Parrocchie della Cattedrale, Santa Maria delle Grazie, San Michele Arcangelo
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RITIRO SPIRITUALE IN PREPARAZIONE AL NATALE
Domenica 14 dicembre 2008 (Citerna, Monastero Benedettine)
Dal presepio al Vangelo:
Luca e Matteo ci raccontano di quando Dio si fece bambino
per abitare in mezzo a noi, si fece piccolo per farci grandi
La storia che da secoli viene “raccontata” a Natale indubbiamente piace,
attrae. La ricordiamo tutti gli anni, ma lo facciamo sempre volentieri, senza
annoiarci. Si parla, almeno a prima vista, di due giovani sposi, del concepimento un
po’“speciale” del loro bambino e di vicende altrettanto avvincenti legate alla sua
nascita e alla sua fanciullezza, fino alla prima adolescenza. Una famiglia, quella di
Gesù, Maria e Giuseppe, che in quelle circostanze ha persino incrociato la storia dei
“grandi” e soprattutto si è posizionata all’incrocio decisivo della storia di Dio con gli
uomini. Una famiglia la cui vita incrocia anche la storia dei poveri, dei disprezzati (i
pastori), degli stranieri (i magi), degli ignoranti (i pastori) e dei dotti (i magi). In
breve, una storia che riguarda tutti, in cui ciascuno trova posto o, per lo meno, una
figura che gli è simpatica.
La storia di una famiglia, dunque, che però, a leggerla bene, è storia di Dio, o
meglio, di un Dio-con-noi, di un Dio che si fa vicino; in breve, è la storia di un Dio
che si fa uomo, che sta in mezzo alle persone facendosi persona umana Lui stesso.
Rileggiamo insieme la storia lasciandoci guidare da coloro che per primi
l’hanno narrata, gli evangelisti Luca e Matteo. Attenzione, però, il loro intento non
era quello di dire esattamente come sono andate le cose, di scrivere una cronaca o
un libro di storia; volevano trasmetterci l’insegnamento che Dio, attraverso quelle
vicende, rivela all’umanità. È quello che dobbiamo cercare: la storia è avvenuta, non
si ripeterà, ma l’insegnamento rimane, perché la Parola di Dio è eterna.
Non leggiamo la storia per intero, ma solo quelle pagine che ascolteremo nella
liturgia dei giorni di Natale e dell’Epifania.
1. LA
NASCITA DI
GESÙ
A
BETLEMME
DI
GIUDEA
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Dal Vangelo secondo Luca (2, 1-14)
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il
censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando
Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire,
ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di
Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli
apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire
insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel
luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro
non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che,
pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro
gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li
avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro:
«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:
oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo
Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce,
adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine
dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei
cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
Sin dall’inizio ciò che colpisce è l’enorme contrasto fra la presentazione di Cesare
Augusto (Ottaviano, imperatore romano dal 27 a. C. al 14 d. C.) nell’esercizio del suo
potere universale e un bambino che nasce in una stalla, in una condizione di assoluto
anonimato tanto è ordinaria, quotidiana, normale. Se mai, se la nascita ha una
caratteristica è quella della povertà, null’altro di più, niente di diverso da tantissime
altre nascite di quel tempo. Il Salvatore nasce tra la precarietà, i disagi e l’estrema
povertà di un’umile famiglia periferica e del tutto insignificante agli occhi del
mondo. Chi mai si ricorderebbe oggi i questo carpentiere di Nazaret, ma originario
di Betlemme, e di sua moglie? Sono due come tanti, persone comuni come i miliardi
di persone comuni vissute in passato sulla terra, (i cui nomi non sono scritti sulle
pagine dei libri di storia, ma sul palmo della mano di Dio).
Al centro c’è una famiglia. Giuseppe è il padre davidico di Gesù. Siamo abituati a
chiamarlo padre “putativo”, cioè presunto, ma il termine “davidico” rende meglio il
ruolo di quest’uomo nella famiglia di Nazaret, che è di primo piano, come quello di
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Maria. Giuseppe, infatti, trasmette a Gesù la benedizione di Abramo e la
discendenza davidica, la legge e le promesse; è una persona indispensabile nella
storia della salvezza, perché è il suo legame con la stirpe di Davide che offrirà uno
degli elementi che poi faranno riconoscere in Gesù di Nazaret in messia.
Sposa di Giuseppe è Maria, probabilmente anche lei della casa di Levi, dal momento
che Elisabetta sua «parente» era «discendente di Aronne» (cfr Lc 1,5.36). Maria
viene descritta con estrema sobrietà. Essendo salita a Betlemme a seguito del
marito, «si compirono per lei i giorni del parto». Quindi tre verbi, come tre
pennellate d’artista, tratteggiano in modo sublime il suo essere madre: «diede alla
luce il suo figlio primogenito», «lo avvolse in fasce», «lo pose in una mangiatoia».
Un’estrema povertà trasfigurata dallo splendore di una maternità che si fa dono,
tenerezza, protezione, incanto...
Fin dall’inizio è chiaro uno dei tratti caratteristici del messia Gesù: una
straordinaria solidarietà con i poveri, gli ultimi, gli esclusi, fino a identificarsi con
loro. Poco più di trent’anni dopo quel bimbo dirà: «Tutte le volte che avete fatto ciò
a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me» (cfr Mt 25,31-46).
Questo è lo stile di Dio, che si annulla nell’uomo scegliendo di incarnarsi, si fa
prossimo a tutti cominciando dagli ultimi. Dio non rinuncia al suo essere Dio, ma
porta la sua divinità in mezzo all’umanità, il modo di rapportarsi della Trinità tra i
rapporti umani. E nella trinità non ci sono gerarchie dovute al censo, al potere e così
via, ma vi sono soltanto rapporti d’amore.
All’inizio della storia di Dio con l’umanità c’è sempre qualche persona. Dio salva
l’umanità coinvolgendo le sue creature, interpellando la loro libertà. Se l’umanità si è
allontanata da Dio (Adamo ed Eva), Dio non la distrugge, ma la va a cercare
chiedendo a uomini e donne di cooperare al suo disegno di salvezza. Così è con Noè,
con Abramo, con Mosè.
All’inizio della storia di cui parliamo ci sono un uomo e una donna cui Dio si rivolge:
Giuseppe e Maria.
Giuseppe è marito e padre esemplare. Innanzi tutto il carpentiere di Nazaret,
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sposo di Maria, non era un vecchietto con la barba bianca e il bastone fiorito, ma
era un giovane profondamente innamorato di Maria (secondo le usanze matrimoniali
del tempo era un adolescente), un “giusto” (cfr. Mt 1,19), cioè un uomo integro nel
suo camminare davanti a Dio e agli uomini, un figlio d’Israele che risplendeva per
generosità e fedeltà. Lo vediamo pronto ad accogliere un piano di Dio che sconvolge
i suoi progetti legittimi e tutta la sua esistenza, lo vediamo obbedire senza
esitazione alla volontà di Dio e farsi carico responsabilmente della famiglia a lui
affidata, lo vediamo sempre presente accanto a Maria, pronto ad intervenire nei
momenti di difficoltà. È uomo di poche parole Giuseppe, di cui non conosciamo cosa
abbia detto; ma conosciamo bene cosa ha fatto: ha preso sul serio Dio, si è fidato di
Lui anche quando questo voleva dire andare contro l’evidenza dei fatti e la loro
spiegazione ragionevole. Accoglie il disegno di Dio su di lui e Maria senza richieste
di chiarimenti, né esitazioni: Giuseppe si fida di Dio.
Il Vangelo di Matteo ci presenta Giuseppe come uomo giusto: essere giusto significa
mettere i criteri di Dio e le sue scelte al primo posto. Per poi riuscire orientare le
nostre scelte secondo quelle di Dio. E non viceversa.
Giuseppe è giusto per questo. Perché fa sempre precedere il piano di Dio al suo.
Anzi, per obbedire a tale piano divino, accetta che anche il suo piano umano sia
scompaginato, disturbato noi diremmo, pur di essere “giusto”.
Giuseppe era un uomo giusto perché voleva osservare la legge, ma era attento
perché questa, osservata alla lettera e senza comprenderne lo spirito, non
diventasse strumento d’ingiustizia. Egli aveva capito che la legge deve servire per
voler bene alle persone, per compiere la volontà di Dio che è sempre volontà di
condanna per il male e di salvezza per l’uomo. Era un uomo giusto perché aveva
capito che lo spirito della legge è l’amore. Il suo amore per la sposa rimaneva anche
se non riusciva a capire ciò che era avvenuto.
Maria sa custodire nel silenzio contemplativo del cuore le parole e gli avvenimenti
per meditarli, confrontarli e comprenderli nella luce di Dio, sia colei che aiuta a
vivere la maternità con un atteggiamento di assoluta gratuità, con abbandono
fiducioso e orante, ma anche con coraggio e intraprendenza. Maria è donna
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dell’accoglienza e della pazienza. Maria ha coraggio, decisione, determinazione
perchè si fida di Dio, ma non ha fretta, perché sa che le cose di Dio si sviluppano
nel tempo. L’azione di Dio non è una magia, che dura il tempo di un momento; è
piuttosto la pioggia che irriga la terra e la fa germogliare a tempo dovuto. Nel
frattempo il seme muore, la pianta nasce e fiorisce e infine porta frutto. Per
questo Maria «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Non arriva
a conclusioni affrettate, ma custodisce nel cuore ciò che vive.
2. I
ADORARE
PASTORI ACCOLGONO L’ANNUNCIO DELL’ANGELO E VANNO AD
GESÙ
Dal Vangelo secondo Luca (2, 15-20)
Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori
dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo
avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono, senza
indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella
mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato
detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai
pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel
suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto
quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
La buona notizia della nascita del salvatore è subito annunciata ad alcuni pastori.
Dalle figure dei pastori possiamo imparare a saper riconoscere i “segni” di Dio. Dio
non va cercato fuori dalla nostra esistenza, quasi fuggendo da essa: staremmo
inseguendo un idolo. Egli è il Dio vivente: “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di
Giacobbe... Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarà
ricordato di generazione in generazione” (Es 3,15). È il Dio di tutti, che non esclude
nessuno, che comincia a rivelarsi dagli emarginati. Più che poveri, infatti, i pastori
del tempo di Gesù erano emarginati. Tanto è vero che i rabbini si chiedevano
sconcertati come mai nel Salmo 22 (23) il Signore fosse chiamato «il mio pastore».
I pastori erano per lo più servi dei proprietari del gregge, sfruttati e malpagati, e
si rifacevano con il furto al padrone o ad altri pastori. Erano considerati dei
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selvaggi, dei bruti che vivevano di ruberie ed erano trattati col massimo disprezzo:
privati dei diritti civili, non potevano testimoniare ed erano considerati peggio delle
bestie che accudivano. Erano discriminati anche dalla religione perché trascorrendo
il loro tempo sempre tra gli animali, con scarse possibilità di accedere alla sinagoga
o al Tempio, i pastori vivevano in una condizione di totale impurità. Ebbene, proprio
loro che non potevano testimoniare nei processi pubblici sono scelti da Dio come
testimoni della nascita del Messia! Un commentatore esclama ironicamente “non c’è
più religione!” (A. Maggi). Ed è vero: non c’è più religione nel senso che con la nascita
di Gesù non ci sono più schemi religiosi, ma Dio si rivela come Colui che non può
essere contenuto in nessuno schema. Luca anticipa nella scena dei pastori il
contenuto del suo Vangelo. La “buona notizia” che ora viene recata dall’Angelo del
Signore è che il Messia non è venuto a castigare, ma a salvare. E la grande gioia di
questa buona notizia non è solo per i pastori, ma per tutto il popolo, anche per noi.
E che si tratta di una buona notizia i pastori lo sperimentano subito. Infatti, essi
non hanno alcun merito per ottenere la salvezza, ma il Signore li avvolge nella sua
luce non perché ne siano degni, ma perché Dio è solo amore (1 Gv 4,8), e non ha altra
maniera di comunicare con gli uomini che non sia l’effusione del suo amore.
I pastori si esortano a vicenda: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo
avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15). Addirittura è lo stesso
figlio di Dio fatto carne a farsi pellegrino verso le sue creature. Anch’essi non
indugiano. Con entusiasmo accolgono l’avvenimento che il Signore ha fatto conoscere
loro e vanno a Betlemme, vanno incontro a quel Dio che li ha invitati a fare festa per
la nascita di suo Figlio. L’annuncio del Vangelo è sempre una festa, una gioia: quando
ci si scopre destinatari di un annuncio da parte di Dio come non gioire?
Come i pastori, anche noi dobbiamo saper riconoscere, nell’umiltà e nella semplicità
di tutto ciò che è profondamente umano i segni certi attraverso cui Dio si
manifesta a noi.
Conoscere Gesù dà alla nostra vita uno stile missionario, di testimonianza
evangelizzatrice. Dopo avere visto il Bambino i pastori riferiscono «ciò che del
bambino era stato detto loro» e «tutti quelli che udivano si stupirono delle cose
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dette loro dai pastori». In successione, i pastori vedono, testimoniano e glorificano
Dio: è questo che siamo invitati a fare anche noi. Condividendo, inoltre, “le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di
tutti coloro che soffrono” (cfr. Gaudium et Spes 1), siamo chiamati a portare
ovunque il Vangelo della vita.
3. I
MAGI SEGUONO LA STELLA E VANNO AD ADORARE
GESÙ
Dal Vangelo secondo Matteo (2, 1-12)
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi
vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re
dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».
All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme.
Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro
sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di
Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra
di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti
uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode,
chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in
cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e
informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo
sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed
ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si
fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella,
provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con
Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e
gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare
da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Il cammino di fede dei magi è il cammino di ogni cristiano in cerca del volto di Gesù.
Quello di vedere Dio era stato un desiderio intenso e struggente che traspare dalla
pagine dell’Antico Testamento, ma che rimase insoddisfatto, perché Dio non l’ha mai
visto nessuno. Solo l’incarnazione ha permesso questa possibilità di contemplazione
del volto. Solo con l’incarnazione il verbo «ascoltare» tipico dell’Antico testamento
(cfr. Dt 6,4) si è coniugato con il verbo «vedere» tipico del Nuovo Testamento.
I magi sono personaggi misteriosi e anonimi: ignoriamo quanti fossero e da dove
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venissero con precisione. Camminano nel buio della notte guidati da una strana
stella, scompaiono nel buio della notte dopo un sogno ammonitore. Dai documenti
antichi sappiamo che «i magi» erano personaggi di corte e di scienza, studiosi di
astronomia, ma anche compositori di oroscopi e profezie ricavati dall’osservazione
del corso delle stelle. Godevano di grande considerazione presso i re orientali, che li
consultavano spesso nella conduzione degli affari correnti e nella programmazione
di guerre. Questi curiosi personaggi si presentarono un giorno sotto le mura di
Gerusalemme con una domanda precisa: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?
Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2). Erano
veri cercatori di Cristo, il Messia promesso ai giudei. Uomini in cammino, pellegrini
con lo sguardo in cielo e i piedi ben piantati in terra. Avevano percorso giorni e
giorni di viaggio incerto, faticoso e ostinato. Un cammino disseminato anche di
errori, smarrimenti e incertezze. Ma non avevano avuto paura. Chi si mette in
cammino per cercare Di non ha mai paura, anche se affronta difficoltà e fallimenti.
Erano guidati dalla luce di una stella, messaggero divino, eppure si accorgono di aver
sbagliato città. Sapranno dopo, che la vera città di nascita del re dei giudei era
Betlemme, non Gerusalemme. Riuscirono a mettere in moto il Sinedrio, cenacolo di
dotti, studiosi di teologia e di storia patria. Sono coloro che conoscono la legge di
Dio e la storia della salvezza, ma non riescono a leggere i segni di Dio. Indicano la
strada agli altri, ma loro non si muovono. Nessun interesse di fede li spinge. È un
rischio che corriamo anche noi: a volte pensiamo di sapere tutto di Dio che non ci
accorgiamo quando ci sta vicino, perché Dio è più grande della nostra idea che ci
siamo fatti di lui. Gesù viene per farci incontrare Dio, non per istruirci attraverso
dissertazioni accademiche.
Ma questa vicenda ci dice anche un’altra cosa: è la Parola di Dio la bussola del
nostro cammino. Se possiamo intuire la presenza di Dio anche attraverso la
contemplazione del creato (la stella), è solo la sua Parola che ci orienta
inequivocabilmente verso di lui. Per trovare personalmente Dio non basta la ragione,
ci vuole la rivelazione. Questa la fornisce solo l’ascolto della Parola scritta per
opera dello Spirito Santo. Solo Dio può raccontare e descrivere se stesso e le
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faccende che lo riguardano.
È importante anche per noi sostare e interrogarsi sul cammino da compiere. I magi,
attraverso la contemplazione del creato, si avvicinarono al vero Dio ma non potevano
raggiungere la piena rivelazione del Messia semplicemente dalla natura: si trattava,
e si tratta, di un segreto racchiuso nelle Sacre Scritture.
Mentre essi ricercavano con impegno la luce, docili all’ispirazione divina, i Giudei, in
possesso delle scritture, non li seguirono per rendere omaggio al Messia.
Ma c’è anche un altro elemento importante. I magi, quelli che la religione del popolo
d’Israele dichiarava esclusi dalla salvezza, furono i primi a rendersi conto della
presenza di Dio nell’umanità e a informare i Giudei, i quali, anziché rallegrarsene, si
allarmarono. I magi rappresentano l’umanità intera: Dio è venuto nel mondo non per
alcuni, ma per tutti. Ed è a tutti che noi siamo chiamati ad annunciare questa buona
notizia. Ognuno è atteso da Dio, da un Dio che vuole godere della compagnia di
ognuno regalandoci la sua compagnia. È uno scambio tutto a nostro favore! Ma
questo ci dice invita anche a non avere pretese nel cammino di fede: i membri del
Sinedrio conoscevano la Parola di Dio, eppure che era nato il Messia lo dicono loro
degli stranieri, degli “infedeli”.
I magi portano in dono oro, incenso e mirra. Tra le tante interpretazioni date di
questi doni c’è chi vede nell’oro il simbolo dell’amore che rende veramente liberi e
fa vivere da re e non da schiavi; nell’incenso il simbolo della preghiera, il dialogo con
Dio, l’incontro con Colui che è la “roccia” con cui costruire con sicurezza e fiducia la
nostra vita; nella mirra il simbolo della capacità di affrontare con coraggio, con
forza, con amore il dolore e il sacrificio per realizzare ogni progetto di vero bene
(G. C. M. Bregantini).
4. Alla fine della storia
La “storia di Natale” del Vangelo ci invita a guardare la nostra vita partendo da
alcune angolature:
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
fiducia in Dio: Giuseppe e Maria si sono fidati di Dio. E io?

stupore: i pastori e i Magi si sono stupiti di Dio, hanno avuto la capacità di
vedere la presenza di Dio oltre quello che percepivano con i loro occhi. E io,
mi limito a usare gli occhi del corpo o uso anche quelli della fede? Fuori di
metafora, sono capace di vedere Dio presente e all’opera nella mia vita?
Riesco ancora a meravigliarmi delle grandi cose di Dio?

movimento: Maria e Giuseppe, i pastori e i magi si muovono; tutti, nella nostra
storia, sono in movimento. E io, rimango fermo nell’idea che mi sono fatto di
Dio o mi metto in moto per andare dove Dio mi vuole? Principalmente si
tratta di “movimento spirituale”. Dio non ci fa stare fermi, ma nemmeno ci
lascia andare senza meta: la nostra meta è l’incontro con Gesù, come è stato
per Giuseppe, Maria, i magi e i pastori. E allora ci chiediamo: qual è la nostra
meta? Qual è la nostra stella-guida? Sulla base di cosa orientiamo le nostre
scelte?

coraggio: nel cristiano il coraggio non è incoscienza, ma nasce dalla fiducia in
Dio. Ci vuole del coraggio a mettersi in movimento quando si ha una moglie
prossima al parto, a sfidare i benpensanti sposando una donna che dice di
essere rimasta in cinta senza avere avuto rapporti sessuali, a programmare
un lungo e pericoloso viaggio solo per adorare un bambino. Eppure, quando
sappiamo di avere Dio con noi, quando sappiamo di vivere all’interno di un
progetto che Lui ha pensato per noi, allora il coraggio ce l’abbiamo perché
«se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?».
Sussidi di riferimento: O. BATTAGLIA, Quando Dio si fece bambino. Il Natale nel Vangelo di Matteo,
Assisi, Cittadella, 2008; G. C. M. BREGANTINI, La strada e la stella, Leumann 2006; A. MAGGI, Non
ancora Madonna. Maria secondo i Vangeli, Assisi 2004.