etica in modelli storici TU 2009
Schopenhauer Kierkegaard
incontro 7
Schopenhauer
Kierkegaard
etica in uscita dal sistema
Schopenhauer – rifiuto della logica della volontà di vita
(1788 – 1860)
Ciò che stupisce e indigna Schopenhauer è che nessuno sembra avvedersi della «pagliacciata
filosofica» di Hegel, del suo «mondo alla rovescia»: «l’idea di capovolgere l’andamento vero e
naturale delle cose e considerare i concetti generali […] come la realtà prima, originaria, veramente
reale, con l’aggiunta che tali concetti si penserebbero e si muoverebbero da soli, senza che noi si
faccia nulla è un delirio dei pazzi»; l’automovimento dialettico dei concetti che «liberamente e per
proprio conto fa le sue capriole nell’aria o nell’empireo» è una «bolla di sapone» di cui i giovani
non si rendono conto perché abbacinati dall’arte oratoria di cui Fichte, Schelling e soprattutto Hegel
sono maestri. Mentre infatti i veri filosofi temono ogni artificio retorico e si esercitano nell’arte
della chiarezza e della esattezza, gli idealisti, con Hegel in testa, amano le «sofisticherie», si
cimentano in arditi neologismi, «parole composte, periodi sterminati, espressioni nuove e inaudite»
con cui mascherano la povertà dei loro contenuti, le «fandonie», le «noci vuote», i «vaniloqui» di
cui intessono i loro scritti; come giocatori di domino, mettono insieme pezzi di discorsi
componendo quel guazzabuglio di pensieri che è la «ciarlataneria idealistica».
1. la ragione opera nel campo delle rappresentazioni
1.1. il mondo di cui parliamo è il mondo che ci è dato, il mondo delle rappresentazioni,
l’oggetto per un soggetto.
1.1.1. distingui tra scienza e filosofia. La conoscenza scientifica si limita a organizzare impressioni
sensibili, i fenomeni o i dati dell’esperienza, mediante le forme a priori dello spazio, del tempo e
della causalità; le connessioni che tali forme pongono tra le impressioni sono dunque semplici
proiezioni dell’intelletto sulla realtà esterna, il sapere scientifico non coglie le forme oggettive della
realtà, ma si limita a organizzare rappresentazioni soggettive; nelle conoscenze cui perviene la
scienza non vi sono che relazioni tra rappresentazioni. Come qualcuno «che giri attorno ad un
castello, cercando invano l’ingresso, e ne schizzi frattanto le facciate», gli studiosi si sono sinora
limitati a ordinare le proprie rappresentazioni senza mai pervenire alla verità ultima.
«…noi non sappiamo punto distinguere un tale oggetto dalla rappresentazione, anzi troviamo che
questa e quello sono tutt’uno, poiché ogni oggetto sempre e perennemente presuppone un soggetto,
e rimane quindi rappresentazione. […] nemmeno l’etiologia [la spiegazione dei cambiamenti
indicati dai fenomeni naturali] può darci su quei fenomeni che chiamiamo nostre rappresentazioni
la luce desiderata, capace di farci avanzare oltre i fenomeni stessi. Anche dopo tutte le sue
spiegazioni, essi seguitano a starci davanti, del tutto sconosciuti, come pure rappresentazioni, delle
quali non comprendiamo il significato. Il nesso causale ci dà soltanto la regola e la relativa
disposizione del loro prodursi nello spazio e nel tempo, ma non ci fa conoscere da vicino che cosa
sia ciò che in tal modo si produce. Inoltre la stessa legge di causalità vige soltanto per
rappresentazioni, per oggetti d’una determinata classe; ha significato solo con la presupposizione
di quelli: è adunque sempre, come gli oggetti medesimi, esclusivamente in relazione col soggetto,
ossia non si ha se non condizionatamente…» (Il mondo come volontà e rappresentazione).
1.1.2. la filosofia e la sfida della realtà in sé. Dove si ferma la scienza, e la filosofia razionale di
Kant, prende avvio la filosofia di Schopenhauer. Kant presenta il dato fenomenico come contesto,
limite e unica sede materiale della conoscenza corretta e accettabile e dichiara del tutto
inconoscibile la realtà in sé (il noumeno), pensata oltre il limite della rappresentazione; in tal modo,
obietta però Schopenhauer, Kant non ha delineato il campo della filosofia, ma della scienza; se
Sergio Gabbiadini
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questa ha il proprio contesto nell’ambito delle rappresentazioni, la filosofia deve invece andare oltre
i dati fenomenici per cogliere la realtà in sé. Il limite nel quale si imbatte la filosofia di Kant diventa
dunque il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer che intende superare il mondo razionale,
sistematico, ma illusorio delle rappresentazioni ordinate scientificamente, per cogliere l’essenza
della realtà in sé. Andare al di là delle rappresentazioni significa anche andare al di là della ragione
(la razionalità è relativa al mondo delle rappresentazioni) e, inevitabilmente, cogliere la radice
occulta dell’infinito inganno di cui è vittima la ragione quando presenta come realtà le proprie
rappresentazioni e le leggi in cui le organizza.
1.2. il corpo “fessura nella massa compatta dei fenomeni” e varco per la realtà in sé.
La via di uscita dai sistemi illusori della ragione, la «fessura nella massa compatta dei fenomeni» e
nella fitta trama della razionalità, può essere data solo da un’esperienza non rappresentativa del
mondo; tale occasione è offerta all’uomo dall’esperienza del proprio corpo. Scoperto e vissuto nella
sua realtà immediata, nella sua realtà in sé, prima e oltre le rappresentazioni e la loro costruzione
razionale sistematica, il corpo è vita e volontà di vita. L’intera realtà aldilà delle rappresentazioni e
della loro sistemazione razionale è volontà di vita.
2. la volontà di vita essenza metafisica della realtà e logica di illusione
2.1. una ricerca metafisica. L’essenza della realtà è nascosta dietro il “velo di Maja”, costruito
dalla ragione e risultato del sapere scientifico e filosofico che si limita al dato delle
rappresentazioni; organizzando i dati della rappresentazione, la ragione e la scienza (ma dietro di
loro agisce la volontà di vita) creano l’illusione di un ordine razionale del mondo e della autonomia
individuale di ogni realtà (oggetto o persona); un velo che nasconde alla conoscenza la natura
intima del mondo, il principio che informa di sé ogni realtà. Riconoscendo invece nel proprio corpo
la volontà di vivere, l’uomo può sollevare il velo di Maja della razionalità e delle sue illusioni, e
spingersi oltre i fenomeni, per cogliere la verità. Ascoltando il premere dei bisogni, delle pulsioni,
delle tensioni che si celano in ogni movimento del corpo, in ogni azione, in ogni sentimento o
passione, l’uomo può cogliere (con passaggio analogico, immediato e non dimostrativo) la volontà
che domina con il suo «cieco e irresistibile impeto» l’intero universo: «ferve e vegeta nella pianta,
forma il cristallo, volge la bussola al polo, scocca nel contatto di due metalli eterogenei, si rivela
nelle affinità elettive della materia, nella gravità», nella storia degli uomini.
2.2. l’essenza metafisica irrazionale della realtà. Questo principio, essenza del mondo, è dunque
la volontà. Posta oltre le rappresentazioni e oltre la ragione che si occupa solo di rappresentazioni,
essa è essenza unica e originaria della realtà, forza istintiva, immediata, cieca, irrazionale, infinita; è
oggettivata nel mondo e agisce in ogni essere (vegetale, animale, umano) generando
incessantemente in esso impulsi, slanci, tensioni, desideri. Riportata alla sua essenza originaria la
realtà è dunque espressione di volontà; ne deriva che l’uomo, la natura, la storia non sono realtà
ordinate, armoniche, regolate da principi o leggi razionali: gli accadimenti che vi si svolgono sono
casuali, irrazionali, istintuali, così come cieca, irriflessa, impulsiva, gratuita e ingiustificabile è la
volontà che li pone in essere.
2.3. volontà di vita e logica dell’illusione. Lo stesso impulso razionale (e scientifico) dell’uomo è
una sua espressione particolare: è infatti proprio la volontà ad essere la radice dell’impulso umano
della ragione che spinge alla lettura e organizzazione scientifica (per spazio, tempo, causa) dei dati
fenomenici in sistemi razionali. La ragione, che formava l’orgoglio dell’uomo e della filosofia e
della sua storia, si presenta come una raffinata strategia di cui la volontà si serve per irretire gli
uomini nel gioco della vita senza consentire loro di cogliere la vera essenza irrazionale del mondo; è
la volontà di vita che sorregge la mente nell’illusione idealistica e metafisica di credere che la realtà
in sé sia organizzata secondo le trame con cui la nostra ragione organizza le rappresentazioni; ed è
sempre la volontà di vita che, attraverso le forme della ragione, crea per ogni uomo la convinzione
di una propria individualità come dato reale mentre è solo illusione sostenuta dal lavoro
dell’intelletto che organizza le rappresentazioni secondo le forme a priori della mente: spazio,
tempo, causa. L’illusione della propria individualità è “velo di Maja” che non ci rende avveduti del
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nostro inesorabile far parte e momento di un sistema di cui siamo aspetto ed espressione e che
dispone di noi totalmente secondo una propria logica di autoproduzione e di vita.
3. la filosofia della negazione e dell’uscita dall’inganno: arte, etica, noluntas
La filosofia, con Schopenhauer, restituisce il “mondo in sé” alla sua autonomia, sottraendolo a
quella riduzione alla ragione (all’ordine razionale) cui l’aveva destinato, ridotto e condannato, il
razionalismo moderno occidentale. E, dopo l’analitica scoperta della volontà di vita, irrazionale e
priva di senso, come essenza del mondo, dopo aver denunciato la forza illusoria della ragione, la
sua filosofia indica la strada della liberazione e dell’affrancamento dalla volontà di vita e dal suo
irretimento illusorio. La filosofia è dunque un atto progressivo di disubbidienza metafisica che è
insieme di liberazione dalle schiavitù e dall’errore; essa diventa contestualmente la costruzione di
una nuova antropologia che si definisce in negativo nei confronti della ragione e della volontà di
vita e che, in termini di filosofia pratica, guida verso le strade della liberazione (un’antropologia e
un’etica al negativo).
3.0.1. l’esperienza del corpo è scoperta della volontà di vita e contesto della sua negazione.
«Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come
individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione
nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato
contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto
da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e
ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l’atto, senz’accorgersi
insieme ch’esso appare come movimento del corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono
due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra
loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto
diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante l’intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo
non è altro che l’atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell’intuizione.
Nel seguito vedremo che ciò vale per ogni movimento del corpo, non solo per quelli provocati da
motivi, ma anche per quelli arbitrari provocati da semplici stimoli; vedremo, anzi, che il corpo
intero non è altro se non la volontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione — tutte cose che
risulteranno e appariranno evidenti dalla successiva trattazione. Chiamerò dunque qui il corpo,
sotto questo punto di vista, l’obiettità della volontà; mentre nel libro precedente e nella memoria
sopra il principio di ragione l’avevo chiamato — secondo il punto di vista colà assunto
intenzionalmente (quello dell’intuizione) — l’oggetto immediato. In un certo senso si può quindi
anche dire: la volontà è la conoscenza a priori del corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori
della volontà. […] Ogni vero, genuino, immediato atto volitivo è subito e direttamente anche un
visibile atto del corpo: e corrispondentemente, d’altra parte, ogni azione sul corpo, subito e
direttamente, è anche azione sulla volontà; come tale si chiama dolore, se ripugna alla volontà;
benessere, piacere, se è a questa conforme. Assai diverse sono le gradazioni del dolore e del
piacere. Ma si ha pieno torto, se si dà il nome di rappresentazioni al dolore ed al piacere, che non
sono punto tali, bensì affezioni dirette della volontà nella sua manifestazione fenomenica, ch’è il
corpo: un forzato, istantaneo volere o non volere l’impressione, che questo subisce.» (Il mondo
come volontà e rappresentazione)
3.0.1.1. Una doppia possibile esperienza del corpo. Se a uno sguardo esterno, dal punto di vista cioè
della conoscenza intellettiva, il corpo è avvertito come una rappresentazione, un oggetto fisico
“esterno”, per esperienza interna, che ognuno avverte e vive immediatamente, il corpo è volontà:
l’essenza metafisica del corpo consiste nel suo essere atto primo, originario e gratuito di volontà di
vita. È questo il «filo di Arianna» di cui il filosofo (e ogni uomo) dispone per entrare nel castello
(intorno al quale l’uomo di scienza si aggira inutilmente) della realtà in sé (razionalmente
inaccessibile, noumeno in conoscibile per Kant); è solo grazie a questa guida insostituibile e
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personale che è possibile sollevare il velo di Maja e vedere che cosa si nasconde oltre le
rappresentazioni.
3.0.1.2. L’esperienza del corpo come volontà è insieme negazione della logica di illusione che la
Volontà unica, essenza della realtà in sé, impone in forza della propria natura. Una negazione, un
contrasto, una disubbidienza che prendono le forme dell’arte, dell’etica e della Noluntas.
3.1. arte
Forme in grado di contrastare la tirannia dei bisogni e della volontà sono le esperienze artistiche:
esse consentono infatti all’uomo di sottrarsi al flusso dei bisogni, propri dell’esistenza quotidiana,
alle illusioni di oggetti singoli creati dal principium individuationis e di sollevarsi alla purezza delle
idee, oggettivazioni eterne e universali della volontà. L’artista abbandona i principi dell’intelletto e
della ragione, si solleva oltre la dimensione dello spazio, del tempo, della causalità per cogliere il
mondo ideale: al suo sguardo si rivela il puro mondo delle essenze (del bello, del dolore, della gioia
ecc.), negato a tutti coloro che restano nell’ambito delle rappresentazioni sensibili e molteplici e dei
concetti organizzativi della ragione.
[n.b. idea: essenza metafisica del mondo; concetto: produzione razionale del soggetto conoscente]
L’effetto di liberazione coinvolge contemporaneamente l’oggetto e il soggetto:
3.1.1. l’oggetto: «L’arte strappa l’oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente flusso del
mondo e lo tiene isolato davanti a sé: questo singolo oggetto che in quel flusso era una particella
infinitesima, diviene per essa rappresentazione del tutto, un equivalente della molteplicità infinita
nello spazio e nel tempo» (Il mondo come volontà e rappresentazione)
3.1.2. il soggetto: «… ci perdiamo in questo oggetto, cioè dimentichiamo la nostra individualità, la
nostra volontà e restiamo soltanto come puro soggetto, come chiaro specchio dell’oggetto come se
solo l’oggetto esistesse, senza nessuno là davanti a percepirlo. … Pertanto chi è assorto nella
contemplazione non è più un individuo, dato che proprio l’individualità si è in essa perduta. Egli è
invece puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo.» (o.c.)
L’arte esula dalla ragione, pone il soggetto e l’oggetto al di fuori della relazioni quotidiane e dalle
forme usuali programmate, li rende momenti di contemplazione pura, dissolve così la trama
costrittiva del sistema; nel modo più elevato la musica assume su di sé negandolo e trasformandolo
(in un atto di redenzione laica) il rumore del mondo.
La creazione artistica è però un’esperienza di liberazione temporanea, capace di svelare solo per
qualche momento il mondo ideale della bellezza o del dolore puro; non è dedicandosi ad essa che
l’uomo può sperare di liberarsi definitivamente della volontà.
3.2. etica
L’ingresso nell’etica della pietas, in opposizione alla logica (irrazionale) della volontà di vita, è resa
possibile dal proprio essere corpo, se la corporeità non è consegnata solamente al modo con cui la
scienza lo studia e definisce basandosi sulle sole rappresentazioni, e quindi parlando di un corpo
visto dall’esterno come fenomeno, ma è vissuta come situazione immediata, globale e originaria
della persona.
3.2.1. Il corpo-volontà: accesso all’etica. L’esperienza del corpo coincide con la volontà. Il corpo è
il nostro essere all’esterno e quindi il nostro essere relazione, presenza e volontà; è nella sua essenza
volontà, dunque sede di etica. «Del proprio corpo, a guardar bene, si prende coscienza
direttamente, in quanto organo del volere che agisce verso l’esterno» (La libertà del volere
umano). «L’atto volitivo e l’azione del corpo … sono un tutto unico» (Il mondo come volontà e
rappresentazione). Viceversa, la dimensione corporale della volontà fa sì che l’etica trascini
nell’azione la vita nella sua totalità e immediatezza e non impegni solo la mente, non faccia capo
solo a teorie o a formali imperativi etici.
3.2.2. contro le morali razionali (solo razionali) e quindi prescrittive ed eteronome. La vera etica
non è quella trasformata in scienza prescrittiva, che diventa così razionale, solo superficiale e
fenomenica, quindi “eteronoma” [l’attacco è, per ironia della sorte, rivolto anche a Kant], incapace
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di esprimere l’essenza dell’uomo e del corpo e della volontà sottratti all’impero della unica volontà
di vita; la vera etica è espressione di «quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la
parola volontà esprime», cioè il corpo. Solo un’etica che non si ferma alla legge (la ragione del
resto si riferisce al solo campo delle rappresentazioni) e che si colloca nell’essenza metafisica
dell’uomo, nella sua volontà oggettivata nel corpo, acquista un ruolo centrale nei progetti pratici
dell’umanità e non resta al livello delle convenzioni e delle rappresentazioni. La ragione per cui non
può esistere un’etica normativa ma solo descrittiva è ben più profonda di quella di una semplice
esigenza morale: non esiste nessuna scienza normativa ma solo descrittiva (se la scienza diventa
normativa, e indica leggi, lo può fare solo sulla base della descrizione); la sede dell’etica è il corpo e
non la (sola) ragione. Ogni etica prescrittiva è ferma al mondo delle rappresentazioni, è esterna
all’essenza dell’uomo, è politica.
3.2.2.1. contro un’etica normativa di tipo politico e, soprattutto, contro l’ipotesi di uno “stato etico”.
«Alcuni filosofastri tedeschi di quest’epoca venale vorrebbero trasformarlo (lo stato) in un
organismo di educazione e di edificazione morale; qui sta in agguato, sullo sfondo, l’obiettivo
gesuitico di sopprimere la libertà personale e lo sviluppo individuale dei singoli per farli diventare
una semplice ruota di una macchina religiosa-statale alla cinese». (Il mondo come volontà e
rappresentazione)
3.2.3. un’etica della “disubbidienza metafisica”.
3.2.3.1. Il corpo, come volontà oggettiva, sottratto al destino razionale scientifico di mero oggetto
della rappresentazione, rivendicante per sé individualità (principium individuationis), è già in
distacco, ribellione e disubbidienza nei confronti della volontà di vita universale e unica, e contro il
destino di vita-morte imposto dal samara.
3.2.3.2. La persona, nella propria corporeità etica, è immediata relazione, collegamento, rapporto.
Per placare il permanente dominio della volontà, l’uomo deve riuscire a superare l’egoismo e le
passioni di cui essa si serve per indurre gli individui all’affermazione di sé, deve imparare a sentire
e condividere, nella compassione, il dolore di cui tutti gli uomini soffrono. La liberazione dalla
volontà si presenta allora come un cammino che vede l’uomo impegnato a sconfiggere le forze che
la volontà stessa impiega per garantirsi il dominio su di lui: l’egoismo, le passioni, l’ingiustizia e,
infine, il desiderio stesso di vivere. Compassione, giustizia e carità sono i suoi atti etici in evidente
contrasto con l’essenza metafisica del mondo che è volontà di vita in termini di egoismo irrazionale,
istinto gratuito, impulso di sopraffazione.
3.2.3.3. Smascherato l’inganno metafisico della ragion e abbandonato il principium individuationis,
allargando allora il proprio sguardo e il proprio sentimento sino a comprendere e assumere su di sé
il dolore degli altri esseri, l’uomo può sradicare gli impulsi egoistici e vitali che lo spingono a
desiderare e ad agire: la compassione, che Schopenhauer presenta come sentimento della
condivisione, come compartecipazione alla sofferenza degli uomini, consente a coloro che si
innalzano ad essa (e sono pochi) di vivere nella giustizia (l’astensione dal nuocere) e nella carità
(l’amore disinteressato).
3.2.3.4. Questo tipo di etica, che si pone in contrasto con l’egoismo della volontà di vita, costituisce
un’eroica trasgressione all’imperio che la volontà esercita abitualmente sull’uomo; solo nella forma
dell’amore puro e nobile (agàpe) e non nell’egoistico desiderio di possesso (éros) potrebbe dunque
consistere il superamento della volontà. Dunque alcune distinzioni analitiche.
3.2.4. etica della pietas (compassione).
3.2.4.1. pietas (compassione): se la mia azione è compiuta soltanto a causa di un altro è necessario
che il suo bene e il suo male siano il mio motivo immediato, così come nelle altre azioni lo è il mio
bene personale; «…la compassione si manifesta nel partecipare sinceramente al suo bene e al suo
male, e nei sacrifici disinteressati che per lui si fanno. … in italiano compassione e puro amore
vengono indicati con la stessa parola: pietà»
3.2.4.2. giustizia: è la definizione negativa della pietà: la mia pietà mi trattiene dal causare all’altro
un dolore; “neminem laede”.
Sergio Gabbiadini
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3.2.4.3. carità: è la definizione positiva della pietà: la «compassione è agàpe» la mia pietà mi
stimola ad aiutare attivamente il mio simile, in immediata partecipazione, non fondata su alcuna
argomentazione razionale; “omnes juva quantum potes”
3.2.4.4. La pietà ha un fondamento metafisico e solo su tale base trova la propria forza e non è
consegnata ai soli propositi etici volontaristici. Superando le diversità e la molteplicità come dati
puramente fenomenici, e superando l’inganno dell’individualità, con la pietas la persona coglie e
avverte che una sola e medesima essenza si manifesta in ogni cosa che vive; che un individuo
riconosca se stesso e la sua vera essenza in un altro (oltre l’inganno del velo di Maja), questa è la
definizione della pietà; essa immediatamente si manifesta in termini di giustizia e carità.
2.3.4.5. I termini che ricorrono (compassione, pietà, giustizia, carità, agape) sono cristiani ma la
morale è laica. E si tratta di una morale eroica: la compassione, come giustizia e carità, è un atto
eroico di contrasto metafisico che rifiuta di collocare l’agire nella affermazione della propria
individualità illusoriamente considerata come realtà prima e sostanziale. La nostra più profonda
essenza è volontà; se essa viene sottratta alla definizione costruita dalla ragione, secondo le proprie
forme a priori, e all’uso in cui la colloca la volontà di vita unica del mondo in un gioco infinito e
senza senso, allora, tale volontà che noi essenzialmente siamo è stare nel pieno e immediato ascolto
in cui ci colloca per definizione la nostra essenza e la nostra corporeità.
3.3. al vertice della “disubbidienza” un nulla etico: la Noluntas, l’estinguersi della volontà.
L’annullamento della volontà di vita si attua completamente solo nella dimensione dell’ascesi, nel
passaggio dall’agire per gli altri alla rinuncia ad agire. Ogni azione infatti continua a conservare in
sé una volontà di affermazione e autoaffermazione come individualità e si presenta dunque, sotto
parvenze individuali, come una continua sopraffazione della volontà di vita e della sua insensata
dinamica di sopraffazione e di dolore.
3.3.1. Solo l’asceta, annullando ogni bisogno e desiderio, sradica gli impulsi vitali che la volontà
alimenta in lui: nell’astinenza, nella povertà, nel digiuno, nella castità, nella macerazione egli si
rivela più forte della volontà, «sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un dolce presentimento
della morte che si annuncia insieme col dissolvimento del corpo e della volontà».
3.3.2. Con l’immagine del nulla Schopenhauer chiude la sua opera, indicando non in un dio, ma
nella totale e assoluta negazione della vita attiva e della volontà la sola possibilità di liberazione
interiore dell’uomo; egli si pone così nella prospettiva descritta dai libri sacri indiani
dell’Upanishad: in essi si indica come sola via di liberazione l’interruzione del samsara, il ciclo
eterno delle rinascite dell’anima: poiché infatti l’anima è continuamente esposta al pericolo di
rinascere in forme inferiori (animali, piante, schiavi), la pace suprema si può raggiungere solo
spezzando il samsara, facendo di sé un nulla. Si tratta di un nulla di carattere etico che annientando
l’attivismo ispirato all’utile e al dominio si traduce nell’armonia pacificata di una relazione che non
investe sull’affermazione di sé in termini di sopraffazione, contrapposizione, prevaricazione,
scontro. Della volontà è annullata la forma dell’egoismo senza senso e dell’illusione con cui la
ragione da secoli ormai cerca di rivestire di forme logiche (etiche, politiche, religiose, sociali in
generale) l’impulso insensato degli uomini alla reciproca sopraffazione e al dominio. In tale
annullamento prende evidenza e forma un’armonia cosmica delle relazioni che è
contemporaneamente (oltre ogni razionalità formale e di sintesi a priori)esperienza di
contemplazione pura.
3.3.3. Raggiunta la completa negazione della volontà di vita, mediante il rifiuto di continuare a
essere parte del ciclo cosmico in cui la volontà ripropone se stessa, negati dunque sia gli impulsi
egoistici sia l’illusorio sapere razionale, l’uomo si apre alla conoscenza pura: all’illuminazione;
sopravvive come «semplice essenza conoscente», «limpido specchio del mondo», prima e oltre le
forme di una razionalità ispirata al sistema e al dominio.
Sergio Gabbiadini
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Kierkegaard - la singolarità etica
(1813-1855)
Contro il “divieto” di Hegel: «Ma che il finito sia assoluto è una posizione di cui nessuna filosofia o
opinione e nemmeno l’intelletto si lascerà certo incolpare.» (Hegel Scienza della logica 129) «La
personalità diviene allora l’assoluto che ha la sua teleologia in se stesso». (Kierkegaard, Aut-aut.
Estetica ed etica nella formazione della personalità) «L’autore di queste righe è tutt’altro che un
filosofo; non ha capito il sistema» (Kierkegaard Timore e tremore 33)
Anche le opere del filosofo danese Søren Kierkegaard si oppongono, nei contenuti e nel metodo,
alla moda trionfante della filosofia hegeliana: all’enfasi di uno sviluppo oggettivo, reale e universale
dello spirito, egli contrappone la singolarità assoluta dell’esistenza soggettiva individuale («ciò che
veramente mi manca è di capire chiaramente me stesso, quello che devo fare, quello che devo
conoscere»); al carattere fittizio della dialettica hegeliana, tutta giocata all’interno di un sistema
razionale necessario in cui non potrà mai accadere nulla di nuovo (la dialettica hegeliana si
configura come una “ideologia del risentimento” e del ricordo) Kierkegaard contrappone la
dialettica ben più tragica ed essenziale della scelta di sé e delle “ripresa” (termine opposto a
“ricordo”). Alla pretesa hegeliana di tradurre lo sviluppo della ragione e della realtà nei trattati
sistematici della filosofia speculativa, Kierkegaard oppone la scoperta dell’esistenza singola come
possibilità infinita; e la possibilità, essenza dell’esistenza, pone l’etica al centro dell’esistenza e al
centro della riflessione filosofica. Tutto è perduto in partenza se nel sistema è persa la singolarità,
tutto è sempre ed eternamente necessario, senza eventi e senza libertà.
1. uscita dalle forme e scoperta della possibilità
1.1. esistere nelle forme sociali. L’esistenza è sempre concretamente collocata in forme
determinate, socialmente definite e note nelle loro coordinate di comportamento e di valore; la
domanda «chi è», osserva polemicamente Kierkegaard, è solitamente soddisfatta da risposte che
indicano il ruolo sociale di una persona, come ad esempio: «è un amico di famiglia», «è il padre»,
«è il direttore». Gli stessi processi educativi sono per lo più impostati come una introduzione ai
ruoli sociali accettati, condivisi, dominanti e apprezzati. Ma non è possibile pensare che le forme
sociali nelle quali il singolo è inserito ne definiscano essenzialmente l’esistenza. Ridurre l’esistenza
alle sue forme mondane significa sfuggire al compito filosofico di riflettere sull’esistenza stessa.
1.2. oltre le forme e i ruoli definiti: la possibilità. È necessario dunque andare oltre le forme nelle
quali l’esistenza è calata; solo così l’esistenza ha modo di mostrarsi nella sua nudità e purezza, nella
sua essenza; questa essenza ha il nome di “possibilità”. È ora possibile ridefinire il compito della
filosofia: consiste nello studiare le condizioni perché la possibilità si realizzi nella scelta e nella
decisione e venga sempre garantita come essenza dell’esistenza.
1.2.1. A partire da questa tesi centrale Kierkegaard attua una rivoluzione delle categorie filosofiche
dell’esistenza e della realtà. Il possibile non viene più considerato come l’antecedente logico e
storico della realtà, ma come la sua essenza; la necessità non può presentarsi come una categoria
dell’essere, ma solo come una categoria logica: la realtà infatti nella sua essenza storica è
possibilità; la possibilità è dunque la categoria dell’essere, della esistenza nella sua singolarità.
L’esistenza infatti non è un semplice attributo di un’essenza metafisica universale in sé definita
secondo forme eterne e necessarie, ma è la vera definizione dell’essere, considerato nella sua storica
e autentica singolarità e dunque nella sua possibilità.
2. l’esistenza autentica sostenuta dal sentimento di angoscia
2.1. il tema del nulla. Non iscritta in un sistema razionale necessario, né ridotta a forme comuni
codificate, imposte a ogni individuo come modelli universali di vita, l’esistenza non trova la propria
definizione nelle categorie con le quali solitamente l’uomo si orienta nel mondo; allontanata dai
sistemi convenzionali di riferimento, l’esistenza diviene l’esperienza della libertà infinita, della
possibilità pura, ma anche del totale sradicamento e del nulla. Non è possibile incontrarsi con la
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propria esistenza singola, scoperta come possibilità, senza un processo di azzeramento e
nullificazione delle forme universali con cui la ragione sistematica e le abitudini sociali tendono a
classificare, secondo codici generali e modelli precostituiti, ogni singola esistenza; ridurre al nulla
le forme mondane significa assistere alla propria mondana nullificazione, vivere
contemporaneamente l’esperienza della possibilità infinita e del vuoto totale.
2.2. il sentimento dell’angoscia. Kierkegaard indica questa esperienza con il nome di angoscia;
egli ne chiarisce il significato distinguendola dall’esperienza della paura. Mentre la paura, il timore,
è il sentimento che l’uomo prova di fronte a un pericolo concreto e a un impegno determinato,
l’angoscia è il sentimento di smarrimento totale che l’uomo prova di fronte al nulla. L’angoscia che
l’uomo prova di fronte alla propria esistenza come possibilità infinita, lo spinge a trasformare
l’angoscia in paura, a riempire l’esistenza di impegni, di responsabilità e di compiti; egli tende così
a eludere l’insostenibile sentimento di angoscia che pone l’uomo di fronte alla sua nuda, singola
esistenza, con il timore per insuccessi mondani, con la preoccupazione per le cariche assunte e con
il compiaciuto sentimento di autostima che accompagna sempre colui che si carica di compiti e di
responsabilità. L’angoscia è infatti l’esperienza del nulla e della possibilità e quindi il sentimento
dell’esistenza autentica, pura, «ritrovata» dalle forme mondane e posta di fronte alla propria
decisione, al proprio infinito e al proprio nulla.
« Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla
possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la più pesante di tutte le
categorie.» (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia)
3. fenomenologia delle esistenze: estetica, etica, della fede
3.1. l’esistenza dell’esteta.
L’esteta vive i momenti dell’esistenza come attimi piacevoli, colti nell’immediatezza, al di fuori di
ogni regola, quesito, scrupolo etico o religioso; egli gode la vita nella sua immediatezza, senza
sottoporre le circostanze e le proprie azioni all’esame di valori morali universali; tutto è per lui
egualmente indifferente. La sua perizia consiste nel saper trasformare ogni istante e ogni circostanza
in momento piacevole nel quale investire pienamente l’impeto straordinario, la passione calcolatrice
e la raffinata sensibilità che lo contraddistinguono. Totalmente proiettato verso le circostanze
l’esteta si identifica con ciò che gli accade; egli vive quindi all’esterno di sé, inseguendo e
moltiplicando ad arte le occasioni piacevoli allo scopo di allontanare la disperazione che
accompagna il pensiero della loro precarietà e del loro rapido deterioramento. La disperazione
stessa viene trasformata dall’esteta in dolce tristezza, illanguidita melanconia che si pone all’esterno
del soggetto, come se fosse una semplice circostanza, e viene ostentata come la più alta e raffinata
sensazione estetica.
A interrompere e smascherare questa tristezza estetica, può, osserva Kierkegaard, «accadere la
gioia» (e anche il ridicolo di fronte alla inopportunità di una simile, drammatica e manierata,
ostentazione di tristezza e malinconia): l’irruzione nella vita dell’uomo di momenti piacevoli,
cogliendo di sorpresa il raffinato esteta, ne smaschera il gioco delle ostentazioni. Svelato il gioco,
l’esteta è posto di fronte alla vuotezza della propria esistenza che si rivela priva di trama, dominata
dall’inconsistente e parossistico inseguimento di circostanze piacevoli ma fugaci; è una presa di
coscienza che si traduce in disperazione. Questa non si colloca più all’esterno dell’individuo, come
una semplice circostanza, ma accade dentro l’esistenza dell’esteta e ne mostra il vuoto; non riesce
più il gioco di trasformarla in momento estetico, esibito come “sublime”. Solo accettando la
disperazione come fatto interiore, l’esteta è posto di fronte alla scelta come inizio e centro di una
nuova esistenza; riconoscere che nella vita è necessario scegliere.
3.2. l’esistenza etica.
L’esistenza etica consiste nell’accettare la scelta, l’aut-aut. Mentre nell’esistenza estetica il gioco
della vita è condotto dalle circostanze che l’esteta insegue senza scelta e di cui diviene una tragica
vittima, l’esistenza etica nasce dall’accettare la scelta. L’aut-aut di cui parla Kierkegaard, come
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condizione di esistenza etica, non va inteso come contrasto tra bene e male e non si traduce quindi
in uno scontato e inutile invito a scegliere il bene; è proprio l’aut-aut infatti a essere oggetto di
scelta. Accettare l’aut aut significa accettare la scelta, stare nella scelta, avere sempre il coraggio
della scelta (è il coraggio etico); solo così l’uomo giunge alla sua concreta realizzazione; l’etica,
infatti «è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa».
Ma sul tema dell’etica Kierkegaard tratteggia due opposte situazioni.
3.2.1. etica nella ripetizione e nella fedeltà alle regole
L’atto di scelta è un atto etico; esso avvia un’esistenza che non si affida alle circostanze e al loro
occasionale accadere, ma poggia sulla decisione di assumere responsabilità, compiti, impegni. La
ripetizione è vissuta come un valore: è la scelta di possedere e gestire il tempo confermando nel
presente il passato nella forma di assunzione di compiti e garanzia di responsabilità nel loro
adempimento. Assumere il tempo nella ripetizione e nella fedeltà ai compiti diventa la forma
mondana dell’eternità. La vita etica è l’esistenza di chi si attribuisce dunque un ruolo sociale, tiene
fede agli impegni, non si sottrae alle scelte e alle responsabilità familiari, professionali, sociali,
accetta di confermare ogni giorno il passato con alto senso del dovere, sorretto e confortato dal
pubblico riconoscimento. Questa prima forma di esistenza etica ha il proprio fondamento in valori e
leggi universali, norme astratte che si collocano all’esterno dell’individuo: l’uomo talvolta subisce
queste norme conformandosi in modo cupo e passivo ai doveri, talvolta vi aderisce in modo
superficiale e compiaciuto, ostentando una condotta che non nasce da una convinzione interiore, ma
da una opportunità sociale. Di fronte ai doveri sentiti come imposizioni esteriori, l’uomo è spinto
alla trasgressione o all’indifferenza: la violazione, il peccato acquistano, sullo sfondo dell’obbligo e
della coercizione, il carattere accattivante della sfida e dell’autoaffermazione, oggetto di vanto per
sé di fronte al mondo dell’opinione, quindi in un’etica della trasgressione che ha comunque bisogno
di pubblico e che ha nella sua ammirazione / riprovazione un riconoscimento di esistenza personale
vissuto talvolta con (diabolico e irrinunciabile) piacere.
3.2.2. etica della scelta di sé
Nell’etica autentica l’uomo sceglie se stesso: posto di fronte alla propria singolarità e, quindi, alla
propria concreta finitudine, l’uomo assume la piena responsabilità di se stesso come risultato e
come compito, si apre con concretezza alla dimensione della possibilità. Si tratta di una seconda
presentazione dell’esistenza etica
3.2.2.1. dai principi assoluti alla singolarità come un assoluto. Ai principi etici universali e astratti,
che nel loro assoluto valore si collocano al di fuori dell’aut-aut e sono quindi esterni all’individuo e
fuori dall’etica autentica, Kierkegaard contrappone una seconda situazione etica: l’esistenza
individuale nella concretezza della sua storia, nella propria assoluta e unica singolarità, quale si è
venuta formando attraverso le scelte altrui e proprie. Chi compie tale scelta «ha allora se stesso
come un individuo con determinate doti, determinate passioni, determinate inclinazioni,
determinate abitudini, esposto a determinate influenze esteriori, sollecitato ora in un senso ora in
un altro. Egli ha se stesso come compito». All’assoluto dei valori morali astratti, propri di un’etica
inautentica, Kierkegaard contrappone dunque l’assoluto di ogni concreta esistenza: chi sceglie se
stesso nella concretezza della propria personalità si sceglie come assoluto: «La personalità diviene
allora l’assoluto che ha la sua teleologia in se stesso».
3.2.2.2. L’esistenza etica autentica non consiste nel rapportarsi a valori e leggi universali, astratte ed
esterne, né nel cercare per sé le grandi occasioni, nel poter lasciare il segno («Molti, che pure hanno
un’idea di cosa sia la vita umana, desiderano d’esser contemporanei di grandi avvenimenti, di essere
coinvolti in importanti circostanze di vita.»). Sono direzioni dell’etica che possono generano effetti
devastanti: una totale riduzione del singolo al generale; un ostentato compiacimento
(autocompiacimento) del proprio “essere a posto” (esser qualcuno); la percezione di un cupo senso
del dovere e della legge come fattori esterni e oppressivi; il fascino conseguente della trasgressione
e del peccato visti ed esaltati come contesto di libertà… l’etica autentica è fedeltà a se stessi; il
valore assoluto compete al singolo e non all’universale.
3.2.2.3. il singolo assoluto come risultato e compito. Tale assoluto non comporta però una sterile
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accettazione di sé come se il soggetto fosse un dato di fatto ingiudicabile; implica invece che
l’individuo si assuma a un tempo come principio e conclusione. «Nessuno si scopre concretamente
e non astrattamente come progetto se non si scopre e non si accetta anche come prodotto.» La
scelta di sé, della concretezza che caratterizza l’esistenza singola è piena assunzione di
responsabilità, senza presunzioni e senza fughe.
3.2.2.4. L’etica della propria singolarità prende avvio dalla consapevolezza dell’uomo di non poter
mai rispettare totalmente la legge e quindi dalla inevitabile esperienza del peccato. Si tratta di una
situazione che apre una strada completamente nuova. In questa situazione non è tanto il peccatore a
cadere sotto la condanna etica, ma la legge per la sua pretesa di valere più della singolarità e di
valere come un assoluto all’esterno e ignorando ogni singolarità.
3.2.2.4.1.Colui che ha peccato va incontro alla condanna espressa dalla legge; la legge non può fare
nient’altro oltre la condanna, se infatti accettasse il peccatore e lo giustificasse annullerebbe
contemporaneamente se stessa. (È evidente il ricordo della lettera di Paolo ai Romani: «in virtù
delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui [Dio], perché per mezzo della
legge si ha solo la conoscenza del peccato»; la legge ha il ruolo storico di evidenziare il peccato e
creare l’urgenza, il tempo opportuno, della salvezza). Il peccato e la conseguente condanna hanno
l’effetto di espellere il peccatore dalla norma, dall’universale, dal generale e dal conforto, dalla
giustificazioni in cui essi collocavano il singolo.
3.2.2.4.2. Ma cadere sotto la condanna a cui espone il peccato è dunque sia il peccatore, sia la legge:
questa evidenzia il proprio fallimento, è incapace di salvezza, è in difetto di fronte all’esistenza e
alla sua singolarità; consegnata alla necessità, la legge non conosce la possibilità, ed è questo il suo
maggior peccato, il peccato della legge.
3.2.2.4.3. Prende allora forma un’altra direzione etica: l’etica della scelta di sé, della fedeltà alla
possibilità e quindi alla propria esistenza. La condanna rimanda l’individuo a se stesso; la
singolarità espulsa dalla norma, dall’universale, dal generale è posta di fronte al nulla e alla
possibilità; la scoperta del peccato, accanto all’espressione del pentimento, diventa rilancio della
possibilità; torna al centro il tema della scelta: la scelta di sé; si apre quindi una nuova etica, quella
della fedeltà a se stessi alla propria esistenza nella possibilità.
3.2.2.4.4. Correttamente inteso, allora, il peccato non consiste nella trasgressione della legge, ma
nel non volere «intensamente e profondamente» la propria esistenza, nel rifiutare la scelta di sé, che
è rifiuto della propria storia e dell’intera storia dell’umanità. La scelta della propria storica
singolarità passa attraverso il pentimento (pentirsi significa assumere la responsabilità di se stessi,
nella concretezza) e scegliere se stessi implica riconoscere come iscritta nella propria singolarità
concreta, senza rimozioni e senza alibi, la propria storia e ciò che l’ha resa possibile, l’intera storia
dell’umanità con i suoi errori e le sue occasioni mancate.
3.2.2.5. scegliersi nella responsabilità. Pentirsi del peccato in modo autentico, e non solo formale,
significa dunque pentirsi di se stessi, ma anche assumere e scegliere se stessi, porre al centro
dell’etica la scelta della propria singolare continuità con il passato e della propria infinita libertà. La
malattia mortale dell’uomo è la disperazione in quanto assenza di responsabilità, cioè la mancata
accettazione e scelta di sé. «Solo quando — ribadisce Kierkegaard — nella scelta si entra in
possesso di se stessi, si ha indossato se stessi, si ha penetrato se stessi, totalmente, in modo che
ogni movimento è accompagnato dalla coscienza di una responsabilità, solo allora si ha scelto se
stessi eticamente, solo allora ci si è pentiti di se stessi; solo allora si è concreti, solo allora si è nel
proprio isolamento totale in assoluta continuità con quella realtà alla quale si appartiene. Questa
determinazione che scegliere se stessi è identico a pentirsi di se stessi non la ripeterà mai
abbastanza spesso, per quanto semplice sia di per sé. Infatti tutto si aggira intorno a questo.»
«Chi invece sceglie se stesso eticamente si sceglie concretamente, come questo individuo
determinato, e raggiunge questa concretezza coll’esser questa scelta identica al pentimento, che
sanziona la scelta. L’individuo diventa cosciente di sé come questo determinato individuo, con
queste doti, queste tendenze, queste passioni, questi ardori, influenzato da questo determinato
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ambiente, come questo determinato prodotto di un mondo circostante determinato. Ma mentre
diventa cosciente di sé in questo modo, egli assume tutto sotto la sua responsabilità. Non esita se
debba prender o no con sé anche il particolare, perché sa che qualche cosa di molto più alto va
perso se non lo fa. Così nel momento della scelta egli è nel più completo isolamento, perché si
ritira da quel che gli è attorno; eppure nello stesso momento è in assoluta continuità perché sceglie
se stesso come prodotto; e questa scelta è la scelta della libertà, così che mentre sceglie se stesso
come prodotto, si può anche dire che produce se stesso. Egli così al momento della scelta è alla
conclusione, perché la sua personalità si racchiude; eppure nello stesso momento è proprio al
principio perché sceglie se stesso secondo la sua libertà. Come prodotto è premuto nelle forme
della realtà, nella scelta rende se stesso elastico, trasforma tutta la sua esteriorità in interiorità.
Egli ha il suo posto nel mondo; nella libertà sceglie egli stesso il suo posto, cioè, questo stesso
posto che egli ha. È un individuo determinato; nella scelta rende se stesso un individuo
determinato: cioè questo stesso individuo che egli è. Poiché egli sceglie se stesso. L’individuo
sceglie perciò se stesso come una concretezza molteplicemente determinata, e perciò si sceglie
secondo la sua continuità. Questa concretezza è la realtà dell’individuo; ma poiché la sceglie
secondo la sua libertà, si può anche dire che è la sua possibilità, o, per non usare un’espressione
così estetica, che è il suo compito. […] Qui voglio richiamare la mia definizione dell’etica: essa è
ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa. Essa non vuole che l’individuo diventi un altro, ma
se stesso; non vuole distruggere l’estetica, ma illuminarla. Perché l’uomo possa vivere eticamente è
necessario che divenga cosciente di sé tanto radicalmente che nessuna casualità gli sfugga. L’etico
non vuole cancellare questa concretezza dell’uomo, ma vede in essa il suo compito, vede ciò da cui
deve formare e ciò che deve formare. Di solito si considera l’etica in modo assolutamente astratto e
perciò si ha un segreto terrore di essa. L’etica vien considerata come qualche cosa di estraneo alla
personalità, e ci si duole di doversi affidare ad essa, perché non si può mai sapere con certezza
dove essa finirà col condurci. Così molti temono la morte perché hanno idee oscure e vaghe che
l’anima colla morte debba passare in un altro ordine di cose … […] Il vero individuo etico perciò
ha una calma ed una sicurezza in sé, perché non ha il dovere fuori di sé ma in sé.» (Kierkegaard,
Aut-aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità)
3.3. l’esistenza nella fede.
L’angoscia è, invece, il sentimento della possibilità infinita che, paradossalmente, si presenta con il
fallimento delle forme di esistenza alle quali l’uomo aveva affidato la propria realizzazione e come
alternativa radicale al peccato e alla condanna che la legge emette nei confronti di colui che, nel
peccato, si è posto al di fuori di ogni possibile giustificazione. Collocato al di fuori dell’universale,
di ogni categoria e di ogni giustificazione, l’uomo è posto di fronte alla propria singolarità; isolato
dal mondo delle relazioni generali, etiche e sociali, egli è solo di fronte alla nuda esistenza, di fronte
alla possibilità pura, di fronte al nulla; il sentimento della possibilità infinita, del nulla si rivela nella
forma dell’angoscia. È la situazione della fede.
3.3.1. Distingui tra fede e religione. Nella società “borghese” che Kierkegaard analizza, la religione
è diventata strumento sociale di conforto e di controllo. Si è tradotta in dettami morali, in dottrine
consuetudinarie diventate luoghi comuni di orientamento (spaccio dogmatico di verità), in riti e
momenti finalizzati ad ostentare il proprio di esser per bene nel sociale e sostenere il diritto ad
essere collocati in rispettabili gradi della gerarchia. È diventata dunque uno strumento di conformità
e un potente sistema di annullamento dell’esistenza come possibilità. Si è tradotta in «prudenza
delle cose finite», morale laica della ripetizione in essa la fede non ha alcun ruolo ed è
completamente bandita come fattore di disturbo. Anche se il riferimento al divino continua, con
disinvolta empietà, a ricorrere nei discorsi privati e ufficiali si tratta di una religione senza fede.
3.3.2. È necessario richiamare il carattere di evento salvifico della fede, la sua assoluta
intraducibilità in discorsi e opere mondane, la gratuità teorica e pratica, la natura di paradosso e di
contraddizione dell’annuncio. La fede è stare in solitudine e silenzio (fuori dalla norma) di fronte a
Dio, fedeli alla infinita possibilità. La guida alla scoperta della fede è la figura biblica di Abramo
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che il comando di Dio pone in totale solitudine, al di fuori di qualsiasi giustificazione etica del gesto
che per comando divino e fede si accinge a compiere. Il porsi del singolo di fronte a Dio nella fede
è tener ferma la possibilità, esperienza di libertà, di nullificazione e di angoscia, luogo dell’esistenza
autentica.
3.3.3. fede e il recupero del finito: «la fede… dopo aver compiuto i movimenti dell’infinito, essa fa
quelli del finito». Solo il «salto» nella fede, dunque, e la decisione di accettare la propria solitudine
di fronte a Dio, al di fuori di qualsiasi conforto etico, permette all’uomo di mantenersi fedele al
senso della possibilità e dell’infinito e, in questa dimensione, ancora paradossalmente e per assurdo,
di non perdere, ma di scoprire e vivere il finito come possibilità (come infinita possibilità).
Si impone un’ulteriore analisi della relazione finito – infinito, tema comune, secondo diverse
prospettive, a Kierkegaard e Schopenhauer.
4. Schopenhauer – Kierkegaard: un confronto su etica e fruizione del finito nel
comune passaggio attraverso il nulla
Una contraddizione, o perlomeno un’antinomia, sembra ricorrere nei due autori. È forte il richiamo
alla concretezza storica e materiale del vivere, per poter dare fondamento ad un’etica che non si
consegni solo a norme e principi, esterni o interni, ma comunque astratti. La corporeità è la sede
della volontà per Schopenhauer; la scelta di sé come assoluto, nella determinatezza della propria
storia, è l’etica autentica per Kierkegaard. In entrambi diventa tuttavia centrale il concetto e il
sentimento del nulla. Come fine ultimo di liberazione dalla volontà di vita per Schopenhauer
(Noluntas), come contesto di libertà e unico modo per tenere aperta la possibilità, essenza
dell’esistenza per Kierkegaard. Ci si chiede quale sorte tocchi al finito, richiamato da entrambi con
concretezza di riferimenti a base dell’etica, di fronte al ruolo centrale svolto in essa dal nulla.
4.1. Schopenhauer: la Noluntas: il potenziale della denuncia etica e l’ascesi
In quanto lascia spazio ai bisogni che la volontà continuamente rigenera, l’uomo virtuoso pur
contrastando la volontà di vita non può dirsi completamente liberato: la sua capacità di
compartecipare alla sofferenza del mondo non è pienamente attuata poiché in lui sussistono ancora
bisogni e desideri individuali. Per realizzare una completa soppressione dei lacci che lo tengono
legato alla volontà egli deve sradicare dentro di sé ogni desiderio di vita, ogni attaccamento
all’esistenza. La liberazione dalla volontà di vita consiste nella sua radicale negazione: un atto di
Noluntas. Ma proprio l’atteggiamento di Noluntas è abbandono dell’illusione della propria
individualità e totale partecipazione al dolore universale e, in progressiva apertura, silenzio e quiete
contemplativa.
«Se infatti davanti agli occhi d’un uomo quel velo di Maja, che è il principium individuationis, s’è
tanto sollevato, che quest’uomo non ponga più l’egoistico divario tra la sua persona e l’altrui, ma
prenda tanta parte agli altrui dolori quanta ai propri, e quindi non soltanto sia in altissima misura
soccorrevole, ma pronto addirittura a sacrificar se stesso non appena più individui estranei sian da
salvare col sacrificio suo; allora ne consegue spontaneamente che un tale uomo, il quale riconosce
in tutti gli esseri il suo più intimo e più vero io tiene come suoi anche gl’infiniti mali d’ogni vivente,
e così fa suo il dolore del mondo intero. Nessun dolore gli è più straniero. Tutti gli affanni altrui,
ch’egli vede e può sì raramente lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che
semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di lui come i suoi propri. Non è più
l’alterno bene e male della sua persona, quel ch’egli ha in vista, com’è il caso degli uomini ancora
prigionieri dell’egoismo; invece, scorgendo egli di là dal principium individuationis, tutto gli è
ugualmente vicino. Conosce il tutto, ne comprende l’essenza, e la trova sempre involta in un
continuo perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne dolore; vede, dovunque
guardi, la sofferente umanità e la sofferente animalità, e un mondo evanescente. E tutto è a lui così
vicino, com’è vicina all’egoista la sua propria persona. Ora, come potrebbe egli mai, con tal
conoscenza del mondo, affermare questa vita con continui atti di volontà, e avvincere in siffatto
modo sé ognora più strettamente alla vita, sempre più forte stringerla a sé? […] La volontà si
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distoglie ormai dalla vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali riconosce l’affermazione di quella.
L’uomo perviene allo stato della volontaria rinunzia, della rassegnazione, della vera calma e della
completa soppressione del volere. […] La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la sua
propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la rinnega. […] Allora in luogo
dell’incessante, agitato impulso, in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al
dolore, in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, di cui è formato il sogno di vita d’ogni
uomo ancor volente, ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell’assoluta
quiete dell’animo pari alla calma del mare».
(Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione)
La filosofia (etica) di Schopenhauer è una prassi di disobbedienza che ha intrapreso la strada della
opposizione all’illusione della ragione e di ogni volontà di vita in cui il sistema, creando parvenze
di autonomie individuali, alimenta e riproduce egoisticamente se stesso [è un sistema
inesorabilmente autopoietico]. È un cammino teorico e pratico di demistificazione dell’ottuso e
interessato ottimismo profuso da Hegel e dalla lunga tradizione (sia idealista, che positivista) che ne
deriva, versione filosofica della teologia (così da Feuerbach a Löwith). Al termine di questo
cammino di etica eroica prende il via la quiete contemplativa, nel nulla della volontà di vita; si tratta
della conoscenza pura in termini di contemplazione, libera dai progetti razionali e scientifici, libera
da ogni impulso egoistico di volontà, silenzio dei sentimenti, «oceano di quiete»; decondizionata
dalle rappresentazioni comuni, annullata della dipendenza dalla volontà di vita universale. E diventa
solo così, sorprendentemente, universale comunicazione e immediata partecipazione.
4.2 Kierkegaard: l’arte (estetica, etica, di fede) della gestione del finito come possibilità
Non vi è una graduatoria nella fenomenologia delle esistenze delineata da Kierkegaard con perizia
letteraria – drammaturgica e con l’“ironia” della lettura a distanza; si tratta di una attenzione
analitica descrittiva che intende far parlare l’esistenza presentata nelle scelte che la consegnano alle
proprie diverse forme e ai variati stili di vita. Nel susseguirsi delle tipologie descritte, esistenza
estetica, etica, della fede, quest’ultima si definisce, in senso non religioso, come la capacità di
restare fedeli (più delle altre forme di esistenza) alla propria singolarità in totale solitudine etica o,
addirittura, anche sotto la condanna dell’etica. La fede, la solitudine del singolo di fronte a Dio,
significa qui allora restare fedeli alla possibilità, all’infinito e non consegnare l’esistenza alle forme
sociali preordinate (anche quelle proprie della religione, trasformata in istituzione del e nel sociale)
come se da loro debba derivare la nostra definizione e la nostra essenza. Tuttavia, contrariamente a
quanto sembrerebbe risultare a prima analisi, tale distanza infinita dai ruoli e dalle circostanze non
si traduce affatto in separazione e disprezzo del quotidiano e dei suoi rituali, ma in una loro libera e
gioiosa fruizione; l’uomo di fede è totalmente di questo mondo proprio perché da esso è
infinitamente distante; egli acquisisce e mantiene nei suoi confronti, in forza della possibilità, una
infinita libertà di partecipazione.
4.2.1. L’episodio di Abramo, padre biblico della fede, consente a Kierkegaard di identificare e
descrivere nella fede il significato autentico dell’esistenza come doppio movimento tra finito e
infinito. Abramo, decidendo di sacrificare Isacco, rinuncia alla propria dimensione finita per
affidarsi all’infinito; Dio, evitando il sacrificio di Isacco, restituisce gratuitamente all’uomo la sua
finitudine.
4.2.2. Da una parte l’esistenza autentica nella fede si presenta come rifiuto di identificare l’esistenza
con le forme mondane in cui è impegnata, dall’altra, proprio il movimento dell’infinita rinuncia a
ciò che è finito, compiuto nella fede e non nella rassegnazione e nella disperazione, rende possibile
la scoperta e la ripresa del finito come dono ed evento gratuito: «Ora se egli non inganna la
possibilità, se non abbindola l’angoscia, gli viene restituito tutto come non avviene mai a un uomo
nella realtà, anche se ricevesse dieci volte tanto».
4.2.3. «la fede fa il contrario: dopo aver compiuto i movimenti dell’infinito, essa fa quelli del
finito». La fede, restituendo l’esistenza alla dimensione dell’infinita possibilità, diventa movimento
in forza del quale all’uomo è resa possibile sia la scelta autentica di sé e dei valori dell’etica, sia la
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libera, distaccata e perciò intensa, fruizione delle circostanze e delle opportunità; perfino di quei
momenti piacevoli che l’esteta, vittima delle circostanze, rincorreva collocandosi all’esterno di sé,
esponendosi perennemente al rischio della disperazione e del non senso. Solo l’uomo di fede si apre
infatti all’infinita gratuità del finito sino ad apparire, di fronte agli occhi comuni (che non colgono
nell’uomo di fede il movimento dell’infinita distanza che egli prende da ciò che è mondano), il più
raffinato fruitore di ciò che è occasionale e finito; riesce a «trasformare in marcia il salto nella vita».
«… Diciamolo sinceramente: durante le mie osservazioni, non ho trovato un solo esemplare
autentico di cavaliere della fede, senza perciò voler negare che forse un uomo ogni due ne sia un
campione. Eppure, per molti anni ne ho cercato le tracce; ma sempre invano. Si suol fare il giro del
mondo per veder montagne e fiumi, nuovi astri, uccelli multicolori, pesci mostruosi, bizzarre razze
umane; ci si abbandona ad uno stupore animale, si sgranano gli occhi davanti al mondo e si crede
d’aver veduto qualcosa. Tutto ciò mi lascia indifferente. Ma se io sapessi dove si trova un cavaliere
della fede, andrei anche a piedi e subito, in cerca di questo prodigio che per me ha un interesse
assoluto. Non lo lascerei un istante; ad ogni minuto scruterei come fa a compiere i suoi movimenti
e, considerandomi ormai ben provveduto per tutta la vita, dividerei il mio tempo in due parti, una
per osservarlo, l’altra per esercitarmi. Tutta la mia vita passerebbe ammirandolo. Lo ripeto: un
uomo simile, non l’ho trovato, eppure posso assai bene rappresentarmelo. Eccolo: abbiamo fatto
conoscenza, gli sono stato presentato. Ma nel momento medesimo che io lo considero, ecco che mi
tiro indietro, giungo le mani, e dico a mezza voce: «Gran Dio! È quest’uomo qui, è proprio lui? Ha
tutta l’aria di un agente delle imposte! ». Eppure, è proprio lui. Mi avvicino un poco, sorveglio ogni
suo minimo movimento per cercar di sorprendere qualcosa di un’altra natura, un minuscolo segno
telegrafico trasmesso dall’infinito, uno sguardo, un’espressione della fisionomia, un gesto, un’aria
melanconica, un sorriso che riveli l’infinito nella sua irriducibilità rispetto al finito. Macché!
Nulla. Lo esamino dalla testa ai piedi, cercando la fessura attraverso la quale si riveli l’infinito.
Nulla! È solido in ogni punto. Il suo passo? Tranquillo, interamente confidato al finito. Nessun
borghese vestito a festa che faccia la sua settimanale passeggiata a Fresberg ha un’andatura più
sicura della sua. È completamente di questo mondo, come nessun bottegaio saprebbe esserlo di più.
Nulla che riveli quella rara e altera natura alla quale si riconosce il cavaliere dell’infinito. Si
rallegra d’ogni cosa, si interessa a tutto; ed ogni volta che lo si vede intervenire in qualche luogo,
lo fa con la perseveranza caratteristica dell’uomo terrestre, il cui spirito è legato a simili cure. È in
quel che fa. A vederlo, lo si crederebbe uno scriba che abbia perso l’anima nella contabilità in
partita doppia, tanto è meticoloso. Santifica la domenica. Va in chiesa. Nessuno sguardo celeste,
nessun segno dell’incommensurabile lo tradisce; se non lo si conoscesse, sarebbe impossibile
distinguerlo dal resto dell’assemblea; perché il suo modo sano e forte di cantare i salmi prova,
tutt’al più, che ha buoni polmoni. Nel pomeriggio, va in campagna. Si diverte di tutto quel che
vede, del movimento della folla, dei nuovi omnibus, della vista del Sund; e quando lo si incontra
sulla Strandvej, lo si scambierebbe con un droghiere in vacanza tanto si diverte. Perché non è
affatto poeta; e invano ho cercato di sorprendere in lui l’incommensurabile della poesia. Verso
sera, torna a casa; il suo passo non rivela maggior fatica di quello di un fattorino. Cammin
facendo, pensa che sua moglie gli ha preparato per cena un buon piatto caldo, una vera e propria
novità, una testina di capretto arrosto, per esempio, con contorno, forse. […] Vive senza pensieri,
come un fannullone, eppure paga al più caro prezzo il suo buon tempo, con ogni istante della sua
vita: perché non fa nulla se non in virtù dell’Assurdo. Eppure (è una cosa da diventar furioso,
almeno di invidia) quest’uomo ha compiuto e compie ad ogni istante il movimento infinito. Egli
vuota nell’infinita rassegnazione la melanconia profonda della vita. Conosce la beatitudine
dell’infinito. Ha provato il dolore della totale rinunzia a quanto si ha di più
caro al mondo. Nondimeno, gusta il finito con la pienezza di godimento di chi non ha mi conosciuto
nulla di più elevato. Vi dimora senza traccia del tirocinio che l’inquietudine e il timore fanno
subire; e ne gode con tale certezza che sembra non vi sia per lui nulla di più sicuro che questo
mondo finito. Eppure tutta l’immagine del mondo che egli produce è una creazione nuova, dovuta
Sergio Gabbiadini
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etica in modelli storici TU 2009
Schopenhauer Kierkegaard
incontro 7
all’Assurdo. Si è infinitamente rassegnato a tutto, per poter tutto riacquistare in virtù dell’Assurdo.
Compie costantemente il movimento dell’infinito ma con una tale precisione e sicurezza che ne
ricava incessantemente il finito, senza che neppure per un istante sia possibile supporre qualcosa di
diverso. […] I cavalieri dell’infinito sono dei ballerini, non mancano di elevazione. Saltano in aria
e ricadono; passatempo non sgradevole né spiacevole a vedersi. Ma ogni volta che ricadono, non
possono ritrovarsi subito sulle loro gambe, vacillano un istante, in un’esitazione che mostra quanto
essi siano estranei al mondo. Quel vacillare è più o meno sensibile, a seconda della bravura; ma
neppure il più abile fra di loro può dissimularlo. È inutile guardarli mentre sono in aria; basta
vederli al momento in cui toccano il suolo. Allora è possibile riconoscerli. Ma ricadere in modo
tale, che si paia, al tempo stesso, dritti e in moto; trasformare in marcia il salto nella vita,
esprimere lo slancio sublime nella più comune andatura, ecco ciò di cui è capace soltanto il
cavaliere della fede, ecco il prodigio unico. […] Esaminiamo ora un po’ più da vicino la
sofferenza e l’angoscia contenute nel paradosso della fede. L’eroe tragico rinunzia a se stesso per
esprimere il Generale; il cavaliere della fede rinuncia al Generale per diventare Individuo. L’ho
detto, tutto dipende dalla situazione in cui ci si trova. Se si crede cosa relativamente facile essere
l’Individuo, si può esser sicuri che non si è il cavaliere della fede; perché gli uccelli in libertà e i
geni vagabondi non sono uomini della fede. Al contrario, il cavaliere della fede sa che è cosa
magnifica appartenere al Generale. Sa che è bello ed utile essere l’Individuo che si traduce nel
Generale e che, per così dire, offre di se stesso un’edizione pura, elegante, corretta al massimo,
intelligibile a tutti; conosce il conforto di diventare comprensibile a se stesso nel Generale, in modo
da comprendere quest’ultimo e in modo che ogni individuo che comprenda lui stesso comprenda
anche il Generale, ambedue trovando la loro gioia nella fiducia del Generale. Sa come è bello
esser nato quale Individuo che nel Generale ha la propria patria, la propria dimora amica, sempre
pronta a riceverlo quando voglia abitarla. Ma sa anche che sopra quella regione serpeggia un
cammino solitario, stretto e ripido; sa quanto sia terribile essere nato solitario fuori del Generale,
e camminare senza incontrare mai un solo compagno di strada. Sa perfettamente dove egli è, e
come si comporta verso gli uomini. Per essi, è un pazzo, e nessuno può comprenderlo. Eppure,
pazzo, è il meno che si possa dire. Se non lo si considera pazzo è allora un ipocrita; e tanto
peggiore, quanto più in alto va il suo pensiero.
Il cavaliere della fede sa quale entusiasmo dia la rinuncia, nella quale ci si sacrifica per il
Generale e quale coraggio essa richiede; ma sa anche che c’è, in una simile condotta, una
tranquilla sicurezza, appunto perché essa è rivolta al Generale. Sa che è magnifico esser compreso
da ogni anima nobile e in modo tale che colui che lo consideri si faccia ancora più nobile. Sa tutto
questo, e si sente come avvinto; desidera talvolta che sia questo il compito assegnato a lui. Abramo
avrebbe così potuto talvolta desiderare che il suo compito fosse quello di amare Isacco come
conviene ad un padre, di un amore intelligibile a tutti e indimenticabile; avrebbe potuto desiderare
che il suo compito fosse quello di sacrificare Isacco nell’interesse generale e di dare ai padri
l’entusiasmo delle gesta gloriose. Ed era quasi atterrito pensando che quei desideri non erano per
lui altro che crisi e che dovevano essere considerati come crisi; perché egli sapeva di seguire un
cammino solitario, di non far nulla nell’interesse generale, ma di essere soltanto provato e tentato.
[…] Ma Abramo credette.»
(Kierkegaard Søren 1843 Timore e tremore, edizioni di Comunità, Milano 1971, pp. 60-61,63,64,
98-100)
Sergio Gabbiadini
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