Daniele Balicco G.Steiner, Nel castello di Barbablù. Note per la ridefinizione della cultura [1971], Garzanti [1990], 2011. «Sto scrivendo in uno studio di una facoltà di una delle maggiori università americane. Le pareti tremano leggermente al ritmo della musica che proviene da un amplificatore vicino e da molti altri più lontani. Il ronzio è senza fine. Poco importa che sia pop, rock o folk. Quel che conta è la diffusione dilagante della vibrazione, da mattina a sera a notte. Un ampio segmento di umanità tra i tredici e, diciamo, i venticinque anni oggi vive immerso in questa continua pulsazione». George Steiner è a Yale, imprigionato nella vita del campus e dunque circondato da estroversi studenti americani che lo tormentano, mentre studia, con musica a tutto volume. Sta preparando un ciclo di conversazioni per la T.S.Eliot Memorial Foundation che pronuncerà, nel marzo del 1971, alla University of Kent a Canterbury. Il tema delle conferenze, poi pubblicate nel saggio Nel castello di Barbablù. Note per la ridefinizione della cultura (Garzanti, 2011), è proprio la metamorfosi culturale dell’età contemporanea di cui è sintomo, per quanto di non immediata decifrazione, la vita dei giovani universitari che lo circondano. Il titolo del volume è un omaggio all’unica opera lirica composta da un ancora giovanissimo Bela Bartók: «rispetto a una teoria della cultura è come se ci trovassimo là dove si trova la Giuditta di Bartók, quando chiede di aprire l’ultima porta sulla notte». Punto di partenza della riflessione è l’idea centrale che T.S.Eliot difende negli Appunti per una definizione della cultura: “la cultura non è semplicemente la somma di diverse attività, ma un modo di vivere.” Ma se è anzitutto un modo di vivere, non si possono ignorare, come invece fa lo stesso Eliot, due questioni di fondo che l’età contemporanea è costretta forzatamente a discutere e rielaborare. La prima: «a me sembra irresponsabile qualunque teoria della cultura, qualunque analisi della nostra situazione attuale che non ponga al centro della riflessione i metodi del terrore che con la guerra, la fame e il massacro deliberato, causarono in Europa e in Russia, tra l’inizio della prima guerra mondiale e la fine della seconda, la morte circa di settanta milioni di esseri umani». Qualsiasi riflessione sullo stato della cultura contemporanea che escluda dal proprio orizzonte la storia del Novecento come storia del ribaltamento di progresso in catastrofe è una riflessione non solo inconsistente, ma irresponsabile. Partendo da questo assunto, i primi due capitoli del Castello di Barbablù tentano una genealogia della modernità partendo dal conflitto che ha opposto rivoluzioni moderne a borghesia liberale ottocentesca. Nella ricostruzione di Steiner, l’età delle rivoluzioni avrebbe scatenato un’immane energia di trasformazione che l’Ottocento avrebbe però progressivamente compresso in puro sviluppo tecnologico e industriale: «la combinazione tra l’estremo dinamismo economico e tecnico e l’alto livello di forzata immobilità sociale era destinata a trasformarsi in miscela esplosiva, stimolando nella vita artistica e intellettuale risposte specifiche e in ultima analisi distruttive». La letteratura e l’arte di quegli anni avrebbero funzionato così da vero e proprio sismografo, rendendo visibile – e si pensi anche solo ai romanzi di Flaubert – quell’immane vuoto che stava iniziando ad erodere le fondamenta di una società liberale solo apparentemente trionfante. Con il secondo capitolo, l’energia che la società borghese ha cercato di comprimere per tutto l’Ottocento esplode nelle guerre mondiali e, soprattutto, nell’Olocausto. Secondo Steiner non basta ricostruire le ragioni storiche, politiche, economiche e psicologiche di quanto è accaduto. C’è qualcosa di enigmatico e radicale nella banalità del male. Per riconoscerne le radici, bisogna piuttosto retrocedere fino all’invenzione del monoteismo ebraico e alla sua eccezione antropologica. In questo modello culturale, infatti, per la prima volta l’ideale assoluto diventa un modello regolativo. Si costringe un essere finito ad un patto con un trascendente non mediato e non negoziabile. L’uomo viene così strappato dal presente e dalla coincidenza con se stesso. Un’enigmatica apertura verso il futuro diventa possibilità della giustizia. Ed è contro l’insieme di questi imperativi morali, di cui l’ebraismo è solo condensazione simbolica, che l’olocausto orienta la propria violenza. Secondo Steiner, nello sterminio di massa del popolo ebraico, si è manifestato niente meno che “l’attuazione di un impulso suicida della civiltà occidentale”. In altre parole, la modernità scatenata avrebbe provato a distruggere il senso di colpa per quello che ha fatto della vita umana: nichilismo e immanenza senza orizzonte. Nello sterminio degli ebrei si vuole annientare un simbolo preciso: la possibilità per l’uomo di essere altrimenti. Arrivati a questo punto, Steiner non può non porsi una domanda più che legittima: «perché tanta fatica per elaborare e trasmettere cultura se la cultura ha fatto così poco per arginare l’inumano, se c’erano già al suo interno ambiguità radicate che a volte addirittura sollecitavano la barbarie?» Gli ultimi due capitoli del libro ruotano intorno a questo inquietante interrogativo. Lo sguardo ora si sposta sul presente, sul realismo catastrofico di cui è impregnato. Perturbata da una trasformazione tecnologica permanente, la cultura, come forma di vita, muta. E qui sta la seconda questione di fondo che non può essere elusa: «come ai tempi crepuscolari delle favole ovidiane di essere mutanti, siamo in metamorfosi. Essere ignari di questi fenomeni scientifici e tecnologici, essere indifferenti ai loro effetti sulla nostra esperienza mentale e fisica significa scegliere di estraniarsi dalla ragione». È probabile che lo sviluppo tecnologico stia per aprire porte su realtà e abissi avversi alla nostra stessa sanità mentale e al limitato deposito di riserve morali che ancora con fatica proteggiamo. Ma, continua Steiner, nonostante tutto, «è enormemente interessante vivere in questo crudele, ultimo stadio dell’avventura occidentale. Saper scorgere le possibilità di autodistruzione, e tuttavia spingere fino in fondo il dibattito con l’ignoto, non è cosa da poco».