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PROGETTO “STORIE INTERROTTE”
Crispi, Nitti, Menichella, Sturzo e Di Vittorio, il Sud che ha fatto l’Italia
Giovanni Novelli: Intervento su Donato Menichella
Lucera, 10.05.2008 - Istituto d’Istruzione Superiore “Marrone”,
La presenza del Sindacato Pensionati Italiani SPI – CGIL, a questo
appuntamento di grande valenza culturale ed educativa, trova la sua ragion
d’essere nel “Laboratorio della Memoria”, un progetto da noi proposto,
sponsorizzato dall’Amministrazione Provinciale, che coinvolge anche l’Università
degli Studi di Foggia, Dipartimento di Scienze Umane, con le Facoltà di Lettere e
Filosofia e Scienza della Formazione, l’Ufficio Scolastico Provinciale di Foggia,
l’Auser Provinciale di Foggia, l’IPSAIC (Istituto Pugliese per la Storia
dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea) di Bari, e Casa Di Vittorio di
Cerignola.
Il Laboratorio della Memoria ha per tema il Rapporto Intergenerazionale,
di cui la politica e l’economia devono farsi carico costruendo un nuovo Stato
Sociale che risponda alle attese dei giovani, dei lavoratori, e degli anziani, senza
scaricare, sull’attuale generazione, tutti i bisogni delle generazioni future, ma
senza ignorarli e ipotecare, in tal modo, l’avvenire dei giovani.
Solo così, alle vecchie povertà non se ne aggiungeranno di nuove, a danno
dei soggetti più deboli: gli anziani, che, con l’invecchiamento della società,
saranno sempre più numerosi, e i giovani, che cominciano a disperare del loro
futuro.
Nel progetto Laboratorio della Memoria è fondamentale il ruolo della
Scuola, per costruire, insieme con noi e con gli altri partner, la continuità del
rapporto tra generazioni, e la formazione di una coscienza critica negli studenti.
Le Scuole, la Sede Universitaria e le Camere del Lavoro comunali sono le
“sedi laboratorio” di questo progetto, dove in un proficuo scambio di conoscenza
tra le generazioni, si incrociano le esperienze di apprendimento dei giovani con il
bagaglio di esperienza e di memoria dei pensionati.
Questo percorso di memoria vuole riscoprire le radici della comunità del
nostro territorio, e il grande patrimonio di valori vitali che ha rappresentato, e dato
senso e ragione, ad una compatta appartenenza di comunità.
Memoria, quindi, come messaggio forte alle giovani generazioni, perché
non siano generazioni senza storia, e, perciò, prive di futuro, perché nessun futuro
è possibile senza la memoria del passato, perché un’identità consapevole e
responsabile si conquista soltanto sapendo da dove si proviene.
Nel primo anno, il tema è stato “I giganti della trasformazione”, con un
percorso di lettura critica di scritti di Giuseppe Di Vittorio e Tommaso Fiore che
ha coinvolto 400 studenti dell’ultimo anno delle Scuole Medie Superiori, dove si
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studia Storia Contemporanea, e i pensionati delle Leghe SPI – CGIL e dei Circoli
Auser.
Anche l’iniziativa di oggi si inserisce nel percorso del Laboratorio della
Memoria.
Il tema scelto per quest’anno, in cui ricorre il 60° anniversario della nostra
Costituzione, riguarda il contributo offerto da Di Vittorio e Aldo Moro alla nostra
Carta fondamentale.
Tra i cinque protagonisti del progetto “Storie Interrotte: Crispi, Nitti,
Menichella, Sturzo e Di Vittorio, il Sud che ha fatto l’Italia”, il personaggio
Menichella è, forse, quello meno conosciuto da parte delle giovani generazioni,
anche se è stato uno dei veri “grandi” della nostra storia repubblicana.
Il nostro Donato Menichella nasce a Biccari nel 1896, da una famiglia di
agricoltori, in anni in cui il risparmio è una necessità ed un costume.
È proprio da questa eredità morale che, il 23 gennaio del 1966, al
compimento dei suoi 70 anni, deriva la sua richiesta, poi esaudita, che gli venga
dimezzata la pensione di governatore della Banca d’Italia, perché, come scriveva
nella lettera, “Ho verificato che da pensionato mi servono molti meno denari”.
A mio parere, è l’episodio che lo caratterizza, e che, più di ogni altra
testimonianza, ci fa comprendere come questo personaggio, pur occupandosi solo
di economia, credito e finanza pubblica, sia stato uno dei padri fondatori della
nostra nazione, al punto che si pensò a lui anche come possibile candidato alla
Presidenza della Repubblica.
Il personaggio Donato Menichella è uomo di poche parole e molte opere,
che non ha quasi mai scritto. In realtà parlano di lui e parlano per lui il suo lavoro
quotidiano, la sua attività che esprimono l’amore profondo per l’Italia e per gli
italiani, con l’impegno di una vita a risanare banche in crisi, e a ristrutturare
aziende prossime al fallimento, per conservarne l’italianità. La sua creatura più
importante, l’IRI, nato per essere il presidio dello Stato nel settore industriale,
risponde anche a questa missione, e alleviare l’incubo delle famiglie degli operai
che vivevano il pericolo della disoccupazione.
Menichella fu, come si direbbe oggi, un “civil servant”, un servitore dello
Stato: colto, scrupoloso, intelligente, probo e dotato di impareggiabile cultura
economica, di profondo senno politico, e capace di indipendenza di giudizio, una
dote non comune, e pericolosa oggi per chi ha ambizioni di carriera.
Il suo nome è legato a tutti i momenti più significativi della trasformazione
economica del dopoguerra, quelli che hanno strappato l’Italia dal baratro delle
macerie della guerra, per portarla tra gli Stati industrializzati più avanzati del
mondo.
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Il carattere di Menichella fu quello di un uomo retto, dedito agli interessi
dei cittadini, dei lavoratori e dei risparmiatori; integerrimo, fino a non accettare
mai omaggi di valore; e discreto, tanto da non aver mai rilasciato un’intervista in
vita sua e da non gradire che i suoi collaboratori scrivessero su riviste economiche,
per cui gli si attribuiva, pur non avendola mai pronunciata, la celebre frase “La
Banca d’Italia parla una volta sola all’anno per bocca del suo Governatore”.
Nel suo lavoro in Banca d’Italia, seguiva l’ammonimento di Einaudi: “Non
si danno ordini, si discorre, si esaminano le situazioni, si sgrovigliano i nodi
intricati, si danno consigli, senza rumore, senza far accorrere i giornalisti, i
problemi sono discussi ad uno ad uno, e per ognuno di essi si cerca la soluzione
appropriata”. Un lavoro di squadra molto moderno, e il più proficuo per far
esprimere a tutti il meglio di se, molto lontano dal modo di lavorare di alcuni
manager tagliatori di teste, che assumevano le loro decisioni nella tetra solitudine
della loro torre eburnea.
Con il riordino del sistema bancario, avvenuto nel 1936 con la legge
bancaria, di cui fu uno degli artefici determinanti, salvò i piccoli e medi
risparmiatori italiani, che avevano rischiato il risparmio da loro affidato e mal
gestito.
Gli scandali bancari non sono una novità nella storia d’Italia, e sono un
monito ancora oggi. Questi scandali sono anche la storia delle vittime incolpevoli
di queste crisi: risparmiatori e lavoratori, gente modesta che cercava impieghi
senza rischio – come i depositi bancari – e scopriva con dolore e rabbia che,
invece, erano a rischio, come lo sono stati gli acquisti delle obbligazioni Cirio e
Parmalat, e dei bond argentini negli anni appena trascorsi.
Dopo la grande crisi delle banche del 1931, da cui sarebbe nato l’IRI,
(Istituto per la Ricostruzione Industriale), la legge bancaria del 1936 regolò il
sistema bancario, cioè la comune convivenza della finanza e dell’industria nel
mondo del credito, con la separazione tra banca e industria, tramite norme valide
ancora oggi, che hanno posto, sotto l’azione di vigilanza della Banca d’Italia, che
con questa legge assume la pienezza dei suoi poteri, tutte le banche,
differenziando gli istituti di credito per:
1. il credito commerciale a breve scadenza, affidato alle banche ordinarie
che raccolgono i risparmi della gente;
2. il credito a medio e lungo termine, per gli investimenti industriali,
affidato a banche speciali che devono trovare i soldi attraverso l’emissione
di titoli obbligazionari;
Nel dopoguerra, Governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi,
Menichella fu chiamato ad assumere l’incarico di Direttore Generale, e poi di
Governatore, quando Einaudi diventa Presidente della Repubblica.
Il suo curriculum lo portava inevitabilmente a questo incarico.
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Il suo primo impiego, “in prova”, era stato presso la Banca d’Italia, nel
lontano 1921, che continuò, poi, con l’affidamento di incarichi sempre più
importanti, come la liquidazione della Banca Italiana di Sconto, per poi passare
all’esperienza di Direttore Generale dell’IRI, dove arriva nel 1933, presidente
Beneduce, per rimanervi fino al 1944, con la sua partecipazione, tra il 1935 e ’36,
alla formulazione della Legge bancaria.
Dalla postazione di Direttore Generale dell’IRI studia e penetra i
misteri dell’industrializzazione italiana, che, attraverso l’IRI, recupera e porta
allo sviluppo molte aziende fallite, nate con la rivoluzione industriale della fine del
secolo precedente, e fatte di pochi capitali, posseduti dalle banche, o importati
dall’estero, alle cui logiche poi rispondevano.
L’IRI nasce perché, a promuovere le imprese, e quindi l’industrializzazione,
dovevano essere non solo i privati, ma anche lo Stato.
A Direttore Generale della Banca d’Italia arriva dopo una fase di disagio
personale durata due anni, dovuta alla radiazione, senza indennizzo, dagli incarichi
statali, per “aver permesso”, questo diceva l’atto di accusa, “che la Repubblica
Sociale Italiana si appropriasse dell’IRI”. Ma la Repubblica Sociale Italiana non
gli aveva chiesto quel permesso, che lui non poteva dare, né ostacolare.
Di fronte alla grave crisi economica del dopoguerra, l’Italia ha bisogno degli
uomini migliori per uscirne risanata.
Sono anni drammatici, di devastazione materiale e morale, di travolgente
inflazione, di tessuto industriale distrutto,di fame vera, in cui la popolazione attiva
è impegnata, per più del 50%, ancora nell’agricoltura tradizionale, e ci sono più di
quattro milioni di disoccupati, un reddito pro capite bassissimo, salari bassissimi e
assurdi vincoli commerciali con l’estero.
L’inflazione, la tassa più ingiusta, perché colpisce i percettori di redditi fissi,
lavoratori e pensionati, che sono i più poveri, i piccoli risparmiatori, nonché i
destinatari di finanziamenti pubblici, è del 7,5% al mese, cioè arriva al 90%
all’anno.
Ebbene, Einaudi e Menichella ci liberano dall’inflazione, che è portata, già
nel 1948, al 5,8% annuo.
Menichella è Governatore dal 1947 fino al 1960, quando si dimette per
motivi di salute: è l’anno in cui la lira riceve l’Oscar del Financial Times per la
migliore valuta dell’anno, mentre, nel 1961, Menichella è premiato come miglior
Governatore di banca centrale.
Quando è nominato Governatore, i partiti non sono quelli di oggi, che
lottizzano le alte cariche come si trattasse di beni privati. Per questo non obiettano
sulla sua nomina, o perché di lui non si sa molto, e nemmeno che negli anni ’30
aveva, con Beneduce, creato l’IRI, cioè l’impresa pubblica, o forse perchè lo
sanno fin troppo bene ed accettano la nomina perché convinti di trovare in lui
l’uomo dalla facile spesa di Stato. Se così fu, fecero male i loro conti, perché non
ci fu mai difensore più tenace del pubblico denaro.
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Da Governatore della Banca d’Italia, il più alto osservatorio tecnico
economico nazionale, Menichella pilota l’Italia verso il miracolo economico e
la prosperità, pur in presenza di contrasti e contraddizioni.
E già nel 1956 il problema del debito pubblico è quasi risolto, perché le
entrate fiscali copro quasi per intero le spese.
Si parla di allora come degli anni del miracolo economico italiano, ma cos’è
stato questo miracolo italiano?
Il miracolo economico italiano è consistito nell’applicazione pratica di
una intuizione economica che era stata alla base della creazione dell’IRI: il
principio dell’economia mista, che mette insieme l’impresa privata e quella
pubblica. Menichella, ricorda Emilio Taviani, sapeva bene che l’economia mista
comporta un ampio rischio, quello della corruzione, derivante da quella che poi
sarà definita “commistione tra politica e affari”, ma non pensò che si dovesse
tornare indietro, e abbandonare l’economia mista per quella liberista.
Questa intuizione, insieme con l’apertura dell’Italia al libero commercio
internazionale, fortemente voluta anche da Ugo la Malfa, creò le condizioni di un
grande crescita economica senza inflazione, una crescita vera, non drogata.
Quando, nel 1960, si ritira a vita privata, ancora giovane rispetto alle
carriere dei grand commis di oggi, rifiuta le offerte di chi lo vuole senatore e poi
Ministro del Tesoro, perché ligio alla regola che dice che, per un Governatore
della Banca d’Italia, non c’è posto, o carica, che non rappresenti una retrocessione.
Visse ancora un ventennio, in un atteggiamento di riserbo e discrezione, con
la carica di Governatore onorario della Banca d’Italia, in silenzio, atteggiamento di
suprema dignità in tempi in cui l’esibizionismo stava diventando una delle noti
dominanti della politica italiana.
La sua politica monetaria ha avuto tanto successo perché ha saputo
conciliare la necessaria, e assoluta, indipendenza della Banca d’Italia dal
Governo, con la passione civile per i problemi dello sviluppo e del credito alle
imprese.
Fu un monetarista, nel senso di strenuo difensore della stabilità e del potere
di acquisto della lira attraverso il risparmio pubblico e privato, ma fu keynesiano
in economia, cioè fautore dell’intervento statale a sostegno e promozione
dell’economia, con l’obiettivo della lotta alla disoccupazione e del pieno
impiego, e contro la disparità di condizioni tra i gruppi sociali e le diverse are
d’Italia.
Gli stessi obiettivi che persegue il Sindacato CGIL, CISL e UIL, con una
particolare attenzione, oggi, anche al tema dei diritti sul lavoro, a partire da quello
della sicurezza.
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Parliamo di quell’equilibrio che anche altri governatori hanno perseguito,
ma con minore bravura, e con risultati non ugualmente brillanti.
Ma la sua politica di contenimento della spesa pubblica, e della circolazione
monetaria, e la sua opposizione all’aumento indiscriminato dei dipendenti statali,
non piacevano ai troppi che, dopo la sua scelta di ritirarsi a vita privata, ebbero
partita vinta, iniziando a rovinare la nostra economia, con danni che, oggi,
sembrano quasi irreparabili.
Le tragiche conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, e sono quei problemi
economici che, da troppo tempo, non si riesce a risolvere.
Non possiamo concludere senza soffermarci, brevemente, su una sfida
importante che Menichella ha affrontato: lo sviluppo del Meridione.
Mentre tra il 1950 e il ’55 il PIL cresceva tra il 2,5 e il 5% l’anno, con il
Centro-Nord che coglieva tempestivamente le occasioni di crescita e di sviluppo,
le condizioni del Sud andavano, invece, deteriorandosi, ed i gravi ritardi del
Mezzogiorno venivano individuati da Menichella soprattutto nella mancanza,
pressoché totale, di infrastrutture, di servizi e di tessuto industriale diffuso, cioè
proprio le leve principali dello sviluppo, allora delegato solo, o quasi,
all’agricoltura.
Si impegnò per la creazione della Cassa del Mezzogiorno (legge del ’50 e
poi, più centrata sull’industria, del ’57), come strumento di intervento
straordinario, con una dotazione finanziaria pluriennale per dare certezza
agli investimenti, preferendo, per la gestione, la regia di un Comitato
Interministeriale, anziché la creazione di un Ministero apposito, poi introdotto.
L’autonomia della Cassa per il Mezzogiorno, che egli volle fortemente,
era necessaria per sottrarla ai condizionamenti e agli appetiti dei politici, e
anche per fare arrivare al Sud i finanziamenti provenienti dalla Banca Mondiale,
che preferiva destinarli a strutture autonome.
Con la Cassa per il Mezzogiorno mise in piedi un diverso approccio per
affrontare il problema dello sviluppo del Sud, approccio che è ricordato come il
“nuovo meridionalismo”.
Egli auspicava interventi pubblici leggeri e, soprattutto, temporanei, che,
però, piacevano quasi solo a lui, e l’IRI stesso avrebbe dovuto essere
un’organizzazione limitata nello spazio e nel tempo.
Ma così non fu.
Egli già prevedeva che, fatalmente, il potere politico, vorace e incurante
dell’economia, estendendosi troppo, si guastasse, corrompesse le aziende e da
queste venisse corrotto, come poi è avvenuto.
Egli individuò i tre fattori principali dello sviluppo del Mezzogiorno
nella riforma agraria, sulla quale aiutò Antonio Segni, nello sviluppo
industriale diffuso, per contrastare la continua emigrazione, che
accompagnasse, ma non sostituisse l’agricoltura, ragion per cui entrò, nel 1946,
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nel Consiglio di Amministrazione della Svimez (l’associazione per lo sviluppo
industriale del Mezzogiorno), e, infine, nella società della conoscenza, creando
centinaia di asili nido, decine di biblioteche e 1800 scuole rurali e serali nella sua
esperienza, dal 1947 al 1948, di Vice Presidente dell’Associazione Nazionale per
gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, un’associazione nata nel 1910, su principi
ispirati da Antonio Fogazzaro, Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini, per
contribuire a risollevare, dopo il terremoto del 1908, i territori colpiti, a partire da
Reggio Calabria e Messina.
Va sottolineato che Menichella non lavorò da solo ma ebbe compagni di
viaggio di grandissima levatura, che hanno scritto un capitolo fondamentale della
storia, economica e civile, del nostro Paese.
A seconda delle sfide, lavorò con Beneduce all’IRI, con Einaudi alla Banca
d’Italia, con Nitti, che fu tra i suoi maestri, poi con De Gasperi, di cui fu
consulente in tutte le accidentate fasi della ricostruzione postbellica,
accompagnandolo anche nella visita a Washington, quindi con Pella e con Taviani,
e nella Svimez con un grande meridionalista l’allora giovane Pasquale Saraceno,
che amava indicare in Menichella il suo maestro.
Queste corresponsabilità non sminuiscono il ruolo da lui avuto, perché
crearono certamente le condizioni per un apprendimento reciproco, dove ognuno
dava qualcosa agli altri, e certamente Menichella diede molto.
Oggi, Menichella vedrebbe un Sud dove molte cose sono cambiate: ci sono
due milioni di imprese; la popolazione è più giovane rispetto alla media italiana e
gli indici di natalità ancora consistenti, e la naturale vocazione di “cerniera” nel
bacino del Mediterraneo fanno ipotizzare un futuro di speranza.
Ma vedrebbe anche un sistema bancario in cui la proprietà, in larga parte,
non è più meridionale; lavorerebbe, certamente, per ridurre il peso a volte
elefantiaco ed aumentare l’efficienza della burocrazia e della pubblica
amministrazione, e denuncerebbe con fermezza l’esistenza di fenomeni criminali
che uccidono la possibilità di una crescita più impetuosa.
Davanti ai suoi occhi, ci sono sempre stati i numeri, ma i numeri non sono
mai stati per Menichella qualcosa di arido ed immateriale perché
significavano, per lui, i volti degli italiani che, ogni giorno, vanno a fare la
spesa al mercato, e fanno la fila alla posta e nelle banche per pagare le
bollette.
La sua lira è riuscita a far crescere l’Italia e gli italiani. Così doveva essere
anche per l’euro, e invece mentre con lui abbiamo ricevuto l’Oscar per la nostra
moneta, oggi registriamo il record del debito pubblico.
Ma che destino avrebbe, oggi, un Governo guidato da un altro
Menichella?
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Avrebbe da risolvere il problema dei problemi della nostra economia, la
grande QUESTIONE del debito pubblico, che divora, ogni anno, 70 miliardi di
euro, sottraendoli allo sviluppo, alla ricerca, alla Scuola e all’Università, cioè al
futuro delle giovani generazioni.
Ma, forse oggi, il suo “riformismo tecnocratico lontano dai problemi del
Paese”, simile, ma molto più accentuato di quello messo in atto da Prodi, avrebbe
lo stesso risultato, se non addirittura ancora più infelice, del secondo Governo
Prodi.
A volte il destino dei grandi uomini è quello di essere incompresi, e soltanto
dopo un certo tempo, quando la cronaca diventa storia, si è in grado di
comprenderne a pieno la statura culturale e la dirittura morale.
Anche per questo è necessaria la Memoria.
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