TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA tratto

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOSAVIO Giovanni - Presidente
Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere
Dott. RORDORF Renato - rel. Consigliere
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere
Dott. PANZANI Luciano - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
CA.AL S.R.L., in persona dell'amministratore unico sig. I. P.F., elettivamente domiciliato in ROMA, via Lazio 9, presso
l'avv. STAGNO D'ALCONTRES Alberto, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale in data 4 dicembre 2002
per atto di notaio Angelo Cascetta (rep. n. 55115);
- ricorrente contro
i sigg.ri O.R. ed M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, piazza Sallustio 9, presso l'avv. Battolo Spallina, rappresentati
e difesi dall'avv. LIUZZO Giuseppe, giusta procura speciale in margine al controricorso;
- controricorrenti avverso la sentenza della Corte d'Appello di Messina, depositata in data 13 agosto 2002;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza dal Consigliere Dott. Renato RORDORF;
udito, per il controricorrente, l'avv. Giuseppe LIUZZO, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAFIERO Dario, che ha concluso per il rigetto del
ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I sigg.ri M.A. e O.R., titolari del 12,5% ciascuno del capitale sociale della CA.AL. s.r.l., con atto notificato il 23 dicembre
1996 citarono detta società in giudizio dinanzi al Tribunale di Patti e proposero, tra le altre, una domanda volta ad
ottenere la restituzione di finanziamenti da essi effettuati in favore della medesima società.
Questa si costituì in giudizio e resistete alla domanda assumendo che le somme delle quali era stata chiesta la
restituzione erano state a suo tempo versate dagli attori nelle casse sociali non già a titolo di finanziamento, bensì in
conto capitale, e che pertanto tali somme non avrebbero potuto essere restituite se non all'esito della liquidazione del
patrimonio della società.
Il Tribunale, premessa la distinzione tra versamenti operati dai soci in favore della società a titolo di mutuo e versamenti
in conto capitale, ritenne che nella specie ricorresse la prima ipotesi.
Perciò accolse la domanda e condannò la società convenuta a restituire a ciascuno degli attori la somma di L.
97.079.290.
Chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dalla CA.AL., la Corte d'Appello di Messina, con sentenza depositata il
13 agosto 2002, confermò integralmente la decisione di primo grado. Osservò, infatti, che correttamente il Tribunale,
sulla scorta della dizione adoperata nel bilancio sociale ("debiti verso altri finanziatori"), aveva attribuito natura di mutuo
al rapporto di finanziamento intercorso tra i soci e la società; e soggiunse che tale conclusione appariva rafforzata dalla
dizione dell'art. 22 dello statuto sociale, ai sensi del quale i finanziamenti erano stati eseguiti, nonchè dalle finalità
dell'operazione, volta a consentire alla società la costruzione di un complesso immobiliare ed a provvedere alla propria
normale attività d'impresa senza far ricorso a forme di mutuo ipotecario.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la CA.AL., prospettando due motivi di doglianza, ai quali replicano con
controricorso, illustrato anche da successiva memoria, i sigg. M. ed O..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La ricorrente, lamentando nel primo motivo la violazione dell'art. 2495 c.c., sostiene che la Corte d'Appello avrebbe
trascurato di considerare come i versamenti eseguiti dai soci di una società a responsabilità limitata al di fuori dello
schema giuridico-formale della procedura di aumento del capitale sociale, in assenza di esplicita deliberazione
assembleare, siano pur sempre da imputare al capitale di rischio e non diano perciò luogo a crediti di restituzione
esigibili durante la vita della società.
Sostiene poi, nel secondo motivo, che sarebbe insufficiente e contraddittoria la motivazione dell'impugnata sentenza
nella parte in cui ha ravvisato la prova della natura dei versamenti in esame - considerati alla stregua di prestiti e non di
versamenti in conto capitale - facendo leva sulla denominazione al riguardo adoperata nel bilancio della società, senza
però considerare che in tale posta non figurano indicati nè i nomi dei finanziatori, nè l'ammontare delle somme a
ciascuno di essi specificamente riferibili, nè la causale di quei versamenti, nè le altre condizioni del preteso prestito.
2. Il ricorso è infondato.
2.1. E' vero che i cosiddetti versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non
incrementando immediatamente il capitale sociale e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica
propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento
del predetto capitale), hanno tuttavia una causa che; di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile invece a
quella del capitale di rischio; con la conseguenza che essi non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della
società e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti
dell'eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione (cfr. Cass. 3 dicembre 1980 n. 6315; Cass. 19 marzo 1996 n.
2314; Cass. 14 dicembre 1998 n. 12539; Cass. 6 luglio 2001 n. 9209; nonchè, con riguardo a società in nome collettivo,
Cass. 21 maggio 2002, n. 7427).
Ciò, tuttavia, non esclude che tra la società ed i soci possa viceversa esser convenuta l'erogazione di capitale di credito,
anzichè il conferimento di capitale di rischio, e che quindi i soci possano effettuare versamenti in favore della società a
titolo di mutuo (con o senza interessi), riservandosi in tal modo il diritto alla restituzione anche durante la vita della
società; ed è questione d'interpretazione della volontà negoziale delle parti lo stabilire se, in concreto, un determinato
versamento tragga origine da un mutuo o se invece sia stato effettuato quale apporto del socio al patrimonio dell'impresa
collettiva.
Fermo allora restando che è a carico dell'attore l'onere di dimostrare l'esistenza della causa petendi posta a fondamento
della propria domanda, l'accertamento operato dal Giudice di merito in ordine alla concreta riconducibilità della singola
fattispecie all'una o all'altra delle due suindicate figure negoziali non è censurabile in cassazione, se non per eventuale
violazione delle regole giuridiche da applicare nell'interpretazione della volontà delle parti del rapporto o per eventuali
carenze o vizi logici della motivazione che quell'accertamento sorregge.
2.2. Nel caso in esame, la Corte Territoriale non si è sottratta al summenzionato compito di motivato accertamento ed ha
fondato la propria convinzione - secondo cui nella specie si tratta di versamenti a titolo di mutuo e non di conferimenti
atipici di capitale di rischio - sia sulla denominazione in proposito adoperata nel bilancio della società, approvato dai soci,
sia sulle indicazioni di una clausola dello statuto sociale, cui quei versamenti si ricollegano, sia sulle finalità pratiche al
soddisfacimento delle quali i versamenti medesimi appaiono esser stati diretti e sugli interessi che vi erano sottesi.
Le critiche che la ricorrente muove a tale articolata motivazione non sono condivisibili.
Si può convenire sul rilievo per cui il riferimento alla denominazione con la quale i versamenti siano stati annotati nella
contabilità sociale, in difetto di più specifiche indicazioni circa la natura e le condizioni del finanziamento, potrebbe, da
solo; non bastare a fornire lumi sufficienti in ordine alla natura dell'atto negoziale in tal modo eseguito, stante anche la
varietà e la relativa imprecisione che sovente caratterizzano tali denominazioni ed annotazioni contabili. Non può tuttavia
ignorarsi che la collocazione in bilancio dovrebbe essere ben diversa nelle due ipotesi considerate, giacchè i
conferimenti in conto capitale concorrono a costituire una riserva di patrimonio netto, mentre i versamenti a titolo di
mutuo vanno ovviamente iscritti tra i debiti:
di talchè la circostanza che nel bilancio della società, a suo tempo approvato dai soci senza obiezioni, quei versamenti
figurino appunto collocati in una voce di debito (e non di patrimonio netto), è certamente un elemento dal quale il Giudice
può trarre argomento per ricostruire la natura dell'operazione finanziaria di cui si discute.
Tanto più poi deve ammettersi la legittimità logica dell'argomento che il Giudice di merito trae dall'appostazione di
bilancio quando, come nella specie, esso si accompagni anche a considerazioni ulteriori - desunte dal tenore di clausole
statutarie o dalle finalità pratiche al cui perseguimento il finanziamento appare essere stato preordinato - con riferimento
alle quali nessuna critica precisa e decisiva risulta esser stata formulata da parte ricorrente.
Nè può essere in questa sede presa in considerazione l'obiezione secondo cui la già più volte richiamata appostazione
di bilancio non sarebbe sufficientemente precisa, onde non si saprebbe neppure riferirla con sicurezza ai finanziamenti di
cui in questa causa si discute. Qui può solo prendersi atto che, viceversa, la Corte di merito ha con certezza identificato
in quell'iscrizione di debiti in bilancio i finanziamenti operati dai soci in favore della società che ora formano oggetto della
pretesa restitutoria per cui è causa.
La stessa ricorrente mai sostiene di avere posto in discussione, nel corso del giudizio di merito, tale identificazione, nè
comunque indica in quale fase ed in quale atto difensivo lo avrebbe eventualmente fatto: sicchè appare evidente che la
richiesta di un diverso accertamento su questo punto di fatto non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità. 3. Il
ricorso, in conclusione, deve essere rigettato, con conseguente condanna della società ricorrente al rimborso delle spese
processuali sostenute nel presente giudizio di legittimità dai controricorrenti, che vengono liquidate in Euro 3.500,00
(tremilacinquecento) per onorari ed Euro 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro
3.500,00 (tremilacinquecento) per onorari ed Euro 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori
di legge.
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2006