Mishkin (1999). “Central banks in almost all industrialized countries focus on the interest rate on loans between banks in their short–run policy.In the United States, for example, the Federal Reserve conducts monetary policy mainly by manipulating the federal funds rate. The dividing line between an interest rate rule and a money supply rule can be a fine one. For example, if the central bank adjusts the interbank lending rate to keep the money supply as close as possible to an exogenous target path, then it would be best to call this policy a money targeting rule. But most central banks do not behave this way. In the United States, the Federal Reserve chooses the federal funds rate to try to achieve its objectives for inflation and output, and monetary aggregates play at most, a minor role in those choises... The same is true in other countries. Even in Germany, where there were money targeting beginning in 1975 and where those targets played a major role in official policy discussion, policy from the 1970s through the 1990s was better described by an interest rate rule aimed at macroeconomic policy objectives than by money targeting.” Romer 30 2000, p. 154. “The money supply does play an important role in the transmission mechanism but it is not, under the United Kingdom’s monetary arrangments, a policy instrument. It could be a target of policy, but it need not be so. In the United Kingdom it is not, as we have an inflation target, and so monetary aggregates are indicators only...”Bank of England 1999, p. 31 9. 14 quantità di moneta. A proposito della strategia della BCE è necessario osservare in primo luogo, che la quantità di moneta non costituisce un obiettivo intermedio; la BCE, pur annunciando il tasso di crescita della quantità di moneta che considera coerente con il valore obiettivo del tasso di inflazione, non si ritiene vincolata a rispettare questo valore.32 In secondo luogo si deve sottolineare che l’annuncio del tasso di crescita della quantità di moneta costituisce il primo dei due pilastri su cui si fonda la strategia antinflazionistica della BCE. Il secondo pilastro è costituito dal monitoraggio di una ampio ventaglio di indicatori economici e finanziari che comprende i salari, i tassi di cambio, i prezzi dei titoli, varie misure dell’attività economica reale, indicatori della politica fiscale e indici di prezzo e di costo.33 La BCE rileva che questi due pilastri riflettono due diverse spiegazioni dell’inflazione: “La distinzione tra i due pilastri della strategia è principalmente una distinzione tra i modelli economici… del processo inflazionistico. Il primo pilastro rappresenta approcci che attribuiscono un valore di primo piano alla moneta nello spiegare l’evoluzione futura dei prezzi… Il secondo pilastro include una serie di modelli alternativi del processo inflazionistico, principalmente quelli che mettono in risalto l’interazione tra offerta e domanda e/o le pressioni esercitate dai costi.”34 L’impiego di questi due pilastri riflette la decisione di non seguire una sola impostazione teorica,35 e la consapevolezza dei limiti di una strategia antinflazionistica basata sul solo controllo della quantità di moneta.36 32 Si vedano: BCE 1999; 2000 Si veda: BCE 1999. 34 BCE 2001, p. 42. 35 “Data la notevole incertezza cui la politica monetaria deve far fronte... sarebbe poco saggio fare affidamento su uno specifico modello, indicatore o previsione, escludendo possibili alternative.” BCE 2001, p. 47 33 “Sono due le argomentazioni che sconsigliano di affidarsi esclusivamente al primo pilastro per l’analisi alla base delle decisioni di politica monetaria. In primo luogo, a causa della variabilità della velocità di circolazione della moneta. Può essere talvolta difficile interpretare gli andamenti monetari a breve termine ed estrarre i segnali relativi ai rischi per la stabilità dei prezzi… In secondo luogo, fare esclusivo affidamento sul primo pilastro comporta il pericolo che si presti insufficiente attenzione ai rischi per la stabilità dei prezzi nel medio termine che scaturiscono dagli andamenti di variabili diverse dalla moneta.” BCE 2001, p. 47 36 15 2.b) Quantità di moneta e domanda aggregata Secondo la teoria quantitativa la presenza di uno squilibrio tra domanda e offerta di moneta provocato da una improvvisa variazione dell’offerta, determina una variazione della domanda aggregata. Friedman sottolinea questa relazione utilizzando la distinzione tra quantità nominale e reale di moneta; quest’ultima grandezza corrisponde alla quantità di beni e servizi che può essere acquistata mediante lo stock nominale di moneta. Egli afferma che la quantità nominale di moneta dipende da fattori fondamentalmente diversi da quelli che influenzano la domanda di moneta in termini reali; quindi variazioni significative dell’offerta di moneta possono verificarsi indipendentemente rispetto a variazioni della domanda.37 Una variazione dell’offerta nominale di moneta che determini un eccesso della quantità reale di moneta rispetto a quella che il pubblico desidera possedere, provocherà un incrmento della domanda aggregata. Friedman illustra la relazione tra squilibrio sul mercato della moneta e livello della domanda aggregata in diversi modi. Il primo caso è costituito dal famoso esempio secondo cui la nuova moneta viene lanciata da un elicottero. Friedman considera un sistema in equilibrio, nel quale gli operatori esprimono una determinata domanda di moneta in termini reali; ad esempio una domanda pari ad un decimo del reddito, quindi a fronte di un reddito di 10000 dollari, la domanda di moneta sarà pari a 1000 dollari. Partendo da questa situazione Friedman suppone che un elicottero lasci cadere dal cielo 1000 nuovi dollari. Tutti gli operatori raccoglieranno la nuova moneta.38 Se la gente si limitasse a conservare la nuova moneta il reddito e i prezzi rimarrebbero invariati. Friedman osserva però che non è logico pensare che ogni individuo si limiti ad aumentare le proprie scorte monetarie; se infatti tutti gli individui ritenevano opportuno detenere una quantità di moneta pari ad un decimo del suo reddito, non c’è alcuna ragione per pensare che dopo il lancio della moneta dall’elicottero essi modifichino il loro comportamento e decidano di accumulare uno stock di moneta pari ad un quinto del loro reddito. Quindi 37 Si veda: Friedman and Schwartz 1982. Friedman suppone che ogni individuo raccolga una quantità di nuova moneta pari a quella già posseduta. 38 16 Friedman osserva che la variazione dell’offerta di moneta spingerà gli operatori a ridurre le loro scorte monetarie, domandando beni, e ciò porterà all’aumento dei prezzi. Effetti simmetrici vengono prodotti dalla riduzione improvvisa della quantità di moneta; in questo caso Friedman suppone che il settore pubblico bruci in un inceneritore la moneta raccolta mediante una nuova imposta. 39 In entrambi i casi la variazione dell’offerta di moneta si accompagna ad una variazione della domanda aggregata. Nel caso dell’elicottero gli individui domandano una maggior quantità di beni poiché la loro ricchezza nominale e reale aumenta; nel caso dell’inceneritore invece, la riduzione dell’offerta di moneta si accompagna ad una diminuzione della capacità di spesa degli individui. La seconda spiegazione con la quale Friedman descrive le conseguenze della variazione dell’offerta di moneta si basa sulla distinzione tra mercato della moneta e mercato del credito. Egli afferma che il mercato della moneta funziona come qualsiasi altro mercato caratterizzato da una funzione di domanda, una funzione di offerta e da un prezzo. Il punto critico consiste nel definire il prezzo della moneta; Friedman osserva che spesso si confonde ‘moneta’ e ‘credito’; ciò porta a definire in modo scorretto il prezzo della moneta. Il prezzo della moneta, afferma Friedman, consiste nella quantità di beni che possono essere acquistati con una unità di moneta, quindi corrisponde al reciproco del livello dei prezzi; il tasso di interesse corrisponde invece al prezzo del credito. Uno squilibrio tra domanda e offerta di moneta provocherà quindi una variazione del livello dei prezzi, mentre uno squilibrio tra domanda e offerta di credito provocherà una variazione del tasso di interesse. Friedman illustra questa tesi rispondendo alle critiche mosse nei confronti del monetarismo, di non aver specificato il meccanismo attraverso il quale una variazione della quantità di moneta si trasmette sui prezzi; egli afferma che: “This criticism is not justified insofar as it implies that there is a fundamental difference between the adjustment mechanism implicit or explicit in the quantity equation and in a demand – supply analysis for a particular product: shoes, or copper, or haircuts... In both cases a shift in supply or in demand introduces a discrepancy between the amounts demanded and supplied at the preexisting price. In both cases “Supponiamo dunque di sostituire l’elicottero con un inceneritore. Ipotizziamo che il governo prelevi un’imposta da tutti gli individui e bruci il gettito ottenuto, senza svolgere altre funzioni.” Friedman 1969, p. 263. 39 17 any discrepancy can be eliminated only by either a price change or some alternative rationing mechanism, explicit or implicit. ... the widespread tendency to confuse ‘money’ and ‘credit’... has produced misunderstanding about the relevant price variable. The ‘price’ of money is the quantity of goods and services that must be given up to acquire a unit of money – the inverse of the price level. This is the price that is analogous to the price of land or of copper or of haircuts. The ‘price’ of money is not the interest rate, which is the ‘price’ of credit.”40 Anche in questo caso la tesi di Friedman si basa sull’ipotesi che variazioni dell’offerta di moneta si accompagnino a variazioni della ricchezza, e quindi della capacità di spesa degli individui. Le diverse conseguenze della variazione della quantità di moneta e del credito sui prezzi si spiegano con i diversi effetti che esse producono sulla domanda aggregata. Nel caso del mercato della moneta, si assume che la variazione dell’offerta provochi un incremento della domanda aggregata poichè si assume che la capacità di spesa degli individui vari al variare della quantità di moneta. Nel caso del mercato del credito invece, un incremento dell’offerta di credito non provoca alcuna variazione della domanda aggregata poiché la maggior domanda di beni da parte di coloro che ottengono credito viene compensata dalla minor domanda di coloro che offrono credito. L’analisi monetarista riguardante la relazione tra quantità di moneta e domanda aggregata è stata messa in discussione dai Keynesiani. Particolarmente significativa è la critica di Kaldor che al fine di mettere in evidenza le debolezze teoriche del monetarismo, recupera il concetto di liquidità definito dalla commissione Radcliffe in questi termini: “Though we do not regard the supply of money as an unimportant quantity, we view it as only part of a wider structure of liquidity in the economy... It is the whole liquidity position that is relevant to spending decisions... The spending is not limited by the amount of money in existence but it is related to the amount of money people think they can get hold of, whether by receipt of income by disposal of capital asset or by borrowing.”41 Secondo Kaldor la relazione tra moneta e domanda aggregata è debole per due ragioni; da un lato le decisioni di spesa possono essere realizzate mediante strumenti alternativi alla moneta come il credito.42 In secondo luogo Kaldor 40 Friedman and Schwartz 1982, p. 26. Per un’analisi del pensiero di Kaldor su questo tema, si veda: Bertocco 2001. 42 Questo punto è sottolineato anche dai New Keynesians; si veda ad esempio: Greenwald and Stiglitz 1991. 41 18 osserva che variazioni della quantità di moneta riflettono decisioni che riguardano la composizione della ricchezza degli operatori, e quindi non influenzano la domanda aggregata. I Keynesiani osservano inoltre, che gli effetti di una determinata variazione della quantità di moneta dipendono dal modo in cui essa viene creata; Tobin (1972) sottolinea che un dato incremento dell’offerta di moneta avrà effetti differenti a seconda del caso in cui la nuova moneta venga creata per acquistare beni, come avviene quando serve a finanziare un incremento della spesa pubblica, oppure per acquistare titoli. Friedman riconosce che questa critica ha un certo fondamento; egli ritiene però che l’effetto d’impatto, che dipende dal modo in cui la moneta viene immessa nel sistema non sia particolarmente rilevante rispetto all’effetto permanente provocato dalla variazione della quantità di moneta.43 Egli identifica l’effetto permanente con quello delle variazioni di moneta realizzate mediante operazioni di mercato aperto. La sua analisi si distingue da quella dei keynesiani poiché Friedman suppone che una variazione della quantità di moneta realizzata attraverso operazioni di mercato aperto, non si limiti a provocare una variazione della domanda di titoli, ma influenzi un ampio spettro di attività patrimoniali che comprende le azioni e i beni di consumo durevole.44 Questo meccanismo funziona anche nel caso in cui le autorità monetarie controllino i tassi di interesse invece della quantità di moneta; la manovra dei tassi influenza non solo la domanda di moneta e di titoli, ma anche quella di altre attività patrimoniali, ad esempio le azioni come messo in evidenza da Tobin, o i beni di consumo durevole. In questo caso gli effetti della politica monetaria non si basano soltanto sull’influenza dei tassi di interesse sulle decisioni di investimento, “Of corse… the way the quantity of money is increased will affect the outcome in some misure or other, If one group of individuals receives the money on the first round, they will likely use it for different purposes than another group of individuals. If the newly printed money is spent on the first round for goods and services, whereas if it is spent on purchasing debt it has no such immediate effect on the demand for goods and services. Effect on the demand for goods and services come later as the initial recipients of the ‘new’ money themselves dispose of it. Clearly, also, as the ‘new’ money spreads through the economy, any first-round effects will tend to be dissipated. The ‘new’ money will be merged with the old and will be distributed in much the same way. Friedman and Schwartz 43 1982, p. 30. 44 Si veda: Friedman 1970, . 19 ma si basano anche sull’effetto ricchezza prodotto dalla variazione dei prezzi delle azioni indotto dalla variazione della quantità di moneta. L’analisi dell’esperienza italiana degli anni ottanta e novanta non sembra fornire elementi che confermino la presenza della relazione tra variazione della quantità di moneta e livello della domanda aggregata descritta dai monetaristi. In questi anni, come si è detto, le autorità monetarie controllano i tassi di interesse e le variazioni della quantità di moneta riflettono modificazioni della domanda; non esistono le condizioni per associare le osservate variazioni della quantità di moneta alle variazioni della domanda aggregata ipotizzate da Friedman quando utilizza l’esempio dell’elicottero o descrive le differenze tra il mercato del credito e quello della moneta. FS attribuiscono rilevanti effetti antinflazionistici alla riduzione del tasso di crescita della quantità di moneta registrata negli anni 1994-1996. In realtà è difficile immaginare che queste variazioni della quantità di moneta, che riflettono gli effetti di decisioni relative alla composizione della ricchezza, abbiano avuti effetti analoghi a quelli descritti da Friedman usando l’esempio dell’inceneritore. Neppure sembra realistico pensare che la politica degli altri tassi di interesse praticata dalla autorità monetarie in questi anni abbia determinato una riduzione del prezzo delle azioni e quindi del valore di mercato della ricchezza delle famiglie, tale da provocare una significativa riduzione della domanda aggregata e quindi del tasso di inflazione. Un’analisi superficiale della composizione della ricchezza finanziaria delle famiglie permette di osservare che di questo fenomeno non esiste traccia; tra il 1995 e il 1999 si registra al contrario, un forte aumento della quota delle azioni sul totale della ricchezza finanziaria; la quota delle azioni è passata dal 18,5 per cento del 1995 al 45,6 per cento del 1999. 45 Questa evoluzione riflette il sensibile incremento delle quotazioni di borsa; l’esperienza italiana mostra non solo che l’ascesa dei tassi di interesse tra il 1994 e il 1996 non ha innescato un effetto ricchezza negativo, ma che il consistente effetto ricchezza positivo provocato dalla fortissima ascesa delle quotazioni azionarie, non ha compromesso il processo di riduzione dell’inflazione. 45 Si veda: RABI 2000, p. 214. 20 2.c) Alcuni dati In questo paragrafo vengono presentati alcuni dati coerenti con le considerazioni espresse nelle pagine precedenti. La figura 1 riporta i tassi di variazione della quantità di moneta e i tassi di inflazione. A prima vista questi dati sembrano confermare la validità dell’interpretazione monetarista; nel corso degli anni settanta l’aumento del tasso di inflazione coincide con elevati tassi di crescita della quantità di moneta, mentre negli anni ottanta e novanta la riduzione dell’inflazione coincide con la diminuzione del tasso di crescita della quantità di moneta. Tasso di inflazione e tasso di variazione della quantità di m oneta 30 25 20 15 10 5 0 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 -5 -10 Inf lazione %monet a Figura 1 Questo tipo di evidenza empirica è simile a quella che viene generalmente usata per dimostrare la validità della teoria monetarista; si tratta di verifiche che considerano la correlazione di lungo periodo tra il tasso di crescita della moneta e il tasso di inflazione, utilizzando i dati di un ampio numero di paesi. McCandless and Weber (1995) utilizzano ad esempio, i tassi medi di variazione della quantità di moneta e del tasso di inflazione relativi ad un periodo di 30 anni (1960-1990) riguardanti 110 paesi; Dwyer and Hafer (1988) utilizzano i dati medi relativi ad 21 un perido di cinque anni (1979-1984) che riguardano 62 paesi. In entrambi i casi si ottengono risultati coerenti con le conclusioni della teoria quantitativa della moneta. Anche i dati riportati nella figura 1 mostrano la presenza di una significativa correlazione tra la quantità di moneta e il tasso di inflazione: nel corso degli anni settanta a fronte di un tasso medio di crescita della quantità di moneta pari al 19,5 per cento, si registra un tasso d’inflazione medio del 13,6 per cento; negli anni ottanta il tasso medio di crescita della moneta scende all’11,4 per cento e il tasso d’ inflazione medio diminuisce al 9,1 per cento. Infine negli anni novanta il tasso medio di crescita della moneta arriva al 4 per cento e il tasso medio di inflazione scende al 2,2 per cento. Ci sono due ragioni che mettono in discussione la possibilità di utilizzare i dati riportati nella figura 1 come una conferma della validità della teoria quantitativa. In primo luogo, mancano evidenze che permettano di considerare le variazioni della quantità di moneta esogene rispetto alle variazioni dei prezzi. Secondo la teoria quantitativa le variazioni della quantità di moneta devono riflettere squilibri tra domanda e offerta provocati da variazioni improvvise dell’offerta; nelle pagine precedenti si è sottolineato che, nel periodo analizzato le autorità monetarie non hanno controllato la quantità di moneta. Durante gli anni ottanta e novanta le autorità monetarie hanno controllato i tassi di interesse, senza porsi un obiettivo in termini di quantità di moneta; quindi la quantità di moneta deve essere considerata una grandezza endogena. In secondo luogo, si deve osservare che i dati della figura 1 inducono a considerare gli anni ottanta e novanta come un periodo omogeneo caratterizzato dalla riduzione del tasso di crescita della moneta e dalla riduzione del tasso di inflazione. Questa interpretazione però, non è in grado di spiegare le ragioni della crisi valutaria del 1992: se nel corso degli anni ottanta la politica monetaria viene attuata correttamente, abbassando il tasso di crescita della quantità di moneta, quali sono le ragioni della svalutazione del 1992? Come si è visto, FS sostengono che la causa di fondo della crisi valutaria sia costituita dai limiti della politica antinflazionistica seguita durante gli anni ottanta. In questo periodo le autorità monetarie italiane non avrebbero seguito una manovra sufficientemente rigorosa; nel corso degli anni ottanta la moneta cresce ad un ritmo inferiore a quello degli 22 anni settanta, ma superiore a quello che negli anni novanta avrebbe consentito di eliminare il differenziale di inflazione con i paesi più virtuosi. L’interpretazione di FS si basa sull’idea che il tasso di variazione della quantità di moneta sia un indicatore sufficiente a rappresentare l’indirizzo della politica monetaria. Questa tesi non sembra convincente. La quantità di moneta misurata dai conti finanziari corrisponde alla moneta posseduta da tutti gli operatori del sistema. Quando si misura la quantità di moneta si considera la moneta come un’attività patrimoniale, come una componente della ricchezza degli operatori. Questo implica che, anche nel caso in cui si ammettesse che le autotirà monetarie controllano l’offerta di moneta, l’intensità della manovra monetaria non può essere valutata considerando soltanto il tasso di variazione della quantità di moneta, ma sarà necessario considerare anche la dimensione della ricchezza e le sue variazioni.46 A parità di variazione della quantità di moneta, la manovra delle autorità monetarie sarà tanto più restrittiva quanto maggiore è il tasso di variazione della ricchezza finanziaria. Quindi, nel caso in cui si ammettesse che le autorità monetarie controllano la quantità di moneta, il dato più significativo per valutare l’intensità di una manovra monetaria dovrebbe essere costituito dal rapporto tra lo stock di moneta e la ricchezza finanziaria degli operatori. 46 Friedman (1956) sottolinea che la teoria quantitativa è una teoria della domanda di moneta, e che l’analisi della domanda di moneta può essere sviluppata nello stesso modo in cui si sviluppa la teoria del damanda di un bene di consumo; nel caso della domanda di moneta il vincolo di bilancio sarà costituito dalla ricchezza invece che dal reddito. 23 Attività Finanziarie delle famiglie / Pil 2,5 2 1,5 1 0,5 0 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 Figura 2 La figura 2 riporta l’andamento della ricchezza finanziaria delle famiglie in rapporto al Pil; questo rapporto rimane sostanzialmente costante nel corso degli anni settanta e subisce un forte incremento nel corso degli anni ottanta: nel 1983 la ricchezza finanziaria delle famiglie è pari a 0,88 volte il Pil, nel 1993 diventa pari a 1,8 volte il Pil, negli anni successivi questo rapporto si riduce, e torna a crescere nel 1997 e nel 1998 quando raggiunge un valore pari a 2,18. Nel corso degli anni ottanta la ricchezza finanziaria delle famiglie è cresciuta molto più rapidamente rispetto a quanto si è verificato durante gli anni novanta; questo è confermato dai dati relativi ai saldi finanziari delle famiglie riportati nella figura 3. Nel corso degli anni ottanta il rapporto tra i saldi finanziari delle famiglie e il Pil oscilla tra il 12 e il 14 per cento, negli anni novanta si registra una sensibile riduzione del valore di questo rapporto che passa dal 14 per cento nel 1991 al 5 per cento del 1998. 24 98 Saldi finanziari delle fam iglie / Pil 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 Figura 3 In conclusione, gli anni ottanta sono caratterizzati, rispetto agli anni novanta, da maggiori tassi di variazione della quantità di moneta e da una maggior crescita della ricchezza finanziaria delle famiglie.La figura 4 riporta la composizione della ricchezza finanziaria delle famiglie; la curva continua indica il peso della moneta mentre quella tratteggiata rappresenta il peso dei titoli, delle azioni e delle quote di fondi comuni. Negli anni settanta si registra un significativo aumento della quota di moneta, mentre negli anni ottanta questa quota si riduce nettamente scendendo da un valore pari al 68 per cento nel 1979 ad un valore pari al 35,4 per cento nel 1992. Questo dimostra che nel corso degli anni ottanta la ricchezza finanziaria delle famiglie è cresciuta ad un ritmo più elevato rispetto alla moneta. Questa riduzione continua, anche se meno intensamente, negli anni novanta. 25 Com posizione della ricchezza finanziaria delle fam iglie 80 70 60 50 40 30 20 10 0 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 MON/ AFFAM 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 TIT/ AFFAM Figura 4 Negli anni ottanta la modificazione la modificazione della composizione della ricchezza delle famiglie è stata ancor più intensa rispetto agli anni novanta. Questi dati confermano che se anche si assumesse che le variazioni della quantità di moneta siano state provocate dalle autorità monetarie, non sarebbe possibile concludere che la manovra restrittiva attuata durante gli anni novanta sia stata più intensa rispetto agli anni ottanta.. Questa conclusione è coerente con altre due osservazioni: la prima riguarda il fatto che negli anni novanta la riduzione della quota di moneta è particolarmente forte negli anni 1997-1998, mentre la stretta monetaria realizza tra il 1994 e il 1996. In secondo luogo, se si osserva l’andamento del tasso di interesse reale sui Bot riportato nella figura 5, si può constatare che il livello di questo tasso è mediamente più elevato nel corso degli anni ottanta rispetto agli anni novanta. A fronte di valori mediamente negativi nel corso degli anni settanta, nel periodo 1981-92 si registra un valore medio annuo del tasso reale ex post sui Bot par al 5,7 per cento, mentre nel corso degli anni novanta il valore medio è pari al 4,8 per cento. 26 Tasso di interesse reale 'ex post' Bot 12 10 8 6 4 2 0 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 -2 -4 -6 -8 Figura 5 Se non è possibile dimostrare che la politica antinflazionistica degli anni novanta è stata più intensa di quella degli anni ottanta, allora non è possibile, come fanno invece FS, attribuire la crisi valutaria del 1992 all’insufficiente rigore della politica monetaria e la riduzione dell’inflazione nel corso degli anni novanta, alla corretta politica seguita dalle autorità monetarie. Rimangono allora, senza risposta due importanti questioni; in primo luogo se cade la spiegazione avanzata da FS delle cause della crisi del ’92 si questo pone il problema di individuare una spiegazione alternativa di questo evento. In secondo luogo, se non è possibile attribuire alla politica monetaria rigorosa degli anni 90 il merito di aver azzerato il differenziale di inflazione con gli altri paesi europei, diventa necessario elaborare una spiegazione alternativa a quella fornita da FS. Nella seconda parte verrà presentata una risposta a questi due quesiti. 27 PARTE SECONDA: UNA SPIEGAZIONE ALTERNATIVA Una spiegazione più convincente dell’evoluzione dell’inflazione italiana rispetto a quella di FS, può essere elaborata sulla base di una teoria dell’inflazione che mette in rilievo il ruolo della dinamica dei costi di produzione. Questa teoria si basa su tre punti: a) le fasi di espansione dell’inflazione non possono essere spiegate soltanto dall’atteggiamento accondiscendente delle autorità monetarie; b) la politica monetaria agisce sul tasso di inflazione in quanto condiziona grandezze che influenzano i costi di produzione; ad esempio il tasso di cambio e il livello della domanda aggregata; c) una manovra di riduzione dell’inflazione non può basarsi soltanto sull’impiego della politica monetaria, ma deve prevedere anche l’utilizzazione di altri strumenti quali la politica dei redditi e la politica fiscale. Questa tesi ha ricevuto in Italia un importante sostegno da parte delle autorità monetarie; questo modo di spiegare il fenomeno dell’inflazione accomuna tutti e quattro i governatori che hanno guidato la Banca d’Italia nel periodo analizzato in questo lavoro: Guido Carli (1960-75), Paolo Baffi (1975-79); Carlo A. Ciampi (1979-93) e l’attuale governatore Antonio Fazio. che l’inflazione degli anni settanta La Banca d’Italia sottolinea non può essere spiegata semplicemente dall’atteggiamento accondiscendente delle autorità monetarie, ma trova le sue giustificazioni di fondo nell’espansione del costo del lavoro e nella dilatazione della spesa pubblica.47 G.Carli per sottolineare l’impatto delle rivendicazioni sindacali sulla dinamica del costo del lavoro afferma che nel corso degli anni settanta l’Italia si trovava in un sistema di labour standard, cioè: “in un sistema contraddistinto dal salario come variabile indipendente.”48 In questa situazione l’inflazione costituiva il costo “… la rottura dell’equilibrio monetario si determina nelle decisioni di spesa del settore pubblico e in quelle di distribuzione del reddito all’interno dell’impresa. E’ là che la relazione tra impieghi e risorse si tende fino a fare dell’aumento dei prezzi e della svalutazione un necessario perverso strumento di ricomposizione.Relazione annuale della Banca d’Italia (RABdI 1980), p.386. Per un’analisi più approfondita delle tesi sostenute dalle autorità monetarie italiane in quegli anni si vedano: G.Bertocco 1991, 1992; I.Visco 1995. 47 48 G.Carli 1977, p. 58. 28 necessario da sopportare per mantenere tassi di crescita elevati. 49 Anche P.Baffi metteva in evidenza le cause non monetarie dell’inflazione: “Si avverte oggi che per la sua elevatezza, per la sua persistenza, per la sua diffusione mondiale, per il suo essere radicato nelle aspettative, l’inflazione di questi anni è un fenomeno diverso dalle grandi esplosioni o dalle lente lievitazioni dei prezzi di cui offre esempi il passato; che essa non trova esauriente spiegazione in un’improvvisa, diffusa, persistente fiacchezza delle banche centrali o nella dissipazione dei governi; che non le è forse estranea una evoluzione più profonda dei rapporti sociali, attraverso la quale si sono trasformati i meccanismi stessi di determinazione dei prezzi, dunque di quel prezzo universale che è il valore della moneta. Come un tempo, invero, la produzione della moneta e quindi la fissazione del suo prezzo, avviene in regime di monopolio. Ma assai più di un tempo, anche i prezzi di altri beni, quali il lavoro, le materie prime, i prodotti dell’industria vengono fissati in condizioni prossime al monopolio, da forze organizzate per la difesa di interessi settoriali, e le variazioni di questi prezzi, sono spesso rigidamente concatenate…”50 Sulla base di questa analisi delle cause dell’inflazione i governatori della Banca d’Italia concludono che una politica che mira ad ottenere la stabilità dei prezzi non può basarsi sull’impiego del solo strumento monetario ma dovrà utilizzare anche altri strumenti come la politica fiscale e la politica dei redditi. P.Baffi mette in rilievo i costi di una manovra antinflazionistica basata soltanto sull’impiego della politica monetaria: “Contrapporre a più concentrati e rigidi processi di formazione dei prezzi un più duro esercizio del monopolio monetario, indipendentemente dall’adesione e dalla convinzione di chi opera nell’economia significherebbe, come in alcuni paesi ha significato, perseguire la stabilità monetaria con l’imposizione, con un metodo che porterebbe sprechi e distorsioni di risorse non dissimili da quelli che si accompagnano a un blocco dei prezzi. … Nelle condizioni del nostro tempo, una regola monetaria non può essere il sostituto o lo strumento di una disciplina nelle 49 Commentando la ripresa economica che si registrava nella prima parte del 1973 grazie alla spinta della svalutazione decisa alla fine del 1972, Carli affermava: “La ripresa economica in atto costituisce oggetto di opposte valutazioni: gli uni sottolineano il progresso della produzione, gli altri, che esso coesiste con un rapido aumento dei prezzi. Ciò è accaduto sia perché l’inflazione imperversava nel mondo, sia perché da noi nel corso degli anni recenti essa era stata contenuta solo in quanto non si era riusciti ad espandere la domanda. Cause molteplici avevano contribuito ad inasprire la spinta all’aumento dei costi: gli accrescimenti dei costi unitari non erano stati trasferiti sui prezzi e gli equilibri aziendali ne avevano sofferto. In queste condizioni, nessuna politica avrebbe consentito di avvicinare il sistema al pieno utilizzo della capacità produttiva senza passare attraverso l’inflazione.” (RABdI 1972, p.410) 50 RABdI 1978, pp. 377/8. 29 decisioni e nei comportamenti di tutta la società; quando ha avuto successo, essa è stata guida e suggello a scelte maturate con la ragione e l’esperienza.”51 Nella relazione sul 1980 C.A.Ciampi ribadisce la stessa conclusione ed auspica una nuova costituzione monetaria basata sull’impiego coordinato della politica monetaria, di bilancio e dei redditi.52 La stessa impostazione è sostenuta nel corso degli anni novanta dal successore di Ciampi, A.Fazio: “In a large and complex economic system the level of prices is strongly affected by other variables and circumstances, first of all fiscal policy and labour costs. In such cases the reliance solely on monetary policy to achieve monetary stability can be extremely costly in terms of other economic objectives.”53 I sostenitori della nuova macroeconomia classica ritengono che queste affermazioni siano espressione di un approccio teorico superato che considera i comportamenti delle imprese, dei sindacati, del settore pubblico indipendenti rispetto alle decisioni delle autorità monetarie. Essi utilizzano le conclusioni della critica di Lucas alla teoria della politica economica per sottolineare l’interazione strategica tra le autorità di politica economica che perseguono obiettivi propri, distinti da quelli degli altri soggetti economici, e gli operatori del sistema il cui comportamento dipende dalle informazioni relative alle decisioni delle autorità monetarie. Secondo questo approccio le decisioni delle imprese, dei sindacati, del RABdI 1978, pp. 377/8. Qualche anno prima Baffi aveva così delineato l’azione delle autorità monetarie: “… se in presenza di dissesto finanziario e di inflazione salariale il controllo della massa monetaria deve essere abbandonato per evitare, almeno nell’immediato mali peggiori, da ciò si evince che l’Istituto di emissione dovrà battersi per la stabilità su fronti più lontani. Dovrà cioè documentare, argomentare, ammonire prima di tutto perché le condizioni che determinano gli stati di necessità descritti da Einaudi e da Carli non abbiano a riprodursi. Rivolgendosi all’opinione pubblica, alle forze politiche e sociali, avverrà che esso riesca molesto ai destinatari e procuri a sé stesso l’amarezza di risposte evasive od insofferenti; ma il cercare di convincere queste forze a non abusare del loro dominio ultimo sulla moneta è un modo di essere cui la banca centrale non può rinunciare senza tradire il suo ruolo.” (RABdI 1975, p.441) 52 “… non è con l’attributo di una liquidità scarsa o di un cambio non accomodante che si ripristina l’equilibrio monetario. Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della banca centrale, le procedure per le decisioni della spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito.” RABdI 1980, p. 383. 53 Cukierman critica Fazio sostenendo che: “This statement is obviously true and realistic. But it ignores the effect of what the public and the political authorities know about the accomodative tendencies of the central bank on the behavior of wages, prices, and the fiscal deficit.”A.Fazio 1991, p. 135. 51 30 settore pubblico, non sono affatto indipendenti dalle scelte compiute dalle autorità monetarie ma sono condizionate dall’intensità dell’impegno inflazionistico della banca centrale. In questo modo si ribadisce la conclusione secondo cui l’inflazione è sostanzialmente un fenomeno monetario la cui causa determinante è costituita dalle scelte delle autorità monetarie che sono in grado di influenzare il comportamento degli altri soggetti economici. Un esempio significativo di questa impostazione è offerto da Cukierman il quale considera l’affermazione di Fazio come l’espressione di uno schema teorico obsoleto poiché ignora le conseguenze delle scelte delle autorità monetarie sul comportamento degli operatori economici.54 Cukierman sottolinea come l’andamento dei salari sia condizionato dalle decisioni delle autorità monetarie,55 e le decisioni del settore pubblico. Di fronte ad un controllo rigoroso del tasso di crescita della base monetaria il settore pubblico non è in grado di fissare in modo autonomo i propri disavanzi poiché incontrerebbe crescenti difficoltà nel finanziare le proprie decisioni di spesa.56 Di qui la conclusione secondo la quale l’inflazione è un fenomeno monetario.57 Si intende mostrare che la teoria dell’inflazione da costi permette di elaborare una spiegazione significativa delle cause della crisi valutaria del settembre ’92 e della riduzione dell’inflazione nel corso degli anni novanta. Sulla base di quanto schema teorico possiamo suddividere gli anni ottanta e novanta in due sottoperiodi separati dalla crisi valutaria del ’92. I due periodi si differenziano in relazione alle caratteristiche della manovra antinflazionistica: negli anni ottanta 54 A.Cukierman 1992, p. 15. “…. The extent of wage push is itself endogenous. In particular, it reflects what individuals know about the central bank’s tendency to accomodate prices, labour costs, and budgetary deficits” A.Cukierman 1992, p. 15 56 B.McCallum (1999, p. 1519) afferma: “… an independent central bank is technically able to control their own path of base money creation, but fiscal authorities cannot directly control their own primary deficit magnitudes. The reason is that deficits are measures of spending in excess of tax collections, so if a fiscal authority embarks on a tax and spending plan that is inconsistent with the central bank’s (perhaps non-inflationary) creation of base money, it is the fiscal authority that will have to yield. Why? Simply because in this circumstance, it will not have the purchasing power to carry out its planned actions.” 57 “Currently, most, if not all, economists agree with the view that inflation is a monetary phenomenon , in the sense that there would be no inflation in the long run without sustained increases in the money supply. This leads to the obvious policy statement that long-run price stability can be achieved by limiting the rate of monetary growth to the long-run rate of growth of the economy A.Cukierman 1992, p. 1. 55 31 questa manovra si basava sull’impiego della sola politica monetaria, mentre nel corso degli anni novanta, dopo la svalutazione, l’azione antinflazionistica è caratterizzata dall’impiego contemporaneo della politica monetaria, della politica fiscale e della politica dei redditi. La modificazione delle caratteristiche della manovra antinflazionistica è in grado di spiegare le ragioni della crisi valutaria del ’92 e quelle della riduzione dell’inflazione nel corso degli anni novanta. La causa di fondo della svalutazione è costituita dagli squilibri provocati da una politica antinflazionistica basata soltanto sull’impiego della politica monetaria, mentre la riduzione dell’inflazione durante gli anni novanta, nonostante la forte svalutazione della lira, può essere spiegata dall’efficacia di una manovra basata sull’impiego combinato della politica monetaria, della politica fiscale e della politica dei redditi. Questa interpretazione sottolinea gli effetti delle misure di politica dei redditi e di politica fiscale adottate in coincidenza e successivamente rispetto alla svalutazione del ’92. E’ significativo che queste misure non siano state adottate prima della crisi del ’92; questo fatto contraddice la tesi di Cukierman e dei sostenitori della nuova macroeconomia classica secondo cui la politica dei redditi e la politica fiscale non sono strumenti indipendenti rispetto alla politica monetaria. A partire dal 1979, in coincidenza con l’adesione al sistema monetario europeo, le autorità monetarie manovrano i tassi di interesse al fine di stabilizzare il tasso di cambio rispetto alle altre valute europee. La politica di stabilizzazione diventa l’unico elemento della manovra antinflazionistica. Secondo Cukierman l’impegno deciso delle autorità monetarie avrebbe dovuto influenzare in modo significativo il comportamento dei lavoratori e del settore pubblico. Ciò non si è verificato; al contrario, l’assenza di significative misure di politica dei redditi e di politica fiscale ha costretto le autorità monetarie a spingere i tassi di interesse a livelli particolarmente elevati. Questo ha provocato gli squilibri che costituiscono la causa fondamentale della svalutazione del settembre ’92. Paradossalmente, in coincidenza con la svalutazione che segnava il fallimento della politica antinflazionistica basata sulla stabilizzazione del cambio, si creano le condizioni che consentono di adottare quelle misure di politica dei redditit e di politica fiscale che hanno permesso di ridurre l’inflazione nonostante la 32 svalutazione della lira. Nei prossimi due paragrafi si descriveranno gli aspetti più significativi delle due fasi del processo di riduzione dell’inflazione che si registrano negli anni ottanta e novanta. 3.a) Il periodo 1980-92 Con l’adesione dell’Italia al sistema monetario Europeo, avvenuta nel 1979, la stabilizzazione del cambio costituisce il perno della manovra antinflazionistica. Il cambio stabile costituiva un elemento di disciplina nei confronti delle imprese che, non potendo più contare sulla svalutazione, dovevano difendere la propria competitività attraverso il controllo della dinamica dei costi.58 Le autorità monetarie difesero il cambio utilizzando lo strumento costituito dai tassi di interesse. La manovra dei tassi di interesse fu resa possibile dalla creazione, a partire dalla metà degli anni settanta, di un mercato monetario che consentì alla banca centrale di riacquistare il controllo della base monetaria e di manovrare i tassi di interesse in un periodo caratterizzato da tassi di inflazione elevati. Nel 1981 il ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Tesoro rese esplicito il passaggio alla nuova impostazione operativa delle autorità monetarie. Questa politica permise di ridurre in maniera significativa l’inflazione nel corso degli anni ottanta: da un tasso annuo di variazione dei prezzi al consumo pari al 21 per cento nel 1980 si arrivò ad un tasso del 6 per cento nel 1987 con una corrispondente riduzione del differenziale di inflazione rispetto alla Germania da 16 punti a 4,5 punti. A prima vista questa manovra sembra coerente con le indicazioni fornite dagli sviluppi più recenti della teoria monetaria secondo cui le autorità monetarie devono perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi definendo un’àncora nominale. Un significativo esempio di àncora nominale che può essere applicato dalle autorità monetarie di un paese con inflazione elevata, consiste nel fissare il cambio rispetto alla moneta di un paese con un basso tasso di inflazione. Questa manovra ha diversi vantaggi: in primo luogo, spinge le aspettative inflazionistiche 58 Si vedano: Ciampi 198; Gressani, Guiso, Visco 1987; Visco 1995; Pittaluga, Verga 1995; Bertocco 1997; Gaiotti, Gavosto , Grande 1998. 33 del paese che ha stabilizzato il cambio al livello di quelle che caratterizzano il paese con un basso tasso di inflazione. In secondo luogo, la stabilizzazione del cambio fissa una regola automatica per la gestione della politica monetaria costringendo le autorità monetarie ad attuare una politica restrittiva quando il cambio tende a svalutarsi.59 In realtà questa manovra non è stata pienamente efficace; ciò è dimostrato dal fatto che il comportamento rigoroso degli operatori non ha influenzato, come invece prevede la nuova macroeconomia classica, il comportamento delle imprese, dei lavoratori e del settore pubblico; soltanto dopo la svalutazione del 1992, che segna la fine della politica di stabilizzazione del cambio, vengono adottate significative misure di politica dei redditi e di bilancio. La realizzazione di queste misure nel corso degli anni ottanta, avrebbe migliorato la competitività della produzione nazionale, riducendo il disavanzo delle partite correnti; ciò avrebbe consentito alle autorità monetarie di evitare forti aumenti dei tassi di interesse reali. In quegli anni le autorità monetarie osservano ripetutamente che il livello elevato dei tassi di interesse deriva dal fatto che il peso della difesa del cambio è ricaduto soprattutto sulla politica monetaria.60 Questa azione antinflazionistica ha prodotto squilibri nei conti con l’estero e nei conti del settore pubblico, questi squilibri costituiscono la causa ultima della svalutazione della lira del settembre 1992. L’equilibrio della bilancia dei pagamenti ottenuto compensando il disavanzo delle partite correnti con un avanzo dei movimenti di capital era piuttosto fragile poichè si basava sulla disponibilità dei mercati finanziari internazionali a sottoscrivere titoli di credito nei confronti di operatori nazionali; nel corso dei primi anni novanta l’aumento dei tassi di interesse che si registra in Germania a seguito del processo di unificazione, costringe le autorità monetarie italiane ad alzare i tassi di interesse a livelli così elevati da diffondere dubbi sulla capacità del nostro sistema 59 Il limite di questa strategia è costituito dal fatto che il paese che stabilizza il cambio deve rinunciare ad impiegare in modo autonomo la politica monetaria al fine di affrontare problemi interni; si veda: Mishkin 1999. 60 ‘Il sistema delle imprese è stato spinto ad attuare politiche severe di risanamento e di ristrutturazione. Il contrasto tra il crescente assorbimento di risorse da parte del settore pubblico e la necessità di riconquistare la stabilità dei prezzi e di impedire disavanzi insostenibili nella bilancia dei pagamenti, ha contribuito a far salire il saggio reale di interesse a livelli particolarmente elevati.” (RABdI 1985, CF p. 18, si vedano anche: RABdI 1986, CF p. 27, RABdI 1992, CF p. 28, RABdI 1993, CF pp. 10-11) 34 economico di sopportarne gli effetti. La politica degli alti tassi di interesse ebbe anche effetti molto rilevanti sulla dinamica dei conti del settore pubblico; nel corso degli anni ottanta si registra infatti un forte incremento della spesa per interessi che contribuisce in modo rilevante, a spiegare l’incremento dei disavanzi pubblici e del debito pubblico.61 La fragilità dell’equilibrio che caratterizza l’esperienza degli anni ottanta, diventa evidente alla fine del 1991 con la stesura del trattato di Maastricht, che stabiliva i parametri con i quali si doveva misurare il grado di convergenza dei paesi che avrebbero dovuto partecipare all’Unione Monetaria Europea. La definizione di questi criteri mise in rilievo immediatamente la distanza dell’Italia rispetto a quella che il trattato di Maastricht considerava la condizione coerente con la partecipazione all’UME. L’unico parametro rispettato dall’Italia era quello relativo al tasso di cambio; i livelli di inflazione, del tasso di interesse, del disavanzo e del debito pubblico, erano invece molto lontani dai valori previsti dal trattato. Si diffusero quindi, aspettative di una svalutazione della nostra moneta che non potevano essere contrastate dalla difesa messa in atto dalle sole autorità monetarie italiane; si arrivò così, alla svalutazione e all’uscita della lira dallo SME. In conclusione, si può considerare la svalutazione come l’espressione dell’insufficienza di un’azione antinflazionistica basata soltanto sull’impiego della politica monetaria.62 Un altro aspetto importante dell’esperienza degli anni ottanta riguarda le caratteristiche del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. La stabilizzazione del cambio non ha influenzato tanto le aspettative, ma ha prodotto i sui effetti antinflazionistici agendo sui costi di produzione. Un cambio stabile contribuisce a ridurre l’inflazione in due modi: a) riducendo l’inflazione importata, b) introducendo un elemento di disciplina nei confronti delle imprese che, non potendo più contare sulla svalutazione, saranno costrette a realizzare i loro obiettivi in termini di competitività contenendo i margini di profitto e i costi di produzione. Questa dinamica dei tassi di interesse e dei disavanzi pubblici contribuisce a spiegare l’elevata crescita della ricchezza finanziaria delle famiglie negli anni ottanta. 61 62 Si vedano: Ciccarone e Gnesutta, 1993; Sarcinelli 1995; Visco 1995. 35 Questa spiegazione ricorre frequentemente nei documenti della Banca d’Italia; il governatore Ciampi ha sottolineato come la riduzione dell’inflazione sia stata favorita dal processo di ristrutturazione con il quale le imprese hanno reagito alla disciplina imposta dal cambio e alla politica degli alti tassi di interesse.63 Probabilmente questo processo di ristrutturazione non avrebbe potuto realizzarsi se non si fosse registrato un cambiamento significativo nelle relazioni industriali tra gli anni settanta e ottanta che coincide con la sconfitta del sindacato nella vertenza aperta nei confronti della Fiat dell’autunno 1980. Il servizio studi della Banca d’Italia ha prodotto molti lavori empirici che mettono in rilievo gli effetti del tasso di cambio sulle diverse componenti dell’indice dei prezzi; significative sono ad esempio, le conclusioni dell’analisi di Gressani, Guiso e Visco ottenute da esercizi di simulazione condotti attraverso il modello econometrico della Banca d’Italia. Questi esercizi mostrano che nel caso in cui le autorità monetarie avessero attuato, tra il 1979 e il 1986, una politica del cambio accomodante, cioè se avessero permesso un adeguamento completo del tasso di cambio nominale rispetto al differenziale tra la dinamica dei prezzi interni ed esterni, l’inflazione sarebbe stata, mediamente, di circa 4 punti più elevata rispetto ai valori storici.64 3.b) Gli anni novanta In coincidenza con la svalutazione e in momenti immediatamente successivi, furono prese importanti misure di politica dei redditi e di bilancio. Questa coincidenza non è frutto del caso; la svalutazione, a meno di un anno dalla stesura del trattato di Maastricht e nel pieno di una crisi sociale collegata alla scoperta di diffusi fenomeni di corruzione della classe politica, costituì un evento traumatico; improvvisamente l’opinione pubblica si convinse della diversità dell’Italia rispetto agli altri paesi europei. In questa situazione maturò il consenso all’adozione di 63 Si veda ad esempio: RABdI 1986, pp.14/15. Gressani, Guiso e Visco 1987, p. 154; si vedano anche: Nicoletti Altimari, Rinaldi, Siviero, Terlizzese 1997; Siviero, Terlizzese 1997. 64 36 pesanti misure che miravano e riequilibrare i conti pubblici e di efficaci interventi di politica dei redditi.65 Nel settembre del 1992 il governo Amato, facendo leva sulla crisi valutaria riuscì a far approvare una manovra di riequilibrio dei conti pubblici dell’ammontare complessivo di 92.000 miliardi. Negli anni successivi manovre simili consentirono progressivamente di far scendere il disavanzo pubblico al di sotto del livello del 3 per cento stabilito dal trattato di Maastricht. La figura 6 riporta i dati relativi al saldo primario, che corrisponde alla differenza tra entrate e spese al netto degli interesse, del settore pubblico.Nel luglio del 1993 venne raggiunto un accordo tra le parti sociali e il governo che conteneva importanti misure di politica dei redditi. Questo accordo che completava quello del luglio 1992 che aveva eliminato ogni meccanismo di indicizzazione dei salari, vincolava la crescita biennale dei salari minimi al tasso di inflazione fissato dal governo come obiettivo.66 Alla scadenza del biennio, nel caso in cui l’inflazione effettiva fosse superiore a quella programmata, le parti sociali avrebbero negoziato il recupero.67 65 Salvati (2000, p.88) afferma che i governi presieduti da G.Amato e da C.A Ciampi, che aveva lasciato la Banca d’Italia, hanno goduto di una libertà: “… di manovra, di un’occasione di assumere decisioni incisive e impopolari che non erano date ai governi degli anni ottanta… In parte ciò era dovuto alla stessa gravità della situazione – ampiamente percepita dall’opinione pubblica – che imponeva soluzioni estreme. In parte maggiore ciò discendeva dallo stato di confusione e di smarrimento in cui i partiti di governo e i loro parlamentari vissero la XI legislatura.”; si veda anche: M.Arcelli, S.Micossi, 1997. 66 Nel caso dell’Italia a differenza di quanto sperimentato in altri paesi che adottano una strategia di inflation targeting, è il governo e non le autorità monetarie a fissare l’obiettivo dell’inflazione. Un valore obiettivo che, osserva Passacantando (1996, p. 67), la banca centrale accettava poiché: “… questo obiettivo, assunto come riferimento nella determinazione della crescita dei salari risulta generalmente piuttosto ambizioso ed è pertanto improbabile che la banca centrale sia più conservatrice del governo a questo proposito.” Si veda anche: I.Visco 1995. 67 Onofri (2001, p. 29) sottolinea gli effetti antinflazionistici delle misure di politica dei redditi: “… la politica dei redditi.. limita. Al di là delle attese, l’impatto inflazionistico del deprezzamento della lira e consente una discesa relativamente rapida dei tassi di interesse… la politica dei redditi costituiva il nuovo riferimento di ultima istanza, l’àncora nominale. Durante il tentativo di stabilizzazione monetaria effettuato nel periodo tra il 1987 e i primi mesi del 1992 l’àancora nominale… era costituita dal tasso di cambio fisso, a esso si era sostituita la predeterminazione dei salari, lasciando così maggiori margini all’autorità monetaria per ridurre il livello dei tassi di interesse.” Rossi (1998, p.109) rileva che: “Nel quadriennio fra il 1991 e il 1995 le retribuzioni pro capite in termini reali diminuiscono del 3,3 per cento nel complesso dell’economia; restano immutate nell’industria, dove la produttività progredisce quasi dell’8 per cento. In termini nominali, il costo complessivo del lavoro per unità di prodotto nell’industria aumenta in quattro 37 Salòdo prim ario del settore pubblico / Pil 8 6 4 2 0 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 -2 -4 -6 -8 Figura 6 La combinazione di questi eventi ha modificato profondamente l’economia italiana; l’intensità e la rapidità di questo cambiamento possono essere colte confrontando le previsioni che nell’agosto del 1992 erano state elaborate dalla Banca d’Italia circa gli effetti di una eventuale svalutazione della lira, con i valori storici. La Banca d’Italia stimava sulla base del proprio modello econometrico, un’elasticità di breve periodo dei prezzi al cambio pari a circa il 40 per cento, che saliva al 70 per cento nel medio periodo. Si prevedeva inoltre, che la svalutazione avrebbe provocato guadagni di competitività che avrebbero avuto effetti espansivi sugli investimenti e sul reddito.68 La realtà fu molto diversa: “Nei due anni successivi alla crisi, la svalutazione è stata molto superiore alle attese, nell’ordine del 30 per cento; l’inflazione lungi dall’aumentare, si è ridotta di quasi 1,5 punti percentuali; gli investimenti in macchinari hanno fatto registrare un tracollo di quasi 20 punti percentuali nel 1993 e nella media del 1994 erano ancora circa 16 punti al di sotto del livello raggiunto nel 1991; sempre nel 1993, i consumi si anni solo di poco più del 2 per cento. Vent’anni prima, nell’altro quadrienni di drammatico indebolimento del cambio della lira, dal 1972 al 1976, quella stessa variabile era cresciuta del 94 per cento.” 68 Si veda: S.Siviero, D.Terlizzese, 1995; errori di previsione analoghi si registrano in altri centri di previsione: per la Confindustria si veda: Capretta, De Caprariis, Malgarini 1997; per il CER si veda: Ginebri 1997; per Prometeia si veda: Belfiori, Ferrari, Tomasini 1997. 38 sono ridotti, per la prima volta dal 1970, di 2,5 punti percentuali, il Pil è caduto di più di un punto.”69 Questa flessione della domanda interna nonostante gli impulsi espansivi sulle esportazioni provocati dalla svalutazione, riflette un cambiamento significativo delle decisioni di consumo e di investimento delle famiglie e delle imprese. La svalutazione, la crisi dei mercati finanziari, la pesantezza della manovra fiscale, hanno aumentato l’incertezza delle famiglie circa le loro prospettive dei reddito, e ciò ha depresso i consumi; questa incertezza si è estesa alle imprese ed ha influenzato anche la domanda di beni di investimento.70 Onofri (2001, p. 88) distingue due fasi nel processo che ha portato l’Italia nel corso degli anni novanta, a rispettare i parametri di Maastricht; la prima si realizza nel 1992-96, la seconda tra il 1996 e il 1997: “Sono stati necessari la più profonda crisi valutaria e finanziaria dal 1949 a oggi e l’avvio di un lento, e ancora irrisolto, processo di transizione del sistema politico peo produrre una discontinuità tale nel nostro sistema economico da consentire all’Italia di avviare il processo di riaggiustamento che l’ha portata all’UME…Tale processo ha visto due tappe fondamentali: l’una nell’estate del 1992, innescata dalla crisi del cambio e del debito pubblico, e l’altra, nell’estate del 1996, innescata a freddo con la decisione di ridurre di quasi quattro punti nel corso del 1997 il rapporto tra disavanzo pubblico e Pil. Nel primo caso la nostra economia sperimenta un vero e proprio aggiustamento strutturale a mutati prezzi relativi con l’estero… ma senza riguadagnare significativamente credibilità nella gestione del bilancio pubblico, con un risultato sul bilancio pubblico che a consuntivo non è adeguato allo sforzo imposto. Nel secondo caso, si tratta di un’azione mirata a cogliere una finestra unica di opportunità per sbarazzarsi della zavorra, per il bilancio pubblico del maggior onere dovuto ai differenziali di tasso di interesse sul nostro debito.” Queste misure di politica fiscale hanno contribuito a contenere la dinamica dell’inflazione in due modi. In primo luogo, è ragionevole supporre che l’impatto di queste misure sul livello della domanda aggregata abbia indotto le imprese a modificare le proprie decisioni circa la fissazione del mark up. 71 In secondo luogo le misure di politica fiscale influenzano le aspettative inflazionistiche; nella prima 69 S.Siviero, D.Terlizzese, 1995, pp.842-3. A.Locarno, S.Rossi, (1995) fanno riferimento ad una situazione di ‘crisi di fiducia’ nelle famiglie e nelle imprese che avrebbe: “… alterato i comportamenti di consumatori e investitori, riducendone drasticamente la propensione alla spesa.” Si vedano anche: I.Visco 1995; Onofri 2001. 70 Nel modello econometrico della Banca d’Italia si ipotizza che il mark up vari, tra l’altro, in funzione del grado di utilizzazione della capacità produttiva; si veda: Siviero e Terlizzese 1997. 71 39 parte di questo lavoro si è osservato come durante gli anni novanta, dopo la crisi valutaria, il ruolo delle aspettative nel processo di determinazione dell’inflazione sia diventato particolarmente significativo. Leiderman e Svensson (1995) affermano che le decisioni relative alle dimensioni del deficit pubblico possono avere un impatto sulle aspettative maggiore di quello degli annunci relativi al tassi di crescita degli aggregati monetari.72 Inoltre la dinamica dell’inflazione sembra essere stata influenzata in modo consistente dalle misure di politica dei redditi adottate con gli accordi del 1992 e del 1993. L’impatto antinflazionistico di queste misure è stato misurato attraverso alcune simulazioni realizzate dal servizio studi della Banca d’Italia.73 La prima simulazione che ricostruisce l’andamento dell’inflazione in assenza delle misure di politica dei redditi, mostra che in assenza di politica dei redditi, l’inflazione sarebbe stata più elevata di 2-3 punti percentuali nel 1966 e di 3-5 punti nel 1997.74 La seconda simulazione si proponeva di definire la variazione dei tassi di interesse che sarebbe stata necessaria per ottenere i risultati di riduzione dell’inflazione osservati nella realtà, in assenza di politica dei redditi. L’esercizio di simulazione mostra che le autorità monetarie avrebbero dovuto aumentare considerevolmente i tassi di interesse e ciò avrebbe provocato, alla fine del 1997, un disavanzo pubblico ben superiore al 3 per cento e un rapporto debito pubblico/Pil maggiore di 15 punti rispetto al valore storico. Una manovra di questo tipo, secondo gli autori della simulazione, oltre ad impedire all’Italia di partecipare all’UME, probabilmente non sarebbe neppure riuscita a ridurre l’inflazione poiché il peggioramento dei conti pubblici avrebbe tolto credibilità all’azione antinflazionistica delle autorità monetarie.75 Il terzo elemento della manovra antinflazionistica è costituito dalla politica monetaria. Nella prima parte abbiamo descritto le caratteristiche della manovra restrittiva attuata tra il 1994 e il 1996, sottolineando le particolarità di questa manovra rispetto a quelle attuate negli anni settanta e ottanta. 72 Si vedano anche: Visco 1995; Onofri 2001. 73 Si veda: S.Fabiani, A.Locarno, G.Oneto, P.Sestito, 1998. Si veda: S.Fabiani, A.Locarno, G.Oneto, P.Sestito, 1998, p. 45. 75 Si veda: S.Fabiani, A.Locarno, G.Oneto, P.Sestito, 1998, p.46 74 40 Le stesse autorità monetarie sottolineano l’importanza delle misure di politica fiscale e di politica dei redditi nello spiegare la riduzione del tasso di inflazione nel corso degli anni novanta. Nelle considerazioni finali lette nel maggio del 1996 il governatore Fazio afferma: “Quattordici mesi or sono, alla fine di marzo del 1995, il cambio del marco era pari a 1237 lire; il rendimento dei titoli pubblici decennali era del 13,5 per cento. Ieri il marco valeva 1014 lire, e i titoli rendevano il 9,5 per cento… La crisi stata superata grazie alla correzione approntata ai conti pubblici, alla moderazione salariale, a una poltica monetaria che ha ridotto l’inflazione e stabilizzato i mercati.”76 In conclusione si può sostenere che gli importanti risultati ottenuti durante gli anni novanta in termini di riduzione dell’inflazione, sono la conseguenza di una manovra antinflazionistica basata sull’impiego di tre strumenti: politica monetaria, politica fiscale e politica dei redditi. Questo tipo di manovra segna una discontinuità significativa rispetto all’esperienza degli anni ottanta durante i quali l’obiettivo della stabilità dei prezzi fu perseguito utilizzando la sola politica monetaria. L’esperienza degli anni ottanta mostra i limiti di una politica antinflazionistica basata sull’impiego della sola politica monetaria; in un periodo in cui non vengono prese significative misure di politica dei redditi e di politica fiscale, la stabilizzazione del cambio spinge le autorità monetarie ad aumentare notevolmente i tassi di interesse. Gli squilibri provocati da questa politica sono alla base della svalutazione del 1992. Significative misure di politica dei redditi e di politica fiscale furono realizzate solo in coincidenza con il fallimento della politica di stabilizzazione del cambio testimoniato dalla crisi valutaria del 1992. La crisi valutaria fu un evento traumatico, che rese consapevole l’opinione pubblica della distanza che separava l’Italia rispetto agli altri paesi europei. Questa consapevolezza produsse il consenso sociale che rese possibile la realizzazione di incisive misure di riequilibrio dei conti pubblici e di efficaci interventi di politica dei redditi. L’esempio italiano mette in rilievo i limiti della spiegazione monetarista dell’inflazione. L’esperienza degli anni ottanta permette di: a) osservare che la RABdI Considerazioni finali, p. 28. Nella stessa relazione si legge: “La correzione dello sconfinamento del disavanzo pubblico, l’accordo sulla riforma del sistema pensionistico, due aumenti, in febbraio e in maggio, del tasso di sconto modificavano le aspettative; ponevano le premesse per il recupero della lira.”(p. 5) 76 41 politica monetaria restrittiva non è stata sufficiente ad indurre il settore pubblico a ridurre la dinamica dei propri disavanzi e i lavoratori a moderare la dinamica del costo del lavoro; b) rilevare i limiti di una manovra antinflazionistica basata sull’impiego della sola politica monetaria. D’altra parte, l’esperienza degli anni novanta mette in evidenza l’efficacia di una manovra antinflazionistica basata sull’impiego contemporaneo di politica monetaria, politica fiscale e politica dei redditi. CONCLUSIONI Questo lavoro si è posto due obiettivi: a) mostrare i limiti dell’interpretazione monetarista dell’andamento dell’inflazione italiana negli anni 1970-98; b) proporre una interpretazione alternativa. Nella prima parte si è osservato che in Italia non esistevano le condizioni sulle quali si fonda la teoria quantitativa; in particolare: i) non esisteva la condizione di esogeneità dell’offerta di moneta; ii) non era possibile individuare una relazione significativa tra le variazioni dello stock di moneta e le variazioni della domanda aggregata. L’interpretazione elaborata da FS si basa sulla convinzione che la politica monetaria antinflazionistica attuata negli anni novanta sia stata più rigorosa ed efficace rispetto a quella adottata nel corso degli anni ottanta. Questo spiegherebbe, da un lato la crisi valutaria del ’92 e dall’altro, le ragioni per le quali soltanto durante gli anni novanta sia stato possibile eliminare il divario tra l’inflazione italiana e quella degli altri paesi. Si è mostrato, nella prima parte, che non è possibile definire l’intensità della stretta monetaria sulla base del solo dato relativo alla variazione della quantità di moneta; se si tiene conto anche della variazione della ricchezza finanziaria e del valore dei tassi di interesse reali, allora non è possibile concludere che la politica monetaria degli anni novanta è stata più restrittiva rispetto a quella degli anni ottanta; piuttosto sembra verso il contrario. Nella seconda parte si è presentata una spiegazione alternativa dell’andamento dell’inflazione basata sulla teoria dell’inflazione da costi che sottolinea che 42 un’efficace azione antinflazionistica non può basarsi sull’impiego della sola politica monetaria, ma deve fondarsi anche su misure di politica dei redditi e di politica fiscale. Questa interpretazione individua una discontinuità nel processo di riduzione dell’inflazione che si realizza negli anni ottanta e novanta; la crisi valutaria del ’92 costituisce l’episodio che separa due sottoperiodi che si differenziano in relazione alle caratteristiche della manovra antinflazionistica. Quella attuata durante gli anni ottanta si basa sull’impiego della sola politica monetaria, mentre la manovra degli anni novanta è caratterizzata dall’impiego di tutti e tre gli strumenti. L’esperienza degli anni ottanta mette in evidenza i limiti di una manovra antinflazionistica basata sulla sola politica monetaria; la crisi valutaria del ’92 non è dovuta ad una politica monetaria non sufficientemente rigorosa, ma agli squilibri provocati da un manovra antinflazionistica basata sull’impiego della sola politica monetaria. L’esperienza degli anni novanta invece, mette in rilevo l’efficacia di un’azione antinflazionistica basata sull’impiego contemporaneo di politica monetaria, politica fiscale e politica dei redditi. Il fatto che significative misure di politica dei redditi e di politica fiscale siano state adottate solo in coincidenza e successivamente alla svalutazione del ’92, che rappresentava il fallimento della politica di stabilizzazione del cambio, mostra la non fondatezza della tesi secondo cui le decisioni delle autorità monetarie sono in grado di condizionare il comportamento del settore pubblico e dei lavoratori. Bibliografia Arcelli M., Micossi S. 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