BOLLETTINO U.C.F.I. (UNIONE CATTOLICA FARMACISTI ITALIANI

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N. 2/13
Di fronte ad una procedura che permette all’embrione di svilupparsi al di fuori
dell’utero materno per tutti i nove mesi necessari alla sua maturazione
ECTOGENESI
La dott.sa Hung-Cing-Liu del Center for Reproductive Medicine and Infertilità
del Weill Medical College (USA) ha fatto un esperimento, che rientra in una
procedura di ricerca che permette , grazie a specifici strumenti, all’embrione di
svilupparsi al di fuori di un utero umano per tutti i nove mesi necessari alla sua
maturazione ed alla vita autonoma: l’articolo esamina la logica scientista della
produzione artificiale dell’uomo, che nell’esperimento in questione trova una sua
nuova espressione simbolica.
L’ampiezza dei temi bioetici continua ad accrescersi
e lo dimostrano le dimensioni delle enciclopedie,
l’ultima di recente pubblicazione. Ma lo spazio
maggiore è sempre occupato dai problemi della
procreazione con mezzi artificiali di vario tipo.
Non è facile spiegare, anche se molti hanno cercato
di farlo, le ragioni di questo accanimento della
scienza applicata nei confronti dei vari meccanismi
che portano alla nascita di nuovi individui della
specie umana. Non può essere, certamente,
l’esigenza di aumentare in modo artificiale i miliardi
di persone che abitano sulla terra, al punto di
occupare anche territori ostili e poveri di risorse,
causando sofferenze e diseguaglianze sempre più
gravi.
Può sicuramente avere un ruolo il profondo e
radicato impulso alla prosecuzione della specie che
in tempi non molto lontani – un secolo al più – si
doveva arrendere alla ineluttabilità dei limiti
personali congeneti od acquisiti della capacità
riproduttiva dei singoli.
A questi ostacoli la scienza ha cercato di porre
rimedio in vari modi, piegando ai propri fini ed
utilizzandoli, i processi naturali, altre volte sfociando
addirittura nella artificiosità spinta, in genere
incurante dei problemi etici. L’ectogenesi è un
capitolo di quest’ultima e ad essa appartiene il
recente esperimento di un iniziale processo
annunciato dalla dott.ssa Hung-Cing-Liu del Center
for Reproductive Medicine and Infertility del Weill
Medical College (USA) costituito dalla procedura,
che per mezzo di specifici strumenti, permette
all’embrione di svilupparsi al di fuori di un utero
umano, per tutti i nove mesi necessari alla sua
maturazione ed alla vita autonoma: tecnica che
assume significato anche simbolico nell’ambito della
logica scientista della produzione artificiale
dell’uomo.
A quanto risulta, la struttura dello strumento è
composta da una camera di sviluppo, nella quale
l’embrione è radicato ad un tessuto endometriale
umano cresciuto artificialmente; un sistema di
alimentazione, connesso alla camera di sviluppo per
fornire le sostanze nutritive necessarie alla crescita
dell’embrione; un sistema di ossigenazione,
connesso al sistema di alimentazione, che aspira
l’ossigeno atmosferico e lo include nel liquido di
alimentazione, identica ad una macchina cuorepolmoni; un sistema di filtraggio, connesso alla
camera di sviluppo che ripulisce le sostanze di scarto
rilasciate dal feto durante la crescita, ed impedisce il
proliferare di batteri o virus, identica ad una
macchina per dialisi; un’unità di controllo
computerizzata, connessa con sensori elettronici alla
camera di sviluppo. Tutte queste assemblate
tecnologie sono attualmente già esistenti, tuttavia
importanti motivi etici, legati all’aborto ed alla
clonazione umana hanno impedito il rilascio e la
costruzione di un prototipo di utero artificiale per
esseri umani.
1
Recentemente la bioeticista inglese Anna Smajdor,
docente alla University of East Anglia (UK) e
ricercatrice in bioetica all’Imperial College di
Londra, ha sostenuto la necessità di dedicare
urgentemente fondi pubblici destinati alla ricerca
sull’utero artificiale per emancipare le donne da
questi “relitti ancestrali” e “barbari” che sono la
gravidanza ed il parto, fonti di dolore e di
oppressione. La proposta della Smajdor è veicolata
dalla rivista Cambridge Quarterly of Healthcare
Ethics e riprende precedenti posizioni della
ricercatrice. Gravidanza e parto altro non sarebbero
che malattie di lunga durata, incompatibili con una
società liberale, ed i valori sociali attuali
risulterebbero inconciliabili con la riproduzione
naturale che riduce le donne a mere “portatrici di
bambini”. La Smajdor chiede “di dare priorità alla
ricerca sull’ectogenesi come alternativa alla
gravidanza” e di scegliere l’utero artificiale per una
società in cui non siano più le donne a correre i rischi
della gravidanza e del parto: che “lungi dall’essere
indispensabili per garantire il legame materno
possono ostacolare la capacità di prendersi cura dei
loro bambini.”
La Smajdor non è certo sola in questo ennesimo
attacco alla riproduzione naturale. Tra gli altri merita
un ricordo il biologico e filosofo francese Henri
Atlan, già membro del Comité consultatif national
d’éthique pour les sciences de la vie et de la santé
(Ccne) francese, il quale prevedendo uno sviluppo
dell’utero artificiale ritiene che la sua realizzazione
segnerà “la possibilità di una evoluzione verso una
vera uguaglianza dei sessi”.
Non vi è dubbio, ove per un momento si voglia
prescindere dai rilevanti ed evidenti aspetti bioetici,
che l’utero artificiale, con il suo pur grossolano
tentativo di imitare il prodigioso utero naturale –
organo di accoglienza dell’embrione, di nutrimento,
di trasmissione nell’arco di molti mesi di messaggi
sonori e biochimici in gran parte misteriosi ed
irriproducibili – non è realmente assimilabile a tanti
altri prodotti della scienza tecnologica che la
medicina ha creato nell’ultimo mezzo secolo con
finalità diagnostiche e soprattutto terapeutiche
sostitutive. Si tratta spesso di invenzioni di grande
ingegno e di rilevante e spesso decisiva utilità, ormai
irrinunciabili, le quali possono presentare talora
problemi medici, giuridici e deontologici, alcune
volte anche bioetici, per gli aspetti negativi correlati
a inevitabili complicanze, non di rado gravi ed anche
mortali. Non si potrebbe certo rinunciare alle
attrezzature per l’emodialisi e la plasmaferesi, alla
circolazione extracorporea, alle valvole cardiache,
alle varie protesi, talora sofisticatissime, agli arti,
fino alla chirurgia robotica, malgrado i suoi costi.
Sono solo alcuni esempi nel cui ambito è
oggettivamente difficile individuare seri problemi
bioetici se non quello, indubbio e doloroso, costituito
dalla frequente indisponibilità di questi strumenti,
per moltissimi pazienti, specie nelle aree povere e
non dotate di presidi medici aggiornati ed efficienti.
Tutto questo avviene nel contesto del pur discusso
progresso tecnico con le sue ricadute positive per
l’umanità e con i suoi effetti anche dannosi,
sull’uomo e sull’ambiente. In questo sempre più
rapido ed incessante movimento si coglie il frutto
dell’istinto creativo dell’uomo che lo ha portato fino
al viaggio sulla luna ed ai tentativi di studio di alcuni
pianeti, per uno stimolo che nasce dalla curiosità
innata ma anche dall’ambizione e dal desiderio di
gareggiare. Ma pretendere di assimilare queste
tecniche sostitutive e di ausilio tecnico ad un utero
artificiale senza considerare la sua collocazione in
una zona intoccabile del processo procreativo,
appare con evidenza un grave superamento della
soglia di ciò che è bioeticamente e umanamente
accettabile. Lo stesso aspetto tecnico già appare
inconsistente e addirittura può considerarsi una
sperimentazione cieca sull’uomo nascente compiuta
nella prevalente ignoranza scientifica di ciò che
avviene realmente nel lungo periodo di intima
convivenza della madre e del feto. Non bastano a
superare queste lacune di conoscenza le pur
interessanti ricerche sul dialogo, specie biochimico,
che si ritiene avvenire nel corso di nove mesi. Quanti
scambi avvengono tra madre e figlio a noi finora
ignoti? E’ evidente che la creazione di un
grossolano luogo di accoglienza del feto, se può
forse consentirgli comunque lo sviluppo prodotto
dalle sue intrinseche forze naturali, non può invece
offrire nulla del protratto nutrimento globale fatto
non solo di sostanze nutrienti che la madre gli
assicura. Perfino la mancanza delle ormai accertate
risposte dolorose che il feto è in grado di dare e che
sono un segno di vitale importanza nella fisiologia
dell’uomo, è una carenza rilevante nella crescita
endouterina naturale. Senza dire, di converso, degli
straordinari apporti organici e psichici di cui la
gravidanza gratifica la madre nella maggior parte dei
casi. Già queste constatazioni sono sufficienti per
affermare il disvalore biologico e bioetico di questi
progetti. Purtroppo il significato morale e simbolico
della procreazione si sta progressivamente
indebolendo
sulla
base,
principalmente,
dell’aumento degli aborti, specie di embrioni di
sesso femminile, cui non fanno certo bilanciamento,
dal lato opposto, filiazioni e gravidanze snaturate
non solo per soddisfare desideri personali ma,
addirittura, per poter affrontare nuove ideologie circa
la struttura della società umana. In Italia con
prudente preveggenza, l’art. 13 comma 3 lettera c
della legge 40/2004 “Norme in materia di
procreazione medicalmente assistita” ha vietato
“interventi di clonazione mediante trasferimento di
nucleo o di scissione precoce dell’embrione o di
ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca”. Ma
questa legge, saggia e abbastanza efficace, è
purtroppo continuamente attaccata proprio nelle sue
zone più cruciali, nei baluardi eretti a difesa della
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procreazione. Il perverso fascino del presunto
progresso relativista continua ad esercitare la sua
azione pericolosa e dannosa cui bisogna opporre
senza sosta la difesa bioetica nella prospettiva della
Global Bioethics di Van Rensselaer Potter (1988),
secondo cui ognuno è responsabile nel proteggere la
natura del mondo per la sopravvivenza dei nostri
discendenti. Questa Bioetica, pur continuamente
minacciata, continua ad essere il ponte fra le scienze
e l’umanità sul quale non può transitare l’utero
artificiale
Angelo Fiori
(tratto da Medicina e Morale 2012/2, pagg. 161-165)
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