sir vittorio emanuele ii

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Copertina / Sovrani
VITTORIO EMANUELE II
Il re che volle l’Italia Unita
Viste le premesse delle celebrazioni per i 150 dell’Unità e come non è stato ricordato il Conte di
Cavour meglio non farsi illusioni. Nonostante una mostra che sta per aprire i battenti in Piemonte,
nei prossimi mesi anche Vittorio Emanuele II di Savoia rischia di essere per lo più criticato o citato
solo di sfuggita, quasi si sia trattato di un comprimario e non di un protagonista assoluto del
Risorgimento. Ecco perché «Storia in Rete» ha deciso di muoversi per tempo e dedicare al “Re
Galantuomo” copertina e molte pagine per spiegare chi è stato davvero. E perché gli siamo debitori
di un’impresa esaltante e di una lungimiranza non comune. Meriti e doti che molti, oggi, tendono a
minimizzare, demonizzare o dimenticare
di Aldo A. Mola
Vittorio Emanuele II di Savoia fu il primo re d’Italia. Per un giudizio obiettivo, Vittorio Emanuele
II va inquadrato in una visione panoramica nella sua epoca. In quale contesto si mosse? Chi erano
gli altri sovrani sulla scena internazionale negli anni in cui a Torino si fecero le mosse decisive per
avviare l’unità d’Italia? In Austria c’era Francesco Giuseppe d’Asburgo, imperatore dal 1848 al
1916. La regina d’Inghilterra Vittoria venne incoronata nel 1837 e morì nel 1901 anche col titolo di
“Imperatrice delle Indie”. In Russia, Alessandro I Romanov divenne zar nel 1855 e fu spazzato via
da un attentato nel 1881. L’Impero d’Austria, il regno di Gran Bretagna e quello di Russia
esistevano da secoli. La Francia era passata dalla monarchia dei Borbone all’Impero Napoleonico
per approdare, nel 1814-1815 alla Restaurazione (ancora i Borbone) e nel 1830 al regno degli
Orleans. Rovesciati i quali, nel 1848, si ebbe una breve esperienza repubblicana poi affossata dallo
stesso presidente eletto: quel Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del Grande Còrso, che
diventerà nel 1852 imperatore a sua volta col nome di Napoleone III. Una figura importantissima
anche per la storia italiana… Gli altri regni d’Europa ebbero storia minore: erano sotto tutela. Fece
eccezione quello di Prussia, che generò l’Impero di Germania due secoli dopo la rovinosa Guerra
dei Trent’anni e germinò due guerre mondiali. Il regno d’Italia nacque quindi con Vittorio
Emanuele II di Savoia che estese, per qualche tempo, la propria influenza anche su antichi regni
come quelli di Spagna e Portogallo. Negli anni della sua ascesa infatti Portogallo e Spagna, in preda
a guerre dinastiche, furono sull’orlo dell’abisso. Dal 1868 la Spagna divenne repubblica. Tornò
monarchia nel gennaio 1871 con il ventenne Amedeo d’Aosta, secondogenito di Vittorio Emanuele
II, una cui figlia, Maria Pia, era invece regina del Portogallo.
La figura di Vittorio Emanuele II fa riflettere sul ruolo svolto dalla monarchia sabauda
nell’unificazione italiana. Centocinquant’anni dopo è chiaro che senza di essa l’Italia non avrebbe
conseguito unità e indipendenza: due carte di credito concesse alla persona del re dal “concerto
delle grandi potenze”. A lungo venne ipotizzato un apposito Congresso, come quello di Parigi del
1856 o addirittura come quello di Vienna. Poi i “Grandi” dell’epoca imboccarono la scorciatoia:
lasciare che gl’italiani decidessero le proprie sorti, a patto però che il rappresentante della dinastia
più antica del continente se ne facesse garante. Era un re costituzionale. Quindi Vittorio Emanuele
II gettò sulla bilancia della storia il governo e il Parlamento bicamerale che lo sosteneva. Non era
solo. Aveva alle spalle la nazione italiana. Ma senza di lui la nazione non avrebbe avuto alcun
credito. La dirigenza degli altri Stati europei, decisivi per le sorti dell’Italia, ne conoscevano bene
la realtà.
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Per comprendere come le grandi potenze finirono per accettare l’avvento della Nuova Italia bisogna
riflettere sul percorso seguito da Casa Savoia dalla Restaurazione (1814) al 1859-1860, gli anni
decisivi. Ma anzitutto occorre interrogarsi sulla peculiarità del “re”, una persona predestinata al
trono sin dalla nascita, anzi dalle nozze dei genitori, nozze sempre frutto di strategie matrimoniali
sperimentate e perfezionate nei secoli. Sin da bambino il sovrano viene educato al “mestiere di re”.
Il re è tale ogni momento. La sua giornata può essere piena di noia o di stravaganze, di esercizi
fisici, studio, impegni di corte o personali. Ha la sua ovvia ordinarietà, ma è sempre quella di chi
detiene la somma dei poteri per diritto ereditario e li trasmette al successore. Tra le peculiarità del
ruolo c’è il fatto che non spetta al sovrano stabilire chi ne prenderà la corona. L’erede gli è
assegnato dalle leggi della Casa: un figlio o il parente prossimo in grado, a sua volta formato per
fare il re. Non è detto che un re, in quanto tale, debba per forza avere un ampio disegno storico.
Vittorio Emanuele lo ebbe, forse non da subito ma lo ebbe. Nella prospettiva di lungo periodo,
poco conta se e quanto re Vittorio abbia prefigurato l’unità nazionale e se sia stato del tutto
consapevole dei suoi molteplici passaggi. Di certo condivise la meta, che non fu un mero
ingrandimento dei domini della sua Casa, ma rispose alle attese di tre generazioni di patrioti:
dall’illuminismo ai liberali costituzionali del 1820-31, delle sette segrete, fino ai protagonisti della
prima guerra d’indipendenza del 1848-1849.
Alla sua nascita, in realtà, nulla poteva far prevedere che il piccolo Vittorio Emanuele sarebbe
potuto diventare un giorno anche solo re di Sardegna. Nel 1820 a Torino regnava Vittorio Emanuele
I, settimo dei dodici figli di Vittorio Amedeo III e di Maria Antonietta di Borbone (Casa di Spagna).
Il primogenito, Carlo Emanuele IV, sul trono dal 1796, dal 1802 era stato costretto a ridursi re in
Sardegna dalle armate di Napoleone ancora generale della Repubblica francese. Dedito a pratiche
devozionali, abdicò a favore del fratello Vittorio Emanuele I che nel 1814, alla caduta di
Napoleone, fu restaurato sugli Stati di Terraferma, ingranditi con l’intera repubblica ligure, l’ex
repubblica di Genova. Da Maria Teresa d’Asburgo-Este Vittorio Emanuele I ebbe cinque figlie e un
maschio, morto nel 1799 a soli tre anni. In Casa Savoia valeva la legge salica, cioè la successione di
maschio in maschio secondo le patenti del 1780-82 regolanti le nozze dei principi del sangue. A
Vittorio Emanuele sarebbe quindi succeduto un altro figlio di Amedeo III, il fratello minore Carlo
Felice. Nel marzo 1821 Vittorio Emanuele I abdicò per non concedere la costituzione richiestagli
dai “liberali” (aristocratici, militari e autorevoli borghesi), come già era accaduto nel regno delle
Due Sicilie. In attesa che Carlo Felice rientrasse da Modena, ove era ospite del cognato, la reggenza
fu assunta dal ventiduenne Carlo Alberto (1798-1849), discendente di Tomaso principe di
Carignano, figlio di Carlo Emanuele I, duca dal 1580 al 1630.
Orfano a un anno del padre Carlo Emanuele Savoia-Carignano, trascurato dalla madre Albertina di
Sassonia-Curlandia, il giovane Carlo Alberto dapprima parve cedere, poi entrò in conflitto con i
liberali che avevano promosso la “rivoluzione” piemontese. Accusato comunque di cedimento, il
principe si allineò ben presto agli ordini del nuovo sovrano. Il cinquantasettenne Carlo Felice,
sposato con Maria Cristina di Borbone delle Due Sicilie, non aveva eredi maschi per cui Carlo
Alberto era, comunque, il suo successore di diritto. Uno scenario che non faceva impazzire gli
ambienti di corte viste le recenti prove. Del resto la possibile ascesa al trono di Sardegna del
principe di Carignano era stato già in discussione ai tempi della Restaurazione non tanto perché i
genitori avessero mostrato simpatie per la Francia napoleonica quanto perché il piccolo regno dei
Savoia faceva gola a molti e comodo a tutti. Infatti, l’ipotetica cancellazione del Regno sabaudo
avrebbe portato l’Impero d’Austria a confinare con la Francia: un possibile motivo scatenante di
una nuova guerra europea. Da parte loro, l’impero russo, la Gran Bretagna, la Prussia e persino la
piccola Svizzera non sarebbero stati a guardare, non tanto per mire dirette sui domini sabaudi ma
per i danni derivanti dall’ingrandimento dell’una o dell’altra potenza continentale. Proprio i princìpi
cardinali del Congresso di Vienna, cioè il ripristino del legittimismo e l’equilibrio tra le potenze,
finirono quindi per spianare la via al riconoscimento di Carlo Alberto quale principe ereditario.
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Dopo i fatti del 1821, Carlo Alberto rimase “sotto osservazione”. Nonostante il veloce dietrofront ai
danni dei liberali, Carlo Felice fu sempre scostante nei confronti del nipote. La formazione dei figli
di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele e Ferdinando, divenne così un affare di Stato. Il primo nacque
a Torino il 14 marzo 1820, il secondo il 15 novembre 1822. Rientrato dal lungo forzato soggiorno
in Toscana (maggio 1824), Carlo Alberto affidò i figli a due savoiardi: la governante Nicoud ed
Andrea Charvaz, sacerdote, poi vescovo di Pinerolo, Cavaliere della SS. Annunziata. Con la moglie
Maria Teresa si occupò personalmente della educazione dei principini. Ma nel 1830 Carlo Felice
nominò governatore dei principi il cavaliere Cesare Saluzzo di Monesiglio e come suo vice
Giuseppe Gerbaix de Sonnaz, integrati da un sottogovernatore e da un viceprecettore, padre
Lorenzo Isnardi, uno scolopio di tendenze liberali. I contrasti tra Isnardi e il governatore Saluzzo
divennero però ben presto così tesi che il sacerdote venne rapidamente allontanato. Anche la
minima ombra di inclinazione alle riforme era sufficiente a determinare l’intervento di Carlo Felice
che lasciò campo libero solo con la propria morte, il 27 aprile 1831. Ora Carlo Alberto poteva
decidere liberamente dell’educazione dei suoi figli
La giornata dei principi non era oziosa. Dalle 5 del mattino alle 9 di sera si susseguivano preghiere,
lezioni, studio, esercizi fisici, incontri protocollari e un’ora con la Regina, talvolta anche con il
padre. Vittorio Emanuele non brillò mai negli studi. Si applicava poco e male. Agli esami del 1832,
secondo uno dei precettori «può dirsi ... non abbia saputo niente di niente». I principi studiavano
religione, grammatica, letteratura francese e italiana, lingua latina, economia, nozioni di fisica,
chimica e agronomia, geografia, arte militare e strategia oltre alla storia della loro casata. I docenti
furono tutti di prim’ordine, successivamente destinati a cattedre universitarie, se già non le
ricoprivano: Angelo Sismonda, Giuseppe Dabormida, Agostino Chiodo, il grecista Boucheron e
Carlo Sobrero, colonnello d’artiglieria, zio di Ascanio, inventore della nitroglicerina e a sua volta
zio della moglie di Giovanni Giolitti, Rosa. A differenza del fratello minore, il principe ereditario
prestava scarsa attenzione, non memorizzava, si mostrava stanco, ricordava poco ma pareva
ridestarsi quando si parlava d’armi e di storia dei Savoia, di sistemi difensivi, di fortificazioni, di
battaglie, armi, cavalli...
Il 12 aprile 1842 Vittorio Emanuele sposa a Stupinigi una principessa austriaca: Maria Adelaide
d’Asburgo-Lorena (1822-1855) e nell’agosto 1847 il ventisettenne Duca di Savoia siede per la
prima volta nel Consiglio della Corona. Con l’elezione di Pio IX (16 giugno 1846) l’Italia era
percorsa da sentimenti liberali. Massimo d’Azeglio aveva pubblicato il “Manifesto” per un’opinione
nazionale. La borghesia premeva per riforme. Al conte di Castagnetto il duca Vittorio Emanuele
confidò che bisognava mettere un freno alle spinte liberali perché «vedo che la repubblica
s’avvicina». Non sbagliava anche se il padre mostrò di pensarla diversamente o, semplicemente,
mostrò di vedere più lungo. Nell’autunno 1847 Carlo Alberto concesse libertà di stampa e
l’elezione dei consigli comunali e divisionali, mentre i sindaci e gli intendenti di province e
divisioni rimasero di nomina regia. In poche settimane fiorirono quotidiani di tutte le tendenze. La
gara per le elezioni assorbì entusiasmi che diversamente si sarebbero riversati in altre direzioni e
avrebbero messo in discussione le prerogative della monarchia. Nel gennaio 1848 la pressione
crebbe di tono. L’8 febbraio Carlo Alberto annunciò l’imminente promulgazione dello Statuto: una
decisione che divise la corte tra chi la riteneva un passo saggio e ponderato e chi la considerava
l’anticamera di rivolgimenti incontrollabili.
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Tra i motivi di allarme vi fu la violentissima campagna di opinione contro la Compagnia di Gesù,
accusata di tramare contro lo Stato. I gesuiti vennero costretti a lasciare il regno. Il 17 febbraio un
regio editto riconobbe parità di diritti civili e politici ai valdesi. Seguì la parificazione degli ebrei.
La svolta vera però venne dall’estero. Il 22 febbraio 1848 Parigi insorse. Luigi Filippo d’Orleans
(1773-1850), il “re borghese”, riparò in esilio. Nasceva così l’effimera Seconda Repubblica
francese. Per il Piemonte fu un giorno difficile. Non solo per Carlo Alberto. Anche il moderato
Camillo Cavour capì che non si poteva andare molto oltre. La monarchia avrebbe concesso senza
cedere, anche perché il suo vero pilastro rimaneva l’esercito la cui spina dorsale era rappresentata
da ufficiali orgogliosi di secoli di fedeltà alla Casa e ai suoi simboli, a cominciare dall’Azzurro
Savoia.
Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia-Carignano promulgò lo Statuto. Da assoluta la monarchia
sabauda divenne rappresentativa. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra all’Impero d’Austria. Il
duca di Savoia Vittorio Emanuele, comandante di una divisione di riserva, fece la sua parte,
mostrando tempra generosa e pugnace, da Pastrengo (30 aprile 1848) a Custoza (23 luglio) e, alla
ripresa del conflitto, a Mortara e Novara: una battaglia, quest’ultima, nella quale le perdite degli
asburgici furono superiori a quelle piemontesi, ma l’Impero (ormai pacificato dopo mesi di
rivoluzioni compresa l’insurrezione dell’Ungheria) aveva riserve immense mentre il Piemonte era
allo stremo. Il re abdicò e Vittorio Emanuele ebbe la corona, senza alcuna cerimonia. Vittorio
Emanuele II salì così al trono il giorno della sconfitta di Novara (23 marzo 1849), quando sembrava
che tutto fosse perduto. L’Impero d’Austria aveva vinto Carlo Alberto, che si riscattò con
l’abdicazione e l’immediata partenza per l’estero. Nessun abbraccio alla partenza. Nessun
“arrivederci”. Padre e figlio non si videro più. Era il prezzo della Corona. Carlo Alberto morì a
Oporto a fine luglio 1849, volgendo le ultime parole ad Alessandro Riberi, il medico inviatogli dal
re: “Vi voglio bene, ma muoio”.
La triste fine di Carlo Alberto sembrava decretare anche il mesto tramonto del suo progetto e delle
sue speranze. Il regno di Sardegna era isolato ma solo dieci anni dopo, nell’aprile del 1859 re
Vittorio Emanuele II scese in guerra nuovamente contro l’Impero d’Austria. Aveva a fianco
l’imperatore dei francesi, Napoleone III, e prevalse. Mostrò che i piemontesi sapevano battersi. In
altri due anni, il 17 marzo 1861, divenne re d’Italia. Il 29 dicembre 1870 entrò in Roma. In due
decenni la carta politica dell’Italia era cambiata completamente. Nel 1848 vi si contavano otto Stati.
Nel 1870 ve n’era uno solo, il regno d’Italia. Trento e Trieste continuavano ad appartenere alla
corona d’Austria, ma non esisteva più una compagine rivale col rango di Stato, com’era stato il
regno Lombardo-Veneto nell’ambito dell’Impero asburgico. Esisteva solo l’Italia e le “terre
irredente”.
Ma l’avvio di quella felice rivoluzione, nel 1849, era stato lento e stentato: Vittorio Emanuele
nutriva rancore e disprezzo nei confronti degli “avvocati” che discutevano mentre lo Stato era in
pericolo. I governi non avevano dato prove brillanti. Il Parlamento neppure. I problemi erano
immensi. Anzitutto la stipula del trattato di pace con l’Austria che pretendeva un’indennità di
guerra di 200 milioni e di occupare la cittadella di Alessandria con 20 mila uomini e duemila cavalli
a carico del vinto. Il re sostituì il conservatore de Launay con il liberale Massimo d’Azeglio. Fece
intendere che la corona contava sul sostegno dei liberali. Aveva però bisogno di mostrare la
compattezza del Paese: quello che aveva restaurato Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I, Vittorio
Amedeo II... La Camera, però, anche con le elezioni del 15 luglio 1849 rimase espressione di circoli
ristretti. Azeglio fece scudo al re, che sciolse la Camera e il 20 novembre esortò a eleggere deputati
consapevoli dell’emergenza. Venne ascoltato. Il 5 gennaio 1850 la nuova Camera approvò il
trattato di pace con l’Austria. Da molti l’iniziativa del re venne bollata come indebita ingerenza
nelle libere scelte dei cittadini. I severi critici del monarca non dissero però se quella Camera, eletta
da una quota modestissima di elettori, rappresentasse davvero la popolazione né quale sarebbe stata
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la sorte del regno se il trattato non fosse stato approvato. Nel 1850 il regno di Sardegna non aveva
amici. E’ vero che il Piemonte era asilo di politici scampati alla repressione negli Stati i cui sovrani
avevano strappato le costituzioni concesse nel 1848, ma essi erano una pattuglia a confronto di
quanti guardavano con sospetto a Torino, considerata alla stregua di una centrale di
destabilizzazione politica. Pesavano soprattutto le leggi contro i privilegi del clero e il conflitto tra il
governo e il potere ecclesiastico, culminato nell’arresto dell’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni,
tradotto nel forte di Fenestrelle ed espulso dal regno benché fosse stato insignito in precedenza del
Collare dell’Annunziata e quindi fosse da considerare a tutti gli effetti “cugino del re”.
Vinte alcune battaglie, Azeglio perse la sua guerra: l’inciampo definitivo arrivò sulla legge sul
matrimonio civile, preludio al riconoscimento del divorzio. Il quarantenne ministro delle Finanze
Camillo Cavour s’intese con l’esponente di spicco della sinistra, Urbano Rattazzi e subentrò ad
Azeglio, che il re tentò invano di sostituire con un ministero cattolico moderato (Cesare Balbo e
Ottavio di Revel). Divenuto primo ministro alla fine del 1852, Cavour intrecciò politica estera
(alleanza con Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano contro quello russo: scelta che significò
l’impegno piemontese nella guerra di Crimea, 1854-1856) e abolizione degli ordini ecclesiastici
contemplativi. Il re era favorevole alla guerra ma contrario alla politica ecclesiastica di Cavour che
si dimise quando il vescovo di Casale, Luigi Calabiana, propose di versare al governo un milione di
lire a sostegno del “basso clero” in cambio dell’incolumità dei conventi. Il re esitò. Era sgomento
per la morte repentina della regina madre, della moglie, del fratello Ferdinando e alla malattia
dell’ultimogenito che morì pochi mesi dopo. Stava per cedere ai conservatori. Però anche Azeglio,
che nutriva poca simpatia per Cavour, lo esortò “con le lagrime agli occhi e inginocchiato ai suoi
piedi” a riprendere il programma liberale. Il re non trovò nessuno disposto a sacrificarsi in cerca di
una maggioranza introvabile. Cavour tornò così presidente: espressione del Parlamento, non della
sola volontà del sovrano. Il re ne guadagnò, perché da quel momento fu il governo a rispondere al
Paese. Ma i cardini della grande politica rimasero nelle mani del sovrano.
La storiografia è stata ingenerosa nei confronti di Vittorio Emanuele II. E’ comprensibile. Il
primo re d’Italia si attirò l’odio inestinguibile dei laudatores degli Stati preunitari, dei clericali,
dei tardofederalisti, dei veteromazziniani, dei proto e postsocialisti, dei gobettiani originari e di
complemento e poi di quanti nelle biblioteche e nei chiostri spiegarono che loro sì avrebbero fatto
l’Italia meglio di quanto aveva saputo fare “Monsù Savoia”. Ai tanti strenui nemici della
“conquista” sabauda dell’Italia s’aggiunse la gara a distinguerlo dai discendenti e soprattutto dal “re
signore”, che il 13 giugno 1946 lasciò l’Italia affinché non fosse versata una goccia nel nome della
Casa che l’aveva unificata: nobile figura retorica. Si dimentica o viene lasciato sotto traccia che
Vittorio Emanuele II gettò tutto sul tavolo della storia. L’accordo di Plombières tra Cavour e
Napoleone III fu importante ma va ricordato che esso prese corpo solo con la firma del trattato di
alleanza tra regno di Sardegna e impero di Francia sottoscritto a Torino il 26 gennaio 1859 dal
principe Gerolamo Napoleone che il 30 gennaio impalmò la primogenita del re Maria Clotilde
(1843-1911), sedicenne. In virtù di quegli accordi Vittorio Emanuele accettò di cedere alla Francia
la sua originaria Savoia: un cambio che non era solo di chilometri quadrati ma incideva nella
memoria e nelle scelte di migliaia di savoiardi e di nizzardi (tra cui un certo Giuseppe Garibaldi)
posti al bivio tra il nuovo sovrano e i secoli della storia condivisa con la Casa. Riconoscere la
centralità del ruolo svolto in quegli anni cruciali da Vittorio Emanuele II non comporta alcuna
sottovalutazione del ruolo svolto da Cavour, che rimase il suo punto di riferimento. Significa però
comprendere che Vittorio Emanuele II fu sempre il garante personale dello Stato con interlocutori e
in un’epoca nella quale era normale che i ministri cambiassero mentre le decisioni supreme
spettavano, sempre e comunque, ad imperatori re.
Nella primavera del 1859 Garibaldi venne posto a capo del corpo dei Cacciatori delle Alpi con la
nomina a generale dell’esercito. Dopo qualche mese, visto l’atteggiamento di Napoleone III incline
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alla pace e visto anche che comunque la Lombardia era acquisita, fu Vittorio Emanuele – non
Cavour – a capire che il regno di Sardegna non poteva continuare da solo la guerra contro l’Austria
e a sottoscrivere l’armistizio di Villafranca “per quello che lo riguardava”. Non tradiva una causa,
l’unificazione italiana, che a quel momento non aveva ancora sposato e che comunque non
rientrava, in quel frangente, negli obiettivi di nessuno dei suoi ministri, a cominciare da Cavour. Per
il piccolo informe neo regno sardo-lombardo ancora nascente il governo La Marmora-Rattazzi in
pochi mesi varò leggi che poi vennero estese a quello d’Italia e durarono decenni: la riforma della
scuola di Gabrio Casati e quella di comuni e province di Urbano Rattazzi. Il re fu però soprattutto il
cardine di una politica estera imperniata su rapporti personali. Vittorio Emanuele II non esitò a
valersi anche di reti cospirative. L’azione dei commissari e dei dittatori nei ducati padani e poi nel
granducato di Toscana si valsero della fiducia del sovrano. “Italia e Vittorio Emanuele” era e rimase
l’insegna della Società Nazionale di Daniele Manin, Giorgio Pallavicino Trivulzio, Giuseppe La
Farina e soprattutto di Giuseppe Garibaldi, che appena sbarcato a in Sicilia si proclamò dittatore in
suo nome.
Vittorio Emanuele deluse Francesco Crispi e i tanti che alla proclamazione del regno (17 marzo
1861) volevano che mutasse l’ordinale Secondo in Primo perché re della Nuova Italia. Aveva le sue
ragioni. Il cambio comportava una cesura. Avrebbe conferito al Parlamento un ruolo costituente
almeno per fissare un prima e un poi. Sennonché il Senato era e rimase di nomina regia. La Camera
era stata eletta sulla base delle leggi vigenti nel regno di Sardegna. Infine il re era e rimase “per
grazia di Dio” a norma dello Statuto, legge “fondamentale, perpetua ed irrevocabile della
monarchia”. Solo nella firma delle leggi il re figurò “per grazia di Dio e volontà della nazione”.
Per divenire re d’Italia Vittorio Emanuele II debellò sovrani e annesse terre dello Stato Pontificio: le
Legazioni dell’Emilia Romagna prima, Marche e Umbria poi. Il conflitto però non rimase
circoscritto alla sfera del potere temporale. Investì il primato della Chiesa nella vita pubblica. Da
scontro con il papa-re divenne contesa con il Pontefice. Vittorio Emanuele II era e fu sempre figlio
devoto della Chiesa cattolica, ma non poté impedire che il governo imboccasse la strada della
laicizzazione della società. Sin dalle leggi anti ecclesiastiche del 1850 (le “leggi Siccardi”) il
sovrano entrò in conflitto con Pio IX, che rispose con le armi in suo possesso: non esitò a
scomunicare il re e i suoi ministri. Alle condanne per motivi politici si aggiunsero quelle per la
sua condotta disinvolta. Proprio perché re, doveva essere esempio o persino di modello di
specchiata moralità per i sudditi; come la generalità dei maschi della Casa non se ne dette alcun
pensiero.
Malgrado la scomunica papale, il re a volte assecondò e a volte non ostacolò l’azione di governi che
mirarono a risolvere la questione romana in maniera sbrigativa: lasciando briglia sciolta, almeno in
un primo tempo, e troppo a lungo, a iniziative militari. Fu il caso dei governi presieduti da Urbano
Rattazzi nel 1862 e nel 1867. In entrambi i casi Garibaldi organizzò spedizioni militari per attaccare
Roma e metter fine al potere temporale del Papa nella convinzione di avere l’avallo del sovrano e il
tacito assenso del governo. Nel 1862 dallo sbarco a Palermo al suo passaggio in Calabria
trascorsero quasi due mesi, durante i quali il generale proclamò in tutti i modi il suo proposito:
“Roma o morte”. Il drammatico scontro sull’Aspromonte nacque dall’ambiguità e dall’illusione di
lasciar porre ancora una volta l’Europa dinnanzi al “fatto compiuto”. Altrettanto avvenne nel 1867,
con il tragico epilogo di Mentana. Entrambe le volte il governo del re dovette procedere all’arresto
del generale rischiando di compromettere l’immagine di Vittorio Emanuele II sia dinnanzi ai
democratici, sia agli occhi dei governi stranieri, indotti a considerare l’Italia come causa di crisi
permanente anziché una garanzia di stabilità: l’opposto di quanto ci si era attesi dal riconoscimento
del regno d’Italia. Nel settembre 1870 il governo Lanza-Sella ordinò l’assalto e l’espugnazione di
Roma proprio per scongiurare il peggio e cioè un’insorgenza incontrollata e incontrollabile di
garibaldini o, peggio, di mazziniani, che avrebbe causato l’intervento militare internazionale come
nel 1849. Anziché coronamento dell’unità Roma rischiava di far da detonatore di un ventennio di
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contraddizioni. Perciò il governo s’affrettò a farvi celebrare il plebiscito che ne avallò l’annessione
alla corona sabauda. Da quel momento Vittorio Emanuele II si trovò più alto e più solo.
Il crollo di Napoleone III (sconfitto dai prussiani a Sedan, il 31 agosto e primo settembre 1870) e
l’avvento della Terza Repubblica generò nuove ansie. L’Italia aveva bisogno di sicurezza e pace,
specialmente con l’Impero d’Austria. La Triplice alleanza con Berlino e Vienna venne stipulata nel
1882, un anno dopo l’imposizione francese del protettorato sulla Tunisia. La Triplice Alleanza era
però in nuce sin dal 1870, quando la proclamazione della Terza Repubblica francese alimentò i
sogni repubblicani anche in Italia dove in tanti ripresero a cospirare contro la monarchia. Ancora
una volta il re mise in gioco la Casa. Il secondogenito, Amedeo duca d’Aosta, accettò la corona di
Spagna a conclusione di una complessa trama condotta in porto anche grazie a relazioni segrete
dirette tra il sovrano e politici spagnoli eminenti quali il generale Prim, auspici alti dignitari
massonici. Il regno di “don Amadeo Primero” durò poco più un anno. Fu però sufficiente a mostrare
che Casa Savoia era ben inserita nel contesto europeo. Tra il 1873 e il 1875 Vittorio Emanuele II
compì visite di Stato a Vienna e a Berlino e ne venne ricambiato.
Morto Giuseppe Mazzini (1872), la Sinistra storica si separò nettamente dai repubblicani, le cui
speranze ormai si affidavano solo a crisi interne gravissime che nessun patriota si augurava. Dal
1867 suoi autorevoli esponenti come Agostino Depretis e Michele Coppino avevano fatto parte del
governo. Con l’avanzata nelle elezioni del 1874 la Sinistra risultò candidata a guidare il Paese. Le
guerre per l’unità e l’indipendenza erano definitivamente alle spalle. Anche Garibaldi, l’antico
condottiero della Rivoluzione, ora dedicava le residue forze a trasformare Roma in città moderna:
argini del Tevere, un porto commerciale, un’ampia area industrializzata... Nel 1875 andò in visita al
re, che lo accolse avendo a fianco il generale Giacomo Medici, l’eroe garibaldino di Villa del
Vascello al Gianicolo. Nel marzo 1876 Vittorio Emanuele non esitò a conferire la presidenza del
consiglio a Depretis. A giudizio dello storico Maturi quello fu “l’ultimo grande atto politico” di
Vittorio Emanuele II. Il re provò che il Risorgimento era compiuto e l’Italia era unita. A conferma
di ciò nel 1877 la Sinistra riorganizzò le proprie file: fissò i termini entro i quali dovevano
contenersi le tenzoni parlamentari. Le possibili crisi di governo non avrebbero più investito le
istituzioni.
Il ricordo più commosso e penetrante del “padre della patria” venne confidato da Isacco Artom,
antico segretario di Camillo Cavour, a Beniamino Manzone, un professore originario di Bra, nel
Cuneese, chiamato a Roma nel 1895 per fondare e dirigere una rivista storica del Risorgimento
italiano nell’imminenza del quarto di secolo da Porta Pia. Quel Venti Settembre 1895 vennero
scoperti al Gianicolo il monumento di Giuseppe Garibaldi a cavallo e in piazza Cavour quello dello
statista torinese. A Manzone, Artom ricordò che le relazioni tra il re e Cavour “pur troppo” non
sempre erano state cordiali, ma il re non esitò mai a fare il primo passo per riconciliarsi, anche al
prezzo delle “sue simpatie personali”. Aveva quell’alto senso dello Stato che troppo a lungo la
storiografia ha sottaciuto. «La morte del Conte troncò pur troppo prematuramente quella
provvidenziale collaborazione d’un grande Sovrano e d’un grande uomo di Stato, spettacolo così
raro nella storia delle nazioni (...). Morto Cavour, Re Vittorio rimase la sola incarnazione dell’unità
italiana. E’ giusto proclamarlo altamente (...) Egli non esitò mai a compiere arditamente la sua
grande missione storica. Ricordo un’udienza che egli mi accordò al mio ritorno dalla Danimarca,
dove ero stato suo inviato. Era l’epoca infelicissima seguita a Mentana. Mi accolse con grande
affabilità. Nel cuor dell’estate, dall’aperta camicia, si scorgeva il suo fulvo petto leonino. Mi strinse
con forza la mano e mi congedò dicendomi: Non dubitate, fra breve saremo a Roma!».
Mantenne la parola e suo figlio Umberto I proclamo Roma “conquista intangibile”. Umberto I
venne assassinato a Monza nel luglio 1900 da un complotto anarchico al terzo attentato in ventidue
anni di regno. La svolta liberale guidata dal quasi ottantenne presidente del Consiglio, Giuseppe
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Saracco (1821-1907), era già avviata al punto che il governo, nonostante la drammatica circostanza,
non ricorse ad alcuna misura repressiva speciale. Quasi quarant’anni dopo la propria fondazione, il
regno era ormai solido.
Aldo A. Mola
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Nei centocinquant’anni dalla proclamazione del regno, l’Italia ha vissuto tante prove, anche dure,
difficili, amare. La sua unità ha retto e regge. Ha subito e subisce critiche, anche severe e talvolta
ingenerose, ma nessuno Stato oggi ne mette in discussione la sovranità nell’ambito dei trattati
sottoscritti dai suoi governi. L’Italia dunque c’è. I suoi confini politici non coincidono con quelli
geografici. Ma questo vale per tutti i paesi del mondo, a cominciare da quelli d’Europa, che non
sono frutto di colpi di righello su carte indicanti spazi indistinti ma frutto di processi millenari. La
Repubblica non ha il limes raggiunto nel 1924 con l’annessione di Fiume ma neppure
quell’acquisizione compensò mutilazioni alle quali l’Italia s’era rassegnata dal 1860, con la
cessione alla Francia di Nizza e della valle Roia. Al di là delle rettifiche di frontiera imposte dal
trattato di pace del 10 febbraio 1947 la realtà è chiara: l’Italia è uno Stato unitario, indipendente e
sovrano come può esserlo nel quadro della comunità internazionale fatta di alleanze, trattati, vincoli,
devoluzioni, regolamenti e vincoli. Tutto ciò conferma la grandiosità dell’opera realizzata da o nel
nome di Vittorio Emanuele II di Savoia, ultimo sovrano di Sardegna, primo capo di Stato della
Nuova Italia. Com’è scritto sulla sua tomba al Pantheon, fu e rimane il “padre della patria”. Quando
venne pensata, quella formula sembrò timida. Non si volle scrivere “Re d’Italia” per non mettere
sale sulle ferite di papa Pio IX, che non riconosceva la debellatio dello Stato Pontificio. A distanza
di tempo, cancellati i sorrisi ironici e constatato quanto sia complesso tenere insieme il Paese, essa
risulta più suggestiva e pregnante di ogni altra.
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