ANNA ALFIERI - Società Tarquiniese Arte e Storia

ANNA ALFIERI
IL PACCO TURCHINO
Reliquie e reliquiari nella Cappella di Palazzo Bruschi Falgari in Corneto
Nei magazzini del Palazzo dei Priori a Tarquinia esistono molti documenti che, da poco acquisiti
dalla Società Tarquiniense d’Arte e Storia, attendono di essere catalogati. Sono scatole chiuse,
registri non controllati, mappe arrotolate, planimetrie di palazzi gentilizi e manoscritti da decifrare.
In questo mucchio di cose ingiallite dal tempo spiccava un vistoso pacco turchino legato con uno
spago e un po’ strappato in un angolo come se una persona curiosa avesse voluto sbirciarne il
contenuto e ne fosse rimasta delusa. L’insolito pacco conteneva, invece, tre plichi ben distinti tra
loro, legati separatamente con una cordicella blu, segnati con bella grafia ottocentesca come Avvolto
1, Avvolto 2, Avvolto 3 e composti da decine di grandi fogli gravati da pesanti stemmi cardinalizi ed
episcopali.
Si trattava, sorprendentemente, degli incartamenti che certificavano l’autenticità delle reliquie di
Santi Cristiani, raccolte fra il XVIII e il XIX secolo dai Bruschi Falgari e un tempo conservate in tre
credenzini a muro nella cappella del loro palazzo di Corneto.
Con questi attestati i cardinali di Santa Romana Chiesa – e tra essi Giuseppe Albani, Giulio Della
Somaglia e Marcantonio Colonna -, i vescovi, gli abati e i superiori religiosi a ciò autorizzati dalla
Congregazione delle Indulgenze e delle Reliquie, specificavano la natura dei venerabili resti e, per
scongiurare ogni tipo di falsificazione e di manomissione, fornivano anche la dettagliata descrizione
dei contenitori in cui essi stessi li avevano sigillati con una goccia di cera rossa ispanica. Un vero e
proprio tesoro, composto da piccoli reliquiari semplici o barocchi, minuscoli capolavori di gioielleria
sacra, come quelli descritti con la forza di una testimonianza storica da Giuseppe Tomasi di
Lampedusa nell’ultimo capitolo del suo “Gattopardo”, dove la cappella del palazzo dei principi di
Salina a Palermo appariva tappezzata da «cornici d’argento scolpito e di argento liscio, cornici di
rame e di corallo, cornici di tartaruga, di filigrana, di legni rari, di bosso, di velluto rosso e di velluto
azzurro.
Cornici grandi e minuscole, ottagonali, quadrate, tonde e ovali che valevano un patrimonio». 1
Nessuna cosa relativa alle dimore della rustica Corneto ottocentesca potrebbe essere paragonata
alla grandiosità dei palazzi Salina-Lampedusa ma, in fatto di reliquie e reliquiari, questa volta il
confronto va, eccezionalmente, tutto a favore dei Bruschi-Falgari perché, se nella cappella
palermitana si custodivano settantaquattro oggetti sacri, in quella cornetana se ne veneravano,
raccolti in almeno centosettanta teche, quasi trecento: dai fili dell’abito di Sant’Anna, madre di Maria,
alle schegge del bastone di San Giuseppe e al velo della Madonna, dal legno della culla di Gesù
Bambino ai frammenti del capo decollato di Giovanni Battista; dalla polvere di una delle pietre che
lapidarono Santo Stefano e dalla limatura delle catene di San Pietro, alle ossa dei martiri delle
catacombe di Santa Priscilla; dal saio di Francesco d’Assisi a qualunque cosa avesse mai sfiorato i
severi santi della Controriforma.
1
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1957 – pag. 209.
Inoltre, nelle formule di autenticazione impresse sulle carte ritrovate nel pacco turchino, si affermava
chiaramente che tutte le reliquie Bruschi Falgari godevano del privilegio di poter essere esposte alla
venerazione dei fedeli “in quacumque Ecclesia, Oratorio, Cappella aut Sacello, ad majorem Dei
gloriam”, e che alcune di esse erano così preziose da aver avuto bisogno di una speciale dispensa
dalla Congregazione per essere traslate “extra urbem”, da Roma a Corneto.
Il foglio più antico in nostro possesso risale al 1728 e si riferisce ai frammenti della Vera Croce di
Gesù, sigillati in una teca di cristallo e di argento. Il documento, emanato a nome di Adriano
Sermattei, patrizio di Assisi, prelato domestico di Benedetto XIII e Vescovo di Viterbo e Tuscania, è
l’unico tra tutti a contenere anche una dedica, aggiunta molti anni dopo, quando la straordinaria
reliquia passò dalle mani di Costanza Cecchini monaca nel convento di S. Rosa di Viterbo, a quelle
della nobildonna cornetana Maddalena Avvolta, consorte di Luca Antonio Bruschi Falgari. Dedica
importante perché ci indica, in quello di Maddalena, il probabile nome dell’iniziatrice dell’ampia
raccolta reliquiale della quale ci stiamo interessando.
I Bruschi erano apparsi in Corneto intorno al 1630 e già nel 1670 facevano parte, a pieno titolo, di
quel patriziato locale devoto e papalino che si sentiva legato profondamente alla terra e che da solo
gestiva tutta la vita politica ed economica della comunità.
La famiglia, considerata molto benestante già nel XVII secolo, divenne veramente ricca nella
seconda metà del ‘700, quando proprio Luca Antonio, marito di Maddalena, in un turbinio di vendite,
di acquisti e di permute oculate, accorpò vigneti, oliveti, orti, giardini e canneti; collegò tra loro grandi
appezzamenti di terra destinandoli alla coltivazione estensiva e razionale dei cereali e ricevette
sostanziose donazioni terriere da alcune famiglie che in quel tempo andavano estinguendosi. Da
una di esse, i Falgari, raccolse anche il prestigioso cognome da aggiungere a quello dei Bruschi, e
dalla Camera Apostolica ebbe in enfiteusi perpetua alcune delle tenute che avrebbero costituito, per
quasi duecento anni, la parte più redditizia del patrimonio agricolo della sua casata 2.
Per ottenere tutto questo a Corneto, città paradigmatica della profonda periferia rurale e bigotta dello
Stato Pontificio governato esclusivamente da ecclesiastici, si doveva essere, o almeno apparire, un
cristiano zelante, perciò le reliquie che affluivano nella sua dimora come un torrente in piena
svolgevano, per Luca Antonio, una triplice funzione: conclamavano la religiosità domestica di sua
moglie Maddalena, lo accreditavano a Roma come perfetto credente quindi come suddito fedele, e
dimostravano ai Cornetani, se mai ce ne fosse stato bisogno, la benevolenza di cui egli godeva
presso i potenti prelati della Curia Romana.
Luca Antonio ebbe probabilmente un contatto privilegiato con Clemente XIV, solido protettore
dell’allora emergente movimento religioso dei Passionisti.
Entrambi erano, infatti, molto legati a Domenico,
Nicola e Maria Crocifissa Costantini, i devoti
cittadini cornetani che spesso ospitavano nella loro dimora il fondatore della nuova Congregazione,
2
Per conoscere meglio Luca Antonio Bruschi Falgari, leggere: Vittorio Naccarato, Luca Antonio Bruschi
(1732-1802) un operoso nobiluomo della città di Corneto, in “Rivista Storica del Lazio”, anno X n° 16/2002
pagg. 71-92, e Vittorio Naccarato, La città e l’agro di Corneto nel XVIII secolo, Comune di Tarquinia, 2004.
San Paolo della Croce, che furono testimoni oculari delle sue estasi e che a Corneto fecero erigere a
proprie spese il primo monastero delle adoratrici della SS.ma Passione.3
Nella realtà quotidiana, Luca Antonio e il piissimo Domenico Costantini erano soci in affari perché
condividevano l’affitto e l’impegnativa gestione di una grande tenuta agricola 4, ma il rapporto
spirituale tra le loro famiglie fu così intenso che Maddalena, moglie di Luca Antonio, ebbe l’onore di
essere una delle Cinque Signore della Città scelte nel 1771 per assistere Maria Crocifissa, sorella di
Domenico e futura Beata, nella sua vestizione monacale e per accompagnarla in processione alle
soglie della sua durissima clausura5.
La fama delle sante reliquie conservate con devozione nella loro cappella di palazzo giovò
concretamente al prestigio dei Bruschi, soprattutto in pieno periodo giacobino, quando, negli anni del
Terrore, giunse – via mare – la notizia che la Francia rivoluzionaria nata dall’Illuminismo stava
procedendo alla distruzione di tutti gli oggetti ecclesiastici, scapolari, incensieri, tabernacoli,
ostensori, croci e immagini sacre.
Il rispetto dei concittadini nei loro confronti aumentò quando si venne a sapere, con raccapriccio, che
la venerata statua di Notre Dame des Ardilles era stata ghigliottinata nella piazza di Saumur e che,
nella notte di Natale del ’93, si era ballato intorno ad un falò alimentato dai numerosissimi resti dei
Santi trafugati dalla Cattedrale di Tours.
L’accanimento dei francesi contro le reliquie che consideravano il simbolo della barbarie medievale e
in particolare contro quelle della Passione che costituivano la fonte del potere legale e feudale di
coloro che le possedevano, riempì di sgomento l’Europa cristiana e scatenò anche nei Cornetani,
che temevano il propagarsi dell’ateismo rivoluzionario nello Stato Pontificio, l’incubo dell’imminente
distruzione della Chiesa, della fine della religione cattolica e perfino della eliminazione cruenta della
persona fisica del papa, come diretta punizione dei peccati da loro commessi. Questa paura
escatologica conflagrò subito in una strana serie di prodigi mariani, perché nelle chiese di Corneto le
immagini della Madonna tornarono – come era già accaduto in altri tempi difficili – ad aprire,
chiudere e muovere gli occhi, mentre i gigli fiorivano miracolosamente fuori stagione non solo nei
campi, ma anche sugli altari e nelle edicole poste agli angoli delle strade 6.
Il clero locale ampliò l’inquietudine generale e, indicando nei giacobini i veri nemici che intendevano
sradicare la memoria di Gesù e dei suoi Santi distruggendone le reliquie, trasformò l’angoscia dei
fedeli nel sotterraneo ma persistente sentimento antifrancese e controrivoluzionario che in città si
sarebbe protratto ancora per lungo tempo.
Di conseguenza, la Repubblica del 1798-1799, che avrebbe potuto rappresentare un confronto
inedito e produttivo con i processi di modernizzazione politica, sociale ed economica che si
andavano attuando in Europa, nacque in Corneto nel segno della contraddizione e del
compromesso.
3
Autori vari, Il monastero delle Monache Passioniste nel II centenario della fondazione, Tarquinia, Tipografia
Giacchetti, 1971.
4
Si trattava della tenuta della Civita appartenente all’Arciospedale di Santo Spirito.
5
Da un manoscritto conservato nel Monastero delle Monache Passioniste di Tarquinia.
6
Sui miracoli mariani e la loro funzione consolatoria e anti francese, Cattaneo 1995 in Claudio Canonici, Le
nostre antiche e savie leggi repubblicane, La Repubblica del 1798-99 a Corneto, Comune di Tarquinia,
2002.
I Cornetani furono i primi nel Patrimonio di San Pietro ad alzare il vessillo della rivoluzione, cioè
l’albero della libertà7 ma, paradossalmente, uno dei pochi a trarre vantaggio dall’avventura giacobina
fu proprio l’antidemocratico, ma rassicurante custode di reliquie cristiane, Luca Antonio Bruschi
Falgari che nel 1798 aggiunse al suo patrimonio, per soli 312 scudi, un’estesissima tenuta, messa
sul mercato in seguito alla vendita dei beni immobiliari sottratti dai francesi agli ordini religiosi da loro
disciolti8.
Luca Antonio morì nel 1802 e i suoi figli seppero affrontare le successive vicende bonapartiste in
prudente equilibrio tra le idee liberali francesi alle quali dovevano a malincuore adattarsi e quelle
conservatrici, paternalistiche e pontificie che meglio si confacevano al loro carattere e alla loro
cultura, perciò mantennero intatto il grande patrimonio ereditato dal padre.
Anzi, nei difficili tempi napoleonici, anche quando Pio VII era lontano e prigioniero, la loro raccolta si
arricchì di ben 65 reliquie. Quelle di San Francesco Caracciolo, di Sant’Angela Merici e di Santa
Colette Boilet arrivarono appena due anni dopo le rispettive canonizzazioni.
In quel periodo, molti preziosi reperti venivano recapitati a mano direttamente dal vicino palazzo
episcopale. In tal caso il mittente – nonché il garante della loro autenticità – era il Cardinale Jean
Siffrein Maury, vescovo di Corneto e Montefiascone, personaggio complesso e avventuroso che, con
l’esprit de finesse e con la grandeur dei francesi, donò ai Bruschi Falgari gli ex ossibus di tutti i santi
protettori di Corneto, che non sono pochi, raccolti in una sola e piccola teca di cristallo e quelli di tutti
gli apostoli di Gesù, compressi in un minuscolo reliquiario dal quale aveva escluso, per decenza,
solo Giuda Iscariota.
Il 12 gennaio 1808 giunsero a Palazzo Bruschi, provenienti da Roma e inviate tutte insieme, a nome
dell’agostiniano Bartolomeo Menochio Vescovo Porfiriense, le reliquie più sacre: quelle, sublimi,
degli strumenti della Passione, cioè della colonna della fustigazione, dei flagelli, della corona di
spine, del legno della croce, dei chiodi, della spugna che fu imbevuta nell’aceto e della lancia che
trafisse il costato di Cristo.
***
Contemplare, toccare, possedere le reliquie evangeliche e quelle della Passione era una esperienza
di inesprimibile valore spirituale. Esse suscitavano e suscitano sentimenti altissimi di commozione e
venerazione, perché rendono tangibile il momento più misterioso della cristianità, quello in cui il figlio
di Dio morì per redimere gli uomini dai loro peccati. Reliquie contese da re e imperatori che dal loro
possesso facevano derivare direttamente la sacralità del loro potere9. Reliquie taumaturgiche che
vincevano tutti i mali, scacciavano i demoni, fermavano le convulsioni, rendevano la vista ai ciechi, la
parola ai muti, il passo agli storpi, la speranza ai sofferenti, la consolazione agli afflitti, la fede agli
increduli, perciò portatrici di una storia straordinaria che, attraversando i secoli, si era snodata nelle
strade percorse e ripercorse dai pellegrini, sulle rotte di tutti i mari, nei campi di battaglia e sotto le
7
Ibidem.
La tenuta, della quale Luca Antonio tornò ad essere enfiteuta, fu restituita alla Camera Apostolica dopo la
caduta della Repubblica.
9
Per sapere di più sulle connessioni tra potere regale e possesso delle reliquie, specialmente quelle della
Passione, leggere: Chiara Mercuri, Corona di Cristo, corona di re, la monarchia francese e la corona di spine
nel Medioevo, Edizioni di Storia della Letteratura, Roma 2004.
8
mura delle città assediate, conquistate o perse dai Crociati. Storia controversa, spesso mistificata e
snaturata dalla sete di dominio, dal desiderio di prestigio, dalla avidità di alcuni e dalla credulità di
molti altri.
Dopo la Resurrezione, Gesù ascese in cielo con il suo corpo intero e perfetto. Eppure, per lucro o
per ingenua passione, qualcuno riuscì ad immaginare che durante la sua vita avesse lasciato sulla
terra numerose tracce di sé: i suoi denti da latte, i capelli, la barba, le unghie, la lacrima versata
davanti al sepolcro di Lazzaro e perfino il soffio del suo respiro di neonato raccolto in una ampollina
da sua madre Maria.
I resti della sua circoncisione, cioè il Santo Prepuzio annoverato dalla chiesa tra le reliquie
indiscrete, venivano custoditi in provincia di Viterbo, a Calcata, ma per miracolo essi si trovavano,
contemporaneamente in altri quattordici luoghi, tra cui Hildersheim in Sassia, Chartres in Francia e
Santiago di Compostela in Spagna10. A Genova si conservava uno dei piatti su cui era stata servita
l’Ultima Cena; a Venezia la pietra sulla quale fu recisa la testa di Giovanni Battista e a Roma, tra le
migliaia e migliaia di sacri reperti, si potevano contemplare la colonna del Tempio di Salomone alla
quale Gesù si sarebbe appoggiato quando pregava, uno dei trenta denari con cui Giuda era stato
pagato dal Sinedrio e, in Laterano, perfino il dito con il quale Tommaso aveva toccato la piaga del
Signore per accertarsi che fosse davvero risorto.11 Infine, nella chiesa di San Silvestro in Capite
c’era la cosa più singolare del mondo, cioè l’immagine di Cristo dipinta da se stesso.12
Dopo il trauma della Riforma, «i Romani Pontefici e i Concili generali, soprattutto il Tridentino, si
studiarono con santissime leggi di emendare per quanto fosse possibile le corruttele e gli abusi dei
sacrileghi spacciatori di cose false».13 Perciò, «provvidamente, affinché i fedeli non fossero più
ingannati dalle frodi degl’impostori», Clemente VIII istituì la Congregazione delle Reliquie e delle
Indulgenze che venne, poi, perfezionata nel 1669 da Clemente IX.
Al tempo della raccolta reliquiale dei Bruschi Falgari, la Congregazione, ora soppressa, era
composta dal Cardinale Prefetto, da altri dieci cardinali, “celebri per pietà e dottrina”, dal prelato
segretario, dal suo sostituto e da “ventinove dotti che invigilavano affinché venerate ed esposte
fossero solo le vere reliquie di quelli che Santi riconosceva la Chiesa”. 14
***
Ma torniamo ai fatti cornetani. Dopo la caduta di Napoleone, Pio VII rientrò a Roma dall’esilio. Gli
ordini religiosi disciolti dal regime bonapartista vennero ricostituiti e i Passionisti ripresero a predicare
le loro Missioni che a Corneto, città prediletta dal loro mistico fondatore, S. Paolo della Croce, furono
più accese ed esaltate del solito. Il cardinale francese Jean Siffrein Maury, che nel frattempo era
diventato anche Arcivescovo di Parigi e Conte dell’Impero, venne “degradato” e rinchiuso in Castel
Sant’Angelo.
Il suo successore nell’episcopato di Corneto e Montefiascone fu il severo Bonaventura Gazola, un
Minore Riformato convinto restauratore dell’ordine pontificio, anima penitenziale e rigorosa, che in
10
Patrice Boussel, Des reliques et de leur bon usage, Parigi, Editrice Ballant, 1971.
Davide Silvagni, La corte pontificia e la Società Romana nei secoli XVIII e XIX, vol. II, pag. 222, Roma,
Biblioteca di Storia Patria, 1971.
12
Ibidem.
13
Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. XIV, pagg. 217-219 Tipografia
emiliana, 1861-62.
14
Ibidem.
11
quaresima faceva chiudere le botteghe e le osterie della sua diocesi affinché a nessuno mancasse il
tempo di frequentare le funzioni parrocchiali.
La sua indimenticata austerità religiosa non gli impedì, però, di autenticare, tra le molte reliquie di
tutti i tipi che inviava a piene mani ai Bruschi, perfino il latte della Madonna e di collocarlo, con una
incomparabile sintesi evangelica, in una teca che già conteneva alcuni frammenti della Santa Croce.
Molte cose mutarono, invece, con il trascorrere degli anni.
Nella seconda metà dell’Ottocento fiorì, specialmente in Italia, un forte interesse per le reliquie. Ne
nacque una nuova disciplina, l’Archeologia Cristiana, che produsse grandi maestri come Giovan
Battista De Rossi, Orazio Marucchi, Mariano Armellini, Enrico Stevenson e Louis Duchesse,
segnando l’avvio di una ricca stagione di studi15. Eppure, gli ultimi documenti di autenticazione in
nostro possesso si fermano improvvisamente al 23 maggio 1845 e si riferiscono ad alcune reliquie
minori, di quelle che la chiesa definiva rappresentative perché costituite non dai corpi dei santi, ma
delle cose che con essi erano state a contatto. Si trattava di particelle del velo di Santa Rita da
Cascia, di alcuni frammenti del sepolcro di San Francesco Saverio, e di minuscole frazioni della
pianeta di San Nicola da Tolentino e della veste di Sant’Ignazio di Loyola.
Non sappiamo con certezza se questi siano stati realmente gli ultimi oggetti sacri affluiti nella
cappella dei Bruschi Falgari, ma è indubbio che dopo il 1845 nessuno più ritenne opportuno
aggiornare gli incartamenti conservati nella loro cassettiera foderata di damasco verde. Anzi,
qualcuno, nel chiudere definitivamente con la cordicella blu i tre plichi contenenti i documenti, si
accorse che nei credenzini della cappella mancavano già cinque reliquie e annotò su uno degli
avvolti che quella di Santa Maria Maddalena penitente «si era data alle Reverendissime Religiose
Benedettine di Santa Lucia per esporla nel giorno della sua festa li 22 di luglio», che quella di San
Venanzio martire era «sul corpo del signor Filippo Bruschi» e che delle ultime tre si erano perse le
tracce.
In quel periodo, le redini della famiglia erano saldamente in mano a Giustina Bruschi Falgari, sorella
del cardinale Angelo Quaglia, uditore della Segnatura Pontificia, giudice della Rota Romana, e futuro
Segretario del primo Concilio Vaticano. Ma, segno che i tempi erano cambiati davvero e soprattutto
che il prestigio dei Bruschi Falgari non aveva più bisogno del supporto dei resti dei santi cristiani,
Giustina non chiese al potente fratello porporato altre reliquie e altri reliquiari, bensì l’intercessione
per ottenere dal papa l’unica cosa che ormai mancava alla sua famiglia: un titolo nobiliare.
Il titolo arrivò puntualmente nel 1863, quando Pio IX, per puntellare il suo potere temporale che
sentiva insicuro, aveva bisogno di stringere più forti legami con le ricche e fedeli famiglie di provincia
che fino ad allora erano rimaste nell’ombra.
Solo pochi anni più tardi, però, quando Roma divenne la nuova capitale del Regno d’Italia, i conti
Bruschi Falgari che avrebbero dovuto sostenere il Papa o almeno rimpiangerlo, passarono
immediatamente alla corte sabauda e nel 1897 ottennero un nuovo titolo comitale che, emesso da
Umberto I di Savoia, era ormai quello che contava davvero.
Nel frattempo, proprio nei loro vigneti, negli oliveti, nei grandi campi di grano erano emerse, a
profusione, nuove reliquie. Questa volta, non provenivano dai grigi sepolcri cristiani, ma dalle
15
Chiara Mercuri, op. cit., pag. 11.
colorate e allegre tombe etrusche della Caccia e della Pesca, delle Leonesse, della Pulcella 16, colme
di reperti affascinanti, esotici e soprattutto molto lucrosi. I pesanti sarcofagi, gli affreschi staccati dal
muro, le suppellettili e i gioielli ammantarono di insolito charme la loro recente nobiltà e brillarono per
qualche tempo nel palazzo di Corneto rinnovato fin dalle fondamenta dall’architetto Vespignani, nel
parco di villa Falgari e soprattutto a Roma, nella prestigiosa dimora acquistata nel lasciare la
provincia per trasferirsi in città.
Nel XX secolo il nome dei Bruschi Falgari si estinse in tre rami femminili.
Matilde, l’ultima contessa Bruschi apparsa a Tarquinia, si spense nel 1975 senza aver avuto figli da
suo marito, il conte Giovanni Geri della Rocca di Candal. Qualche tempo dopo, alcuni autocarri
portarono altrove tutti gli arredi del suo palazzo, mobili, specchiere, tappeti, lampadari e dipinti. Nella
cappella delle reliquie non rimase che qualche pezzo di stucco dorato e il vuoto lasciato sul muro da
un grande quadro del quale, ora, non conosciamo nemmeno il soggetto.
Del prezioso tesoro di minuscoli reliquiari di cristallo e d’argento, di filigrana e di corallo, di velluto
rosso e di velluto azzurro, e del loro venerabile contenuto composto da impalpabile polvere di ossa,
di legno e di stoffa, in città si perse perfino la memoria.
Ringrazio Giacomo E. Carretto che, conoscendo la mia curiosità, mi ha fanno notare l’insolito pacco
turchino nel solito mucchio di carte ingiallite dal tempo.
16
Vittorio Naccarato, Scavi della contessa Giustina Quaglia in Bruschi Falgari, in Cronaca degli scavi
archeologici a Tarquinia dal 1862 al 1880, Comune di Tarquinia, 2002.