RIASSUNTI DI “NAZIONALISMO” di Hans-Ulrich Wehler Prefazione: problemi legati alla questione del nazionalismo In quanto fenomeno moderno, il nazionalismo iniziò a conquistare l’interesse di osservatori e commentatori solo a partire dalla metà dell’800. Una più vasta risonanza della ricerca scientifica sul nazionalismo si sarebbe tuttavia registrata solo dopo la prima guerra mondiale in ambito europeo, dagli anni ’60 in ambito internazionale. All’inizio degli anni ’80 giunse ad un punto di svolta; fino a quel periodo la ricerca condivideva alcune premesse comuni e vincolanti: 1) la nazione era considerata come entità naturale della storia europea, la cui genesi era vista come un atto di creazione divina, mai indagata con precisione. 2) l’idea che la nazione avesse diritto di avere un proprio stato; alle nazioni nuove si riconosceva il diritto a conquistarlo e quelle “vecchie” quello di consolidarlo. 3) la nazione progressivamente crea quei sistemi di valori e di idee con cui giustificare la propria esistenza; tali idee furono espresse in termini di coscienza nazionale, patriottismo, mentre il concetto di nazionalismo si caricava di una connotazione peggiorativa. 4) predominava una concezione di matrice marxiana, secondo cui la base politica della nazione genera una “sovrastruttura” ideale sotto forma di nazionalismo. A partire dagli anni ’80 la moderna ricerca sul nazionalismo si è sviluppata all’insegna di una chiara presa di distanza da queste direttrici grazie a storici come Hobsbawm, Gellner e Anderson. Le peculiarità della nuova discussione sono: 1)L’idea di poggiare la discussione sulle idee del nuovo costruttivismo, concettualizzare i fenomeni storici come costrutti dello spirito umano e delle sue categorie. 2) La nuova ricerca insiste sul primato della lingua e delle idee. 3) La nuova ricerca toglie al nazionalismo e alla nazione ogni parvenza di neutralità e dunque smentisce l’ontologia sociale essenzialistica della vecchia scuola. Pone la priorità del nazionalismo nel regime di pensiero e nei processi di formazione dell’identità. Insistendo sull’incessante storicità del nazionalismo e della nazione. La nuova ricerca analizza le utopie del nazionalismo di volta in volta nuove, il loro potenziale di affermazione, la loro mutevolezza. Allo stesso tempo sembra abbastanza deficitaria l’analisi degli evidenti e importanti elementi di lunga durata, oltre che l’inclusione e l’apprezzamento di condizioni storico-reali quali ad esempio le esperienze di guerra e rivoluzione. 4) La nazione “fatta” dal nazionalsocialismo ha registrato un sorprendente successo di realizzazione e ciò rende necessario interrogarsi usi fondamenti prenazionali che ne sono stati alla base. Anche i nazionalismi più sviluppato in compiuti stati nazionali rimane sempre in uno stato di aggregato, pur senza raggiungere la condizione di “nazione compiuta”. Il nazionalismo si lega spesso con altre forme di lealtà in una durevole o provvisoria fusione con le confessioni o le regioni storiche. Proprio da questo genere di alleanze che deriva la vita sorprendentemente lunga del nazionalismo. Necessario è sicuramente prendere in considerazione la storia del nazionalismo in Europa e nell’America del Nord, dato che è qui che se ne possono rintracciare al meglio le origini ed è qui che lo sviluppo è stato più carico di conseguenze. Infine, due brevi definizioni dovrebbero facilitare la comprensione del testo: Con “nazionalismo” si intende il sistema di idee, mobilitazione e integrazione di una grande associazione solidale (designata nazione), utile alla legittimazione delle moderne forme di dominio politico. Lo stato-nazionale e la sua ricerca di una nazione il più possibile omogenea costituiscono pertanto il problema cardinale del nazionalismo. Con “nazione” si intende quell’ordine in primo luogo “pensato” che si sviluppa tramite il ricorso alle tradizioni di una organizzazione di dominio su base etnica e che si costituisce progressivamente in una sovrana unità di azione attraverso il nazionalismo e i suoi sostenitori. - Il nazionalismo come unicità dell’Occidente Fino alla seconda metà dell’800, il nazionalismo è stato un fenomeno politico del mondo occidentale e delle sue propaggini coloniali in America. Nazionalismo e nazione divennero eminenti beni di esportazione solo dopo aver dimostrato le capacità di successo; subirono anche alcune variazioni urtando contro barriere insormontabili. Sorse nell’ambito culturale occidentale poiché nella fase della sua genesi apparteneva a quelle manifestazioni di carattere storico-universale che solo l’Occidente ha prodotto; per capire perché come divenne un “bene di esportazione” così attrattivo bisogna chiarire il carattere delle condizioni entro cui potè svilupparsi in Occidente. - Nascita e primo sviluppo del Nazionalismo Il nazionalismo non è qualcosa di indipendente dalla storia; da sempre sono esistiti legami di fedeltà che hanno vincolato gli uomini a grandi organizzazioni solidali e di dominio. Il loro punto di riferimento poteva essere il clan familiare, un lignaggio o una dinastia principesca, un’antica polis... Simili sentimenti di fedeltà e appartenenza valgono come costanti psicosociali e antropologiche: se l’organizzazione solidale cui si appartiene oltre che aiuto e protezione garantisce anche stima e valore, ciò fa crescere la consapevolezza e rafforza il senso di identità. Tali antichi rapporti di fedeltà non hanno minimamente a che fare col nazionalismo, ma possono essere utilizzati per la costruzione di un passato nazionale; si tratta peraltro di rapporti che si conservano a lungo tempo sotto forma confessionale o religiosa; sopravvivono accanto alla coscienza di identità nazionale o si fondono con questa. E nel momento in cui la forza di uno di questi poli viene meno, un nuovo elemento di fedeltà si afferma in maniera dominante. Ma quando, dove e come sorse il nazionalismo? Prima di tutto sorse come risposta alla crisi strutturale nella prima età moderna, in una fase critica di insicurezza nella fiducia delle regole. Le rivoluzioni presuppongono l’erosione dell’antico ordine e la delegittimazione delle tradizionali strutture istituzionali. Colpi di forza per la presa del potere, sovrapposizioni di potenze straniere e caduta di tiranni si verificano in molti ambiti culturali, ma solo in occidente si assiste a questo genere di rivoluzione come “classica” crisi di modernizzazione. Solo qui vi sono le premesse che consentono la vittoria delle nuove forze, ed è qui che il nazionalismo potè prendere forma. Il nazionalismo promette di fondare l’ordine del potere e della vita collettiva su una nuova base di legittimazione, ovvero sulla volontà di una nazione sovrana. Nella lotta per l’indipendenza dei Paesi Bassi contro il dominio spagnolo ad esempio: il calvinismo (affermatosi al posto del luteranesimo) si opponeva al cattolicesimo ortodosso uscito dalla virulenta Controriforma. Dal 1567 l’esercito spagnolo tentò di imporre la remissività dei sudditi, ma ciò finì per portare la nobiltà dei Paesi Bassi su posizioni di ribellione sfociate in una guerra di secessione finchè nell’81 le province del Nord si separarono, costituendo l’autonoma e protestante Repubblica dei Paesi Bassi. Per la prima volta si assisteva alla vittoria della periferia contro il centro. Legata a questa vittoria in una rivoluzionaria lotta di indipendenza andò crescendo un forte sentimento di autostima che mostrava evidenti caratteri del futuro nazionalismo. Il mondo monarchico si consolava pensando che la Repubblica potesse funzionare solo nella condizione di piccoli assetti statali; invece le due rivoluzioni occidentali successive dimostrarono il contrario. La cesura di portata storico-universale si ebbe con la Rivoluzione inglese tra 1642 e 1659. Dall’opposizione all’assolutismo reale e contro la svalutazione del parlamento, crebbe la resistenza della nobiltà e della Chiesa protestante-anglicana, rafforzata dal fondamentalismo religioso dei puritani calvinisti, che sfociò nel conflitto con la corona. Quando nel ’49 il Re fu giustiziato, anche in ING potè affermarsi la Repubblica, designata come Commonwealth e durata un decennio, abbastanza per procurare una profonda scossa al sistema monarchico europeo. Questo nazionalismo trovava una sua legittimazione nel ricorso a tradizioni secolari di dominio su base etnica in una condizione di isolamento insulare, ma soprattutto nel credo di predestinazione. Il passo successivo si ebbe con la Rivoluzione americana del 1776. Il potere reale era entrato in crisi con la guerra dei 7 anni (1756-63); le esigue collettività inglesi avevano un alto livello di amministrazione regionale e locale, ma il ristretto ceto di intellettuali americani si muovevano con grande dimestichezza all’interno della teoria politica dell’Illuminismo. Non a caso, fu presa in considerazione la possibilità di una rifondazione statuale sulla base della sovranità popolare, che trovò poi realizzazione nella Repubblica degli Stati Uniti D’america riconosciuta internazionalmente nel 1783. I rivoluzionari americani giustificarono la loro guerra di indipendenza appellandosi alla difesa di antichi diritti di libertà inglesi contro il dispotismo londinese. La loro missione fu rafforzata dalla teoria politica secondo cui la sede degli imperi mondiali si sarebbe spostata dal Vicino Oriente all’America del Nord, dove andava sviluppandosi un nazionalismo orgoglioso, faro della democrazia repubblicana. Nel 1789 la Rivoluzione Francese acquistò un significato indicativo anche in merito al suo nazionalismo, causato dalla crisi dell’Ancien Regime. Durante i decisivi dibattiti costituzionali, deputati come l’abbè Sieyes, elevarono il terzo stato a nucleo portante della nazione e così anche la prima Repubblica francese, che si fondava su una nuova qualità di sovranità nazionale, si costituì nel corso della lotta per il potere, la quale si coniugò con l’esecuzione del monarca. Al posto della molteplicità di forme di fedeltà in competizione tra loro, doveva sorgere un’unica identità nazionale in grado di dominare sul tutto. Gli apostoli del nazionalismo si appellavano al diritto naturale, che si presta sempre in maniera eccellente alla legittimazione di un nuovo ordine rivoluzionario. La rivoluzione fu domata da Napoleone prima e dal ripristino della monarchia successivamente, ma i fondamenti del nazionalismo affermatisi nell’ultimo decennio del 1700 sopravvissero incontrastati. Con le rivoluzioni di ING-FRA-America, si era creata una particolare costellazione internazionale caratterizzata dal forte potere di attrazione di questi tre Stati nazionali e relativamente al nazionalismo, vi fu un effetto dimostrativo da parte di queste tre società pioniere assurte a modello di riferimento. Per poter liberare l’anelata sovranità popolare da ogni limitazione, era necessario che all’interno della nazione valesse il principio dell’eguaglianza per ogni suo membro. Con ciò la democrazia egalitaria si fondeva con il nazionalismo, stabilendo così una connessione indissolubile e aumentando il potere di attrazione del nuovo modello. In sintesi se già la sola capacità di modernizzazione di quegli stati ne aveva fatto un modello esemplare, il nazionalismo risultava ora essere una sorta di marchio di garanzia di modernità vera. L’ambivalenza del nazionalismo emerse fin dall’inizio: da una parte la sua forza di mobilitazione delle masse risultava attrattiva non solo in quanto dottrina di integrazione, ma anche in quanto pericoloso focolaio per la stabilità politica e sociale. L’argomento principale, sostenuto da E. Gellner, secondo cui i bisogni delle moderne società industriali esigevano il mezzo di una lingua comune o di una cultura nazionale standardizzata, e pertanto anche di un effettivo nazionalismo, perde spessore analitico anche solo per il fatto che tutti gli originari nazionalismi si affermarono prima dell’industrializzazione e che il nazionalismo non occidentale del 1900 si è manifestato in un contesto in cui l’industrializzazione non era stata compiuta o doveva ancora essere avviata. Si può sostenere che il moderno processo di formazione degli Stati trovò il suo prosieguo nella forma dello Stato nazionale, mentre il nazionalismo contribuì con l’obiettivo di una compiuta omogeneità e indiscussa identità nazionale. Il processo di formazione dello stato rispetto all’esterno operò in Europa sin dal tardo 1400 e fece sì che nel 1914 delle circa 450 unità di dominio autonome ne rimanessero non più di 20/25. In Europa tale sviluppo statuale aveva già prodotto uno stabile impianto di istituzioni nonché la loro accettazione nelle future organizzazioni di dominio ancor prima che il nazionalismo si affacciasse alla trasformazione della società. Il venir prima della formazione esterna e interna dello stato, ciò che avrebbe condotto a una invenzione prettamente europea degli Stati dell’età moderna, risulta essere una premessa essenziale per il successo del nazionalismo nel mondo occidentale. Al contrario, nei paesi privi di una tradizione statuale, il nazionalismo ha prodotto una situazione di duratura e fatale labilità. - L’innalzamento del nazionalismo a “religione politica” In tutte le società pioniere del nazionalismo si può osservare un evidente ricorso alla tradizione giudaico-cristiano, che nel millennio precedente aveva fortemente impregnato la mentalità imponendosi come orizzonte del pensiero. Periodi di sconvolgimento sono spesso accompagnati dalla nascita o dalla rievocazione di un mito. In ogni variante del nazionalismo si può osservare il ricorso in particolare ad elementi dell’Antico Testamento. Innanzitutto vi fu una ripresa e un adattamento dell’idea del “popolo eletto”, ogni nazione si dichiarava certa di una simile promessa di salvezza. Si giungeva all’inquietante risultato per cui ogni pericoloso avversario poteva trasformarsi in un nemico mortale per il solo fatto di porre in questione un popolo privilegiato dalla storia sacra sul suo sacro territorio. Il nazionalismo avrebbe più tardi dato espressione a quell’avversione mortale che non solo drammatizzava i rapporti con i vari avversari, ma che giustificava anche il ricorso alla violenza. Attraverso la secolarizzazione di retaggi religiosi, si svilupparono importanti elementi di lunga durata del nazionalismo. Continuava l’antico rapporto israelita tra un dio esclusivo e il suo popolo eletto, così come gli israeliti alla loro epoca si distinguevano dai non circoincisi o i greci dai barbari, ora i membri della nazione si distinguevano dagli “altri”. Spesso l’origine della nazione è stata avvalorata da un mito di discendenza lineare e teologica; negli ariani di pura razza si sarebbe invece scoperta la “essenza del popolo” dei tedeschi; il mito genealogico serviva a dare stabilità alla fratellanza etnica e alla comunità nazionale. In altri termini, il nazionalismo ricostruiva la preesistente area di dominio etnico in un proprio territorio nazionale che acquistava un elevato significato nella scala dei valori. Il messianesimo di tradizione israelitica e la variante testamentaria del carismatico girovago di Nazareth, alimentarono un sentimento di missione o vocazione nazionale. Così, per esempio l’Inghilterra, nella sua qualità di “nuova Roma”, si ascrisse il compito di fari gioire il mondo civilizzandolo. Intrinseca al messianesimo era anche la figura del redentore col compito di ricondurre a un nuovo regno o preparare alla fine del mondo; figura che non era difficile immaginare come un fondatore/salvatore della nazione. L’idea della fratellanza contenuta nella concezione paolina del cristianesimo era adattabile ad una versione secolarizzata che sanciva l’eguaglianza di tutti gli uomini già nella vita terrena. Qui risiedono le radici della moderna democrazia egalitaria che sin dall’inizio ha mostrato una certa affinità elettiva con il nazionalismo. I caratteri fondamentali della religione risiedevano in pochi elementi: la promessa del superamento della contingenza e di un conferimento di senso dell’esistenza della vita umana; l’insistenza sul monopolio interpretativo in merito all’esegesi; un disegno complessivo intriso di norme e comportamenti possibilmente validi per tutte le situazioni; un processo di aggregazione comunitaria come processo di formazione di una comunità improntata ai princìpi dell’associazione solidale; la pratica di rituali con cui rafforzare la potenza della credenza e perpetuare il continuo riadattamento dei modelli di pensiero. Grandi scrittori hanno colto il carattere religioso del nazionalismo prima degli storici: “i popoli non vanno più in chiesa; la nuova religione è il nazionalismo” si diceva. - L’invenzione della nazione e le tradizioni storiche delle etnie La concezione convenzionale della nazione insiste sul fatto che essa sarebbe esistita sin dai tempi remoti; rimasta ottenebrata finchè non fu risvegliata, riacquistando coscienza di se. Le nuove acquisizioni sul nazionalismo ne mettono invece in risalto la sua qualità di fenomeno precipuamente moderno che si distingue in maniera fondamentale dal tipo di rapporti di fedeltà esistenti nelle antiche “associazioni di potere”. Solo con il nazionalismo la nazione si eleva a massima “istanza di conferimento di senso e autogiustificazione”, che respinge gli altri dèi minori in virtù del carattere di religione politica assunta dal nazionalismo. La patria nazionale è divenuta ora qualcosa di sacrosanto, pertanto uno scambio o una cessione di parti del suo territorio non sono più legittimabili. Si è inoltre dimostrato il carattere di costruzione delle nazioni. Smentendo la sostanza “naturale” o “eterna” della nazione, si è appunto dimostrato che la nazione altro non è se non un flessibile prodotto della storia moderna, i cui tratti sono stati tracciati dal nazionalismo. La figura di pensiero della “invenzione delle tradizioni” a questo proposito ci consente di descrivere la nazione come “invenzione” da parte di intellettuali. Tuttavia i protagonisti del nazionalismi non possono aver “inventato” tutto il costrutto. Essi l’hanno combinato attingendo a elementi della tradizione storica. In effetti non si può ignorare che in Inghilterra, FRA o America il nazionalismo si trovasse di fronte a etnie dotate di ricchissimi repertori di tradizioni. Proprio da questa massa di etnie i precorritori del nazionalismo poterono trarre buona parte degli elementi della loro costruzione. Qui si trovavano organizzazioni di dominio, una lingua e una cultura comuni, comuni ricordi di vittorie e sconfitte. L’artificio creativo del nazionalismo consiste nella capacità di trasformare, il differenziato passato delle etnie in un uniforme passato nazionale, così da far sorgere l’illusione di una continuità di tradizioni priva di qualsiasi rottura o deviazione di percorso. A questo proposito sorgono due paradossi: 1) da un canto il nazionalismo e la nazione costituivano due fenomeni nuovi della modernità, mentre erano percepiti come qualcosa di antichissimo. 2) Dall’altro il nazionalismo rivendicava per se il valore di principio universale insistendo sull’unicità e particolarità della sua propria conformazione. Ciò conferma quanto la sua potenza politica andasse di pari passo con una rilevante povertà di pensiero. Sui nessi tra nazionalismo ed etnia si possono formulare 4 tesi: 1) Laddove il nazionalismo entrò in contatto con etnie organizzate in un proprio Stato, procurò alla sua nazione e al suo stato nazionale una durevole e solida base. 2) Laddove si inserì in un contesto di molteplici organizzazioni solidali ricche di tradizioni compensò la mancanza di omogeneità mobilitando la memoria di antichi “Stati” in un glorioso passato. 3) Laddove intervenne in zone di precedente dominio coloniale, caratterizzate da forte pluralismo etnico, i nuovi “Stati-Nazione” si sarebbero caratterizzati per una stabilità estremamente precaria. 4) Benchè nazione ed etnia siano strettamente connesse, la prima si distingue dalla seconda per alcuni elementi: - la nazione si costituisce su un territorio (come l’etnia), ma la innalza a terra sacra. – La nazione viene integrata attraverso una comune mitologia e una artificiosa enfatizzazione della comune provenienza. – La nazione vive entro un sistema di potere accettato che tende a poggiare su un tipo di legittimazione all’insegna della volontà della nazione sovrana. – La nazione possiede una comune “morale interna”, mentre per gli stranieri varrebbero un trattamento discriminatorio, nonché le conseguenze di essere “fuori dalla morale”. – La nazione infine si distingue dall’etnia perché rivendica per se l’assoluta priorità come istanza di autogiustificazione e il primo posto nella gerarchia dei valori. - Gli esponenti sociali del nazionalismo A lungo ha prevalso la tendenza a far coincidere l’ascesa della borghesia con lo sviluppo del nazionalismo. Tuttavia non esiste alcuno strato sociale che sia predestinato o immune al nazionalismo. L’attrattività di quest’ultimo risiede piuttosto nella sua capacità di superare tutti i rigidi confini di tipo sociale. Il nazionalismo non può essere attribuito ad una specifica formazione sociale. D’altro canto non si può tuttavia disconoscere il ruolo dominante esercitato dagli intellettuali di estrazione borghese. Appare quindi distinguere lo sviluppo del nazionalismo e il nation-building in 3 fasi: 1) gli interessi letterari contribuiscono a rivolgere interesse alle questioni della lingua “nazionale”, del passato “nazionale”, ma con risonanza limitata. 2) si sviluppa un vero e proprio nazionalismo intellettuale d’elite. La predominanza di simpatizzanti d’estrazione borghese è netta, si assiste allo sviluppo progressivo di una visione programmatica e i circoli diventano veri e propri centri di attività politica. 3) Le idee del nazionalismo conquistano un crescente campo di influenza tanto da giungere alla mobilitazione di movimenti di massa. Gli intellettuali borghesi assumono il ruolo di “opinion leaders”. I movimenti nazionali dell’800 si sono avvalsi raramente di una organizzazione strutturata; si è spesso trattato di legami informali ed eterogenei tra individui. Per esempio il movimento nazionale tedesco fino al 1870 era dominato da uomini di estrazione borghese nonché giovani nobili entusiasti, ma vi era anche la presenza del giovane movimento operaio. Una prassi di esclusione avrebbe poi mantenuto la classe operaia estranea al nucleo centrale della nazione. La nobiltà invece si tenne in disparte ancora più a lungo della popolazione contadina. Tuttavia lo Stato nazionale iniziò a sottoporre a imperativi nazionali i processi di socializzazione in ambito educativo e militare; il nazionalismo veniva presentato come dottrina in cui credere senza porre interrogativi, risucchiando in se tutte le classi sociali con grande intensità. Laddove l’epoca oscura della “oppressione nazionale” durò più a lungo (come il POL o Irlanda), il nazionalismo conobbe una diffusione ampia in tempi brevi e dipese dal fatto che la resistenza contro le forze di occupazione di religione diversa trasformò la propria religione in un cattolicesimo nazionale capace di coniugare in un solo obiettivo l’affermazione della propria dottrina e la riunificazione dell’autonomia nazionale. Ancora alla fine del ‘900 non si può immaginare il successo del movimento polacco di Solidarnosc senza questo fondamento cattolico nazionale, fortemente enfatizzato dal primo Papa Polacco. Negli USA l’affermazione del nazionalismo fu favorita dalla miscela fra fondamenti religiosi relativi all’immagine del popolo eletto, dall’idea di missione come modello esemplare. L’equiparazione “nazionalismo=dottrina della borghesia” appare poi ancor più inadeguata nel caso di quei paesi che accolsero il nazionalismo in seguito a un processo di adozione e inoltre nei paesi non occidentali, formazioni sociali analoghe alla borghesia (sotto il profilo dello stile di vita e delle condizioni sociali) si sarebbero sviluppate solo gradualmente e in tempi diversi. - Come e Perché riuscì la diffusione del Nazionalismo Tenendo conto degli interessi di legittimazione e di potere, la “comunità immaginata” avrebbe dovuto essere trasposta dal mondo delle idee a quello della realtà. Bisogna perciò soffermarsi sulle modalità con cui avvenne la trasformazione dall’idea del nazionalismo alla prassi. A questo proposito è riduttivo attribuire la sua diffusione all’impegno dei soli intellettuali. Un ruolo centrale lo hanno avuto 6 fattori: 1) La comunicazione: la moderna rete dei trasporti ferroviari, le grandi vie di comunicazione e la diffusione capillare della Posta; i centinaia di migliaia di quotidiani e l’aumento dei lettori (soprattutto grazie alla lotta contro l’analfabetismo) garantirono che le idee portanti del nazionalismo potessero raggiungere un grande pubblico. 2) La diffusione di una lingua popolare, la lingua “vernacolare” che derivava dall’invenzione della stampa. Essa si affermò per via di un particolare stile linguistico della cultura “alta”, che iniziò a privilegiare un dialetto piuttosto che un altro e a inculcare una lingua precisa. Importante fu la pressione esercitata dai riformatori che rivendicavano il diritto di ogni credente a poter leggere la Sacra Scrittura nella propria lingua anziché in latino. La lotta per la diffusione della lingua vernacolare ne impose l’accettazione, facendola divenire la lingua dei manuali scolastici del sistema educativo statale. Al momento dell’unificazione italiana infatti solo il 2.5% della popolazione parlava il moderno italiano; predominava una molteplicità di dialetti che poterono essere attenuati solo grazie agli sforzi di omogeneizzazione compiuti dal sistema scolastico statale. Da nessuna parte è perciò accaduto che la nazione sia sorta da una lingua nazionale originaria, ma viceversa. 3) Il potere di convincimento della nuova dottrina nazionalistica doveva essere consolidato; in questo senso monumenti, processioni e feste non erano altro che richiami al passato, trasformato in tradizione nazionale. 4) La diffusione del nazionalismo dipendeva anche dall’attività e dallo spirito di sacrificio e nulla sembrava rivelare tanta efficacia pubblicitaria quanto la disponibilità di sacrificarsi come martiri in nome della bramata nazione. 5) La nazionalizzazione della società doveva trovare espressione anche a un livello concreto: opere d’arte divennero manifestazioni importanti del carattere nazionale. Il mercato nazionale, l’obbligo scolastico e la coscrizione divennero elementi portanti dello stato nazionale. 6) Infine il nazionalismo approfondì la differenza fra “noi” e gli “altri”. Se l’avversione per gli stranieri è sempre esistita nelle più diverse organizzazioni di dominio indipendentemente dalla organizzazione sociale, con l’entrata in scena del nazionalismo ha inizio la giustificazione degli eccessi di Xenofobia in nome dell’imperativo nazionale di “esclusione degli altri”. Nonostante una certa rigidità ideologica, il nazionalismo mostrò una grande flessibilità nella prassi politica, riuscendo a stringere alleanze con tipi di regimi ed organizzazioni sociali anche molto eterogenee tra loro. La polivalenza politica si manifesta in maniera esemplare soprattutto nel corso del ‘900, quando, adattandosi a tutti i sistemi politici, in nazionalismo dimostra di poter operare in maniera incondizionata. - Tipologie del nazionalismo Si possono distinguere quattro diversi tipi di nazionalismo, riconducibili a precise fasi storiche e a circostanze regionali: 1) Il nazionalismo di integrazione (USA/FRA/ING) costituì il relativo stato nazionale muovendo da una rivoluzione statuale interna e rifondando una preesistente organizzazione di dominio su una nuova base di legittimazione. 2) Nazionalismo risorgimentale, che unifica diverse parti di una preesistente “nazione”, finendo per raggruppare diverse etnie entro uno Stato Nazionale (ITA/GER). 3) Nazionalismo secessionista, che dopo il 1918 ha accelerato il crollo degli imperi dando vita a nuovi stati sulle macerie di essi. In ogni caso è evidente che si manifestarono numerose altre varianti o tipologie miste; in ITA ad esempio il nazionalismo risorgimentale si coniugò con quello secessionista. 4) Nazionalismo d’adozione, che corrisponde all’assunzione del modello europeo/americano da parte di svariate etnie in tutto il mondo; la trasformazione Giapponese con le riforme Meiji dal 1868 costituisce il primo esempio saliente di adozione dell’attrattivo modello occidentale. In linea generale quindi emergono le seguenti differenziazioni: 1) Organizzazioni di dominio su base etnica sono oggetto di un processo di nazionalizzazione interna (INGFRA-SPA). 2) Stato e nazione sorgono contemporaneamente (ITA/GER). 3) Stati di immigrazione danno spesso luogo a una nazione eterogenea (USA/Australia). Il nazionalismo moderno solo in occidente potè svilupparsi, poiché esistevano premesse iniziali come: - una base di entità statuali preesistenti e da lunga data. – Un’utopia teologica come quella nazionalista poteva avvalersi di importanti elaborazioni della teoria politica. – Era presente un retroterra di concezioni portanti, derivanti dalla tradizione giudaica. – La società era già entrata in movimento con l’evolversi della struttura sociale. In breve, solo qui esistevano condizioni uniche e peculiari che resero possibile la genesi e poi la vittoria del nazionalismo fino alla costituzione degli Stati nazionali. - La storia dello sviluppo del nazionalismo: il nazionalismo americano Con la fondazione degli USA si assistette alla nascita di una Repubblica che sin dall’inizio si concepiva come nazione. Con i primi coloni giunti sulle coste new english era sbarcata anche la credenza puritana della predestinazione, la quale elevava la nascente collettività a nuovo “Israele Americano”. Distanziarsi dall’Europa voleva dire considerare le regioni ad ovest della costa come un nuovo “giardino dell’Eden”. In qualità di “faro dell’umanità umiliata e oppressa”, il nuovo Stato doveva indicare la giusta via. L’idea di fungere da esempio della compiutezza terrena al riparo dal mondo corrotto si trovò sempre in contraddizione con l’attitudine a realizzare questa missione con grande intraprendenza anche fuori della nuova dimora, nel resto del mondo. La dottrina della superiorità religiosamente fondata fu rafforzata dalla profonda influenza del diritto naturale e dall’idea del progresso di matrice illuminista. Gli ideali di virtù e libertà, crescita naturale e perfezionamento del genere umano, così come aleggiavano nel ‘700 nel pensiero repubblicano dell’illuminismo, si innestarono progressivamente nel decalogo dell’Unione Americana. In USA, dove dopo 150 anni il successo si presentava agli occhi di tutti, questa idea trovava giustificazione non solo nell’ambizione di occupare continuamente nuovi territori coloniali, ma anche nella volontà di espandere il territorio della “libertà anglosassone”. La promessa di sottomettere il mondo grazie alla “predestinazione” del suo progresso inarrestabile. La mistica espansionistica si riallacciava a una prassi vincente e ai comandamenti biblici, dal mondo antico delle idee derivava un altro elemento che aveva strettamente a che fare con la forma classica dell’invenzione della tradizione. Gli americani si appellarono alla dottrina greco-romana del carattere provvidenziale del centro del potere, secondo cui la sede degli imperi mondiali seguirebbe una traiettoria di spostamento da Est verso Ovest e l’”American Empire” sarebbe stata l’ultima stazione. Il ministro degli esteri Everett puntava ad una continua espansione dell’America, ma anche e soprattutto ad un idea centrale del nazionalismo; a partire dall’Indipendenza, gli imperativi del nazionalismo erano il benessere economico e la tranquillità sociale, ma anche il miglior funzionamento delle istituzioni repubblicane, che sarebbe iniziata mirando ad una costante espansione commerciale e territoriale. Le èlites erano ben consapevoli dell’efficienza del sistema sociale nel complesso e in tutti i gruppi era presente la necessità di una politica espansionistica ai fini della conservazione del sistema ricorrendo ad un nazionalismo in termini continentali o addirittura globali. Una espressione degli sforzi atti ad assicurare l’intero emisfero occidentale alla “nuova Sion” si trovava nella già citata dottrina Monroe 1823. Il determinismo geopolitico e l’isolazionismo antieuropeo si coniugavano con l’immagine portante di un “american system” che attribuiva agli USA la preminenza e un crescente territorio nazionale. Gli elementi centrali del nazionalismo americano e di tutte quelle idee che giustificavano il processo storico-reale di espansione confluirono nell’idea del “manifest destiny”. Ispirato dal senso del dovere missionario di origine puritana e ben consapevole di essere un grande impero, il paese modello della libertà repubblica-democratica si rifletteva nell’amorfa quanto efficace coscienza missionaria espressa dal “manifest destiny”. Questo concetto riuscì a catturare e a stringere a sé l’orgoglio americano e la volontà di affermazione intrinseci al suo nazionalismo. Beveridge vedeva “il grande piano di Dio” rivelato nella trilogia del benessere. In questa “Repubblica doveva sorgere il nuovo “eden” per la rinascita dell’umanità. Si trattava del sommo obiettivo della redenzione del mondo tramite la sua americanizzazione. Ma anche successivamente, durante le due grandi guerre e le seguenti situazioni di crisi, il discorso continuò a ruotare attorno a un “nuovo ordine mondiale” sotto l’egemonia americana. A ciò bisogna aggiungere anche un nazionalismo economico atto a garantire il mercato interno sia attraverso elevati dazi doganali (ultraprotezionismo) e il mercato esterno optando per una “politica della porta aperta”, per un libero commercio che favorisse il superiore potenziale economico americano nell’agricoltura e nell’industria. Al credo della predestinazione hanno corrisposto l’esternalizzazione del male, vedendo il nemico come un “nemico mortale” da distruggere. I “figli di Satana”, come erano chiamati gli Indiani dai Puritani o gli Unni dell’imperatore Guglielmo II, i “nazis” di Hitler, le orde di S. Hussein. D’altra parte l’esternalizzazione del male protegge il proprio orgoglio, la rappresentazione e la coscienza di sè, preservando da ogni forma di autocritica sulle proprie debolezza. Significativo è il fatto che in USA non vi sia nessun monumento o museo in memoria del quasi-genocidio compiuto contro gli indiani o in ricordo dei milioni di schiavi negri. Al contrario, l’Americanizzazione dell’olocausto, sulla scia della moda di una cultura delle vittime, non è che un ulteriore e chiaro esempio della esternalizzazione del male, rafforzando la convinzione degli americani del loro ruolo di redentori in un mondo che necessita e continua a necessitare di un “popolo eletto” nella “Nuova Sion” dall’altra parte dell’Atlantico. 2) I l nazionalismo tedesco All’origine del nazionalismo tedesco non c’è alcuna rivoluzione. Tuttavia a partire dal ‘700 la Mitteleuropa di lingua tedesca entrò in una forte crisi di modernizzazione dovuta all’esportazione bellica della Rivoluzione Francese. In questi territori la delegittimazione del dominio tradizionale era già avanzata, la gerarchia sociale era entrata fortemente in crisi; i legami di fedeltà si sarebbero poi ulteriormente allentati allorchè l’attacco degli eserciti rivoluzionari sotto la guida di Napoleone contribuì alla distruzione del tradizionale sistema pluralistico degli Stati Tedeschi, fino allo scioglimento del millenario Sacro Romano Impero. Anche la struttura sociale subì in più ambiti veri e propri capovolgimenti. Inizialmente i territori sotto amministrazione ecclesiastica, poi la Prussia e gli stati meridionali in seguito all’introduzione di numerose riforme in favore della modernizzazione. In seguito a questa crisi di modernizzazione sorse quella sfida, cui il giovane nazionalismo tedesco diede la sua risposta sviluppando una propria ideologia di legittimazione. Anche le vicende nazional-rivoluzionarie in USA e FRA furono seguite con la massima partecipazione dell’opinione pubblica politicizzata dei ceti colti. I primi protagonisti del nazionalismo infatti provenivano da una esigua formazione sociale, il “Bildungsburgertum”, le cui analisi vantavano la perspicace acutezza tipica dell’outsider. Ne facevano parte non pochi funzionari pubblici, riformisti che si convinsero che per superare la generale condizione di arretratezza in cui versavano i loro stati fosse necessario riorganizzarli in Stati Nazionali. Ritenevano che solo così sarebbe stato possibile attivare le potenziali forze di mobilitazione, conquistando l’identità a cui ambivano e che vedevano (con un sentimento misto di ammirazione e odio) nella più forte Francia. I contorni del movimento emersero intorno ad un discorso politico chiuso, di élite, che riprendeva i “topoi” classici di questa particolare religione politica: “il popolo eletto”, la “sacra patria”, la “missione storica” e i “nemici della patria”. Si procedette quindi ad una reinterpretazione del passato in senso nazionalista, difendendo il mito della rigenerazione. L’elemento unificante era l’appello a sostegno della nazione tedesca affinchè si costituisse in uno stato nazionale garante dell’unità. Si trattò di un nazionalismo caratterizzato da elementi federalistici, in quanto i suoi principali esponenti ritenevano inadeguato uno Stato unitario-centralista. Ciò che nel nazionalismo americano e inglese aveva trovato espressione nella terminologia della “promessa” puritano-anticotestamentaria, si ritrovava nel concetto di “missione” formulato dagli esponenti della piccola comunità nazionale tedesca. Bisogna tuttavia fare attenzione affinchè la teologia politica non offuschi l’accresciuta consapevolezza di questa formazione sociale (Bildungsburgertum) che poneva la nazione anche al servizio della nobilitazione del genere umano, una sorta di “nazionalismo culturale”. Coerente con questo ordine di pensieri era anche l’idea che all’eletto popolo tedesco spettasse anche una “terra promessa”, dove instaurare un “regno nazionale”. Secondo la maggior parte degli aderenti al movimento esso avrebbe dovuto comprendere tutta la Mitteleuropa di lingua tedesca, Austria inclusa. Questo avrebbero richiesto alla potenza viennese di rinunciare alla maggior parte del suo impero, mentre la Prussia avrebbe dovuto ritirarsi dai territori di annessione polacca. Il centro avrebbe dovuto risiedere nella nuova capitale “Teutonia”, nel punto di incrocio tra le grandi vie di comunicazione che congiungevano le città di confine Ginevra, Fiume e Copenaghen. Ritenendo che i Francesi mirassero alla distruzione della loro nazionalità, i tedeschi dovevano sentirsi giustificati a perseguire la distruzione di quel nemico. Kleist ad esempio esigeva che i tedeschi si mostrassero degni dei loro predecessori e alcuni furono colpiti dall’ossessione patologica, come Arndt, che esortava i tedeschi a “estirpare il parassita francese”. A suo avviso la “patria tedesca” stava l’ dove l’odio estirpa il “ciarpame” francese, dove ogni francese si chiama nemico. Lo stesso Napoleone attirava su di se un fervente odio in quanto incarnava il nemico mortale; tuttavia egli evocava anche una profonda ammirazione da parte di numerosi intellettuali nazionalisti, nella speranza che una simile personalità potesse condurre con successo all’unità nazionale della GER. Non a caso il culto di Bismark si alimentò notevolmente di quella brama di compimento che qui trovava le sue radici. Gli ambienti nazionalisti contavano poche migliaia di aderenti, consapevoli di rappresentare un’èlite. Tuttavia, nonostante la sua temporanea debolezza, il nazionalismo rappresentava una vera e propria sfida, una triplice minaccia per l’ordine costituito. Prima di tutto poneva in questione l’ordine internazionale e il sistema degli stati del centro d’europa. Poi costituiva un pericolo anche per gli stessi singoli stati tedeschi che voleva si fondessero. Infine, le idee di ordine di ordine liberale si rivolgevano anche contro l’organizzazione della gerarchia sociale dei privilegi. Anche in considerazione di questi fattori, il movimento nazionale fu duramente represso e il Duetscher Bund assunse le caratteristiche di sistema di blocco con cui impedire l’affermazione dello stato nazionale federale. Come potè succedere allora che in solo 30 anni il movimento riuscì a coinvolgere centinaia di migliaia di persone? In primo luogo bisogna tener presente i piccoli punti di appoggio e le cellule organizzative che riuscirono comunque a resistere continuando ad alimentare il “set concettuale” propugnato dal nazionalismo. Le associazioni studentesche continuarono a coltivare i propri convincimenti nazionali e così se da un lato era fortemente avversato, dall’altra parte il nazionalismo fu alimentato e sostenuto da un numero crescente di fonti. A ciò si aggiunse l’effetto di accelerazione scatenato dagli eventi internazionali e dalle crisi interne, come in occasione della crisi del Reno nel 1840, quando la FRA manifestò i primi appetiti per la riva sinistra del fiume; in quel caso anche negli stati tedeschi si scatenò un’ampia agitazione nazionalista. Una vera e propria mobilitazione si verificò in occasione della disputa sui ducati di Schleswig e Holstein, che sarebbero dovuti divenire parte del regno di Danimarca. Ne conseguì una mobilitazione nazionale che coinvolse anche le associazioni degli artigiani e le prime organizzazioni operaie. Pertanto, al momento della rivoluzione del 1848 il nazionalismo disponeva già di una considerevole riserva di attivisti. Nel caso dei dibattiti fu impossibile evitare lo scoppio di una diatriba sull’alternativa fra soluzione “grande tedesca” (che includeva l’AUS) e “piccolo-tedesca” (che escludeva l’AUS e riconosceva il centro di gravitazione prussiano). Nel 1849 in tutti gli stati tedeschi si assisteva al ritorno ad una politica repressiva, ma era evidente che sarebbe durata per poco. In maniera sorprendentemente rapida, il movimento nazionale si ripresentò all’opinione pubblica, spesso con le personalità e le menti emerse durante il biennio ’48-49, ma anche con numerosi nuovi adepti. La guerra di unificazione nazionale italiana, conclusasi con la nascita di un nuovo stato nazionale, accese la fantasia di un piccolo reticolo di élites che iniziò a catalizzare le energie ispirandosi all’esempio italiano. Tuttavia lo stato nazionale tedesco non fu tanto il prodotto di un imponente movimento nazionale, quanto della politica espansionistica prussiana guidata da Bismark. Dopo la creazione dello stato, andavano “creati” i cittadini, perciò occorreva innanzitutto costruire un quadro istituzionale entro cui inscrivere la costruzione e l’espansione dello stato nazionale. A ciò si provvide con l’istituzione di un Reichstag, dell’esercito e delle Università. Si trovarono spazi sempre maggiori anche nelle scuole, nelle università e nei “mezzi a stampa”. Infine era anche necessario proporre una efficace rappresentazione simbolica della nuova realtà nazionale; a ciò si provvide con feste e celebrazioni. La forte affinità fra il primo movimento nazionale e il liberalismo è palese, tant’è che per diversi decenni a partire dal 1840 l’ala sinistra del liberalismo fornì un sostegno importante alle idee politiche orientate alla democrazia nazionale. Nel giro di alcuni anni il nazionalismo tedesco si trasformò in una ideologia politica difensiva, socialconservatrice e illiberale, che si intrecciò rapidamente con obiettivi espansionistici miranti a mettere in discussione lo status quo. Nel ’71 l’obiettivo di uno stato nazionale tedesco era stato raggiunto, e con ciò si era esaurito il nazionalismo di unificazione; si fondava su una base di legittimazione che rispecchiava solo in minima parte le concezioni del primo nazionalismo liberale. Il potere principesco ne era il fondamento e ne facevano parte che i clamorosi insuccessi dell’ esercito; vi rientrava soprattutto l’elemento del potere carismatico di Bismark. La “volontà della nazione” poteva trovare espressione solo nel Reichstag, che fu a lungo mantenuto nell’anticamera del potere per essere rivalutato solo in una seconda fase. La tanto invocata unità della nazione subì profonde ferite che alla metà del ‘900 non erano ancora rimarginate. Ancora più carico di conseguenze fu il tentativo di escludere dalla nazione anche gli ebrei tedeschi attraverso al ricorso ad una loro stigmatizzazione biologica. Questo radicale pensiero di esclusione svelava una variante del nazionalismo imperiale e potè insinuarsi nei partiti e nelle associazioni conservatrici. A partire dagli anni successivi al 1880, una corrente sempre più influente iniziò a guidare una generazione più giovane cresciuta nell’impero al di fuori dei limiti fissati da Bismark. L’idea della grande GER non era stata sepolta e in effetti risorse con l’ambizione di un “completamento” della fondazione del Reich da compiersi con l’inclusione degli austriaci. Sul nuovo imperialismo poi premeva un nazionalismo desideroso di espandersi e che si iscriveva alla politica della “missione”. Già dai primi anni del ‘900, il “Reichsnationalismus” aveva vissuto un processo di radicalizzazione simile a quello riscontrabile nello stesso periodo anche in altri stati nazionali occidentali. Le cause sono da ricercare nell’interazione di una serie di fattori, come la reazione alle dolorose esperienze della modernizzazione; il nazionalismo forniva una propria risposta alla sfida rappresentata dalle negative fluttuazioni del capitalismo. Un secondo elemento favorevole alla radicalizzazione risiedeva nella naturalizzazione del concetto di nazione sulla base della moderna biologia. Nazioni, popoli e razze iniziavano ad essere concepiti come esseri viventi, il più forte dei quali si sarebbe affermato nella inevitabile lotta per la sopravvivenza (darwinismo sociale). L’idea trovava un punto di appoggio in una argomentazione tanto di ordine storico evoluzionistica quanto biologicorazziale. Bisogna inoltre considerare che il KaiseReich si muoveva entro un sistema di stati tra loro permanentemente in rivalità; nel quadro di una spietata concorrenza tra le nazioni, il fatto che si trattasse sempre di una posta in gioco di cruciale importanza comportò la radicalizzazione di un nazionalismo di per se già molto vulnerabile. All’interno di un tale contesto è utile riprendere la questione del rapporto nazionalismoconservatorismo: prima del 1870 i conservatori appartenevano alla schiera dei critici del nuovo fenomeno e anche dopo la formazione dello stato rimasero comunque su posizioni distanti da esso. Appoggiarono con disponibilità lo stato inteso come concentrazione di potere e forza militare, ma mantenne un atteggiamento di scetticismo di fronte alla passione straripante del nuovo Reichsnationalismus. Anche quando si attribuirono al Reichsnationalismus caratteri conservatori va osservato che i suoi esponenti principali non erano assolutamente tali. Occorre allora riconoscere che, se considerati sulla base dei criteri normativi della democratizzazione e liberalizzazione, gli esponenti sociali del nazionalismo perseguivano obiettivi che contenevano una miscela di elementi reazionari da una parte e proiettati verso il futuro dall’altra. Ne sono un esempio le rivendicazioni di un sistema di governo autoritario sino al punto di invocare una dittatura; per quanto simili rivendicazioni si contrapponessero radicalmente ai valori fondamentali di una cultura politica liberal-democratica, non possono semplicemente definirsi conservatrici. Le rivendicazioni formulate dal nazionalismo radicale esprimevano piuttosto una moderna e attrattiva fiducia nel futuro. Nel nazionalismo così confluivano concezioni avverse alla modernità e visioni del futuro decisamente moderne. Una simile ambivalenza caratterizzava anche le idee che iniziarono a svilupparsi in seno al nazionalismo radicale di fine ‘800. Esse fissavano il popolo e la nazione entro una sorta di iperconservatorismo fissando gli elementi costitutivi della nazione nel ricordo di una comunità di destino, operando una vera e propria costruzione della nazione. Con altrettanta coerenza il nazionalismo sosteneva che la conquista di uno “spazio vitale” mediante la guerra corrispondesse a un naturale processo di espansione fondato su teoremi tratti dalle scienze naturali. L’enorme prova rappresentata dalla prima guerra mondiale diede luogo poi ad una ulteriore radicalizzazione. Nella lotta di difesa contro l’avversario sembrò messa in gioco l’esistenza della stessa nazione. Eppure, il nazionalismo bellico non esercitò solo una funzione di “integrazione in armi” della nazione, ma produsse anche profonde fratture; basti accennare alle centinaia di migliaia di scioperanti che abbandonarono una SPD allineata al governo per entrare a far parte dell’U-SPD (la parte indipendente). La sconfitta segnò il crollo dell’euforia nazionalistica e al posto della realizzazione di un enorme programma di annessione subentrò la perdita di territori sia in Oriente che in Occidente. La pace di Versailles fu indistintamente rifiutata sia dai partiti di destra che da quelli di sinistra; in tale contesto si posero le basi di ciò che avrebbe costituito il trauma del nazionalismo umiliato, dando vita ad una vera e propria sindrome da sovraccarico di crisi. In condizioni migliori la Repubblica di Weimar avrebbe potuto sopravvivere; se la sua fase espansiva fosse durata più dei quattro anni (1924-28) che visse, il potere normativo fattuale avrebbe potuto assicurare la stabilizzazione del sistema. La depressione subentrata poi nel ’29 distrusse ogni speranza al riguardo. La cesura più profonda fu segnata da una pauperizzazione senza precedenti dei lavoratori e la nuova disperazione emergente, coniugata ad un nazionalismo che insisteva sulla iniquità dell’umiliazione inferta ai tedeschi, crearono il terreno di cultura ideale per un movimento di protesta di massa che avrebbe trovato la sua figura di integrazione e guida nel carismatico A. Hitler. La mobilitazione degli elettori avvenne perché la NSDAP era un movimento di massa radicalnazionalista che il Fuhrer e i suoi accoliti avevano indottrinato sulla necessità si dover riconquistare l’onore, la stima, e rioccupare una posizione di preminenza internazionale. Per ritrovare la propria purezza ariana doveva estromettere non solo tutti gli ebrei e gli stranieri, ma anche i marxisti. Il nazionalismo aveva dimostrato una grande capacità di penetrazione sociale che ha attraversato tutte le linee di demarcazione esistenti fra classi, confessioni o religioni. Il padre di questo nazionalismo era la guerra, fondato sulla idea di predestinazione esso aveva consentito il superamento della lotta di classe e l’orientamento nazionalista, volendo portare “il sangue al potere”. Il nuovo nazionalismo si occupò anche dei problemi al di fuori dei confini nazionali. Le minoranze tedesche che vivevano negli stati nati dopo il 1919 si trovarono improvvisamente sottomessi al potere politico di quei polacchi, lituani e cechi che se prima erano stati a loro volta minoranze sottomesse, ora rappresentavano una maggioranza. Dopo che le vecchie élites del potere ebbero messo in gioco la loro posizione cedendo il potere a Hitler, emerse che erano soprattutto i “successi nazionali” a incrementare il sentimento di lealtà e la base di legittimazione del regime. La rimilitarizzazione, l’uscita dalla Società delle Nazioni, l’occupazione della Renania e l’Anschluss dell’Austria furono vissuti come trionfi nazionali da attribuire al talento politico della seconda figura carismatica ai vertici del Reich. L’esultanza era così pervasiva da lasciar immaginare che se si fossero svolte elezioni libere si sarebbe registrato un massiccio sostegno a Hitler. La celebrazione del nazionalismo sarebbe durata sino a Stalingrado, perché esso continuò a giustificare con compiacimento la “pulizia della nazione da “quelli di sinistra” e da ogni sorta di “corpo estraneo”. Solo lo sterminio di massa degli ebrei d’Europa fu tenuto segreto sino alla fine. Ebrei che incarnavano tout court ogni pericolo mortale non solo per il mondo moderno, ma anche e soprattutto per l’essenza ariana della “eletta” nazione tedesca. Per i soldati al fronte, più che le esortazioni a non cedere lanciate dalla propaganda di Goebbels, giocarono un ruolo importante altri fattori quali lo spirito di sopravvivenza e l’obbedienza. Tuttavia il credo nella difesa della nazione continuò ad esercitare una influenza considerevole soprattutto sulle generazioni più giovani. Ma anche sul fronte interno, la boria nazionalista rimase fermamente salda. La presenza di almeno 10M di lavoratori stranieri serviva a rafforzare anche nel più povero dei tedeschi il sentimento di essere comunque ad un livello superiore. Il declino del terzo Reich provocato da una guerra totale ancora una volta azzardata e ancora una volta perduta segna una cesura fondamentale. Il vulcano del nazionalismo radicale si spense, mentre una profonda disillusione iniziò a diffondersi. Lo stato nazionale fu diviso in 4 zone di occupazione e poi, dopo il ’49, in due nuovi stati. Il nazionalismo non potè più fungere da base di legittimazione e nel vuoto lasciato dalla distruzione e dalla messa al bando della visione nazionalistica si insediò un nuovo nucleo di lealtà, sviluppatosi attorno all’idea di Europa nella RFD (Rep. Fed. Ted.), mentre nella RSD (rep. Soc. Ted.) l’impero sovietico fallì lo sforzo di trasformare la popolazione confinata nella DDR in una vera e propria nazione socialista. Nella GER occidentale il nazionalismo perse ogni potere d’attrazione sulle grandi masse. Si rafforzavano invece i contorni di una società post-nazionale, il cui fondamento di legittimazione verteva sulle capacità di funzionamento dello stato sociale. Si può allora facilmente comprendere come nessun paese riuscì a rinunciare tanto facilmente a parte della propria sovranità a favore della CEE prima e dell’UE poi, come fece invece la GER. Grazie all’erosione dell’URSS e alla lungimiranza di Gorbacev divenne possibile che una efficace politica riuscisse a orientare il crollo della DDR verso l’unificazione degli stati tedeschi. Si affermò il concetto di “riunificazione” anche se si trattò della difficile fusione di due giovani stati con antiche tradizioni comuni, che negli anni della divisione avevano anche maturato una storia propria. Chi aveva sperato che con il ritorno alla struttura di uno stato nazionale sarebbe rimasto deluso, chi lo aveva temuto si è tranquillizzato. Ciò costituisce un elemento che va a favore sia della cultura politica dei tedeschi occidentali sia della capacità della base di legittimazione di sopportare dure prove. Ma rappresenta anche un elemento a favore della capacità di apprendimento dei tedeschi orientali che hanno dimostrato di sapere e voler accettare il mutato contesto politico. I l Transfernationalismus nel resto del mondo Nato in Occidente, il nazionalismo si è poi diffuso nel resto del mondo in diverse grandi ondate successive. Il primo di questi moti toccò l’America Latina sul finire dell’800. L’esempio della Repubblica nazionale dell’America del Nord esercitò un grande fascino sulla parte meridionale del continente, anche se una vera e propria imitazione della lotta di emancipazione fu avviata con determinazione solo dopo l’allentamento dei legami con le metropoli spagnole e portoghesi. Quali erano le principali forze di attrazione? Innanzi tutto nelle colonie sudamericane della penisola iberica si era accumulato un profondo malcontento per la oppressiva tutela giurisdizionale. I più insoddisfatti erano i creoli (spagnoli e portoghesi nati in America Latina) che si sentivano fortemente discriminati. Agli occhi del ceto dirigente creolo pareva pertanto particolarmente allettante il pensiero di fondare una propria nazione sul modello vincente USA. Si trattava di compiere un breve passo fino alla legittimazione di una forma di esistenza indipendente. In questo contesto, concentrando le risorse nelle unità amministrative nel frattempo consolidatesi, riuscirono a catalizzare le energie e definire accettabili confini territoriali per la pianificazione di future repubbliche sovrane. Non è un caso che tutti gli Stati Nazionali (eccetto Panama) siano di fatto sorti dalle province coloniali. Un problema era dato dal fatto che, nonostante la classe dirigente creola ambisse a definirsi come nazione, non avesse una solida base etnica in grado di poggiare sul terreno ricco di antiche tradizioni. Il sistema politico affermatosi fu costretto ad una condizione di cronica debolezza; vi furono molti colpi di stato e regimi dittatoriali sul modello del Caudillo.. Se si volge invece lo sguardo alle altre zone poi interessate dal fenomeno nazionalista, si può riscontrare che, eccetto il nazionalismo irlandese di secessione, prima del 1850 i movimenti nazionali si svilupparono solo nell’impero ottomano, nei balcani e in occasione dell’indipendenza greca. Verso gli anni ’70 poi iniziò a far presa sull’Asia orientale soprattutto in conseguenza della forzata e violenta apertura dell’impero insulare del JAP. A partire dal ’68 si inaugurò un’epoca di riforme che misero in moto un processo di imitazione del modello occidentale e del nazionalismo modernista. Sotto certi aspetti il nazionalismo nipponico è simile a quello inglese: per circa 14 secoli le isole JAP avevano goduto di una grande autonomia, tanto che si era potuta sviluppare una solidale organizzazione di dominio su base etnica. Questa si prestava ad essere reinterpretata in termini di nazione senza alcun particolare sforzo di adattamento grazie ad elementi come la coscienza della missione di un popolo eletto (che si riteneva fosse l’unico a essere governato dal figlio della dea del Sole), la capacità di rigenerazione sul territorio sacro. All’inizio del nuovo secolo, il movimento cinese giudicava la nazionalizzazione del JAP un successo degno di imitazione. A partire dal 1911 nella nuova Repubblica si aprì una durissima lotta per l’affermazione del potere e, seppur per un certo momento sembrò vincere Chiang-Kai-Shek, non riuscì a contenere il movimento rivoluzionario di Mao Tsetung. Mentre l’oligarchia riformista JAP proseguiva nel suo sforzo di raggiungere i livelli di modernizzazione, anche nell’India britannica e nell’Indonesia Olandese iniziarono a formarsi i primi nuclei di movimenti nazionalisti di indipendenza. Il loro obiettivo consisteva nella liberazione dai poteri coloniali. Dopo la Prima guerra mondiale movimenti simili avrebbero preso forma nella cocincina francese, nei possedimenti nordamericani della FRA e nell’Egitto Inglese. Essi avrebbero riscosso grande successo solo dopo la seconda guerra mondiale in concomitanza con la pressione USA a favorire lo scioglimento degli imperi coloniali. Il fatto che questi territori riponessero le loro maggiori aspettative nel modello dello Stato Nazione si tradusse in una nuova ondata di nazionalismo d’adozione (Transfernationalismus). Si possono individuare alcuni elementi comuni a livello strutturale fra i singoli paesi che vi parteciparono: 1) Alcune premesse iniziali furono poste già nel periodo coloniale con l’istituzione del sistema scolastico e la formazione di ceti dirigenti indigeni. Gli allievi più promettenti proseguivano gli studi in centri come Oxford o Cambridge raggiungendo un livello di formazione di alto livello che consentiva loro di trasferire nel proprio paese competenze amministrative minuziosamente selezionate. Molto spesso i giovani rientravano nella loro patria e aderivano a un movimento di emancipazione coloniale. 2) Quando negli anni ’40 scoccò l’ora dell’indipendenza, le personalità che diressero la fase di fondazione optarono per la nazione e lo Stato Nazionale. Questa scelta li pose di fronte a compiti incredibilmente difficili, ad esempio mancava un moderno e funzionante apparato statale. La situazione era ulteriormente complicata dal processo di formazione statuale che si sovrapponeva a quello di formazione nazionale. Molte lotte di decolonizzazione furono condotte invocando una nazione fittizia e immaginata, ma com’era possibile trasformare le centinaia di organizzazioni etniche e linguistiche in nazioni omogenee come suggeriva l’esempio europeo? Si procedette ricorrendo a mezzi come una politica linguistica, scolastica, costruendo/rievocando tradizioni, adottando metodi autoritari e violenti. L’importazione dell’idea di nazione fu perciò una disfatta. 3) La maggior parte dei membri delle èlites del potere erano entrati in contatto con le idee del marxismo ortodosso o “illuminato” che offriva loto categorie con cui inserire rapporti di sfruttamento coloniale in un quadro interpretativo ampio, sviluppando una dura critica ai metodi del capitalismo occidentale in tutti gli imperi coloniali. Anche la velocità con cui si compì la modernizzazione nei paesi a comunismo di Stato rendeva il modello socialista particolarmente attrattivo. Questi furono i motivi per cui in molti paesi “in via di sviluppo” si instaurò una forma di socialismo nazionale che operò un riadattamento degli elementi di lotta ed emancipazione contenuti nell’ideologia marxista analogamente a come questi erano stati ripresi e interpretati in Europa. Il nazionalismo pareva così essere non solo una vincente ricetta occidentale, ma anche una ripresa e una prosecuzione delle proprie tradizioni primordiali modernizzate e al passo con i tempi. Sull’esempio dei paesi comunisti i più grandi investimenti furono diretti alla realizzazione di stabilimenti industriali, mentre più scarsi furono gli investimenti verso l’istruzione. La cieca rincorsa verso quei livelli di benessere che lo sviluppo dell’URSS sembrava promettere, rafforzò il convincimento che il ricorso alla modalità di tutela autoritaria della vita politica e sociale fosse inevitabile; in numerosi paesi si insediarono vere e proprie dittature di tipo convenzionale. La coincidenza della formazione dello Stato con la formazione della nazione rappresentò un compito decisamente difficoltoso. Sembrava non esserci nessuna alternativa alla politica del nation-building. Alle rivendicazioni di potere da parte di etnie l’orizzonte mentale degli attori non aveva altro da contrapporre che l’ideologia dell’integrazione e mobilitazione nazionale. Con il fallimento del proprio socialismo nazionale e lo scioglimento dell’URSS, il modello del “marxismo statalizzato” ha perso molto della sua forza di attrazione, cedendo il passo a nuovi orientamenti politici. In effetti sembra impossibile che stati così multietnici riescano a omogeneizzarsi in nazioni e a svilupparsi in Stati nazionali senza procurare un bilancio di vittime talmente terribile da rendere palese l’inadeguatezza di un simile transfer. Sembrerebbe quasi che l’annunciata affermazione del modello dello Stato nazionale su scala mondiale sia solo un “inganno ottico”. I successi del nazionalismo e l’immeritata fama dello Stato Nazionale Nonostante le critiche espresse in merito al nazionalismo, non si può negare che abbia comportato anche rilevanti conseguenze positive. Le lingue nazionali hanno dato un enorme impulso allo sviluppo della letteratura nazionale, si sono rivelate uno strumento insostituibile per il modus operandi di società industriali, di consumo e di servizi altamente complesse. Non si può disconoscere come l’unità giuridica degli Stati Nazionali abbia posto le basi per grandi opere legislative. Con la formazione della nazione, la sovranità popolare come fonte di tutte le leggi si è sostanziata arricchendosi di contenuti più concreti. D’altro canto il nazionalismo mostrava, specialmente nella sfera politica, una notevole ambiguità. L’idea portante di una nazione omogenea favorì l’affermarsi di una dura pratica d’esclusione rispetto alle minoranze nazionali. Anche il moderno antisemitismo politico dev’essere considerato come una sottospecie di nazionalismo caricato di contenuti razzistici. Lo stato nazionale rappresentava la realizzazione dell’obiettivo perseguito dai movimenti nazionali, ma indipendentemente da questo numerosi successi contingenti contribuirono a elevare il nazionalismo a religione secolare e ad accrescere l’idolatria dello Stato nazionale: 1) negli stati occidentali lo Stato nazionale si coniugò con il dispiegarsi della Rivoluzione industriale e successivamente con un livello di industrializzazione. Questi fattori, interrotti solo dalle guerre mondiali e dalla crisi del ’29 avrebbero dimostrato la loro continuità solo nei tempi lunghi, ma consentivano comunque di trarre un bilancio estremamente positivo. 2) Lo stato nazionale fu concepito innanzitutto come un moderno Stato Costituzionale di diritto, anche se in alcuni casi vigeva una costituzione consuetudinaria dallo stesso potere vincolante di un testo costituzionale scritto. Ai cittadini di questo Stato fu garantito un livello di partecipazione politica e di sicurezze giuridiche fino ad allora sconosciuto. Anche questa conquista fu ascritta dalla coscienza collettiva allo stato Nazionale, anche se proprio negli stati tedeschi il costituzionalismo e il parlamentarismo fossero sorti prima della sua formazione. 3) Il moderno stato Sociale e interventista si sviluppò in seguito a un faticoso processo di apprendimento come reazione alle crisi economiche, alle ripercussioni sociali del mondo industriale e anche dal sistema politico. Passo dopo passo si riuscì a istituzionalizzare i conflitti sociali fondamentali. Al posto dell’aperto antagonismo di classe si instaurò un conflitto giuridicamente domato che passò alle modalità della politica tariffaria con il suo rituale di minaccia e controminaccia prima di ogni compromesso. Eppure tutti questi successi non erano affatto legati all’esistenza di uno stato nazionale secondo un rapporto di necessità interna. Un alto livello di crescita economica potè raggiungerlo, ad esempio, anche un Impero come il JAP. Un buon livello di “controllo” dei conflitti sociali si raggiunse anche in stati plurinazionali che in ogni caso portano l’etichetta superficiale di Stato nazionale. In breve si può sostenere che gli eccezionali sviluppi positivi vissuti dal mondo occidentale in quel periodo rientrino in maniera puramente casuale nell’epoca degli Stati Nazionali, nonostante questi sviluppi siano venuti in maniera tutt’altro che casuale. Questi successi furono assunti come dimostrazioni della modernità economica e politica dello Stato Nazionale, il che non fece che accrescere l’attrattività del nazionalismo e dello Stato nazionale da esso creato. Accettare lo stato nazionale significava muoversi all’altezza dei tempi. Da tempo lo Stato nazionale si vanta degli splendidi risultati raggiunti benchè essi non abbiano sostanzialmente nulla a che fare con questa lodata forma di costituzione politica. F ine del Nazionalismo? Un risultato importante della recente ricerca sul nazionalismo sta nell’aver abbandonato l’idea secondo la quale l’identità nazionale creata dal nazionalismo godrebbe di una posizione di monopolio nell’orizzonte mentale degli individui. Al posto di questa idea è stata riconosciuta la coesistenza di più forma di identità, ovvero l’”Identità multipla”. Ciò significa che diverse identità agiscono parallelamente; in situazioni di crisi può succedere che allora il primato passi alla identità nazionale, mentre le altre identità cadono in secondo piano. Il riconoscimento di questo pluralismo collima con la teoria sociologica dei ruoli ed è congruente con il concetto di “habitus”, ovvero il presupposto di una pluralità di abiti: professionale, di classe, di genere ecc. Se si evita di sopravvalutare il ruolo precursore del nazionalismo inglese, si può sostenere che l’epoca degli Stati nazionali duri circa 220 anni. Nel frattempo i suoi princìpi organizzativi sono divenuti oggetto di un profondo scetticismo: 1) nella sua fase ascendente il nazionalismo portava in se la promessa di garantire la convivenza dei membri di una nazione in condizioni di armonia e di parità di trattamento; di fatto però il nazionalismo ha favorito la nascita di una consociazione nient’affatto segnata dalla fratellanza, quanto piuttosto da una diffusa pratica di esclusione. Nello stato nazionale tedesco fu praticata, ad esempio, una politica di esclusione contro il polacchi nei territori prussiani di annessione, ma soprattutto contro gli ebrei tedeschi. Rispetto alla promessa originaria si può pertanto sostenere che il nazionalismo è fallito. 2) All’utopia del nazionalismo in ascesa apparteneva la promessa che con l’eliminazione delle cause alla base dei conflitti fino ad allora esistiti, si sarebbero create le premesse per un mondo sostanzialmente pacifico di cittadini membri della nazione. Ma il nazionalismo liberale ha perduto l’innocenza di questa aspirazione già nell’800. Al contrario, la formazione della maggior parte degli Stati nazionali è avvenuta proprio in seguito a guerre di unificazione nazionale; la nascita pacifica di stati nazionali, come nel caso del JAP o del Canada è stata decisamente un’eccezione. L’epoca degli Stati nazionali è stata decisamente un’epoca piena di guerre e le sconfitte approfondirono i risentimenti facendone terreno di coltura per le guerre successive. 3) Il diritto all’ autodeterminazione dei popoli da sempre fa parte della forza motrice del nazionalismo e delle sue varianti. Wilson e Lenin ne hanno fatto sia una massima del diritto internazionale, sia un principio della morale politica. Di fatto, sul terreno dei 3 Grandi Imperi plurinazionali sconfitti, esso produsse invece una balcanizzazione carica di conflitti. Soprattutto, né Lenin (nel caso delle aspirazioni secessioniste delle popolazioni non Russe) né gli alleati (nel caso di AUS, Sudtirolo e Slesia settentrionale) rispettarono questo principio. 4) Un altro rischio da non sottovalutare risiede nella capacità del nazionalismo di trasformarsi, in un nazionalismo radicale con una politica e un programma estremi. Sin dall’inizio in esso sono confluiti obiettivi e visioni radicali come “il popolo eletto” e i suoi nemici mortali, “la terra promessa” e la sua minaccia esistenziale, la “missione storica” e le sue ambizioni sconfinate. Ovunque, il dogmatismo nazionalista, tende alla violazione dei vincoli giuridici e al dispotismo. Può inoltre succedere che in situazioni di crisi produca un acutizzazione tale per cui le ferite e le umiliazioni finiscano per diffondere il convincimento che l’unica soluzione consista nel perseguimento di una politica radicalnazionalista. 5) In molti casi di sperimentazione nazionale il nazionalismo e il suo Stato nazionale sono fatalmente falliti. L’applicazione dell’obiettivo dello Stato nazionale omogeneo nell’Europa dell’Est e del Sud-Est (entità estremamente multietniche) poneva problemi ancor più grandi come la pulizia etnica. Bisognerebbe allora convincere gli uomini a rinunciare alla traduzione pratica dell’ideale nazionalista, altrimenti le pulizie etniche rimangono inevitabili. Ciò significa che il nazionalismo e la sua idea di Stato non sono applicabili laddove predominano organizzazioni multietniche e policentriche. Tuttavia, a chi sviluppa una critica in questi termini deve anche porsi la questione dell’alternativa. L’obiettivo massimo cui aspirare non deve più risiedere nel “feticcio” dello Stato nazionale sovrano, bensì nella garanzia costituzionale dei diritti fondamentali all’interno di un sistema democratico funzionante e dunque anche di una prassi politica orientata ai valori democratici. La garanzia di simili diritti di autonomia implica evidentemente alcuni costi, che sarebbero tuttavia inferiori agli eccessivi costi materiali e sociali che comporterebbe (nel caso limite) un conflitto aperto per impedire la secessione e la fondazione di un nuovo Stato. La logica conseguenza dei diritti di autonomia sopra citati sta allora nel passaggio a un sistema federale basato sulla decentralizzazione del potere, la cui superiorità è stata più volte dimostrata da diverse esperienze storiche. Anche l’UE, se ci si attiene al suo progetto iniziale, non è concepita come stato federale, ma come unione di Stati. Sembra che il suon trend tenda verso una lenta ma progressiva svalutazione degli Stati Nazionali, che acquisterebbero lo status di regioni; nel senso che la decentralizzazione del potere continuerebbe a garantire alcuni diritti particolari. Tuttavia queste regolamentazioni costituzionali cui si dovrebbe dare una appropriata formulazione giuridica, in Europa già pongono problemi considerevoli. La tradizione centralistica francese, ad esempio, si mostra recalcitrante rispetto all’improrogabile concessione dell’autonomia alla Corsica; la ferita aperta in Irlanda del Nord riporta alla mente quanto caro possa essere il prezzo da scontare quando non si concede a tempo debito il diritto di autonomia. Più a lungo si prolungherà il conflitto rappresentato dallo Status quo dei centralisti stati nazionali senza vere garanzie per i diritti delle minoranze, più difficile risulterà la trasformazione nel senso delineato. E’ necessario che al posto del nazionalismo si affermi una nuova programmatica in grado di fungere da base di legittimazione per gli stati moderni. Qui risiede il grande potenziale dello Stato costituzionale democratico, dello Stato di diritto, dello Stato sociale e di un nuovo sviluppo economico rispettoso dei limiti ecologici. Può succedere che la retorica celebrativa di alcuni politici continui a ossequiare il nazionalismo, come può succedere che in situazioni di crisi riaffiori un volgare nazionalismo radicale simile a quello manifestatosi in passato. Tuttavia, nella maggior parte dei casi gli stati occidentali non si legittimano più ricorrendo alla nazione e ai rispettivi interessi nazionali. Il consenso dipende piuttosto da fattori come: - La capacità di funzionamento delle istituzioni democratiche. – La sicurezza che uno stato sociale è in grado di garantire ai suoi cittadini. – Le garanzie giuridiche mediate da un articolato stato di diritto. – I livelli di benessere che un’economia sostenibile e capace di crescita è in grado di generare. Di fatto questi nuovi elementi fautori di legittimazione si sono già affermati al posto del monopolio rivendicato dal nazionalismo fin dall’inizio. Gli Stati Europei non entrano più in una crisi letale per il fatto di dover delegare i sacri diritti di sovranità all’UE. Più a lungo riuscirà a durare la pace, più durevolmente la nuova programmatica otterrà consenso, più intensamente il nazionalismo perderà la sua forza di aggregazione sociale e di legittimazione politica. Si può allora sperare che agli orientamenti critici aperti dalla recente ricerca sul nazionalismo si addica l’immagine della nottola di Minerva che avrebbe spiccato il volo già prima del definitivo crepuscolo del nazionalismo. Riassunti realizzati da SANDRO MARSEGLIA, per informazioni e chiarimenti: chiedere a lui.