Studio n. 174-2008/C Gli accordi tra conviventi e riflessi sull'attività notarile (Approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 17 luglio 2008) SOMMARIO: 1. Premessa: gli accordi tra conviventi, emersione della "fattispecie" - 2. Il "fenomeno" convivenza. - 3. La famiglia cd. di fatto nel diritto positivo. - 4. La "famiglia non fondata sul matrimonio" ed i cd. "rapporti di fatto". - 5. L'autonomia privata e la famiglia di fatto. - 5.1. Un cenno al problema della cd. “causa familiare” nel nostro ordinamento. - 5.2 La causa familiae e la famiglia fondata sul matrimonio.- 5.3. Il ruolo della causa nelle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.- 6. Patti di convivenza e situazioni personali. - 7 Gli accordi tra conviventi a contenuto patrimoniale. - 7.1 (Segue) Gli accordi per e nella convivenza. - 7.2 (segue) In particolare brevi cenni in tema di contratto di mantenimento.7.3 (Segue) Autonomia negoziale e successione mortis causa nella convivenza. - 8 Riepilogo applicativo 1. Premessa: gli accordi tra conviventi, emersione della "fattispecie" L'espressione "accordi tra conviventi" indica una molteplicità di fattispecie negoziali la cui conclusione è sempre più avvertita come essenziale dai privati per regolare gli altrettanto molteplici aspetti del rapporto di convivenza, nella sua più ampia accezione. Si tratta, com'è noto, di manifestazioni dell'autonomia privata che non trovano espresso riconoscimento legislativo e legate, oramai, non al solo fenomeno della c.d. famiglia di fatto, ma anche alle "nuove forme di convivenza" di cui ampiamente in prosieguo. Le diverse fattispecie, in quanto afferenti alle varie manifestazioni del "fenomeno convivenza", risentono, inevitabilmente, dei problemi di inquadramento sistematico dello stesso. Circostanza, questa, che rende obbligata una riflessione sul generale tema della famiglia di fatto e delle altre convivenze, all'uopo soffermandosi anche sull'evoluzione del concetto e della nozione di famiglia. 2. Il "fenomeno" convivenza. Nell' indagine volta ad individuare l'ambito di operatività degli accordi tra conviventi non si può prescindere dall'evidenziare l'elevato grado di criticità esegetica, e di diritto positivo, che il fenomeno convivenza - diffusamente etichettato con l'espressione "famiglia di fatto" presenta. Appare doveroso segnalare che la suddetta criticità non rappresenta, di certo, una "novità" per lo studioso, l’interprete e l’operatore pratico . (1) Anche a volere indirizzare l'esame solo alla cd. "famiglia di fatto", si percepisce in tutta evidenza, come negli ordinamenti moderni la fattispecie al vaglio subisca le contrastanti pulsioni che provengono dalla società civile; queste ultime, a loro volta, evidenziano la complessa storicità dell’istituto, permeato, com'è, da aspetti di varia natura e di incontestabile rilevanza per l’individuo e la società nel suo complesso. La modernità della tematica in oggetto, deriva, paradossalmente, proprio dal suo essere tradizionale. Si tratta, infatti, di un complesso di regole riferibili alla famiglia, quale che essa sia, connaturato alla comunità degli uomini, come un principio di diritto naturale; d’altra parte questo complesso di regole rappresenta uno strumento di efficienza dell’ordinamento di riferimento, poiché si propone quale disciplina dei rapporti personali e patrimoniali dei gruppi, delle "formazioni", che sono alla base dell’organizzazione della società. Nel delineato contesto ben si comprende l’evoluzione, anche terminologica, del cd. rapporto familiare di fatto: dalla nozione più risalente di concubinato a quella di convivenza more uxorio, per passare alle più moderne definizioni di famiglia di fatto o di convivenza in fatto, giungendo a quella - forse tecnicamente più corretta - di "famiglia non fondata sul matrimonio". Invero, ciascuna definizione ha come riferimento il medesimo fenomeno: la convivenza tra individui - di norma di sesso diverso - non fondata sull’atto giuridico formale qualificabile come matrimonio. La diversa breviloquenza, com’è stato osservato , è sintomo di un diverso modo (2) d’approcciare al problema, che non rifluisce tanto in una difficoltà di qualificazione giuridica della fattispecie - tra le più sofferte di cui si abbia traccia - ma, addirittura, manifesta i sintomi delle forti differenze d’orientamento già sulla valutazione della stessa rilevanza giuridica della fattispecie . (3) Le tappe dell’evoluzione del linguaggio della letteratura giuridica si accompagnano ad un progressivo processo di modificazione della disciplina positiva. Va, in limine, messo in evidenza il progressivo erodersi dell’avversione verso il cd. rapporto familiare di fatto, con sequenze - di diritto positivo - che, seppur non rapide sul piano squisitamente cronologico, devono tuttavia considerarsi inarrestabili dal punto di vista del risultato. Con specifico riferimento al nostro ordinamento, si deve rilevare un dato incontestabile: la ricerca della valorizzazione dello status derivante dal rapporto matrimoniale che, purtuttavia, restasse laicamente indifferente alla convivenza. In particolare, nella Carta Costituzionale, nella sede specifica , il costituente ha fissato (4) il principio secondo il quale "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio"(art. 29). Negare che in questa espressione si possa leggere una significativa tendenza di favor matrimonii è posizione, sul piano esegetico, destinata a giocare sempre in difesa. Piuttosto va chiarito, anzitutto sul piano positivo, quale sia l'ambito nel quale il Costituente vuole che detto favor operi. Al riguardo si ricorda che, nella definizione costituzionale, la famiglia viene indicata come "società naturale" che trova fondamento nell’atto formale del matrimonio (5) (art. 29 secondo comma). Il successivo art. 30 è dedicato dal costituente al rapporto genitori-figli, fissando, qui - ad integrazione della precedente formulazione - il rilievo costituzionale del diritto dovere di istruzione ed educazione; e riconoscendosi, con formula equivalente, detto rilievo costituzionale tanto ai figli nati in costanza di matrimonio che a quelli nati fuori dallo stesso. Per molti studiosi sarebbe proprio il riferimento alla filiazione naturale ed alla sua rilevanza ad evidenziare la volontà del costituente di riconoscere il rapporto familiare "di fatto". E ciò sebbene l’equiparazione della filiazione naturale a quella legittima prescinda, nel disegno letterale dell’art. 30 della Costituzione, dal ricorrere di un rapporto di fatto, ossia da una fattispecie connotata da una certa stabilità, ma mancante, sul piano genetico, del matrimonio. Quand’anche si possa considerare questa la volontà del Costituente, occorre evidenziare che: l’espressione non mancò di tradursi in una gerarchia di valori, come risulta sempre dall’art. 30 terzo comma, ove venne fissato il principio secondo il quale è demandato alla legge il compito di fissare ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, purché "compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima"; il quadro positivo al vaglio è completato dall’art. 31, ove si prevede che tra i compiti della Repubblica vi sia l’adozione di misure economiche agevolative per la formazione della famiglia e per l’esecuzione degli obblighi connessi alla medesima (primo comma). E’ agevole intravedere come nella lettera della Carta Costituzionale il riferimento sia sempre alla famiglia legittima. Come opinare diversamente in presenza del riferimento alla "formazione" della famiglia, che per il costituente era (ed è) la società naturale fondata sul matrimonio? Invero, la novità della Carta Costituzionale pare risiedere nella centralità del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, in specie nell’ambito delle formazioni sociali (art. 2); ancora più specificamente, la novità risiede nella considerazione che, in esse, si "svolge" la personalità del singolo (art. 2). Per questa ragione la Repubblica esige l’adempimento del dovere "inderogabile" di solidarietà, nelle sue molteplici sfaccettature: politica, economica e sociale (art. 2). In sintesi, la novità della carta costituzionale riposa nella scelta, più o meno consapevole, d’imporre la considerazione giuridica della famiglia in termini di formazione sociale, e come tale, al pari delle altre formazioni sociali, di strumento idoneo al perseguimento dei diritti degli individui che la compongono. Da ciò deriva la sottrazione del rilievo giuridico di famiglia costituzionale (ossia quella fondata sul matrimonio) all’attuazione di un interesse superindividuale coincidente con l’interesse dello Stato, e l’avocazione della famiglia legittima alla sfera della realizzazione di valori e di interessi squisitamente legati agli individui. Ulteriore corollario desumibile dalla novità imposta dalla Carta Costituzionale sembra essere la circostanza per cui la famiglia (per il momento sempre quella costituzionale e, dunque, fondata sul matrimonio) non può considerarsi come una comunità sociale a sé, connotata da scopi diversi da quelli propri - o che dovrebbero essere propri - delle altre comunità sociali, in guisa che ogni atto d’autonomia in materia familiare non si può sottrarre al giudizio di meritevolezza inferente l’ordine pubblico cd."costituzionale". Il disegno costituzionale contiene un elemento di novità le cui implicazioni cominciano ad essere attentamente studiate dalla dottrina più recente sulla spinta delle istanze della società civile, oltre che in relazione all’evoluzione di altri ordinamenti. Ciò premesso, vale ribadire che la Carta Costituzionale non sembra disconoscere la famiglia non fondata sul matrimonio, di cui, anzi, sembra vi sia un cenno, sia pure lontano dal realizzare quella sovrapposizione di figure giuridiche che taluno vorrebbe. E’ possibile condividere, in definitiva, un ulteriore corollario: l’omesso esplicito riconoscimento della famiglia non fondata sul matrimonio di per sé non implica che la pratica si possa considerare contra legem, nemmeno considerando il richiamo costituzionale contenuto negli artt. 29-31 come espressione forte di un favor matrimonii. Il rapporto tra fattispecie e norma impedisce di qualificare illecito un fenomeno diffuso, e conosciuto da sempre, in conseguenza della "semplice" mancanza di un espresso riconoscimento (costituzionale). Anzi, la considerazione della famiglia come formazione sociale, come momento associativo nel quale si realizza una particolare forma complessa di solidarietà tra individui, ha consentito, nel tempo, la corretta individuazione di una fattispecie familiare in cui il rapporto inferente la formazione sociale abbia il suo genetico momento nel matrimonio, senza per ciò stesso che si debba negare che possano esistere altre formazioni sociali cui difetti tale momento genetico, quali, appunto, la famiglia non fondata sul matrimonio ed altre convivenze a carattere familiare. In questo senso si soddisfa altresì la necessità di un giudizio assiologico in ordine all’idoneità della famiglia non fondata sul matrimonio a soddisfare interessi meritevoli di tutela anche sul piano costituzionale. Accanto a questa nuova nozione di "famiglia" o di convivenza di tipo familiare, si vanno diffondendo - in ragione di varie istanze provenienti dalla società - altre unioni o convivenze di fatto, caratterizzate da una comunione d’affetti e dalla reciproca solidarietà, ma sprovviste di quella somiglianza strutturale che avvicina la famiglia non fondata sul matrimonio alla famiglia legittima. Si tratta di convivenze ed unioni di fatto ove emergono forti i valori della reciproca solidarietà economica (spesso tra anziani) o religiosa (tra soggetti che condividono analoghe convinzioni da cui derivano simili stili di vita) o di altra natura. A ciò si aggiunga anche il progressivo disvelamento della coppia omosessuale che sempre meno avverte la necessità dell’occultamento ed il peso dell’isolamento socio-culturale, affrancandosi lentamente, ma inarrestabilmente, dal giudizio di disvalore morale e sociale che, per secoli, ed in molte culture (anche di matrice non cristiana o cattolica) ha circondato questo fenomeno. Si tratta, allora, di valutare questi fenomeni, liberi dal pregiudizio della centralità di un modello culturale, valutando, purtuttavia, i diversi ruoli che le fonti dell’ordinamento assegnano alle diverse fattispecie. Nella valutazione di questi fenomeni diventano decisive le seguenti considerazioni: l’ordinamento italiano definisce "famiglia" la sola società naturale fondata sul matrimonio, precisando, peraltro, che il legislatore primario o secondario si è sforzato d’individuarne i confini, fissandoli nel rapporto di coniugio, in quello di filiazione, o nei parentali ovvero d’affinità; l’ordinamento non si mostra ostile alla famiglia non fondata sul matrimonio, che, anzi, mutua la sua meritevolezza da principi fondamentali al pari di quelli fondanti la centralità costituzionale assegnata alla famiglia legittima, ancorché diversi; non vi sono ragioni per escludere aprioristicamente che possano esistere altre forme di convivenza (ora poco importa, se indicate come "famiglia") che pure si caratterizzano per la stessa meritevolezza ascrivibile alla cd."famiglia di fatto", ancorché, a loro volta si differenzino dalla medesima voi per l’assenza del presupposto dell’eterosessualità - che pure non manca nella cosiddetta famiglia non fondata sul matrimonio - vuoi per il diverso fondamento e scopo della solidarietà che imprime a queste comunità intermedie obiettivi diversi da quelli che sembrano propri della famiglia legittima e di quella cd."di fatto". 3. La famiglia cd."di fatto" nel diritto positivo L’accennata diversità costituzionale inferente la famiglia cd."di fatto" rispetto a quella legittima, ossia fondata sul matrimonio, giova a spiegare l’atteggiamento del legislatore nazionale che non ha mancato di disciplinare taluni "settori" dell'ordinamento relativamente ad esigenze proprie della cd."famiglia di fatto", avendo cura di dare corpo normativo a quelle istanze di cui la società ha avvertito necessità in modo particolarmente pressante. Ci si riferisce ad una pletora di interventi che, con accresciuta intensità nei tempi recenti, riconoscono rilevanza giuridica alla convivenza quale fondamento di una formazione sociale della cui importanza culturale, socio-economica e, quindi, anche giuridica non è, pertanto, più lecito dubitare. Si pensi all’introduzione, nel corso degli anni ’90, nel corpo del codice di procedura penale della facoltà di astensione dal deporre a beneficio di "chi pur non essendo coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso" (art. 199 c.p.c.), ovvero alle recenti modifiche al codice penale (cfr. art. 609 quater) introdotte dalla legge 6 febbraio 2006 n. 38 che, nel reprimere e sanzionare gli abusi sessuali verso il minore, prendono in considerazione il"convivente"del genitore o di colui cui il minore sia stato affidato. In questa direzione, fuori dei confini strettamente penalistici marcatamente intrisi della necessità della protezione del "bene-persona", sembrano andare anche altri interventi in ambiti significativamente diversi e lontani da quelli ora accennati: si pensi alla ricusazione degli arbitri di cui all’art. 815 del codice di procedura civile che prevede, appunto, che un arbitro possa essere ricusato, tra l’altro, anche quando"egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti, di un rappresentante legale di una delle parti, o di alcuno dei difensori;" (norma introdotta dal d. l. 2 febbraio 2006 n. 40), oppure alla rilevante circostanza per cui, in materia di assicurazione (obbligatoria), l'art. 129 d.l. 7 settembre 2005 n. 209 non considera terzo, e quindi non riconosce il diritto ai benefici derivanti dall’assicurazione stessa, oltre che il conducente anche "il coniuge non legalmente separato, il convivente more uxorio, gli ascendenti e i discendenti legittimi, naturali o adottivi del soggetto di cui al comma 1 e di quelli di cui alla lettera a), nonché gli affiliati e gli altri parenti e affini fino al terzo grado di tutti i predetti soggetti, quando convivano con questi o siano a loro carico in quanto l'assicurato provvede abitualmente al loro mantenimento;". Né si sottrae a codesto contesto il divieto di disconoscimento di paternità e di anonimato della madre a carico del"convivente" "Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui […]" sempreché il convivente (come il coniuge) abbia dato il consenso a tale tecnica . (6) Hanno subito la progressiva evoluzione dell’incidenza della cd."famiglia di fatto" anche i più recenti interventi in materia di adozione: pur avendo il legislatore ribadito che l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, è significativo che, ai fini del calcolo del triennio di che trattasi, la legge (cfr. art. 6 l. 184 del 1983 come modificato dalla l. 28 marzo 2001 n. 149) abbia stabilito che "Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto". Prova ulteriore di quanto sopra esposto sembra essere, pure, la formulazione dell’art. 25 citata legge 184 nella parte in cui sancisce che in taluni casi l’adozione è consentita "anche a chi non è coniugato". Anche il codice civile comincia a riconoscere la rilevanza della convivenza. Significativa appare, in tal senso, la valutazione del ruolo del convivente tra i soggetti che prendono parte al procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno (art. 407 c.c.) o sui quali può cadere la scelta della nomina (art. 408 c.c.). Tra i vari provvedimenti normativi la dottrina non ha mancato di assegnare un ruolo particolarmente significativo al regolamento anagrafico (D.P.R. 223/1989) ove si legge che "Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune." (art. 4) (7) . La locuzione famiglia è qui utilizzata ben oltre i confini della famiglia costituzionale (rectius fondata sul matrimonio). Ciò nondimeno non si può trascurare che l’obiettivo che il decreto ora citato si propone è l’individuazione del concetto de quo a fini squisitamente anagrafici, ossia allo scopo della"raccolta sistematica dell'insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio". Quindi, la raccolta di che trattasi giova all’individuazione della popolazione residente (art. 3), alla conoscenza ed aggiornamento dei registri dello stato civile (art. 12), dei titoli di studio e delle qualifiche professionali dei residenti (art. 13). Nel contesto al vaglio è stato, peraltro, sottolineata l’importanza dell’attuale formulazione dell’art. 4 della legge 54 del 2006 recante le "disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli"; norma, questa, che con il suo laconico "Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati" segna il totale allineamento delle fattispecie famiglia fondata sul matrimonio e famiglia di fatto, almeno per ciò che concerne l’area operativa della legge detta . (8) La disciplina di cui ora si è dato conto si caratterizza, quindi, in generale, per un duplice aspetto: il riconoscimento settoriale della piena giuridicità della convivenza, che diventa sovente il presupposto della disciplina giuridica della cosiddetta famiglia di fatto, nel silenzio, tuttavia, di una definizione di famiglia non fondata sul matrimonio, come pure di altre forme di convivenza; l’assenza di un progetto sistematico dell’intervento legislativo in materia di famiglia non fondata sul matrimonio. Il quadro evolutivo e quello di diritto positivo resterebbero monchi, e per molti versi incomprensibili, se non si tenesse bene a mente che il nostro ordinamento è a "fonti molteplici, alcune delle quali di derivazione comunitaria" . L’incidenza del diritto comunitario nella (9) definizione del fenomeno, nella sua attuale disciplina e, con ogni probabilità, in ordine alle sorti che in avvenire lo riguarderanno, appare tutt’altro che trascurabile e, pur non essendo questa la sede per approfondire l’analisi della complessa problematica al vaglio, vale sottolinearne taluni aspetti di particolare significato. Precisamente, non sembra si possa prescindere dal chiarire che non esiste una nozione, per così dire comunitaria, di "famiglia" e che i modelli culturali e giuridici in cui il diritto comunitario è chiamato ad operare, spesso, appaiono considerevolmente diversi. Viene ciononostante all'evidenza un tratto comune, riferibile, secondo autorevole ricostruzione (10) , a tutti i paesi della Comunità, sia pure con gradazioni diverse. Questo tratto comune ruota intorno ad un concetto di famiglia che sia paradigma di rapporti sentimentali, personali, patrimoniali e sessuali caratterizzati da reciprocità e solidarietà pur in assenza di una "struttura formalizzata". A questo punto vale altresì ricordare, per il profilo al vaglio, che il dibattito concernente l’incidenza della spinta comunitaria potrebbe ruotare anche intorno all’esatta valenza dell’art. 22 lettera "a" del Regolamento CE 2201/2003, il quale - sia pure in un diverso contesto volto a disciplinare il riconoscimento delle decisioni di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio (analogamente, peraltro, a quanto previsto dall'art. 23 lettera "a" dello stesso provvedimento in tema di motivi del non riconoscimento delle decisioni relative alla responsabilità genitoriale) - stabilisce che il giudice nazionale nell’applicazione del principio comunitario dovrà tener conto della compatibilità con l’ordine pubblico dello Stato membro. E’ evidente che quella ultima detta potrebbe essere considerata come un’importante norma di chiusura volta a garantire la sopravvivenza dei modelli condivisi all’interno dei singoli Stati e, quindi, in qualche modo destinata ad assicurare il costante adeguamento tra la fattispecie di sintesi, di cui il modello comunitario non può che essere portatore, e la specificità di ciascuno degli Stati membri, che per il richiamo all’ordine pubblico contenuto nei citati artt. 22 e 23, non potrà che essere quella dei valori costituzionalmente garantiti in ciaschedun ordinamento di riferimento. Sembra altresì opportuno sottolineare come la dottrina moderna spinga per una esegesi volta ad assegnare all’art. 22 citato una più penetrante efficacia, muovendo dalla considerazione secondo la quale "ciascun ordinamento nazionale è ormai ordinamento europeo" (11) , di guisa che il sindacato di conformità all’ordine pubblico (costituzionale) interno appare connotato di un minore impatto stabilizzatore del principio comunitario che, per l’essere tale, in considerazione di quanto premesso, sarebbe, per così dire, anche nazionale. La tendenza, che ha il pregio d’illuminare in ordine al preciso senso del concetto di armonizzazione degli ordinamenti degli Stati membri, non nega tuttavia - e forse non potrebbe - il rilievo della specificità dei valori fondamentali di ciascuno dei singoli Stati. E si tratta di valori che sembrano, certamente, soggetti a modifiche a seconda della sensibilità dei componenti di ciascuna comunità, ma che proprio in ragione di questa "naturale" modificabilità, non potranno essere cristallizzati né in enunciati formali interni, né in enunciati imposti dall’eteronomia comunitaria. L’assenza, in Italia, di un disegno legislativo unitario destinato a disciplinare il fenomeno della cd. "famiglia di fatto", ovvero quello ancor più ampio delle convivenze, ha impegnato non poco la giurisprudenza a rendersi interprete delle istanze sociali in continuo divenire. I giudici hanno finito per adattare istituti nati con scopi diversi alle esigenze dei conviventi e delle cd. "famiglie di fatto", colmando così, non senza incertezze, vuoti normativi . (12) 4. Famiglia non fondata sul matrimonio e cd."rapporti di fatto" Sembra indispensabile tentare di delineare la natura giuridica del fenomeno "famiglia non fondata sul matrimonio", chiarendo, fin d'ora, che chi scrive non ritiene di potere qualificare il fenomeno al vaglio come "rapporto di fatto"; qualificazione, quella ultima detta, che rappresenta tuttavia una costante - quanto meno linguistica - degli interventi legislativi e delle tendenze giurisprudenziali di cui s’è dato conto. Pur nella consapevolezza che l'ampiezza del tema dei "rapporti di fatto" necessiterebbe ben altro approfondimento, non si può prescindere da talune indicazioni al fine di comprendere più a fondo il problema, con particolare riguardo agli effetti diretti e riflessi che sul piano applicativo ne possono derivare. E' noto che la letteratura tradizionale avochi al "fatto" il ruolo di vicenda contrapposta ad una sequenza giuridicamente rilevante; di guisa che ciò che è "mero fatto" resta estraneo alla disciplina giuridica per la sua inidoneità ad assurgere nelle fattispecie previste dalla legge quali fatti giuridicamente rilevanti . (13) Eppur tuttavia si ascrive ai cd. "rapporti di fatto" idoneità alla produzione di effetti giuridici al pari dei loro corrispondenti "rapporti di diritto" allorché vi sia difetto di elemento genetico o anche funzionale del fatto stesso, purché detta mancanza non ne impedisca in via definitiva l’espulsione dal novero del giuridicamente rilevante. In altri termini, esistono rapporti in cui i fatti che ne danno origine presentano talune anomalie che però non escludono che gli stessi fatti possano produrre gli effetti propri della fattispecie omologa di diritto, rispetto alla quale, quindi, si tratterà di verificare i termini dell’incidenza dell’anomalia di che trattasi In questo senso, sovente, si discorre di "società di fatto" (15) . (14) come di "famiglia di fatto" , o di "rapporto di lavoro di fatto", ovvero, più in generale, di "contratti di fatto" (16) . (17) Invero, l'eterogeneità delle figure ricomprese diffusamente in questa categoria sembra rendere assai complessa una generalizzazione. Al fine di semplificare la nostra indagine, giova, tuttavia, distinguere i rapporti di fatto in almeno due importanti categorie: i rapporti in cui le parti pongono in essere fattispecie ad imitazione di quelle di diritto (come accade, appunto, nella famiglia di fatto o nella società di fatto); i rapporti giuridici che traggono origine da negozi nulli, i cui effetti, al concorrere di peculiari circostanze, finiscono per prodursi egualmente . (18) La dottrina si è sforzata di spiegare perché, in talune circostanze ma non sempre, un rapporto possa produrre "in fatto" gli effetti propri di una fattispecie che geneticamente dovrebbe essere presieduta da una certa attività negoziale, ovvero le ragioni per le quali in talune circostanze, ma non sempre, un negozio nullo produca egualmente determinati effetti. Nella prima ipotesi rientrano quelle fattispecie in cui le vicende funzionali sembrano prevalenti su quelle genetiche in ragione degli interessi sottesi. Il che val quanto dire, ad esempio, che la società di fatto, benché geneticamente non vi sia il negozio costituivo, dà origine ad un rapporto sostanzialmente identico a quello negoziale, perché a certe condizioni (19) il porre in essere comportamenti sussumibili nel conferimento di beni o servizi allo scopo dell’esercizio in comune di un’attività economica e per la divisione del risultato che ne deriverà, prevale sulla pur significativa deviazione dalla genesi tipica che vorrebbe il contratto quale fattispecie costitutiva del rapporto giuridico al vaglio. Ora, che questo derivi, o possa dipendere, dalla rilevanza del comportamento in fatto a protezione dei terzi che vi si siano affidati, ovvero dall’applicazione della cd. teoria dell’apparenza, oppure dalla idoneità negoziale o meno dell’attività descritta a porre in essere il fenomeno sociale è questione che qui non rileva, se non nella misura in cui deve ribadirsi che non tutti i rapporti sociali si prestano ad essere "costituiti in fatto". Ad esempio, ne restano esclusi, per concorde conclusione di unanime dottrina e giurisprudenza, le società di capitali. Il che significa, ulteriormente, che gli interessi sottesi alla fattispecie non consentono deroga in ordine alla vicenda costitutiva . Parimenti, ove si abbia riguardo ad un rapporto (20) giuridico il cui negozio sia nullo, può ben verificarsi che la regola secondo la quale "quod nullum est, nullum producit effectum" subisca una significativa deroga allorché l’effettiva esecuzione del rapporto ne consenta la sua "giuridicità": è il caso tradizionale del rapporto di lavoro nullo, salvo che la nullità non derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa (art. 2126 c.c.). E’ la stessa norma ad essere testimone del principio di cui s’è dato conto: la prescrizione della nullità resta assorbita dalla poziorità dell’interesse alla effettività del rapporto, salvo che tale sopravvivenza non sia revocata, di nuovo, in crisi da violazione di prescrizioni, che a loro volto siano ritenute poziori ad essa, com’è, appunto, il caso dell’illiceità dell’oggetto o della causa del contratto di lavoro. D’altro canto, la più moderna dottrina ha evidenziato quanto sia variabile il rapporto di selezione tra validità ed invalidità del contratto in conseguenza di violazioni di prescrizioni di carattere formale (si pensi alla sanabilità del contratto di trasferimento immobiliare nullo per difetto d’indicazioni degli estremi del permesso di costruire) . (21) Ancora più significativo nel senso che qui si va delineando appare il rapporto tra prescrizione formale per il contratto di locazione (art. 1 l. 431\98) e l’intervento del giudice allorché si possa ravvisare un "rapporto di locazione di fatto" su eccezione del locatore (art. 13, comma 5, l. 431/98) che determina, secondo la giurisprudenza, la conversione del contratto di locazione nullo per difetto di forma in contratto valido per effetto dell’eccezione del locatore. E’ pure necessario sottolineare che non tutti i rapporti nulli, allorché siano seguiti da esecuzione in fatto, producono tutti o taluni effetti, ma solo quelli per i quali il legislatore opera una selezione degli interessi nel senso appena accennato; così come esistono esecuzioni "in fatto" che rendono efficaci i soli effetti già prodotti restando preclusi gli effetti futuri, ciò che, com’è noto, accade alla subfornitura in fatto per effetto del disposto dell’art. 2 della legge 192 del 1998 . (22) Si può, quindi, ritenere, sebbene in linea di generale approssimazione, che sia diffusa la seguente ricostruzione: il rapporto di fatto presenta tratti d’identificazione con il rapporto di diritto da cui si differenzia in ragione della fattispecie costitutiva, la quale ora manca, ora è patologica. Tuttavia, in entrambi i casi, vi è una costante del rapporto di fatto consistente nella sostanziale assimilazione della disciplina giuridica dello stesso a quella prescritta per il suo equivalente "in diritto"; e ciò vale, di norma, tanto nei rapporti tra le parti, quanto nei rapporti verso i terzi. Conclusione, questa, che può ritenersi acquisita anche se dottrina e giurisprudenza non hanno mancato di segnalare la diversa incidenza nei rapporti interni ed esterni dell’ambito di applicazione della disciplina del rapporto di diritto a quello di fatto. L’assimilazione, ovviamente, non necessariamente è completa (23) . Quel che qui conta sottolineare è, comunque, la tendenziale assimilazione della disciplina giuridica tra le due fattispecie, ed in particolare, di quella in fatto rispetto alla equivalente in diritto. Ebbene, nella cd."famiglia di fatto" si assiste ad una sostanziale peculiarità: l’assenza della fattispecie genetica - come, talora, la sua patologia insanabile - determina un rapporto che se, da un lato, mostra le evidenze empiriche di un’equivalenza con il suo corrispondente "in diritto" - dal momento che, in fatto, è difficile anche solo immaginare una distinzione tra due coniugi e due conviventi come lo è tra figli naturali e legittimi - d’altro canto ne inibisce, tout court, non soltanto la sovrapposizione della disciplina, ma anche la semplice assimilazione. In altri termini, definire famiglia quella "di fatto" appare fuorviante sul piano giuridico, in quanto l’ordinamento mostra di considerare la convivenza come un rapporto assimilabile a quello matrimoniale solo dal punto di vista empirico. Il difetto della fattispecie genetica (rectius del matrimonio) non si traduce in un tratto limitativo della corrispondente disciplina giuridica, bensì nella diversa qualificazione del rapporto che ne scaturisce. E si tratta di una caratteristica del fenomeno che sembra essere percepito diffusamente nell'ordinamento. Non è un caso, infatti, che la Corte Costituzionale (24) abbia costantemente sottolineato la diversità tra convivenza more uxorio e rapporto derivante da vincolo coniugale, proprio in ragione della scelta dei privati di eliminare il (formale) momento genetico del rapporto , e, così, abbia sostanzialmente escluso l'"esigenza costituzionale di una (25) parificazione di trattamento". Il ruolo centrale del momento genetico del rapporto (rectius il matrimonio) discende dalla sua esclusiva ontologica attitudine a divenire fonte di reciproci e corrispettivi diritti e doveri. L’assenza del matrimonio, difatti, rende il rapporto privo "dei caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale" ed al tempo stesso "in ogni istante revocabile". Solo la stabilità e la certezza del vincolo possono, dunque, determinare reciprocità e corrispettività di diritti e doveri; reciprocità e corrispettività di diritti e doveri possono nascere solo dal matrimonio, dal momento che soltanto a quest'ultimo "può ritenersi ricondotto all'ambito della protezione offerta dall'art. 29 Cost.". Sul piano più squisitamente privatistico ben si comprende l’inesattezza dell’inquadramento della convivenza tra i rapporti "di fatto" tout court. Ed infatti, non si tratta di ritagliare la disciplina di un rapporto su un suo omologo in diritto in conseguenza dell’assenza o della patologia del suo evento genetico, ma, al contrario, di tenere distinte le due ipotesi di vita comune, per ora, tra uomo e donna. Ciascheduna ipotesi di vita comune si contraddistingue per la propria specificità e, al tempo stesso, dovrebbe contraddistinguersi per la propria disciplina giuridica, evitando, perciò, di correre il rischio sia di "configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale", sia d’innescare una "impropria rincorsa verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere.". Questa conclusione non impedisce che il legislatore adotti delle regole simili, o talora comuni (si pensi ai doveri verso i figli); parimenti non esclude che si possa ravvisare comparabilità di disciplina tra l’una e l’altra fattispecie quando vi siano situazioni che - come ha insegnato la Corte Costituzionale - presentino analogie valutabili in termini di ragionevolezza avuto riguardo all’applicazione dell’art. 3 della Carta Costituzionale, così impedendo un’ ingiustificata disparità di trattamento, peraltro astrattamente ipotizzabile tanto per l’una che per l’altra fattispecie. In questa prospettiva si comprende facilmente come il termine "convivenza" o quello di "famiglia non fondata sul matrimonio" esprimano il diverso presupposto tecnico-giuridico della ricostruzione della fattispecie; la fattispecie imbocca, tendenzialmente, la direzione di una disciplina giuridica in generale diversa dalla fattispecie geneticamente matrimoniale, con ciò revocando in crisi l’inquadramento della fattispecie al vaglio tra i cd. rapporti di fatto, almeno nel senso comunemente ai medesimi assegnato. 5. L’autonomia privata e la famiglia di fatto Accertato che il sistema attualmente seguito in Italia giustappone l’assenza di una compiuta disciplina di diritto positivo della convivenza alla sua rilevanza costituzionale ed applicativa, seppure quest’ultima realizzata con il sistema dell’intervento normativo settoriale, non resta che considerare l’incidenza - nell’ambito della convivenza stessa - dell’autonomia negoziale come sistema di default autoregolamentativo conseguente all’evidente insufficienza e lacunosità dell’eteronormazione . (26) Nel tentativo di delineare l'ambito di operatività dell'autonomia privata, nonché di eventuali limiti che la stessa incontri nella "regolamentazione" dei molteplici aspetti del rapporto di convivenza, si deve necessariamente evidenziare, in via preliminare, il variegato "sistema" in cui l'estrinsecazione del potere di autoregolamentazione è chiamato ad operare. Invero, l'eterogeneità delle figure di convivenza conosciute dalla nostra società impone: che la valutazione non riguardi più esclusivamente l'astratta liceità di accordi tra conviventi; che con riferimento all'oggetto dell'accordo tra conviventi non si discorra di aspetti patrimoniali e personali del rapporto con riferimento esclusivo al tradizionale paradigma di convivenza (cd. "famiglia di fatto"); che si valuti lo spazio di autonomia in questa materia anche con riferimento alla convivenza "more uxorio" tra persone dello stesso sesso, nonché al sempre più frequente fenomeno della cd. convivenza "assistenziale", aggettivazione questa che si ritiene di poter riferire a fenomeni di convivenza tra anziani o disabili e persone in grado di prestare loro l'assistenza necessaria, a prescindere dall'esistenza o meno di rapporti di parentela e/o affinità. Si tratta di una distinzione che assume rilievo non solo in punto teorico ma anche pratico; e ciò in quanto è evidente il riflesso che una conclusione sul tema potrebbe determinare sull'attività notarile, chiamata sempre più spesso ad individuare i meccanismi negoziali che possano soddisfare i più diversi interessi di cui sono portatori i conviventi (rectius tutti i conviventi). Effettuata questa doverosa premessa, si può passare ad esaminare la problematica con riferimento alla fattispecie "tradizionale" della convivenza more uxorio tra individui dello stesso sesso. In linea di principio l’affermazione dell’autonomia negoziale appare coerente con la premessa di fondo che sembra sottendere la fattispecie della convivenza: chi vi ricorre opta per una scelta di libertà rispetto alle regole conseguenti alla celebrazione del matrimonio. La genesi del rapporto, l’atto di matrimonio, diventa così non uno strumento formale fine a se stesso, bensì l’elemento determinante l’applicazione di una compiuta e generale disciplina che inibisce, il più delle volte, l’esplicarsi nell’ambito familiare di scelte d’autonomia, cui, al contrario, non sembra posta alcuna preclusione laddove detto elemento costitutivo manchi. Nella famiglia legittima si delinea un sistema che riduce l’area operativa dell’autonomia privata non in ragione della statualità della stessa, o del doversi essa considerare al servizio di un superiore interesse pubblico, quanto piuttosto come conseguenza di una scelta originaria che controbilancia stabilità e certezza del rapporto con l’individuazione di un complesso sistema di diritti-doveri reciproci tra coniugi, verso i figli e verso i terzi, tendenzialmente sottratto ad un generale potere di deroga, proprio ad evitare lo snaturamento della citata stabilità e certezza del rapporto stesso. Al contrario, il rapporto che nasce privo dell’esigenza di dare seguito a stabilità e certezza se, da un lato, può esigere talora interventi normativi o interpretativi volti alla tutela dei soggetti deboli, concede, di massima, ampia area operativa all’autonomia quale fonte di autoregolamentazione. Il che consente, ex adverso, di sostenere che nella convivenza appare difficile individuare un’area di diritti e doveri reciproci fuori della autoregolamentazione, ed ovviamente salvo diversa disposizione di legge "settoriale"; né appare percorribile, di massima, la proposta dell’applicazione analogica dello statuto della famiglia legittima dal momento che sarebbe quanto meno discutibile - oltre che, evidentemente, contraddittorio - imporre l’applicazione di una disciplina cui i conviventi - con ogni probabilità - intesero sottrarsi mercé il ricorso, per l’appunto, alla convivenza invece che al matrimonio. Ne risulta pienamente condivisibile, oltre che coerente, l’idea di una diversa valutazione ordinamentale delle due convivenze, quella fondata sul matrimonio e quelle che ne prescindono. Il richiamo alle motivazioni di due recenti sentenze della Corte Costituzionale potrebbe essere al riguardo definitivamente illuminante (27) . In entrambe la Corte ha ribadito la differenza tra convivenza more uxorio e vincolo coniugale, alla prima mancando quella stabilità e certezza propri del vincolo coniugale poiché essa risulta fondata unicamente sull'affectio quotidiana, "liberamente ed in ogni istante revocabile", fermo restando, allora che fanno eco, nel vincolo coniugale, alla stabilità e certezza di che trattasi, quella reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che solo da esso possono derivare. Ben si comprende, quindi, che un’area di difficile espansione dell’autonomia, nella convivenza, resta sicuramente quella destinata a delineare il sistema dei diritti-doveri dei conviventi verso i figli. Va, infine, sottolineato che l’assegnazione di un ruolo prevalente all’autonomia privata per la disciplina dei rapporti tra conviventi non si traduce in una formula di prevaricazione del contraente forte sul più debole, e ciò non soltanto per l’ovvia considerazione che risulta, quanto meno, desueta la cristallizzazione dell’identificazione del contraente debole con la donna in un sistema che, finalmente, ne ha conosciuto la progressiva emancipazione e che risulta predisposto per le pari opportunità, quanto perché il delineato alveo costituzionale che inquadra la convivenza nel radicamento delle formazioni sociali impone di considerare che l’autonomia si possa svolgere esclusivamente e responsabilmente con la valorizzazione della persona in tale formazione. Restano espulse dal sistema stesso le pattuizioni che difettano di questo fondamentale rapporto tra responsabilità dell’autoregolamentazione e meritevolezza della medesima cui più avanti si farà riferimento in ragione di concrete ipotesi operative. 5.1. Un cenno al problema della cd. “causa familiare” nel nostro ordinamento. Va da sé che la soluzione del problema dell’ambito dell’autonomia privata nella delicata materia della cd. convivenza” e nel segmento specifico dell’area cd. “personale “, e in quella non meno problematica , come si vedrà , della sfera patrimoniale esige alcuni chiarimenti , sebbene forzatamente sintetici , relativamente alla cd. “causa familiae”. Con tale espressione sconosciuta alla lettera della legge, ma sempre più diffusa nella prassi - si fa riferimento alla giustificazione causale, appunto, di una pluralità di accordi/convenzioni afferenti al fenomeno famiglia, intesa in senso lato e, quindi, anche nella sua accezione ortodossa e tradizionale di famiglia fondata sul matrimonio. Si tratta di un' espressione originariamente coniata per la necessità di individuare la giustificazione causale di attribuzioni patrimoniali effettuate tra coniugi, specie in sede di scioglimento del matrimonio (separazione personale o divorzio) (28) , ma che ha acquisito rilevanza in numerosi settori del variegato fenomeno dell'attività negoziale nell'ambito familiare (29) . Occorre , peraltro, precisare che detta rilevanza, in punto dogmatico e pratico, è tanto maggiore quanto più le problematiche si allontanano dalla famiglia fondata sul matrimonio investendo, nella cd. famiglia non fondata sul matrimonio, in maniera incisiva, il più ampio problema della regolamentazione dei rapporti tra conviventi, siano essi di natura personale che patrimoniale. Invero, s’è già detto che nel problema al vaglio si intersecano, condizionandosi vicendevolmente, due distinti profili: a) da un lato, la ricerca della meritevolezza dell'interesse perseguito dai coniugi/conviventi nella singola vicenda negoziale; b) dall'altro - e più in generale - la qualificazione del negozio posto in essere. 5.2 La causa familiae e la famiglia fondata sul matrimonio. Invero, quando a porre in essere l'attività negoziale siano i coniugi, l'ambito di applicazione della "causa familiae" (da intendere, fin da ora, come paradigma generale) si manifesta, quantomeno, più ridotto poiché sono già presenti nella legge (sedes materiae) numerosi strumenti (rectius meccanismi negoziali tipici, e, quindi, dotati di causa propria) finalizzati alla realizzazione di interessi e rapporti (sia patrimoniali che personali) variamente collegati al rapporto coniugale (30) . Ed inoltre, è altresì pacifico che i coniugi possano pervenire alla regolamentazione degli stessi anche mercé contratti tipici, di guisa che rispetto al fenomeno "famiglia fondata sul matrimonio" il concetto di causa familiae rileva vieppiù al fine di giustificare atti dispositivi che rappresentino il frutto dell'estrinsecazione dell'autonomia privata tra coniugi, ossia di quegli atti che non rientrano in alcuno schema negoziale tipico, posti in essere per regolare aspetti della vita coniugale e rispondenti ad un comune interesse meritevole di tutela Tuttavia, sembra opportuno evidenziare il (31) . carattere generale della problematica dell'inquadramento della causa familiae anche per gli accordi tra coniugi, dovendosene escludere il rilievo esclusivo per gli accordi conclusi in sede di separazione o divorzio ed affermarne, di contro, la potenziale rilevanza per ogni atto dispositivo - traslativo. E ad ulteriore testimonianza del carattere generale della problematica giova ricordare come nelle diverse manifestazioni dell'autonomia privata non sempre emerga con chiarezza la volontà di concludere un negozio tipico. Risulta, pertanto, necessario indagare se la funzione perseguita con la concreta operazione economica sia riconducibile ad una causa tipica o, piuttosto, si atteggi quale "causa atipica" di attribuzioni patrimoniali e/o per la nascita di diritti e obblighi. Il problema della causa familiae sembra, comunque, relegato al campo dell'atipicità, dovendosi tuttavia rilevare la difficoltà di pervenire ad una conclusione univoca che non tenga conto delle peculiarità (di struttura, di interessi, di finalità) che ciascun "accordo" presenta. Che la causa familiae sia destinata a svolgere un ruolo qualora i coniugi intendano regolare i loro rapporti mediante il ricorso a schemi atipici è dimostrato proprio dall'esperienza degli accordi conclusi in sede di separazione e divorzio; precisandosi al riguardo che le considerazioni elaborate dalla dottrina (32) sul tema al vaglio concernono sia gli accordi mercè i quali si procede al trasferimento immediato di beni tra coniugi, sia il negozio con il quale si assume l'obbligo - sempre in funzione della composizione di interessi afferenti alla fase dello scioglimento del vincolo coniugale - di effettuare atti dispositivi . (33) Giova in questa sede rimarcare come la tipologia di accordi testé richiamata, pur rientrando nel più ampio genus della categoria dei cd. "atti familiari", presenta forti peculiarità in ragione degli interessi alla cui soddisfazione tende il negozio. Tale peculiarità discende dal fatto che si tratta di interessi che rilevano e sul piano sostanziale del rapporto personale, e sul piano "[...] giuridico-formale delle facoltà di agire attribuite dalla legge ai coniugi nel momento della separazione personale o del divorzio[...]". In questa sede sembra che sia proprio il profilo sostanziale a dover essere richiamato, in quanto se esso diventa decisivo per il riconoscimento della legittimazione alla stipulazione di accordi traslativi in sede di separazione e divorzio, non si vede perchè non possa essere considerato come idonea giustificazione di spostamenti patrimoniali ex uno latere anche in un momento anteriore allo scioglimento del matrimonio. Si tratta, infatti, di atti dispositivi di diritti reali mobiliari o immobiliari che non sono meramente "occasionati" dalla separazione o dal divorzio, ma che "costituiscono, in genere, la risposta sul piano giuridico alla complessità dei rapporti umani" . (34) Ma ciò che più rileva è che autorevole dottrina (35) ne abbia sottolineato l'incidenza sotto l'aspetto della giustificazione dell'attribuzione patrimoniale anche a prescindere dalla fase patologica del matrimonio . (36) Così, infatti, in tema di donazione tra coniugi nulla per vizio di forma e non inquadrabile nello schema della donazione manuale, si è sostenuta l'impossibilità di negare che l'attribuzione patrimoniale sia sorretta da una giustificazione causale e, in quanto tale non soggetta a restituzione, a meno che il coniuge che l'abbia effettuata non ne provi la mancanza ovvero l'esistenza di una promessa di restituzione . (37) E sembra opportuno ricordare che secondo questa impostazione - che ripetesi è formulata rispetto ad un atto negoziale nullo ma temporalmente distaccato dalla fase patologica del matrimonio - sarebbe addirittura esclusa la possibilità di provare l'assenza di una giustificazione della dazione tra coniugi. L'impossibilità della prova sarebbe, anzi, non già "[...] massima di esperienza che coadiuva il giudice nella ricostruzione del fatto [...]" ma "[...] contenuto di una regola di diritto [...]" (38) , poiché, le fattispecie non consentirebbero, per la loro peculiarità, di accertare "[...] il quanto della gratuità pura, il quanto della funzione remuneratoria di servizi, il quanto del dovere di coscienza, il quanto dell'obbligazione naturale, il quanto della funzione risarcitoria, presenti nell'atto e destinati a presidiarlo[...]" . (39) Dell'impostazione richiamata sembra pienamente condivisibile anche l'individuazione delle ragioni che determinano l'impossibilità - ripetesi, per qualunque operatore del diritto della prova della mancanza di giustificazione causale dell'atto di attribuzione patrimoniale tra coniugi, e ciò in quanto correttamente si è evidenziato che: "[...] tra i coniugi corrono molteplici e poco accertabili eventi capaci di generare obbligazioni civili e naturali. Appropriazioni, negligenze dannose nella gestione e nell'uso delle cose comuni o proprie dell'altro coniuge possono essere fonte di responsabilità civile; e più ancora sperequazioni nello svolgimento del lavoro professionale, o nello svolgimento del lavoro casalingo, prestazioni speciali di assistenza da un coniuge all'altro, rinunce e sacrifici che nessuna legge potrà mai prevedere, e nessun giudice potrà mai accertare, creano stimoli di gratitudine e doveri di coscienza che spingeranno ora a remunerare, ora a restituire ora a riparare; e queste rimunerazioni e restituzioni creeranno situazioni di fatto irreversibili[...]"(40). Gli atti dispositivi tra coniugi si caratterizzano, dunque, sotto il profilo della funzione oggettiva, per essere teleologicamente diretti alla "soddisfazione e composizione" dei detti interessi giuridico- patrimoniali ed esistenziali, che dei primi costituiscono la ragione giustificatrice, definibile come causa familiare , precisandosi al riguardo che non sembra (41) peregrino affermarne la rilevanza anche a prescindere dal momento temporale della loro conclusione. Ed infatti, se, in questa prospettiva, la causa familiae, rappresenta la sintesi peculiare di determinati interessi in un determinato contesto e in una determinata occasione, affermare che un certo nucleo di essi possa trovare rilievo e composizione giuridica attraverso atti di autonomia solo nella fase patologica del rapporto non sembra tener conto delle concrete esigenze che tra coniugi (come peraltro anche tra conviventi) possono sorgere anche manente matrimonio. Ed infatti, potrebbe mettersi al centro dell’indagine la potenziale rilevanza di un accordo in virtù del quale un coniuge, almeno nel caso in cui si sia optato per il regime di separazione dei beni, trasferisca all'altro un bene (immobile o mobile, ad esempio titoli di credito o strumenti finanziari) al fine di adempiere l'obbligo di contribuzione ai pesi del matrimonio (42) . Oppure in funzione del maggior sacrificio effettuato per la sopportazione dei pesi del matrimonio da parte del coniuge beneficiario. Tuttavia si precisa che neppure gli autori che hanno affrontato specificamente il tema della causa familiae rispetto agli accordi conclusi in sede di crisi coniugale hanno manifestato univocità di opinioni sulla reale portata di questo concetto. E', infatti, discusso se la causa familiae assorba la causa del tipo negoziale utilizzato, oppure, nonostante il nomen, non si tratti di causa del negozio, ma di motivo. Appare, innanzitutto, destinata a successo giurisprudenziale la tesi di chi sostiene (43) - sebbene con riferimento ai contratti stipulati nella fase della crisi coniugale - l'opportunità di distinguere in un più ampio genus dei contratti della crisi coniugale: a) contratti che si caratterizzano per la presenza della causa tipica (44) della definizione della crisi coniugale; b) la semplice presenza, accanto ad una causa tipica diversa da quella sub "a" (si pensi alla donazione, transazione, negozio solutorio, convenzione matrimoniale, divisione), di un motivo "postmatrimoniale" da individuare nella circostanza che la stipulazione di quel particolare contratto avviene in contemplazione della crisi coniugale e rappresenta una delle condizioni della separazione o del divorzio (45) Vale , infatti, al solo fine qui al vaglio, precisare che, in dottrina, era stato risolto positivamente il tema dei cd. contratti della crisi coniugale, anche con riferimento alle cd. "intese preventive sulla crisi coniugale", "eventualmente anche in via preventiva" e riconosciuta la possibilità di disporre, , del diritto al mantenimento del coniuge separato (46) e dell'assegno di divorzio, mercé una "vastissima gamma di accordi di vario genere", ma si sia ulteriormente evidenziato che, tuttavia, in materia di atti traslativi l'ordinamento non solo pretenda l'esistenza del requisito causale, ma richieda, ulteriormente, che esso risulti, esplicitamente o implicitamente, dal negozio in questione. 5.3. Il ruolo della causa nelle attribuzioni patrimoniali tra conviventi. Diverso (almeno per l'ampiezza dell'ambito di applicazione) è il ruolo svolto dalla cd. causa familiae rispetto ai rapporti patrimoniali e personali tra conviventi. In questa materia, la mancanza di una compiuta disciplina, e la condivisa impossibilità dell'applicazione analogica della disciplina che regola i rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, impongono di individuare un parametro generale, che sia idoneo a costituire la giustificazione causale di ogni attività negoziale tra conviventi. Detta esigenza non solo si manifesta in maniera esponenziale per la regolamentazione pattizia del rapporto di convivenza in senso stretto (non regolato positivamente), ma anche per la enucleazione di principi che attengano alla estrinsecazione dell'autonomia privata in settori latamente collegati al rapporto detto; e ciò, laddove possibile, in posizione simmetrica rispetto al rapporto di coniugio, dal quale se ne differenziano non già per la diversità degli interessi da comporre, ma solo per la mancata regolamentazione positiva. Dunque, sembra che in questa materia la causa familiae giochi un ruolo peculiare, e ciò in quanto potrebbe ben sostenersi che essa rilevi costantemente in ciascheduna pattuizione tra conviventi in fatto. Alla mancanza di una disciplina positiva, fa eco l’assenza di espressi divieti. Giova , tuttavia , sottolineare che le difficoltà ricostruttive presenti nella famiglia fondata sul matrimonio, risultano accentuate nel fenomeno famiglia di fatto. Nel contesto ultimo detto, infatti, il ruolo della causa dell'attività negoziale posta in essere dai conviventi - prima dell'instaurarsi della convivenza, durante il suo svolgimento, come nella fase della sua patologia acquista un rilievo invero diverso la cui criticità è innescata dal silenzio del legislatore relativamente alla composizione dei relativi interessi (47) . La ricerca, quindi , della causa di attribuzioni patrimoniali tra conviventi, dell'accordo sull'educazione della prole o sul menage familiare in generale, sulla pianificazione della successione, sulla sorte della casa ove la convivenza si è protratta fino al momento del suo scioglimento ecc. diventa, infatti, un momento centrale almeno in un sistema come il nostro ove non sembra consentito, ad ogni piè sospinto, il ricorso all'applicazione analogica della disciplina della famiglia fondata sul matrimonio, potendosi al limite, e non senza difficoltà, fare riferimento ai principi generali del nostro ordinamento giuridico, e talora di quello comunitario per risolvere i molteplici problemi di liceità e di compatibilità della pattuizione o di singole clausole della stessa con il sistema detto . (48) 6. Patti di convivenza e situazioni "personali". L’area dei rapporti personali rispetto ai cd. accordi di convivenza è sicuramente quella che presenta maggiori difficoltà d’indagine. Molteplici i quesiti che sul tema specifico il notaio è tenuto a sciogliere, sol che si pensi alla richiesta di ricevere un atto con il quale le parti intendano regolamentare, già nella famiglia fondata sul matrimonio, aspetti astrattamente sussumibili nel regime patrimoniale primario. Diffusa, infatti, è l'esigenza, non solo tra conviventi more uxorio ma anche tra coniugi, di racchiudere in uno schema negoziale pattuizioni afferenti ai loro rapporti personali, avuto riguardo alla parità degli stessi, all’obbligo di fedeltà e di reciproca assistenza morale e materiale, alla collaborazione, alla coabitazione, all’indirizzo della vita familiare, alla fissazione della residenza, agli obblighi verso la prole, rappresentano in parte accordi (anche nel senso negoziale del termine), in parte effetti del matrimonio . (49) Si deve escludere, sia per i conviventi more uxorio che per i coniugi, che il contenuto dell'accordo, possa riguardare l'obbligo di fedeltà; e ciò, con riferimento ai coniugi, perché, pur ammettendo che quando si concorda l’indirizzo familiare ex art. 144 c.c. si ponga in essere un negozio giuridico, è altrettanto vero che un accordo in questa materia risulterebbe di difficile configurazione, rappresentando, l'obbligo di fedeltà piuttosto un effetto del matrimonio. Analoghe considerazioni possono farsi per il profilo della procreazione, sia nonché dei rapporti con la prole. Come è stato affermato anche di recente , devono considerarsi affette da (50) nullità quelle pattuizioni in virtù delle quali i conviventi si obblighino rispetto alla sfera sessuale in funzione della procreazione o della non procreazione; accordi, questi, che non sembrano altresì lontani dalla violazione del principio della conformità al buon costume. Ed inoltre, dovrebbero considerarsi nulle anche tutte quelle pattuizioni funzionali a determinare l'obbligo per entrambi o uno dei conviventi, di assumere un determinato cognome. Recente dottrina ha ammesso la configurabilità di convivenza rispetto a quegli aspetti personali del rapporto, quali, ad esempio per l’organizzazione e la regolazione della vita familiare e\o delle scelte educative dei figli, anche avuto riguardo alla cessazione della convivenza stessa . (51) Quanto alla natura giuridica, si deve sottolineare che si tratta di accordi non contrattuali, poiché il contratto presuppone sempre un contenuto patrimoniale, al pari del rapporto obbligatorio; elemento, quello della patrimonialità, difficilmente individuabile nelle fattispecie al vaglio. Si tratta, in questa ricostruzione, di patti (negoziali) non contrattuali, di durata, il cui regolamento, suscettibile d’integrazione per usi ed equità, esigerebbe applicazione secondo le regole negoziali della correttezza e buona fede. Ancorché, ripetesi, chi ne ha riconosciuto cittadinanza sul piano della legittimità ha ribadito la loro sostanziale estraneità all’area del contratto per l’evidente carenza della patrimonialità. La questione della natura delle fattispecie al vaglio è stata affrontata da non recente giurisprudenza seppure in un' ottica diversa: quello della copertura dell’obbligo personale dietro la "facciata" di un contratto vero e proprio. Si è dato, ad esempio, il caso di un contratto di mantenimento con il quale un soggetto (il vitalizzante) assumeva l’obbligo di mantenere il convivente (vitaliziato) per tutta la vita . (52) La causa del patto o del contratto di convivenza non può risiedere nella convivenza stessa, dal momento che essa è il presupposto del patto. Essa, piuttosto, sembra fondarsi nell’idoneità a soddisfare l’esigenza di contrapporre e contemperare una pluralità di obblighi che, altrimenti, o sarebbero privi di giuridicità (obbligazioni naturali) o, fuori del rapporto di convivenza, darebbero luogo a attribuzioni gratuite donative o atipiche . (53) Nemmeno la meritevolezza è parsa ostacolo insormontabile alla configurazione del patto di convivenza più in generale, o del contratto di convivenza. Si è avuto modo di sottolineare , infatti, che una volta condivisa l’idea secondo la quale la causa del patto riposi nel sinallagma tra due o più obbligazioni, che individualmente considerate sarebbero naturali e perciò incoercibili; una volta che ci si sia appropriati del ragionamento per cui il sinallagma determini un rapporto nuovo e diverso rispetto a ciascheduna obbligazione che ne componga parte (54) , non può che coerentemente condividersi la conclusione secondo cui la meritevolezza riposa nell’interesse dei conviventi a garantire la conduzione futura dei rapporti tra gli stessi . (55) Ciò premesso, è evidente, da altro punto di vista, che la liceità di accordi personali trova il limite nel difetto di patrimonialità dei relativi obblighi, e nel divieto di coercizione della sfera di libertà del soggetto che vi soggiaccia. Pertanto, ad esempio, l’inserimento del dovere di fedeltà in un contratto susciterebbe non pochi dubbi di validità del medesimo in conseguenza dell’illiceità di un "oggetto" siffatto. Ciononostante, si è suggerita una via che, ad avviso di alcuni , potrebbe rivelarsi utile alla soluzione della questione: se si accordasse un "premio" al comportamento personale, magari mercè il ricorso ad una condizione "premiale", si otterrebbero due distinti risultati: si "patrimonializzerebbe" l’obbligo; non si violerebbe il divieto di coercizione della sfera di libertà personalissima dei conviventi. In questo contesto, s’è evidenziato , che una clausola del tipo "ti darò cento se sarai fedele" non obbliga alla fedeltà, riconnettendo, piuttosto, all’infedeltà una conseguenza patrimoniale non propriamente favorevole. L’esemplificazione pretende la considerazione di un’importante questione di carattere generale: la valutazione sistematica della “prestazione condizionale” , ossia lo studio della condizione che contiene , in sé , un aspetto di attuazione del programma negoziale . Non è (56) questa la sede per approfondire il tema, certo è che dottrina e prassi hanno messo a punto molte ipotesi riconducibili, in generale, alla fattispecie ora evidenziata: si pensi alla donazione di un bene condizionata al conseguimento di una laurea, o alla destinazione del bene stesso ad uno specifico uso etc. ,fino a giungersi ai casi in cui la condizione entra nello schema sinallagmatico com’è – ad esempio – nell’ipotesi in cui si affermi: “ti trasferisco la proprietà del bene se mi versi una certa somma sul conto corrente” . Vale a tale riguardo segnalare come (57) da taluni s’è revocata in dubbio la legittimità di condizioni del secondo tipo, ossia di quelle destinate ad “entrare” nel meccanismo causale e sinallagmatico delle prestazioni, a tacer d’altro per almeno per due importanti e generali ordini di ragioni. Innanzitutto s’è osservato che quando l’evento dedotto in condizione coincida con un’attività di una delle “parti” destinata a sovrapporsi all’interesse che il beneficiario dell’attività stessa ne abbia, deve porsi in dubbio, addirittura, l’idoneità del patto a comporre un conflitto di interessi. Insomma, l’ipotesi appare soddisfare principalmente l’interesse del tradens , ossia di chi “dà” senza condizione, piuttosto che quello, o anche quello dell’altra parte. In secondo luogo l’indifferenziata deducibilità nell’evento condizionante di comportamenti di una delle parti riconducibili alla sfera strettamente personale, e difficilmente valutabili sul piano economico sembra destinato -pure sul piano funzionale e precettivo - ad una costante valutazione d’illiceità , dal momento che quelle sfere personali sono espressive di “valori di natura ideale”, ed appaiono difficilmente raccordabili con la tendenziale funzione coercitiva e “patrimonializzante” propria di schemi negoziali destinati ad incidere sull’efficacia del rapporto come accade, ad esempio, all’onere negoziale (58) . In questa prospettiva se può considerarsi valida , allora, una condizione “premiale” coincidente con “ la scelta di un corso di studi “ o “ l’avvio di una professione “ in quanto attività in qualche modo riconducibili ad un interesse e quindi ad una valutazione economica , deve , al contrario , negarsi cittadinanza a condizioni “premiali” del tipo di quelle supra messe in evidenza. Senz’altro nullo per le cose dette, si rivela un patto di convivenza in cui il convivente rinunzi alla propria libertà di far cessare il rapporto di convivenza, o in cui si fissi la durata del rapporto. Molte perplessità suscita anche l’accordo di convivenza volto a fissare la residenza dei conviventi risultando, per quanto anticipato, non percorribile la via dell’analogia con l’art. 144 c.c. . (59) 7. Gli accordi tra conviventi a contenuto patrimoniale. Più agevole risulta l’inquadramento delle problematiche concernenti gli accordi tra conviventi aventi contenuto patrimoniale. Si deve tuttavia precisare che non si tratta di una categoria unitaria, ma, piuttosto, di una categoria rappresentativa di un genus, a cui appartengono due distinte sottocategorie: da un lato, fattispecie finalizzate a regolamentare aspetti della convivenza (e a comporre interessi dei conviventi) in funzione della sua instaurazione e/o del suo svolgimento; dall'altro, fattispecie che mirano a regolamentare aspetti afferenti alla successione mortis causa dei conviventi. Riflessione comune ad entrambe le "categorie" di accordi tra conviventi è stata prospettata con riferimento alla rilevanza del profilo formale. Si è infatti giustamente osservato che la manifestazione del consenso di qualsivoglia accordo "tra conviventi diretto a regolare aspetti della vita comune" (ma la considerazione sembra sicuramente estensibile anche agli atti unilaterali compiuti da un solo convivente a favore dell'altro o della prole) non possa prescindere da una esplicita manifestazione di volontà delle parti (o della parte); di guisa che deve senza dubbio negarsi la possibilità di desumere la conclusione di un contratto di convivenza dal comportamento dei partners (60) . 7.1 (segue) Gli accordi per e nella convivenza. Con riferimento agli accordi finalizzati alla regolamentazione di aspetti della convivenza nel suo svolgimento o divenire tale, la dottrina e la giurisprudenza hanno raggiunto alcune conclusioni che possono considerarsi acquisite, e precisamente: a) deve riconoscersi legittimo il patto con il quale i conviventi disciplinino reciprocamente il proprio dovere di contribuzione e di mantenimento ; (61) b) detto patto risulta valido anche quando i conviventi "more uxorio" s'impegnino a partecipare alle spese del menage di fatto in misura eguale, precisandosi che in giurisprudenza (62) per valutare la liceità del patto è stato invocato il canone ermeneutico della buona fede, improntato ad un principio di solidarietà contrattuale, interpretato alla luce dell'analogia a quanto disposto per i rapporti tra coniugi dall'art. 143 c.c.; la conseguenza derivatane, sul piano pratico, consiste nella determinazione dell'obbligo di contribuzione in relazione alle sostanze ed alle capacità dei conviventi, con irripetibilità delle somme sborsate da un convivente in misura maggiore dall'altro, allorché quest'ultimo avesse avuto "difficoltà lavorative". Soluzione, questa, che, se apprezzabile sul piano equitativo, desta non poche perplessità di coerenza ricostruttiva. c) E' valido un contratto di convivenza con attribuzione di comodato gratuito di un bene da un convivente ad altro anche in considerazione della rilevanza del lavoro domestico di quest’ultimo che funge da contribuzione in fatto alle necessità della famiglia ; (63) d) è valido il contratto con cui specificatamente ad una prestazione di mantenimento di un convivente faccia eco la considerazione del lavoro domestico dell’altro; e) sono validi i contratti che rendono obbligatoria la prestazione al mantenimento a carico di un convivente per il caso in cui l’altro si venga a trovare in stato di bisogno; f) sono generalmente ritenuti validi gli atti unilaterali con i quali uno dei conviventi si obblighi verso l’altro al mantenimento senza controprestazioni. Vale, al riguardo, anticipare , salvo quanto infra sul concetto di mantenimento più in generale, precisare che secondo diffusa ricostruzione non si tratta di donazioni, né di schemi riconducibili al contratto di rendita. Si evidenzia , infatti, che in queste fattispecie, infatti, non ricorre alcuna liberalità, né sottende la causa della rendita, quanto, piuttosto, l’esigenza di disciplinare il rapporto di convivenza quand’anche ricorresse uno schema che presenti tratti di analogia con l’una o l’altra figura tipica. In generale consegue alla proposta ricostruzione (64) non soltanto l’inapplicabilità delle norme formali e sostanziali in materia di donazione, ma anche la legittimità di clausole volte a disciplinare l’automatica cessazione dell’obbligo di che trattasi per il caso della cessazione della convivenza. Nel contesto pattizio delineato, infatti, la clausola che preveda la cessazione dell’obbligo al mantenimento in conseguenza della cessazione della convivenza, lungi dal configurare condizione meramente potestativa, si rivela particolarmente auspicabile ad evitare la persistenza dell’obbligo al mantenimento anche per il caso in cui la sua "causa" sia cessata. Rientrano in questa particolare categoria di contratti, comunemente ammessi, anche quelli che hanno ad oggetto l’attribuzione dall’uno all’altro partner del diritto d’abitazione o di comodato della casa, in proprietà esclusiva del dante causa, adibita a residenza della famiglia in fatto, ferma restando, in tal caso, la liceità della clausola che fissi il termine di cessazione del diritto o di scadenza del godimento del comodatario in conseguenza della cessazione del rapporto di convivenza. Più in generale, quindi, possono ammettersi quei patti che prevedono l'effettuazione di prestazioni patrimoniali in seguito alla cessazione della convivenza purché si abbia cura d’evitare la coartazione della volontà di cessare il rapporto e resti all’evidenza, al contrario, la funzione del patto alla solidarietà verso il partner in difficoltà. In questo contesto deve ritenersi legittimo il patto che preveda la permanenza nella casa di proprietà di uno a beneficio dell’ex convivente per il tempo necessario a trovare nuova sistemazione, o per il caso di assenza di lavoro e simili. La dottrina, poi, ha avuto modo di esaminare il problema di un contratto che riproponga nella convivenza il "regime" degli acquisti disciplinato dalla legge per la comunione legale dei beni (artt. 177 ss. c.c.) . (65) La risposta al quesito non può che essere negativa non tanto in ragione dell’astratta inammissibilità del concetto di convenzione volta a disciplinare in termini di "regime" gli acquisti dei conviventi, la cui ipotetica utilità potrebbe riproporre, per la convivenza, la ratio comunemente riconosciutale per il matrimonio, ossia l’eguaglianza materiale delle parti, quanto per l’insuperabile inadeguatezza tecnica degli strumenti a disposizione delle parti al fine divisato; strumenti, peraltro, evidentemente diversi dall’effetto legale, qual è quello imposto dalla legge per gli acquisti in comunione legale dei beni, o più specificatamente rinveniente dalla convenzioni matrimoniali. A tale specifico fine, infatti, ai conviventi altro non resterebbe che ricorrere ad un contratto il quale non supererebbe i confini della propria idoneità ad una produzione degli effetti tra le sole parti (art. 1372 c.c.) , nulla potendo inferire verso i terzi. Né potrebbe (66) farsi ricorso alla trascrizione dello stesso allo scopo di renderlo opponibile, e ciò non tanto in ragione della mancata previsione della trascrizione di un atto di tale genere, quanto per l’idoneità dell’effetto che ne scaturirebbe al fine della trascrizione. Infatti, stipulato il patto con cui i conviventi assumessero la comunione dei futuri acquisti, risulta evidente che nessun effetto reale conseguirebbe al contratto de quo con la conseguente sua non trascrivibilità in ragione dell’estraneità di codesto effetto a quelli inventariati dall’art. 2643 c.c. Nemmeno appare possibile immaginare un patto che determini tra conviventi un regime di comunione ordinaria ex art. 1100 ss. c.c. giacché la rilevata circostanza secondo la quale la comunione nasce per "titolo" (arg. ex art. 1100 c.c.) appare destinata a cedere alla corretta impostazione del problema che non appare relativo al momento in cui l’acquisto è effettuato, ma a quello diverso ed anteriore che lo precede. In altri termini, se nulla esclude che i conviventi procedano ad un acquisto in comunione ordinaria, resta tuttavia preclusa ai medesimi la facoltà di stabilire pattiziamente che ogni futuro acquisto cada in comunione ordinaria per le medesime ragioni per cui non sembra ammissibile analogo patto per una comunione legale dei beni. Diversa appare l’ipotesi di una clausola con cui i conviventi o uno di essi si obblighino a ritrasferire la giusta metà dei beni che verranno acquistati nel corso della convivenza, della cui legittimità non appare lecito dubitare, ancorché il richiamo ai meccanismi dell’art. 1706 c.c. non convincano ove si voglia applicare la norma nella sua interezza. E’ comune insegnamento, infatti, che la regola secondo la quale il mandante possa rivendicare taluni beni (art. 1706, comma 1, c.c.) abbia la sua ratio nella particolare configurazione del mandato che, al contrario, non si rintraccia nella clausola de qua, con la conseguenza che della norma richiamata appare applicabile, in via analogica, il solo disposto del secondo comma. 7.2 (segue) In particolare brevi cenni in tema di contratto di mantenimento Giova ricordare che con il termine contratto di mantenimento si fa riferimento ad una tipologia contrattuale atipica, molto diffusa nella pratica negli ultimi decenni, che si inquadra nei negozi aventi ad oggetto l'erogazione di una prestazione non pecuniaria. Pur trattandosi di contratto non regolato compiutamente nel nostro ordinamento (67) , la dottrina e la giurisprudenza, considerata dapprima la meritevolezza dell'interesse perseguito, hanno individuato una matrice costante che consente di delineare i contorni della fattispecie e di distinguerla non solo da schemi negoziali tipici affini, ma anche da altri negozi atipici. E si precisa che questa opera di individuazione non è stata affatto lineare nel corso degli anni, dovendosi peraltro, evidenziare come la difficoltà sia dipesa - e dipenda ancora - dalle interferenze con il più ampio problema dell'individuazione dell'oggetto del contratto di rendita vitalizia . (68) Nella più diffusa ricostruzione (69) il contratto di mantenimento viene definito come il negozio giuridico in virtù del quale una parte assume l'obbligo di eseguire in maniera continuativa a favore dell'altra, e per tutto il tempo della vita del beneficiario ed a prescindere dalla ricorrenza dello stato di bisogno di costui , prestazioni in natura di diverso contenuto, (70) consistenti nel vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, assistenza morale e materiale, ecc. Il contratto, ha dunque ad oggetto un facere , da eseguirsi in modo continuativo e non (71) periodico, e dal peculiare oggetto della prestazione discende, secondo l'opinione prevalente, il carattere intuitale del rapporto, di guisa che la prestazione potrà essere eseguita esclusivamente dal debitore scelto dal beneficiario. Anzi, proprio a rimarcare il carattere personale della prestazione, si potrebbe anche sostenere che il rapporto che si instaura tra le parti del contratto di mantenimento sia "colorato" da forti elementi di fiducia, intesa in senso lato come affidamento nelle qualità personali e morali del contraente obbligato, di guisa che la stessa stipulazione non sarebbe avvenuta se a doversi obbligare all'esecuzione del facere fosse stata persona diversa dal contraente invece prescelto. In caso di morte dell'obbligato, pertanto, il contratto si risolverà; conseguenza, questa, che potrebbe indurre ad ipotizzare quale forma (impropria) di garanzia dell'adempimento della prestazione a favore del beneficiario la previsione nel contratto di più obbligati al facere infungibile in modo solidale tra loro (72) . In realtà si può osservare che se il contenuto della prestazione del soggetto obbligato viene correttamente individuata in un facere è altresì vero che, nell'ambito del complesso contenuto della prestazione sia possibile individuare anche l'obbligo di eseguire prestazioni di dare, quali, ad esempio, somme di denaro. Questa circostanza permette di individuare come ulteriore "correttivo" alle conseguenze negative derivanti dal citato carattere del contratto la previsione pattizia di una sorta di "scissione" tra le obbligazioni che abbiano ad oggetto un facere infungibile, e, pertanto, intrasmissibili, da quelle obbligazioni che, invece, abbiano ad oggetto un dare. Per queste ultime sembrerebbe legittimo riconoscere la trasmissione dell'obbligo a carico dell'erede del originario soggetto obbligato. Giova rilevare come sia vivacemente discussa la possibilità che sia stipulato un contratto di mantenimento a favore del terzo "post mortem", con l'espressa previsione che la prestazione dovrà eseguirsi a favore del terzo solo dopo la morte dello stipulante . (73) Per quanto concerne il rapporto tra contratto di mantenimento ed alea si afferma diffusamente che si tratti di un "tipico contratto aleatorio", rispetto al quale, peraltro, l'incidenza dell'alea sarebbe duplice, e la cui mancanza determinerebbe la nullità del contratto. Di doppia alea si parla in quanto, diversamente dalla rendita vitalizia, l'incertezza sulla valutazione economica della prestazione riguarderà non già una sola parte ma entrambe. E ciò in quanto l'incertezza non connota solo la prestazione del debitore in ragione dell'impossibilità di determinare la durata della vita e il quantum della prestazione a favore del beneficiario , (74) ma è presente anche dal lato attivo del rapporto obbligatorio. Vi è, infatti, incertezza (rectius alea) anche con riferimento alla materiale (e morale) possibilità dell'esecuzione della prestazione da parte dell'obbligato, in quanto esso obbligato potrebbe rendersi inadempiente per sopravvenuta impossibilità del mantenimento; ed inoltre il creditore corre il rischio che il debitore muoia e, per il carattere intrasmissibile della prestazione, di non poter più ottenere l'esecuzione della peculiare prestazione di che trattasi. La diversa natura del contratto di mantenimento rispetto alla rendita vitalizia, consente di ammetterne la risoluzione per inadempimento ai sensi dell'art. 1453 c.c. Un profilo particolare da evidenziare riguarda i rapporti tra contratto di mantenimento e regime di comunione legale dei beni . Si tratta di sapere se l'esistenza del regime (75) patrimoniale legale possa in qualche modo influire sul contratto di che trattasi, in ragione del peculiare oggetto della prestazione dell'obbligato, che, inevitabilmente, è destinata ad influire sul rapporto familiare. In linea di principio sembra tuttavia che non possa riconoscersi alcun potere "di veto" al coniuge non obbligato, di guisa che la mancanza del suo consenso non inciderà mai sul perfezionamento e sull'efficacia del vincolo. Quale conseguenza del carattere autonomo del contratto di mantenimento rispetto alla rendita vitalizia, la dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno escluso la generale applicazione alla fattispecie della disciplina in tema di rendita vitalizia, ammissibile, invece, solo nei limiti della compatibilità. Giudizio, questo, non sempre agevole, ma che ha prodotto, allo stato attuale, almeno l'esclusione dell'operatività della norma contenuta nell'art. 1878 c.c.; e ciò proprio in ragione del suddetto carattere infungibile della prestazione del contratto di mantenimento che sembra escludere a monte la compatibilità con il sequestro (o il pignoramento) e la vendita forzata dei beni del debitore, trattandosi di prestazioni che per loro natura non sono suscettibili di esecuzione forzata. Il negozio di mantenimento si differenzia altresì dal vitalizio alimentare , contratto (76) anch'esso atipico, per l'ampiezza quantitativa della prestazione dovuta. Infatti, mentre nel contratto di mantenimento il soggetto obbligato è tenuto a soddisfare qualsiasi esigenza della vita del beneficiario in proporzione alla capacità economica dello stesso obbligato, nel vitalizio alimentare il soggetto obbligato è tenuto a corrispondere solo quanto è strettamente necessario a vivere. In questo contesto vale segnalare che recente giurisprudenza non ha mancato di sottolineare che “Il contratto con il quale in sede di separazione un coniuge attribuisce all'altro dei diritti reali su beni immobili con il vincolo di destinarne i proventi al mantenimento della prole sino al raggiungimento dell'autosufficienza economica della stessa, è lecito e perciò valido, poiché pur qualificandosi come atipico presenta un interesse meritevole di tutela.” . Per le cose sopra assunte a fondamento del ragionamento non vi sono (77) particolari ragioni per escludere che analoghe conclusioni non valgano per soggetti qualificabili come conviventi. Anzi s’è dato conto nel precedente paragrafo di quanto si sia fatto uso , da una parte della dottrina , di un’ampia nozione di mantenimento a proposito di accordi patrimoniali tra conviventi. 7.3 (Segue) Autonomia negoziale e successione mortis causa nella convivenza Più problematica appare l'individuazione di meccanismi negoziali che siano idonei a regolamentare la successione mortis causa del convivente o tra conviventi, ribadendo, anche per il profilo al vaglio, l'ampiezza della categoria. La problematicità a cui si fa riferimento dipende, non solo dalla mancanza di una disciplina positiva e dal diniego da parte della Corte Costituzionale dell'estensione in via analogica delle norme sulla successione del coniuge, ma anche dalla necessità di valutare, caso per caso, l'incidenza, diretta o riflessa, con i principi del diritto successorio. Detta valutazione, nel duplice aspetto della astratta legittimità, nonché della specifica conformità ai principi del diritto successorio, deve inoltre tenere nel dovuto conto che quali strumenti negoziali di autoregolamentazione del fenomeno successorio possono essere utilizzati istituti del nostro ordinamento, sia inter vivos che mortis causa. Premesso che l'ordinamento non riconosce al convivente (ora more uxorio) alcun diritto successorio avuto riguardo alla successione legittima, nulla esclude, naturalmente, che possano essergli riconosciuti diritti in virtù di successione testamentaria, a titolo universale o particolare, né più né meno di quelli eventualmente spettanti ad un soggetto assolutamente estraneo al de cuius. Anzi, nella prospettiva della individuazione di meccanismi mortis causa per l'autoregolamentazione del fenomeno successorio del convivente, il negozio testamentario diventa lo strumento principe per l'attuazione della volontà dei privati. Il tutto con le ricadute applicative del ricorrere avverso le disposizioni che lo riguardano delle cautele che circondano la tutela degli eventuali legittimari, ivi compresa la riducibilità delle disposizioni di che trattasi, fino alla restituzione dei beni quando ne ricorrano i presupposti. Parimenti devono segnalarsi tutte le difficoltà cui possono dare luogo l’effettiva esecuzione di volontà testamentaria a favore del convivente, laddove vi siano altri eredi specie se legittimari. Per questa ragione deve raccogliersi l’invito a munire gli atti di disposizione d’idonee clausole volte a rafforzare l’obiettivo che è loro proprio (penali, condizioni, modus risolutivi etc.) ove non si voglia correre il rischio della mancata realizzazione della volontà testamentaria . (78) Con questa premessa, si ritiene di poter affermare la piena legittimità di disposizioni a favore del convivente (etero o omosessuale) a titolo universale, anche mediante una institutio ex re certa, qualora risulti che il de cuius abbia inteso attribuirgli beni determinati o un complesso di beni come quota del suo patrimonio . (79) Sempre nell'ambito della disamina di meccanismi mortis causa utilizzabili per garantire diritti successori al convivente, non può negarsi la forte utilità della disposizione a titolo particolare. Ferma restando la necessità che il contenuto del legato, sia esso tipico che atipico (nei limiti in cui il ricorso all'autonomia privata è, in generale, riconosciuto in materia di legati), risponda ai requisiti di liceità, possibilità, determinatezza e determinabilità, il lascito a titolo particolare, proprio in ragione della sua maggiore "duttilità", si presta ad essere utilizzato per la realizzazione degli interessi al vaglio. Tuttavia, non si può tacere che, oltre ai rischi derivanti dall'eventuale lesione dei diritti di legittima del disponente, entrambi i meccanismi non assicurano certo un'assoluta stabilità, stante la naturale revocabilità del negozio testamentario. Né al fine che qui impegna giovano le attribuzioni patrimoniali tra conviventi per atto tra vivi; salvo la limitata ammissibilità delle donationes cum praemoriar, è, infatti, evidente il rischio dell’invalidità di atti fatti in sostanziale funzione della propria morte per patente violazione dell’inossidabile divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. A tale riguardo vale segnalare un espediente elaborato dalla prassi, indirizzato al superamento dell’ostacolo ora evidenziato. Si tratta della condizione nota come tontinaria, che consiste nella espressa pattuizione nel contratto con cui i conviventi che procedono ad un acquisto - si supponga, di un immobile in comunione ordinaria - che in caso di morte di uno di essi la sua quota di comproprietà s’accresca all’altro. Ossia si pattuisce la condizione della premorienza dell’uno all’altro allo scopo di risolvere (retroattivamente) la comunione e di considerare proprietario esclusivo il superstite. L’effetto propriamente retroattivo della condizione determinerebbe a carico del premorto la condizione di soggetto mai proprietario e, fermo restando che l’evento premorienza è sì condizione risolutiva dell’acquisto del premorto, ma anche condizione sospensiva dell’acquisto esclusivo del superstite, escluderebbe che il bene rientri nella successione del convivente premorto ex art. 458 c.c., inibendone l’operatività. A dire il vero la soluzione non manca di suscitare perplessità specie ove si evidenzi che la clausola tontinaria sia , in fatto, un autentico espediente destinato a produrre i medesimi effetti proibiti da una norma inderogabile, con il risultato che la sua corsa verso la liceità inciampa nel meccanismo della frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c. (80) Al fine di risolvere il problema della trasmissione della ricchezza anche ai membri delle unioni di fatto si è fatto riferimento all'istituto del trust. Si è al riguardo sostenuto che il trust, nella particolare applicazione del cd. family trust, possa rappresentare un idoneo strumento alternativo al testamento, in quanto consentirebbe a ciascun convivente di provvedere al mantenimento economico dell'altro, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Affermazione, questa, che deve comunque essere coordinata con le più recenti riflessioni sul tema dei rapporti tra trust e principi di diritto successorio. Invero, secondo un recente orientamento dottrinale , questa fattispecie negoziale, inter vivos, non (81) sarebbe in contrasto con il divieto della sostituzione fedecommissaria di cui all'art. 692 c.c. poiché non è configurabile la doppia istituzione con l'obbligo di conservare per restituire; né potrebbe ipotizzarsi violazione del divieto dei patti successori, di cui all'art. 458 c.c., poiché il disponente (rectius settlor)non si spoglia dei beni con una disposizione mortis causa diversa dal testamento, ma con un negozio inter vivos, in virtù del quale esso disponente si spoglia in via definitiva della titolarità dei beni trasferendoli al trustee. Come evidenziato anche per altre fattispecie, anche il trust familiare non dovrà ledere le aspettative di eventuali legittimari del disponente, in ossequio all'art. 15 della Convenzione dell'Aja che fa espressamente salvi i diritti riconosciuti dalle singole legislazioni nazionali in materia ereditaria. Problema, questo, di non poco momento, soprattutto in considerazione della difficoltà di neutralizzare preventivamente (rectius al momento dell'istituzione del trust) il pericolo della lesione dei diritti dei legittimari, poiché è noto che la loro individuazione, nonché la determinazione delle quote di legittima, potrà avvenire solo alla morte del disponente; precisandosi, peraltro, l'incidenza sul calcolo al vaglio di possibili rinunzie da parte dei legittimari, la cui rilevanza al fine detto è notoriamente fonte di discordanti opinioni in dottrina e giurisprudenza . (82) Una potenziale area operativa ancora tutta da esplorare al fine quivi al vaglio potrebbe riconoscersi al meccanismo recente dell’art. 2645 ter c.c. (83) . Respinta, infatti, l’idea secondo la quale non si rintracciano nel sistema ragioni per demonizzare "il giudizio di meritevolezza" evocato dal disposto letterale dell’art. 2645-ter c.c., è agevole osservare che la norma impone non di valutare la meritevolezza dell’atto di destinazione inteso come atto, o negozio, volto a creare una separazione patrimoniale in deroga all'art. 2740 c.c., quanto, piuttosto, di considerarla avuto riguardo all’interesse riferibile esclusivamente ai soggetti beneficiari. Se ne ricava, ulteriormente, che non può che condividersi quella opinione che non fa riferimento alla meritevolezza di cui è parola specifica nell’art. 2645ter c.c. come generica valutabilità della liceità dell’atto di destinazione, ma la configura come tecnica ermeneutica comparativa. Ne deriva, ulteriormente, che la specifica qualità dello scopo, inteso come interesse riferibile al beneficiario, giustifica la logica e la tecnica del patrimonio separato (84) . In questo senso la norma pare andare proprio nella direzione di considerare una "gerarchia degli interessi meritevoli", dal momento che, in tutta evidenza, subordina l’effetto della separazione alla rilevanza in termini di meritevolezza ed all’esecuzione della pubblicità. Vanno, ovviamente, chiariti i termini della comparazione volta ad assicurare la prevalenza dell’un interesse su quello destinato ad essere, rispetto al primo, sacrificato. Il riferimento generale "ad altre persone o enti" contenuto nella norma al vaglio sembra ampliarne gli argini operativi, e non pare assumere, perciò, ruolo rilevante l’inutile, il futile, il capriccioso. In questo contesto risulta difficile negare che la meritevolezza cui fa riferimento la norma non coincide con la legalità costituzionale, e non consiste nella emersione gerarchica del valore della persona sul patrimonio, e, poi, nell’ambito patrimoniale, del maggior valore del lavoro sull’impresa e di quest’ultima sulla proprietà. Si è altrove sottolineato che se esiste un’area ampia di applicabilità della destinazione di cui è parola nell'art. 2645ter c.c. questa è proprio quella dei rapporti familiari cd. "di fatto". Ai rapporti familiari di fatto, si è avuto ora occasione di chiarire, non manca fondamento costituzionale. Quindi destinare, da parte di un soggetto, un immobile (nei limiti di tempo previsti dalla legge) al riequilibrio delle differenze patrimoniali tra lo stesso ed il suo convivente per l’ipotesi di cessazione della convivenza (insomma in funzione e scopo analoghi a quelli svolti dall’assegno di mantenimento per la separazione o divorzio) potrebbe ben corrispondere ad interesse meritevole ex art. 2645ter c.c. Così come l’atto con cui Tizio destini i frutti del bene immobile al mantenimento del suo convivente sin d’oggi, o si praemoriar, temendo che alla morte nessuno dei suoi familiari legittimi assista il convivente, e ritenendo il testamento mezzo inidoneo all’assegnazione (al convivente) a causa di morte per le ragioni della tempistica connessa ad eventuali impugnazioni giudiziali, sembra alla luce del disposto dell’art. 2645-ter c.c. vincolo che consustanzi un interesse meritevole. Parimenti l’atto con cui si destinano sempre i frutti di un immobile magari in ragione della metà, per un periodo compatibile con i 90 anni, a "compensare" il convivente della sua collaborazione alla "formazione della ricchezza familiare" in analogia con gli effetti "remuneratori" del più generale regime degli acquisti della comunione legale tra coniugi appare compatibile con lo schema dell’art. 2645-ter c.c. di quanto altre ricostruzioni non sembrino allo stato coerenti con i limiti di liceità aliunde imposti. E’ evidente, quindi, come il vincolo di destinazione, entro certi limiti, possa divenire strumento utile ad avvicinare elementi della disciplina giuridica della famiglia fondata sul matrimonio a quella fondata sul rapporto. Ciò che rileva in doveroso ossequio alla lettura corretta del valore costituzionale fornito dalla consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale è che i diritti della famiglia di fatto devono essere "compatibili" con quelli della famiglia legittima: in altri termini appare necessario che non si stravolga il valore di gerarchica sovraordinazione costituzionale della famiglia legittima su quella di fatto. Null’altro. In termini civilistici ciò può voler significare non il divieto assoluto di utilizzare comuni strumenti volti a realizzare interessi "meritevoli", quanto piuttosto adoperarsi a che di tale uso non si rechi pregiudizio ad un valore ritenuto, pacificamente, sovraordinato. Sarà, dunque, congruo il giudizio di meritevolezza assegnato al vincolo costituito su di un bene immobile per la realizzazione di interessi riferibili (come nelle esemplificazioni di cui in precedenza) alla persona del convivente. Sotto questo profilo, anzi, risulterebbe del tutto indifferente il sesso del convivente giacché, ai fini della meritevolezza, il sesso non sembra arrecare alcun limite giuridicamente rilevante all’applicazione dell’art. 2645ter c.c. 8. Riepilogo applicativo A questo punto può risultare utile un breve riepilogo della sfera operativa delle molte questioni cui s'è fatto cenno non senza, preventivamente, scusarsi con il lettore per l'eccesso di sintesi e per le ovvie ripetizioni: Area dei rapporti personali Si deve escludere legittimità a quegli accordi che pongono al centro dell'atto di autonomia: a) l’obbligo di fedeltà; b) di collaborazione e coabitazione; c) dell’indirizzo della vita familiare e\o o alla fissazione della residenza, ovvero obblighi verso la prole; d) obblighi rispetto alla sfera sessuale in funzione della procreazione o della non procreazione. Pure da rigettare risulta la legittimità , per l'aspetto qui al vaglio del contratto di mantenimento che mascheri la copertura dell’obbligo personale dietro la "facciata" di contratto vero e proprio (ossia del contratto di mantenimento con il quale un soggetto assuma l’obbligo di mantenere il convivente per tutta la vita). Sotto questo aspetto , meno problematica, ancorché discutibile, appare la legittimità degli accordi relativi all’organizzazione ed alla regolazione della vita familiare e/o delle scelte educative dei figli, anche avuto riguardo alla cessazione della convivenza stessa. Né si mostra appagante -sul piano della legittimità -il ricorso alla condizione "premiale" almeno laddove essa sia destinata ad interferire con la sfera personale espressiva di “valori di natura ideale”: quindi si può considerare valida una condizione “premiale” coincidente con “la scelta di un corso di studi” o “ l’avvio di una professione” , mentre risulta affetta da nullità quella consistente nell'assunto " ti darò cento se mi sarai fedele , o se osserverai questo credo religioso o politico , etc." Nulli per le cose dette risultano i patti di rinunzia ad avvalersi della cessazione della convivenza o tendenti a fissare durate minime o massime del rapporto. Area dei rapporti patrimoniali Assai più ampia , evidentemente, risulta l'area dell'autonomia privata , in tema di rapporti patrimoniali dei conviventi: a) deve riconoscersi legittimo il patto con il quale i conviventi disciplinino reciprocamente il proprio dovere di contribuzione e di mantenimento e ciò anche quando essi s'impegnino a partecipare alle spese in misura eguale; b) parimenti valido sembra un contratto di convivenza con attribuzione di comodato gratuito di un bene da un convivente ad altro anche in considerazione della rilevanza del lavoro domestico di quest’ultimo; c) legittimo si mostra il contratto con cui siano sinallagmaticamente in rapporto da un lato la prestazione al mantenimento di un convivente e dall'altro il lavoro domestico; d) validi possono ritenersi i contratti che rendono obbligatoria la prestazione al mantenimento a carico di un convivente per il caso in cui l’altro si venga a trovare in stato di bisogno , ovvero quelli con i quali uno dei conviventi si obblighi verso l’altro al mantenimento senza controprestazioni. In tali contratti, peraltro, appare legittima la clausola che preveda la cessazione dell’obbligo al mantenimento in conseguenza della cessazione della convivenza; e) tra i contratti ritenuti legittimi rientrano quelli che hanno ad oggetto l’attribuzione dall’uno all’altro partner del diritto d’abitazione o di comodato della casa, in proprietà esclusiva del dante causa, adibita a residenza della famiglia in fatto, ferma restando, in tal caso, la liceità della clausola che fissi il termine di cessazione del diritto o di scadenza del godimento del comodatario in conseguenza della cessazione del rapporto di convivenza.; f) parimenti validi si possono ritenere quei patti che prevedono l'effettuazione di prestazioni patrimoniali in seguito alla cessazione della convivenza purché si abbia cura d’evitare la coartazione della volontà di cessare il rapporto e resti all’evidenza, al contrario, la funzione del patto alla solidarietà verso il partner in difficoltà (come il patto che preveda la permanenza nella casa di proprietà di uno a beneficio dell’ex convivente per il tempo necessario a trovare nuova sistemazione) g) ancora piena cittadinanza si può riconoscere a quei patti con i quali - in sede di cessazione della convivenza - l'un convivente (ex) attribuisca all'altro dei diritti reali su beni immobili con il vincolo di destinarne i proventi al mantenimento della prole sino al raggiungimento dell'autosufficienza economica della stessa. Illegittimi,invece, sembrano quegli accordi tendenti a riproporre, tra conviventi, il "regime" degli acquisti disciplinato dalla legge per la comunione legale o un regime di comunione ordinaria dei futuri beni da acquistarsi. Deve considerarsi, ancora, piena la legittimità di disposizioni a favore del convivente (etero o omosessuale) a titolo universale, anche mediante una institutio ex re certa, qualora risulti che il de cuius abbia inteso attribuirgli beni determinati o un complesso di beni come quota del suo patrimonio, ancorchè innegabile sia la riducibilità delle disposizioni di che trattasi quando ricorrano le condizioni previste dalla legge. Deve riconoscersi piena cittadinanza al cd. family trust come strumento alternativo al testamento, idoneo a consentire a ciascun convivente di provvedere al mantenimento economico dell'altro, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Anche l'atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c. sembra ampiamente utilizzabile nell'area della cd. famiglia non fondata sul matrimonio. Quindi appare del tutto legittimo e meritevole destinare, da parte di un soggetto, un immobile (nei limiti di tempo previsti dalla legge) al riequilibrio delle differenze patrimoniali tra lo stesso ed il suo convivente per l’ipotesi di cessazione della convivenza, ovvero l’atto con cui Tizio destini i frutti del bene immobile al mantenimento del suo convivente sin d’oggi, o si praemoriar. Parimenti legittimo ex 2645ter c.c. sembra l’atto con cui si destinano sempre i frutti di un immobile, per un periodo compatibile con i 90 anni, a "compensare" il convivente della sua collaborazione alla "formazione della ricchezza familiare" Giuseppe A.M. Trimarchi _____________ 1) Si pensi che esso lascia traccia significativa nel diritto positivo già nella Francia del diciassettesimo secolo, quando l' "ordonnance de janvier" del 1626 decise di sanzionare di nullità le donazioni tra "concubini". E’ opportuno altresì ricordare che nel diritto romano classico l'unione di fatto venne istituzionalizzata, sebbene con significative differenze rispetto al matrimonium. 2) DOGLIOTTI, Famiglia di fatto, Voce Famiglia, in Digesto disc. priv., Torino, 2003, pp. 705 -706; FRANCESCHELLI, Famiglia di fatto, in Enc. dir., (VI appendice di aggiornamento) , 2002, pp. 368-370. 3) Ed infatti, se la nozione di concubinato portava con sé, evidente, un giudizio di disvalore, è chiaro che la definizione di convivenza "more uxorio" abbia espresso un tentativo di neutralità etico-giuridica; ed in questa prospettiva è altresì sicuro che la definizione di "famiglia di fatto", di "convivenza", o di "famiglia non fondata sul matrimonio" esprime un significativo cambiamento della tendenza valutativa del fenomeno, lasciando trasparire il progressivo avanzare della parificazione, almeno culturale, tra famiglia"di diritto"e famiglia"diversa"sul piano dell’evento costitutivo del rapporto. 4) 5) Titolo II, Rapporti etico- sociali. Fermo restando che il costituente ne pretende l’ordinamento fondato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, demandando alla sola legge il potere di fissarne i "limiti" a presidio, pur sempre, dell’unità. 6) 7) 8) Cfr. Art. 9 l. 19 febbraio 2004 n. 40. DOGLIOTTI, Famiglia di fatto, cit., p. 707. STANZIONE, Le prospettive del diritto di famiglia tra nuove istanze e principi costituzionali, in AA. VV., Famiglia e diritto profili evolutivi di un rapporto complesso, Atti del convegno tenutosi a Salerno il 6 e 7 ottobre 2006, Notariato - Quaderni, Milano, 2007, p. 11. Sulla interferenza, in generale, tra le due fattispecie si segnalano: M.C. ANDRINI L'anatomia privata dei coniugi tra status e contratto. Le convenzioni coniugali in Collana Università Roma 3, Dipartimento di Studi Giuridici, 2006 pagg. 44 e ss.; A. ZOPPINI, Le successioni in diritto comparato, 2002, pagg. 71 e ss. 9) 10) 11) 12) In tal senso, LIPARI, Riflessioni su famiglia e sistema comunitario - Parte prima, in Familia, 1, 2006, p. 1. LIPARI, op. ult. cit., p. 9. LIPARI, op. ult. cit., pp. 12 e 13. Per una ricognizione della giurisprudenza sia consentito rinviare al mio G.A.M. TRIMARCHI " La Famiglia non fondata sul matrimonio" in AA.VV, Manuale di Diritto Privato a cura di A. Zoppini, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, in corso di pubblicazione. 13) 14) P.TRIMARCHI, Atto giuridico e negozio giuridico, 1940, p. 5. Sul tema dei rapporti di fatto, in un più ampio contesto volto ad individuare il concetto di autonomia privata, RESCIGNO, L'autonomia dei privati, in Studi in onore di Gioacchino Scaduto, Diritto civile, II, Padova, 1970, 537. 15) Cfr. GALGANO, Le società in genere - Le società di persone, in Trattato dir. civ. e comm., già diretto da CICU MESSINEO - MENGONI, continuato da SCHLESINGER, Milano, 2007, 189 ss.; DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1995, pp. 70 ss. 16) 17) 18) 19) GAZZONI, Manuale di diritto privato,, pp. 331 ss. SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile italiano, cit., pp. 86 ss. FRANCESCHELLI, op. cit., p. 278. Ossia quando si tratta di società di persone, almeno per i "macrotipi"società semplice e società in nome collettivo. 20) Si potrebbe ancora più significativamente aggiungere che la costituzione di un ente dotato di autonomia patrimoniale perfetta esige una vicenda costitutiva caratterizzata, per scelta legislativa, da una marcata carica di formalismo. 21) BRECCIA, La forma, in Trattato del contratto, a cura di ROPPO, I, Formazione, a cura di GRANELLI, Milano, 2006, p. 710. 22) 23) BRECCIA, op. ult. cit., p. 715. Si pensi al cd."marchio di fatto" di cui all’art. 2571 c.c., alla disciplina dell’agenzia "di fatto" o della "mediazione di fatto", ed alla rilevanza della mancata iscrizione nei ruoli degli agenti di commercio di cui alla l. 204 del 1985, o in quello degli agenti d’affari in mediazione di cui alla l. 1989 n. 39. 24) 25) Corte Costituzionale n. 559\89; n. 8\1996; n. 352\2000. O, talora, nella impossibilità giuridica del momento genetico del rapporto. Si ricorda, infatti, che è proprio l’ordinamento a vietare in alcune ipotesi il matrimonio: si pensi a soggetti non ancora liberi civilmente. 26) Sul tema dell'automonia negoziale "nei gruppi privati", con espresso riferimento alla famiglia, cfr. RESCIGNO, L'autonomia dei privati, cit., 538. 27) Corte Cost. 25 luglio 2000 n. 352; Id. 3 novembre 2000 n. 461. 28) Sul punto, cfr. G. DORIA, Autonomia privata e "causa" familiare - Gli accordi traslativi tra coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, pp. 1 ss.; G. OBERTO, Contratto e famiglia, in V. ROPPO, Trattato del contratto, VI, Interferenze, Milano, 2006, pp. 283 ss.; E. BRIGANTI: “ Crisi della famiglia e attribuzioni patrimoniali “ in Riv. notariato 1997, 1-2, 1 29) Sul punto G. OBERTO, Contratto e famiglia, cit., pp. 107 ss.; F. ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova,1997;G. CECCHERINI, Contratti tra coniugi in vista della cessazione del ménage, Padova, 1999; M. DOGLIOTTI, Famiglia di fatto, in Digesto discipline priv., sez. civile, Aggiornamento, tomo II, Torino, 2003, pp.705-715; E. RUSSO, Le convenzioni matrimoniali e altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983. 30) E' noto che il codice civile offre a tal fine un'ampia serie di strumenti giuridici per la regolamentazione di interessi afferenti al fenomeno familiare, regolando, in primo luogo, l'istituto del matrimonio e, conseguentemente, lo status coniugale, in specie con riferimento all' obbligo alimentare, al diritto al mantenimento, al regime patrimoniale della famiglia e al suo funzionamento, alla comunione convenzionale, al fondo patrimoniale, ai diritti successori del coniuge superstite. Aspetti, tutti, quelli appena richiamati, che, tuttavia, non esauriscono le tipologie di atti strumentali alla realizzazione dei molteplici interessi che possono riguardare il rapporto coniugale. 31) Si è già detto che sia in dottrina che in giurisprudenza, il tema della cd. causa familiae, è stato spesso ricondotto al fenomeno degli accordi traslativi conclusi in occasione della separazione personale o del divorzio, di cui peraltro più ampiamente infra. Rispetto a detta fenomenologia negoziale, sempre più diffusa nella prassi e della cui legittimità non sembra vi siano più dubbi - già da tempo è stata evidenziata la necessità di individuarne la giustificazione causale "[...] sulla base della funzione di tali atti che sono diretti alla composizione unitaria dei rapporti che sorgono in conseguenza della separazione personale o del divorzio. [...]". Diventa, quindi, essenziale la valutazione dell'interesse perseguito nell'operazione economica, il quale, al tempo stesso, è atto di impulso e giustificazione causale del trasferimento patrimoniale, rispetto al quale si evidenzia l'insufficienza del tentativo della sussunzione in schemi negoziali tipici, quali la donazione, e più in generale nella categoria delle liberalità donative e non donative, stante l'impossibilità di presumere aprioristicamente l'esistenza dell'animus donandi, da intendere come elemento essenziale dell'atto di natura liberale. Secondo questa impostazione, pur non potendosi, invero, astrattamente escludere la possibilità che detti accordi possano, in tutto o in parte, presentare profili liberali, sarebbero comunque caratterizzati da una causa propria, rappresentata dalla realizzazione della specifica esigenza della composizione dei rapporti sorti in conseguenza della separazione personale o del divorzio. E si precisa che si tratterebbe di una causa onerosa e non gratuita, individuandosi il presupposto per l'affermazione del carattere oneroso dell'atto di che trattasi nell'assunto in virtù del quale non v'è nel nostro ordinamento coincidenza tra onerosità e corrispettività. In tal senso, cfr. G. DORIA, Autonomia privata e "causa" familiare - Gli accordi traslativi tra coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, cit., pp. 224 ss. e, in particolare, p. 240. 32) 33) Cfr. G. DORIA, Autonomia privata e "causa" familiare, cit., p. 16, nota n. 21. Invero, in questa fase l'ordinamento non impone uno schema tipico da utilizzare per lo scioglimento della comunione ordinaria instauratasi per effetto dello scioglimento della comunione legale, di guisa che "l'accordo", quale atto diverso dal negozio tipico della divisione - comunque utilizzabile dai coniugi - può risultare lo strumento più utile ed efficace alla sistemazione dei rapporti patrimoniali. 34) 35) Così G. DORIA, Autonomia privata e "causa" familiare, cit., p. 16. R. SACCO, Se tra coniugi l'attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, cit., p. 93. 36) Essendo, anzi, le considerazioni di SACCO utilizzate da DORIA (op. cit., pp. 16 - 17) per individuare argomenti a sostegno della tesi dell'esistenza di una giustificazione causale negli atti dispositivi compiuti dai coniugi in sede di separazione o divorzio. 37) 38) 39) 40) R. SACCO, op. ult. cit. R. SACCO, op. ult. cit. Così R. SACCO, op. ult. cit.; tesi integralmente riportata e condivisa da G. DORIA, op. cit., pp. 16 - 17. In tal senso espressamente R. SACCO, op. ult. cit.; tesi integralmente riportata e condivisa da G. DORIA, op. cit., p. 16 - 17. 41) O "causa familiare", secondo altra dottrina. Cfr. G. DORIA, op. cit., p. 33, il quale tuttavia conduce l'esegesi con riferimento ai soli atti eseguiti in occasione della separazione personale o del divorzio, rispetto ai quali afferma, addirittura, che detti interessi rilevino sotto il profilo causale "[...]naturalmente nella fase patologica del rapporto coniugale[...]". 42) In tal senso, sia pure in un più ampio contesto volto a delineare i confini del divieto di costituzione di beni in dote, cfr. G. OBERTO, Contratto e convenzioni patrimoniali, in Contratto e famiglia, cit., p. 185, testo e nota n. 158. 43) In tal senso G. OBERTO, Contratti della crisi coniugale: ammissibilità e fattispecie, in Contratto e famiglia, cit., pp. 278 - 280. 44) 45) L'autore, a p. 279, nota n. 175, parla di "causa tipica (giusfamiliare)". Con riferimento alla prima categoria, si parla di contratto che presenta "[...] una causa tipica di definizione della crisi coniugale o, se si vuole essere più corretti, di una causa tipica di definizione degli aspetti economici della crisi coniugale. Ad un siffatto negozio tipico - tipico, appunto, in quanto previsto e disciplinato in apposite disposizioni - potrebbe attribuirsi anche il nome di contratto tipico della crisi coniugale o di contratto postmatrimoniale [...]". Negozio, questo, da intendere come il contratto a titolo oneroso che i coniugi stipulano per regolare i reciproci rapporti patrimoniali sorti durante il matrimonio, "[...] quando al regolamento di tali rapporti i coniugi stessi intendono condizionare la definizione consensuale della crisi coniugale o di una fase di quest'ultima (separazione di fatto, separazione legale, divorzio) [...].Per quanto concerne, invece, la "categoria" di cui al punto "b", se ne evidenzia la rilevanza in regione della considerazione che in occasione della crisi coniugale può essere utile o opportuno, e comunque non sembra sia vietato, che siano conclusi anche negozi caratterizzati da una causa propria, distinta da quella del contratto tipico della crisi coniugale. Al fine di specificare la finalità del negozio è frequente l'utilizzo dell'aggettivo "postmatrimoniale", e ciò non per indicare una causa autonoma, ma "[...] il motivo, costituito dal fatto che l'accordo viene stipulato in contemplazione della crisi coniugale [...]"Cfr. G. OBERTO, Contratti della crisi coniugale: ammissibilità e fattispecie, in Contratto e famiglia, cit., pp. 279 - 280, testo e note, e in particolare nota n. 177, ove si cita Cass. 23 - 3- 2004, n. 5741, in Arch. civ., 2004, 1026, quale esempio di pronuncia giurisprudenziale che aderisce all'impostazione riferita 46) sebbene, sul punto, la giurisprudenza sia intervenuta rigettando la legittimità del patto ora accennato il cui interesse, ripetesi, finisce per rilevare al solo fine dello studio della causa 47) D’altro canto la letteratura specializzata (G. OBERTO, Contratto e famiglia, cit., p. 143, testo e nota n. 125)non ha mancato di mettere in evidenza la preferenza della stessa giurisprudenza per "la via negoziale", anche superando le remore sollevate con riferimento alla conformità di accordi di tal fatta con l'ordine pubblico ed il buon costume. 48) Aspetto, questo, per la cui trattazione mi sia consentito rinviare al mio: La cd. "famiglia di fatto" e le altre convivenze, in Manuale di diritto commerciale, diretto da N. LIPARI e P. RESCIGNO, in corso di pubblicazione a cura della casa editrice Giuffrè, ove anche ulteriori riferimenti giurisprudenziali. 49) OBERTO, Contratto e regime patrimoniale della famiglia di fatto, in Trattato del contratto a cura di ROPPO, VI, Interferenze a cura di V. ROPPO, Milano, 2006, 364 ss.; RUGGIERO, Gli accordi di convivenza, in AA.VV., Le convivenze familiari, Diritto vivente e prospettive di riforma, a cura di F. BOCCHINI, Torino, 2006, pp. 194 ss. 50) 51) 52) 53) 54) OBERTO, op. ult. cit., 368 ss. BOCCHINI, La vite convissute more uxorio, in AA.VV., Le convivenze familiari, cit., p. 24. Cass. 27 aprile 1982 n. 2629. GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 170. Con ciò superandosi l’eventuale obiezione fondata sulla violazione del divieto a carico dell’obbligazione naturale di produrre effetti fuori della soluti retentio (art. 2034, comma 2, c.c.), 55) 56) OBERTO, op. cit., p. 126. Sul punto di recente AMADIO, Controllo sull’esecuzione ed efficacia negoziale, in corso di pubblicazione nel testo messo gentilmente a disposizione dall’Autore 57) 58) 59) AMADIO, Controllo sull’esecuzione ed efficacia negoziale, cit. AMADIO, Controllo sull’esecuzione ed efficacia negoziale, cit Sembra, invece, pronunciarsi per la legittimità del patto DEL DOTTO, Autonomia privata e diritto di famiglia, p. 882. 60) OBERTO, Contratto e regime patrimoniale della famiglia di fatto, in Trattato del contratto, cit., p. 389, testo e nota 104. 61) 62) Sul tema, cfr. OBERTO, op. ult. cit., pp. 373 ss., RUGGIERO, Gli accordi di convivenza,cit., p. 231. Trib. Savona, 29 giugno 2002. 63) 64) Cass. 13 luglio 1995, n. 7666 in Giur. it., 1996, I, c. 119 ss. L'opinione espressa nel testo è condivisa, tra gli altri, da OBERTO, Contratto e regime patrimoniale della famiglia di fatto, cit., p. 396; e CALÒ, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, in Foro it., 1989, I, p. 1165. 65) 66) 67) Cfr. OBERTO, Contratto e regime patrimoniale della famiglia di fatto, cit., pp. 377 ss. In tal senso, con riferimento al fondo patrimoniale, OBERTO, op. ult. cit., p. 382. Il legislatore, infatti, prevede detta figura all'art. 156, I e II comma, c.c. quale obbligo da eseguire a favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione; e sempre come obbligo il mantenimento viene in rilievo nei confronti dei figli agli artt. 147 e 148 c.c. 68) Problema, questo, generato dal silenzio del legislatore del 1942, e che è diffusamente ed approfonditamente affrontato dalla dottrina specializzata e dalla giurisprudenza, e risolto, tendenzialmente, o nel senso dell'applicazione della disciplina dettata dal codice civile del 1865, o mercé l'estensione della disciplina in tema di rendita perpetua. Cfr., ex multis, A. MARINI, La rendita vitalizia, in Trattato dir. priv., diretto da P. RESCIGNO, vol. XIII, Torino, 1995, pp. 34 ss.; A. TORRENTE, Della rendita vitalizia, in Commentario cod. civ. a cura di A. SCIALOJA e G. BRANCA, Artt. 1861 - 1932, III ed., Bologna - Roma, 1966, p. 76 ss.; AA.VV., Dei singoli contratti, Manuale e applicazioni pratiche dalle lezioni di G. Capozzi, vol. II, Milano, 2002, p. 445. 69) AA.VV., Dei singoli contratti, Manuale e applicazioni pratiche dalle lezioni di G. Capozzi, cit., pp. 462 ss.; A. LAPENNA (a cura di), Diritto notarile, Le lezioni del notaio Vincenzo De Paola, Ricostruzione sistematica di problematiche giuridiche in tema di: soggettività giuridica - volontaria giurisdizione - diritti reali - comunione e condominio - famiglia e regimi patrimoniali - trust e fiducia - indicazione della giurisprudenza, dottrina di riferimento e soluzioni pratiche adeguate, Milano, 2004, pp. 412 - 413; A. LUMINOSO, I contratti tipici e atipici, Milano, 1995, pp. 350 - 351; A. MARINI, La rendita vitalizia, in Trattato dir. priv., diretto da P. RESCIGNO, cit., p. 36. 70) 71) A. LUMINOSO, Contratti tipici e atipici, cit., p. 351. Ed in questo aspetto si rinviene la ragione dell'atipicità.Sul punto, cfr. A. LAPENNA (a cura di), Diritto notarile, Le lezioni del notaio Vincenzo De Paola, cit., p. 413. 72) 73) In tal senso anche A. LAPENNA (a cura di), Diritto notarile, Le lezioni del notaio Vincenzo De Paola, cit., p. 413. Sul tema, sia consentito rinviare a Commissione studi civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 4089, consultabile in www.notariato.it. 74) Il mantenimento, infatti, varia in ragione della necessità di chi deve ricevere e la possibilità di chi deve somministrare, diversamente dalla rendita vitalizia, contratto, questo, ove si prescinde dalla condizione economica dei beneficiari ed ha un oggetto definito. 75) 76) A. LAPENNA (a cura di), Diritto notarile, Le lezioni del notaio Vincenzo De Paola, cit., pp. 414 - 415. Precisandosi che il vitalizio alimentare, a sua volta, si differenzia dalla rendita vitalizia sia perché ha ad oggetto un facere, sia per il carattere continuativo e non periodico della prestazione, sia per la rilevanza della scelta del contraente obbligato, sia per la variabilità delle prestazioni dovute in funzione dei bisogni del beneficiario. Sul tema. cfr. A. LUMINOSO, Contratti tipici e atipici, cit., p. 350. 77) 78) 79) 80) Tribunale Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Obbligazioni e contratti 2007, 6 552. Sul tema, OBERTO, op. ult. cit., pp. 396 ss. Per una rassegna sul tema, cfr. SOLIMENE, I diritti ereditari, in AA.VV., Le convivenze familiari, cit., pp. 303 ss. Talora, proprio per superare questo inconveniente, s’è suggerito, in punto applicativo, o di prevedere al momento dell’acquisto un reciproco patto d’opzione di vendita subordinato alla premorienza del proponente all’oblato. Ma il suggerimento sembra l’ulteriore dimostrazione delle problematiche di fondo concernenti i dubbi di legittimità della clausola all’esame. 81) 82) Per un resoconto del dibattito si rinvia a SOLIMENE, op. ult. cit., pp. 310 - 311, testo e note, ove ult. rif. Sul tema del calcolo della legittima cfr., per tutti, CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2002, pp. 271 e ss.; e, in giurisprudenza, di recente, Cass. Sez. Unite, 12 giugno 2006 n. 13524, in Notariato, 6, 2006, pag. 676 e ss., con nota di Loffredo, La determinazione della quota di riserva in caso di perdita del diritto di esperimento dell'azione di riduzione. 83) G.A.M. TRIMARCHI, L’art. 2645ter c.c. e gli interessi riferibili alle persone fisiche, in Negozio di destinazione:percorsi verso un'espressione sicura dell'autonomia privata, Atti del Convegno a cura della Fondazione Italiana del Notariato, Catania 11 novembre 2006, Milano, 2007, pp. 261 ss. 84) NUZZO, Atti di destinazione, interessi meritevoli di tutela e responsabilità del Notaio, Atti della Tavola Rotonda tenutasi a Roma il 17 marzo 2006.