19° incontro
- 18 febbraio 1999 Settimo capitolo
Cominceremo stasera l’ultimo capitolo della prima parte del libro. Il suo titolo è costituito da una
domanda (Esistono i limiti della conoscenza?) per rispondere alla quale dovremo riprendere in
considerazione alcune delle cose dette finora.
Dice Steiner: “Abbiamo stabilito che gli elementi per la comprensione della realtà vanno tolti da
due sfere: quella del percepire e quella del pensare. La nostra organizzazione richiede, come
abbiamo visto, che la piena, intera realtà, ivi incluso il nostro proprio soggetto, ci appaia dapprima
come dualità. La conoscenza supera tale dualità, in quanto dai due elementi della realtà, percezione
e concetto elaborato dal pensare, mette insieme la cosa intera. La maniera in cui il mondo ci si
presenta prima che per mezzo della conoscenza esso abbia acquistato il giusto aspetto, la
chiameremo mondo dell’apparenza, in contrapposto all’entità unitaria composta da percezione e
concetto. Diremo allora che il mondo ci è dato come dualità (dualistico), e che la conoscenza lo
trasforma in unità (monistico). Una filosofia che parta da questo principio fondamentale si può
chiamare filosofia monistica o monismo. Le sta di fronte la teoria dei due mondi o dualismo.
Quest’ultimo non considera i due lati della realtà unitaria come tenuti separati semplicemente per
effetto della nostra organizzazione, ma come due mondi assolutamente distinti l’uno dall’altro: e i
principi esplicativi di uno dei due mondi li cerca poi nell’altro” (p.93).
Ebbene, possiamo qui di nuovo apprezzare la modernità dell’impostazione di Steiner. Cosa vuol
dire che il dualismo “non considera i due lati della realtà unitaria come tenuti separati
semplicemente per effetto della nostra organizzazione”? Vuol dire che il dualismo non è cosciente
della “nostra organizzazione”, così come non ne sono coscienti quei sedicenti “monismi” che
riducono materialisticamente il primo dei suoi due termini (il soggetto, lo spirito o la mente) al
secondo, o ne riducono spiritualisticamente il secondo (l’oggetto, la materia o il corpo) al primo. La
qualità “antroposofica” dell’impostazione di Steiner è rivelata dal fatto che egli ci propone invece di
riportare tali termini nell’ambito di un’organizzazione umana della cui struttura e del cui modo di
funzionare occorre prendere coscienza. Vedete, quando capita che qualcuno mi chieda: “Tu credi
alla reincarnazione?”, io rispondo subito: “No”. Tale “no”, tuttavia, non si riferisce - come potrebbe
sembrare - alla “reincarnazione”, quanto piuttosto al “credere”. Io, infatti, non credo alle ripetute
vite terrene, ma so delle ripetute vite terrene: ne sono cioè consapevole. Impostare in modo
moderno un problema significa appunto impostarlo, non nei termini del “credere” o “non credere”,
bensì in quelli dell’essere “coscienti” o “incoscienti”. Non a caso la psicoanalisi o psicologia
dell’inconscio è nata verso la fine del secolo diciannovesimo, quasi in coincidenza con la fine della
prima fase evolutiva dell’anima cosciente (1879): di quell’anima, ossia, che esprime nel modo più
pieno i caratteri della cosiddetta “modernità”.
Ma la scoperta dell’inconscio - come ho detto a suo tempo, citando l’omonima opera di Ellenberger
- è la scoperta, non di una “cosa”, bensì di un fatto riguardante il rapporto che il soggetto ha con sé
stesso e col mondo. “La coscienza in generale – scrive Hegel, nella sua Propedeutica filosofica – è
la relazione dell’Io con un oggetto, sia esso interno o esterno”. Tale relazione, non più intesa in
modo “generale”, può essere vigile (cosciente), sognante (subcosciente) o dormiente (incosciente).
Qualora ad esempio, dopo averla da sempre e del tutto ignorata, mi capitasse di scoprire l’esistenza
dei gatti, avrei con ciò scoperto appunto l’esistenza dei gatti e non dell’inconscio. I gatti non
cessano infatti di essere tali per il fatto che io ne ignoro l’esistenza. Dovremmo parlare
d’incoscienza, insomma, solo quando ci riferiamo a un particolare stato della nostra coscienza in
rapporto al suo stesso essere e a quello del mondo.
Per conquistare l’autocoscienza, l’uomo ha dovuto comunque “rimuovere” - in senso freudiano - la
realtà dello spirito (ossia calarla provvisoriamente nell’incoscienza). È la realtà (autopercettiva) del
corpo a dare infatti all’Io l’opportunità di pensarsi come un “ego” libero e indipendente: ovvero,
come un essere singolo e per ciò stesso diverso non solo da tutte le cose del mondo, ma anche da
tutti gli altri “ego”. Tuttavia, la fase evolutiva in cui l’ego (l’Io che ha coscienza di sé grazie al
corpo fisico) ha sprigionato la sua forza propulsiva (che gli ha permesso, nel XV secolo,
d’inaugurare l’individualismo e la modernità) si è ormai conclusa e avrebbe dovuto lasciare già il
posto alla successiva: a quella, cioè, in cui l’Io ha coscienza di sé anche grazie al corpo eterico. Se è
stato dunque necessario un tempo dimenticare lo spirito, è necessario ora invece ricordarlo, se si
vuole evitare che, all’oblio dello spirito (divenuto ormai anacronistico), si accompagni quello
dell’anima, e quindi di noi stessi. Il problema del dualismo non è quindi un astratto problema
“teoretico”, bensì una vitale questione di progresso o regresso dell’autocoscienza.
Dice Steiner: “Il dualismo riposa sopra una falsa concezione di ciò che chiamiamo conoscenza.
Divide tutta la sfera dell’essere in due campi, ciascuno dei quali ha le sue proprie leggi; e li fa
sussistere uno di fronte all’altro esteriormente. Da un simile dualismo ha origine la distinzione,
introdotta da Kant nella scienza e fino ad oggi non ancora bandita, fra oggetto della percezione e
cosa in sé” (pp.93-94).
Da qui in poi, si dovrà fare particolare attenzione perché non sarà facile seguire il testo senza avere
ben presente la distinzione - da noi già proposta - tra l’“atto percettivo” (quale atto del soggetto), il
“percetto” (quale oggettivo contenuto della percezione) e l’“immagine percettiva” (quale soggettivo
risultato del processo percettivo). Come abbiamo detto e ripetuto, il fenomeno della percezione
consiste nell’incontro o nello scontro dell’essere del soggetto con l’essenza dell’oggetto. Non
crediate che questo sia evidente. Ne L’attrattiva Gesù, tanto per fare un esempio, don Luigi
Giussani (ispiratore e fondatore di “Comunione e Liberazione”) confonde il giudicare col percepire
e si dice per conseguenza convinto che sia il primo, e non il secondo, ad “accusare” o ricevere il
“colpo dell’essere”. Il “colpo dell’essere” sta invece all’origine del processo percettivo, così come
alla sua fine sta l’“immagine percettiva”. Tuttavia, la vera causa di molti fraintendimenti sta proprio
nel fatto che è solo in virtù di questa finale immagine che noi prendiamo atto dell’esistenza
dell’oggetto.
Alcuni infatti non si chiedono cosa ci sia nel mondo (corporeo e spirituale) prima che si formi in
loro (nell’anima) tale immagine; altri invece se lo chiedono, ma non sanno cosa rispondere.
Facendo parte di questa seconda schiera, Kant distingue appunto - come ricorda Steiner- “fra
oggetto della percezione e cosa in sé”. Ma se non è la “cosa in sé”, cos’è allora l’“oggetto della
percezione”? Non può essere altro – è chiaro - che l’“immagine percettiva”. Indicare quest’ultima
quale “oggetto della percezione”, significa però confondere non solo l’“immagine percettiva”
dell’oggetto (ciò che l’oggetto è per il nostro immaginare) con il “percetto” (con ciò che l’oggetto è
per il nostro percepire), ma anche il percetto con l’”essenza” dell’oggetto (con l’entelechia o con ciò
che l’oggetto è in sé).
Dice ancora Steiner: “Finché le parti separate dell’universo sono determinate come percezioni, noi
seguiamo semplicemente nella separazione una legge della nostra soggettività. Ma se consideriamo
la somma di tutte le percezioni come una delle parti, e gliene contrapponiamo una seconda nelle
“cose in sé”, facciamo una filosofia campata in aria, che si riduce a un semplice giuoco di concetti.
Costruiamo una contrapposizione artificiale, ma per il secondo membro della medesima non
possiamo trovare alcun contenuto, poiché per una cosa particolare questo può essere ricavato
soltanto dalla percezione” (p.94).
È questo un punto importante. Abbiamo già parlato del cammino che muove dal realismo ingenuo,
attraversa l’idealismo critico e giunge all’“individualismo etico” di Steiner, come di un cammino
evolutivo che, partendo dallo stato di totale incoscienza del primo, perviene a una prima coscienza
(animica) del soggetto nel secondo, e alla sua piena coscienza (spirituale) nel terzo. Abbiamo anche
detto che l’idea della “cosa in sé” deriva dal fatto che, nell’ambito dell’attività conoscitiva, Kant ha
portato alla luce il ruolo svolto dall’anima (dalla rappresentazione), ma non quello svolto dallo
spirito (dal concetto). Prendendo coscienza della realtà soggettiva della rappresentazione, egli
supera dunque lo stato d’incoscienza del realismo ingenuo (che - ricordiamolo ancora - proietta
sulla realtà delle cose, o dei corpi, sia la realtà della rappresentazione sia quella del concetto), ma
rimane incosciente della realtà oggettiva del concetto (che viene fantasticato quale “cosa in sé”).
Ma quale natura avrebbe questa “cosa in sé”? Quella reale del percetto o quella ideale del concetto?
Nessuna delle due. Stando a Kant, infatti, non può avere natura reale poiché non si presta a essere
direttamente percepita (potendo l’uomo percepire – a suo dire - solo la propria reazione all’azione
della “cosa”); ma non può avere nemmeno natura ideale in quanto questa, avendo – sempre a suo
dire - carattere “formale” e non “sostanziale”, non è ovviamente in grado di esercitare quell’azione
che la reazione del soggetto presuppone. Scopriamo così che tale “cosa in sé” non apparterrebbe
all’ordine reale (perché impercepibile) né a quello ideale (perché formale).
Ecco la ragione per la quale Steiner afferma che, in tal modo, si fa “una filosofia campata in aria
che si riduce a un semplice giuoco di concetti”; “campata in aria”, in effetti, è una “cosa in sé” che
dimostra, a conti fatti, di non essere né un “percetto” né un “concetto”.
Non vi è comunque manuale di filosofia che non parli, di quella kantiana, come di una “rivoluzione
gnoseologica”. Da quanto detto, dobbiamo però concludere che si tratta di una rivoluzione
incompiuta, e che, in quanto tale, ha finito col fare alla gnoseologia più male che bene. In ogni caso,
è appunto La filosofia della libertà a riprenderne lo spirito innovatore e a portarlo a compimento.
Dice Steiner: “Ogni modo di essere, che si voglia ammettere al di fuori del campo della percezione
e del concetto, deve essere ascritto alla sfera delle ipotesi ingiustificate. A tale categoria appartiene
la “cosa in sé” (...) Al principio universale ipotetico si può dare un contenuto soltanto se lo si prende
a prestito dal mondo dell’esperienza senza accorgersi di farlo. Altrimenti esso rimane un concetto
senza contenuto, un assurdo, che ha soltanto la forma del concetto” (p.94).
In effetti, non essendo la “cosa in sé” che un concetto “travestito” da cosa, a ciascuno si presenta
l’occasione di scegliere, più o meno deliberatamente, il “travestimento” che più gli aggrada o gli si
confà. I fisici, ad esempio, se la immagineranno “fisicamente”, i biologi “biologicamente”, i chimici
“chimicamente”, e così via. A ciascuno, viene cioè offerta la possibilità d’immaginare una “cosa in
sé” dotata delle medesime qualità delle “cose non-in sé” di cui si occupa abitualmente. Tuttavia,
altro non si fa così che tentare (in modo arbitrario, e - come dice Steiner - “senza rendersene conto”)
di colmare il vuoto lasciato dal contenuto universale del concetto con quello particolare di una
qualche rappresentazione (e, mediante questa, con quello individuale di un qualche percetto).
Immaginate, ad esempio, che si stesse parlando, anziché della “cosa in sé”, della “pianta in sé” (ciò
che peraltro ha fatto Goethe, parlando della Urpflanze). Ebbene, non sarebbe forse arbitrario che
questa, in qualità di “ragion d’essere” di tutte le piante o di realtà “universale”, la si pensasse o
immaginasse dotata delle particolari qualità dei garofani, delle rose o dei papaveri? Delle due,
quindi l’una: o si nega, come fanno i nominalisti, la realtà universale del concetto, ma va allora
negata anche quella della “cosa in sé”; o si afferma la realtà universale della “cosa in sé”, ma va
allora affermata, come fanno i realisti, anche quella del concetto. L’unica cosa che non si può fare,
insomma, è l’attribuire insieme, alla “cosa in sé”, una realtà universale e delle qualità particolari.
Hillman, ad esempio, ha pubblicato due suoi saggi in un piccolo libro intitolato: La vana fuga dagli
Dei. Meglio avrebbe fatto però a intitolarlo: La vana fuga dalle idee. Non perché - sia chiaro - gli
Dei siano idee (come vorrebbe l’idealismo), bensì perché le idee sono Dei o Entità spirituali (come
vuole la scienza dello spirito). Anche Freud, d’altro canto, ha paragonato la propria visione del
contrasto tra l’istinto di vita o Eros e l’istinto di morte o Thanatos, a quelle mitiche o metafisiche
dell’antichità e, in particolare, a quella di Empedocle della lotta tra “Amore” (Philia) e “Odio”
(Neikos). Quelle che in Empedocle erano forze “cosmiche”, vengono però da lui ridotte a forze
“istintive” o “pulsionali” che per di più si caratterizzerebbero - stando almeno a quanto lo stesso
Freud afferma nei celebri Tre saggi sulla teoria della sessualità - per un “particolare chimismo”.
Ognuno ha dunque - verrebbe voglia di dire - la mitologia che si merita.
Tutto ciò sta comunque a dimostrare che la realtà spirituale delle idee o dei concetti, benché
misconosciuta o disconosciuta, non cessa mai di operare e di apparire anche agli occhi di chi non
vorrebbe vederla. C’è però da osservare che chi la teme, e non vuole quindi vederla, può anche
arrivare allora a patirla. Pensate a un’“ossessione”. Non consiste appunto in un’idea che ci
perseguita, e che in tanto lo fa in quanto noi, nell’incapacità di comprenderla, la fuggiamo o
rifiutiamo? Non è raro, ad esempio, sognare dei ladri che tentano di forzare o scassinare la nostra
porta di casa. Ebbene, tali ladri rappresentano appunto quelle forze (o quelle qualità) che, essendo
da noi rifiutate, provano a ottenere con le “cattive” (e durante il sonno) quanto non riesce loro di
avere con le “buone” (e durante la veglia). Mi ricordo, a questo proposito, di una donna (nubile e
sulla quarantina) che sognò una volta di avere in casa dei ladri che frugavano dappertutto cui si
dava a offrire la bigiotteria che teneva in un cassetto, sperando così di salvare i gioielli che
custodiva altrove. Vedete, è questo il tipico sogno di una persona apparentemente “aperta” e
generosa, ma in realtà “chiusa” e ben poco disposta a mettere a repentaglio i propri presunti “valori”
(“Il saggio - dice al riguardo Silesio - non aspetta che gli si tolga qualcosa; egli si toglie tutto da
solo, per precedere i ladri”). È dunque la paura relativa agli “averi” che ci impedisce di riconoscere
e di accogliere gli “esseri”. Tale paura, vale a dire quella dei concetti o delle idee viventi, Evola la
chiama “pavor metaphysicus” e Scaligero la giudica propriamente “animalesca”. È vero, infatti, che
quando ci si avvicina lo spirito (vivente) siamo in genere inclini a darcela a gambe. Mi domando
spesso, al riguardo, se l’attuale e preoccupante diffusione dei cosiddetti “attacchi di panico” non celi
appunto questo risvolto. In tempi di materialismo, del resto, è giocoforza fare i conti con la paura
dello spirito e dell’anima. Solo agli artisti (e in specie ai poeti) viene ad esempio concesso di parlare
ancora di “anima”. Agli scienziati, affinchè non abbia a risentirne il “senso del pudore” della loro
“comunità”, è concesso infatti di parlare soltanto di “psiche” (e di preferenza in chiave
neurofisiologica).
Non sarebbe male ricordare, tuttavia, che verrà un giorno in cui saranno l’anima e lo spirito a
vergognarsi di chi oggi si vergogna di loro. Kant, sul piano gnoselogico, e Jung, su quello
psicologico, hanno avuto, è vero, il coraggio di non vergognarsi dell’anima, ma il loro sforzo è stato
vano perché, per non avere davvero pudore dell’anima, non si deve avere pudore dello spirito.
L’anima è infatti, a un tempo, il luogo e l’oggetto della contesa. È il luogo della contesa perché è
innanzitutto col pensare, col sentire e col volere che ci si batte; è l’oggetto della contesa perché sono
appunto il pensare, il sentire e il volere che occorre redimere e restituire all’Io.
Tornando comunque alla “cosa in sé”, Steiner dice: “Il pensatore dualistico afferma quindi
solitamente: “Il contenuto di questo concetto è inaccessibile alla nostra conoscenza; possiamo
sapere che un tale contenuto esiste, ma non possiamo sapere che cosa esista”“ (p.94).
Ci sarebbe tuttavia da chiedersi: ma quel “che cosa esista” che dice di non “poter sapere”, il
“pensatore dualistico” non può o non vuole saperlo? In proposito, vorrei raccontarvi un fatto che mi
è capitato diversi anni fa. Essendo stato invitato, da una scuola di psicoterapia di Roma, a tenere una
conferenza su Jung agli allievi dell’ultimo anno, raccontai un sogno di un mio amico che aveva da
poco ultimato un’analisi freudiana. In questo, il mio amico prima scopriva di avere un grosso
foruncolo sul braccio destro, poi vedeva uscirne un verme, e in ultimo constatava la scomparsa del
foruncolo e la guarigione dell’arto. Raccontai allora questo sogno per dimostrare che
l’interpretazione junghiana non si oppone a quella freudiana, bensì la porta avanti o
l’approfondisce. Come l’aveva infatti interpretato il suo analista? Gli aveva detto che il verme
simboleggiava il suo problema inconscio e che la sua nevrosi (il grosso foruncolo) si sarebbe risolta
quando tale problema fosse venuto alla luce. Un’interpretazione del genere, - dissi in
quell’occasione - pur essendo corretta, potrebbe essere però approfondita. Perché, infatti, il
problema del sognatore viene rappresentato da un “verme” e non in altro modo? E perché il grosso
foruncolo si trova proprio sul braccio destro e non altrove? Non sto adesso a dirvi in quale modo
sarebbe stato possibile approfondire l’interpretazione del sogno, ma allora lo feci, nella speranza
che ciò servisse, più di tanti discorsi, a chiarire le cose. Alla fine della conferenza, uno degli
studenti chiese però la parola, si alzò e disse: “Mi scusi, ma non crede che in questo modo ci sia il
rischio di capire un po’ troppo?”. Costui, dunque, anziché essere interessato, meravigliato o
soddisfatto, era spaventato: paradossalmente spaventato all’idea che, grazie allo studio che aveva
scelto e cui si era dedicato, si potesse arrivare davvero a capire qualcosa della vita dell’anima.
Questo fatto mi ricordò, già allora, la favola del cacciatore pauroso e del taglialegna. Ve la voglio
leggere così come la racconta Esopo: “Un cacciatore, che seguiva la pista di un leone, chiese a un
taglialegna se ne avesse visto le tracce e se conoscesse la sua tana. “Posso mostrarti addirittura il
leone in persona!” rispose l’interpellato. Ma il cacciatore, pallido per la paura e battendo i denti,
ribatté: “Sto cercando solo la traccia, io, mica il leone!”“.
Come vedete, anche quello studente, seguendo un corso di psicoterapia, si era messo sulla traccia
dell’anima, ma quando ha avuto l’impressione di poterla incontrare davvero, si è poi spaventato.
Vale la pena di riflettere su queste cose perché dovremmo anche guadagnarci, tra l’altro, la capacità
di distinguere il problematicismo “sano” da quello “morboso” o “patologico”. Una cosa, infatti, è
pensare e ricercare per meglio decidere e trovare, altra invece pensare e ricercare per evitare di
decidere e trovare. Del resto, chi conosca anche solo un poco le nevrosi “ossessive” sa che ci si può
servire del pensiero (riflesso) anche per sottrarsi alle proprie responsabilità ed esorcizzare così la
paura di essere l’Io che si è. Anche in campo gnoseologico, la paura è dunque una pessima
consigliera. È vero infatti che per amare bisogna conoscere, ma non meno è vero che per conoscere
bisogna amare. Deve esserci chiaro che la verità mai si rivelerà alla paura, perché la verità si
concede soltanto a coloro che la amano e le sono devoti. È piuttosto la menzogna a essere sorella
della paura, e figlia di una cultura che quotidianamente avvilisce, mortifica o nega l’anima e lo
spirito.
Dice Steiner: “In ogni caso il dualista si vede obbligato a porre dei limiti insuperabili alla nostra
capacità di conoscenza. Il sostenitore di una concezione monistica del mondo sa invece che tutto
quanto gli occorre per la spiegazione di un dato fenomeno del mondo deve trovarsi nel campo del
mondo stesso” (p.95).
Pensate a un rebus. Ci viene presentata una vignetta e siamo chiamati a risolverla. Ma che cosa
significa risolverla? Altro non significa che ri-costruire o ri-trovare il pensiero di colui che l’ha
creata. Costui è partito infatti da una idea e l’ha trasformata in una vignetta; noi partiamo invece da
una vignetta e dobbiamo trasformarla in una idea: non però in un’idea qualsiasi, bensì in quella
dalla quale è scaturita la vignetta. Ma tale idea - si rifletta - non è che il modo in cui la vignetta si
presenta allo spirito, così come la vignetta non è che il modo in cui l’idea si presenta ai sensi (alla
vista). In tanto dunque io posso, osservando la vignetta, ri-trovare l’idea, in quanto la vignetta non è
altro che l’illustrazione o l’immaginazione dell’idea. Parafrasando, potremmo perciò dire, con
Steiner, che “tutto quanto ci occorre per la spiegazione” del rebus si trova “nel campo” del rebus
stesso.
Tornando a noi, Steiner sostiene dunque che la verità del mondo non tanto è nelle cose quanto
piuttosto è le cose: ovvero, che il fenomeno - per dirla in termini kantiani - non solo non “occulta” il
noumeno, bensì lo “rivela”. È questo, peraltro, uno degli insegnamenti più importanti di Goethe.
Ricordate gli ultimi versi della sua lirica Senza dubbio (Al fisico)? “Tutto dà volentieri e riccamente
/ la Natura, non ha / un nocciolo e una scorza, / è tutta d’un sol getto. / Tu guarda te piuttosto / se sei
nocciolo o scorza”. Pensate: possiamo osservare una cosa (magari un monumento) a dieci anni, poi
a venti, a trenta, a quaranta, e così via. La cosa è sempre la stessa, noi no. Siamo cresciuti, ci siamo
trasformati e, per questo, di quella cosa siamo in grado di capire quello che prima non capivamo,
ma che purtuttavia era lì. In proposito, dice ancora Goethe: “Che cosa è più difficile di tutto?
Vedere con i propri occhi ciò che si ha sotto il naso”. In verità, il mondo non ci nasconde od occulta
nulla. Sono piuttosto i contingenti limiti della nostra coscienza a nascondercelo o ad occultarcelo, e
a impedirci così di accogliere con amore l’offerta che ci fa di sé. Dicono gli orientali: “La bellezza è
negli occhi di chi guarda”; nello stesso senso, potremmo perciò dire: “La verità è nel pensiero di chi
pensa”.
Dice Steiner: “Dal concetto del conoscere, come noi l’abbiamo esposto, segue che non ha senso
parlare di limiti della conoscenza. Il conoscere non è un interesse generale del mondo, ma un affare
che l’uomo deve aggiustare con se stesso. Le cose non domandano nessuna spiegazione (…) I
presupposti per il sorgere della conoscenza sono dunque attraverso l’io e per l’io (…) Non è il
mondo che ci pone le domande, siamo noi stessi che le poniamo” (pp.95-96).
Qualche decennio fa - come probabilmente ricorderete - si citavano spesso Wilhelm Reich e
Marcuse (insieme a Marx e Mao) ed era di moda parlare, più o meno a sproposito, di “repressione
sessuale”, di “sessuofobia” o di “castrazione”. Possiamo oggi dire che è stato un vero peccato che
non si sia stati allora capaci di rivolgersi ad altri maestri, e di parlare semmai di “repressione
animico-spirituale”, di “logofobia” e di “castrazione del pensiero”. Dico questo perché
l’istituzionalizzare, in una maniera o nell’altra, i limiti della conoscenza, altro appunto non significa
che tentare di “evirare” il pensiero. Se si fosse fatta allora una rivoluzione “spirituale”, si sarebbe di
certo infranto il tabù dei limiti della conoscenza umana. E’ impossibile d’altronde progredire se non
si ha il coraggio di affrancarsi anzitutto da questo agnostico e castrante “complesso” (da quello, ad
esempio, che ha spinto Gianni Vattimo a parlare di un pensiero “debole”). “Gnosi” vuol dire infatti
“volontà”: volontà di raggiungere per mezzo del pensiero la realtà del mondo e di noi stessi. Chi
teme un movimento o uno slancio del genere, cercherà naturalmente di impedirlo o di mortificarlo
cominciando a parlare dei limiti della conoscenza e tacciando di orgoglio (se non di follia) quei
pochi che tentano invece di far propria l’amorosa volontà dello spirito di riunirsi alle cose, agli altri
e a sé stesso.
La questione ha però un risvolto ancor più inquietante. Hegel, infatti, non solo afferma che “parlare
di limiti del pensiero umano è vuota ciarla”, ma così aggiunge: “Chi parla d’una ragione soltanto
finita, soltanto umana, chi parla soltanto dei limiti della ragione, mentisce contro lo spirito”.
Questo vuol dire che chi parla così “mentisce” contro quello “Spirito di verità” annunciato dal
Cristo e del quale è detto che ci “insegnerà ogni cosa” e che ci “guiderà verso tutta la verità” perché
non ci “parlerà da se stesso”. “Mentire” contro lo “Spirito Santo” significa dunque “peccare” contro
lo “Spirito Santo” o “bestemmiarLo”.
Sarà bene pertanto ricordare a coloro che si compiacciono, in un modo o nell’altro, di parlare dei
limiti della conoscenza (e che perciò disconoscono la “missione pentecostale” dell’antroposofia) il
seguente e grave ammonimento del Cristo: “Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli
uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del
Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in
questo secolo, né in quello futuro”.