INTRODUZIONE alla lettura della LETTERA AGLI EFESINI PAOLO E LA CITTÀ DI EFESO Paolo arriva ad Efeso per la prima volta al termine della seconda missione nel suo spostamento verso la Siria ( At 18,18-19). Non sappiamo bene se Efeso fosse solo un porto di scalo, oppure se l’apostolo abbia addirittura intenzionalmente cercato l’occasione per un primo contatto con la città. Paolo in ogni modo ebbe il tempo di fermarsi qualche giorno, affidando alla volontà di Dio l’intenzione di un soggiorno più lungo (At 18,20-22). Dato che Paolo si imbarca da Cencre, il porto di Corinto, diretto verso la Siria, la sua meta dovrebbe essere Seleucia di Pieria, il porto di Antiochia. L’arrivo invece a Cesarea potrebbe essere spiegato con le condizioni della navigazione. Del resto, dal racconto degli Atti, non appare uno stacco netto tra il secondo e il terzo viaggio. Questo stacco potrebbe essere, dopo 1° sbarco a Cesarea, il saluto alla “chiesa” (At 18,22), probabilmente la chiesa di Gerusalemme, come lascia intendere la versione della CEI. Infatti, anche se il libro degli Atti non menziona espressamente la città santa, parla però di “salire”, riferendosi così implicitamente alla Chiesa madre. In ogni caso, il libro degli Atti ha molta fretta di narrare l’arrivo di Paolo nella città, per congiugnere idealmente Corinto, il grande centro della predicazione paolina in Grecia, con Efeso, il centro della missione in Asia. In questa città dei compagni della missione in Macedonia e Acaia, si ricongiunge a Paolo il solo Timoteo, che probabilmente proveniva da Corinto (At 18,5) e che sarà inviato con Erasto in Macedonia (At 19,22). Di Sila, invece, si perde ogni traccia. Compare accanto a Paolo un nuovo collaboratore, Tito, cristiano di origine pagana, originario di Antiochia di Siria, cui Paolo affida la missione di completare la colletta per la chiesa di Gerusalemme. Di lui l’autore degli Atti non fa parola, come pure di questa raccolta, che nel libro diventa un’elemosina per Israele, nell’autodifesa di Paolo davanti al governatore Antonio Felice (At 24,17). Dopo la prima visita di Paolo, a Efeso rimangono Aquila e Priscilla, che lo hanno accompagnato da Corinto. I due sono una coppia di sposi che avevano dovuto lasciare Roma per il decreto dell’imperatore Claudio. Forse è il provvedimento rammentato dallo storico Svetonio: “egli scacciò i giudei da Roma perche', istigati da un certo Cresto, continuavano a suscitare tumulti”. Non sappiamo in quale anno questo decreto fu emesso, anche se si ha motivo di credere, più che al 49 d.C. (l’anno nono del regno di Claudio), al 41 d.C., quando Claudio salì al trono. È quasi certo tuttavia che questo decreto non ebbe le proporzioni rammentate dal libro degli Atti (At 18,2: “tutti”), altrimenti non sarebbe passato sotto il silenzio di altri storici antichi l’allontanamento di almeno ventimila persone. L’alternativa delle date è molto importante per la cronologia di Paolo: tuttavia se non si accetta il 49 ma il 41 d.C., non è necessario anticipare di circa 10 anni 1’evangelizzazione di Corinto e l’arrivo di Aquila e Priscilla: le datazioni di Luca faticano anche altrove a collegarsi con la storia ufficiale (basti pensare al censimento di Lc 2,2). Comunque, non sappiamo per quanto tempo e con quale estensione (i soli cristiani?) il decreto sia stato osservato. Probabilmente per un tempo sufficientemente lungo, così da poter concordare con le indicazioni del libro degli Atti. Prima dell’arrivo di Paolo, arriva a Efeso anche Apollo, un giudeo d’Alessandria che in seguito avrà gran successo a Corinto. Di lui gli Atti annotano la cultura e l’esperienza nelle Scritture, ma anche la conoscenza del solo battesimo di Giovanni (At 18,24-25). Del resto, quando Paolo ritorna a Efeso, il libro degli Atti racconta l’incontro con un gruppo di dodici “discepoli”, che non solo non hanno ricevuto lo Spirito Santo, ma nemmeno lo conoscono (At 19,1-6). Apollo, a differenza di questo gruppo, almeno pronuncia parole “nello Spirito” (la CEI, invece traduce, semplicemente: “pieno di fervore”; At 18,25), ma deve essere fatto penetrare maggiormente nella fede in Cristo. È il compito cui si assoggettano Aquila e Priscilla, come rappresentanti di quella comunità che Paolo incontra una volta arrivato ad Efeso. Si richiamano proprio ad Apollo alcuni gruppi della chiesa di Corinto (cfr. 1Cor 3,5-6). Forse possiamo trovare una vera e propria di rivalità di Paolo con questo predicatore, originata più dalla strumentalizzazione che i Corinzi ne fanno, che da un vero e proprio scontro diretto. Del resto, a differenza di Timoteo, Apollo era tutt’altro che pronto ad accettare i compiti che gli affida lo stesso Paolo nei confronti dei Corinzi, quando proprio da Efeso indirizza la sua lettera (cfr. 1Cor 16,12). In quella stessa circostanza esprime la sua volontà di rimanere ad Efeso fino a Pentecoste, perché capisce l’occasione che gli si para davanti, anche di fronte alle numerose difficoltà (1Cor 16,8-9: “gli avversari sono molti”). Il gruppo di dodici discepoli rammentati in At 19 si erano staccati dalla sinagoga, ma non erano ancora pienamente inseriti nella comunità. Paolo li battezza ed assiste alla discesa dello Spirito su di loro. Si tratta di una manifestazione particolarmente importante dello Spirito; infatti, al pari della stessa Pentecoste: “parlavano in lingue e profetavano” (At 19,6). Il dono concesso alla comunità d’avere suoi esponenti capaci “parlare in altre lingue” deve essere accostato alla “glossolalia”, ossia il “dono delle lingue". Ne troviamo una riprova anche nell’episodio di Cornelio: “parlavano in lingue e glorificavano Dio” (At 10,44-46). Per quanto riguarda la permanenza di Paolo ad Efeso, gli Atti parlano prima di tutto di una predicazione nella sinagoga durata tre mesi (At 19,8), senza veri e propri problemi, fintanto che la predicazione di Paolo non ottiene accoglienza. Quando, i responsabili della sinagoga, senza affrontare direttamente Paolo, della cui predicazione intravedono i rischi futuri dal proprio punto di vista, decidono di avvertire i giudei contro il nuovo movimento. Paolo allora scelse la scuola di un certo Tiranno, per proseguire la sua predicazione (At 19,9). Qui, senza i problemi d’orario della sinagoga, poté affittare una sala dalle undici del mattino alle quattro di pomeriggio, le ore vuote del pranzo e della siesta, il tutto per due anni ancora. Dice il libro degli Atti che molti (“tutti gli abitanti della provincia d’Asia, Giudei e Greci”) poterono ascoltare la sua predicazione (At 19,10). Nel resoconto della sua predicazione davanti ai presbiteri di Efeso, che Paolo fa a Mileto, dice espressamente che “per tre anni, notte e giorno non ha cessato di esortare fra le lacrime” (At 20,31; cfr. 20,27). È questo il tempo in cui si forma tutta la successiva tradizione legata a Paolo, che vede fra le altre proprio la nostra lettera, concepita forse come lettera circolare per le diverse chiese della regione. Va detto in ogni modo che non tutti gli autori sono d’accordo su quest’ipotesi. Da Efeso sono state effettivamente scritte le lettere ai Galati, la 1 Corinzi, la lettera ai Filippesi e il “biglietto” a Filemone. Del resto, ben quattro delle sei lettere non autentiche di Paolo sono indirizzate alle Chiese dell’Asia: oltre Colossesi ed Efesini, le due lettere a Timoteo, che si trova ad Efeso. In questa azione di evangelizzazione Paolo può contare su una rete di collaboratori preziosi: da Tito a Timoteo, che invia a Corinto con la missione esplicita di rappresentarlo presso quella comunità (1Cor 4,17; cfr. 1Cor 16,10-11), fino a “Marco, Aristarco, Dema e Luca” (Filemone 23-24), allo stesso Archippo (Col 4,17; Fm 2), il collaboratore di Filemone e il fondatore della comunità di Colossi, Epafra, (Col 1,7), che si impegna anche a Laodicea e Gerapoli (Col 4,12-13), ed infine Tichico (Col 4,7; At 20,4; Ef 6,21; 2Tim 4,12; Tt 3,12). Un ultimo nome, Epéneto, è ricavato dalla lista di ventisei nomi con cui si chiude la lettera ai Romani. La presentazione dello stesso Paolo parla da sola: “Epéneto, primizia dell’Asia per Cristo”, (Rom 16,5). Gli ultimi collaboratori sono la coppia di sposi già rammentata, Aquila e Priscilla, che rischiano la vita per salvare la vita dell’apostolo, come questi afferma nella lettera ai Romani (Rm 16,3-5). Il saluto che Paolo invia a questi cristiani fa pensare che egli li avesse incontrati proprio ad Efeso. Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo parla di un combattimento contro le belve: “Ogni giorno io affronto la morte, come è vero che voi siete il mio vanto, fratelli, in Cristo Gesù nostro Signore! Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto ad Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (1Cor 15,31-32). Forse non si riferisce ad una situazione reale, che gli sarebbe stata impedita come cittadino romano, ma non c’è dubbio che la sua vita è stata in pericolo, come egli dice nella Seconda lettera ai Corinzi: “la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, per la speranza che abbiamo riposto in lui, che ci libererà ancora” (2Cor 1,8-10). La “sentenza di morte” rammentata in 2Corinzi può riferirsi a una tribolazione fisica, una malattia grave sebbene temporanea, come del resto lo stesso Paolo afferma sempre in questa lettera: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia” (2Cor 12,8). La stessa “sentenza” può anche riferirsi all’ambiente ostile che ha incontrato nel- l’avanzare della predicazione efesina. Quello che è certo, è che Paolo è stato liberato da quella “morte” (un processo con una condanna capitale?), e in questa liberazione devono avere avuto un ruolo importante proprio Aquila e Priscilla. Si è anche espressamente parlato di una prigionia dell’apostolo ad Efeso (cfr. 3,1; 4,1; 6,20 e Col 1,24; Col 4,3.18): così le lettere agli Efesini ed ai Colossesi sono state chiamate “lettere della prigionia” insieme alle lettere a Filippesi e a Filemone (Fil 1,7.12-14.17). Se Paolo rimase in carcere, la sua liberazione probabilmente è legata agli eventi politici che accaddero a Corinto dopo il proconsolato di Gallione. Anzi, l’apostolo dice espressamente ai cristiani di Filippi che la sua prigionia a causa di Cristo è stata il motivo di un rinnovato annuncio del Vangelo (Fil 1,12-14), anche se sulla sua persona continua a pendere la minaccia della condanna capitale. Una volta liberato, prosegue il suo viaggio lungo la costa dell’Egeo fino alla Macedonia, dove incontra Tito. A questa ricostruzione degli avvenimenti di Efeso corrisponde, secondo il libro degli Atti, una sommossa messa in campo dagli argentieri della città contro Paolo, colpevole con la predicazione cristiana di togliere loro il lavoro (At 19,23- 41). Il loro capo, infatti, Demetrio, che fabbricava tempietti d’argento dedicati ad Artemide protettrice degli Efesini, sostiene che non solo il loro lavoro ma anche la venerazione per la dea sono in pericolo per colpa di Paolo. L’Artemide efesina che gli argentieri di Efeso riproducevano in metallo prezioso o in terracotta, era raffigurata con il seno coperto da un numero enorme di mammelle, simbolo di fecondità e rappresentava la “Grande Madre”, dea materna della natura. Essa aveva in Efeso, fin dall’antichità, un grande luogo di culto più volte ricostruito, l’Artemision, considerata una delle sette meraviglie del mondo antico, una costruzione gigantesca lunga centoventi metri, larga settanta e circondata da centoventotto colonne alte diciannove metri. Il libro degli Atti presenta, infatti, come particolarmente felice l’attività dell’apostolo, a cominciare dalle guarigioni che avvengono per il solo contatto delle vesti dei malati con il corpo di Paolo. Nel momento in cui, però, alcuni tentano azioni di esorcismo, contando sul carisma di Paolo, l’azione di ritorce su questi malcapitati (At 19,11-17). Il libro di Luca riferisce anche l’abbandono delle pratiche magiche, con la consegna di un numero enorme di libri magici, dal valore di cinquantamila dracme d’argento (19,18-20). Paolo dunque con la sua sola presenza annienta ogni tipo d’attività estraneo al Vangelo. Questo sembra essere il dato che gli argentieri di Efeso gli oppongono: la loro preoccupazione di vedersi sottratto il lavoro pareva più che fondata, ma Demetrio riesce a nasconderla sotto la difesa del culto di Artemide: “grande è l’Artemide degli Efesini” (19,28.34). Lo stesso apostolo, trascinato con due suoi compagni nel teatro, vorrebbe presentarsi alla folla, ma per fortuna è dissuaso dagli “asiarchi”, i “capi della provincia”, incaricati del culto dell’imperatore, che gli sono amici (19,30): è praticamente impossibile intervenire in un’assemblea abilmente orchestrata. Pertanto, anche se il cancelliere, il magistrato della città, invoca per gli accusatori di Paolo le leggi e il tribunale, ritorcendo sull’assemblea in tumulto il rischio dell’accusa d sedizione popolare, la strada che si presenta a Paolo non può che essere la fuga. Ma nel suo caso questa anticipa un’intenzione manifestata poco prima dei disordini: “Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi c. Gerusalemme, dicendo: Dopo essere stato là, devo vedere anche Roma” (19,21). Efeso è dunque secondo Luca l’apice dell’attività di Paolo in Oriente. Questo è confermato nell’epistolario. Nella lettera ai Romani, poco prima dei saluti, Paolo conferma la certezza d’aver compiuto la sua missione in Oriente ed il desiderio di andare in Spagna; e quindi di passare a Roma sulla strada verso Occidente (Rom 15,19.22-32). Analogamente, nella prima lettera ai Corinzi, Paolo indica una nuova missione, che sembra essere Roma (1Cor 16,5-6). Qui, i dati coincidono con le lettere, ma senza rispondere a tutte le domande che vorremmo fare, per esempio sulla colletta per le chiese di Gerusalemme che il libro degli Atti ignora del tutto, e sul ruolo dei collaboratori di Paolo in queste vicende. Ma questi, appena accennati, rappresentano altri problemi. SCHEMA DELLA LETTERA 1,1-2 saluto a tutti santi 1,3-3,21 parte dottrinale 1,3-23 lode a Dio e intercessione 1,3-14 dossologia (“noi”) 1,15-23 intercessione (voi”) 2,1-3,13 Dio che salva, unifica e rivela 3,14-21 preghiera e dossologia 4,1-6,20 parte parenetica 4,1-5,20 esortazione all’unità, al ministero pastorale, a vivere come figli della luce 5,21-6,9 codice di morale domestica 6,10-20 armatura per la lotta contro gli spiriti del male 6,21-22 missione di Tichico 6,23-24 benedizione I destinatari Se accettiamo l’ipotesi di una permanenza prolungata di Paolo a Efeso (tre anni secondo At 20,31), resta difficile spiegare il silenzio totale della Lettera agli Efesini su fatti e persone concrete, così come il riferimento generico al ministero dell’apostolo, o ancora l’accenno non specifico ad una situazione di persecuzione (3,13) o alle sue catene (6,20), come pure la menzione quasi casuale di Tichico (6,21; cfr. Col 4,7-8). Ancora più difficile riferire a dati oggettivi l’abbattimento di ogni divisione tra giudei e pagani, che nella lettera appare come un dato di fatto (2,14). Ma la lettera agli Efesini non rammenta mai i Giudei. Questo rende la lettera difficilmente riferibile ad una sola comunità. Per di più è il caso di ricordare come nella stessa formula introduttiva della lettera (“ai santi che sono in Efeso, credenti in Cristo Gesù”) le parole “in Efeso” manchino in alcuni dei codici più autorevoli, come i codici maiuscoli Vaticano, Sinaitico e nel Papiro 46, mentre sono presenti nei codici Alessandrino e in quello di Beza. Le due forme coesistevano: c’erano delle copie di quella diretta ad Efeso ed altre che avevano in bianco lo spazio del destinatario. Marcione titolava la lettera “ai Laodicesi”. Non occorre però pensare ad una destinazione universale, una specie di “lettera circolare”, ma piuttosto pensare come destinatarie della lettera agli Efesini le comunità dell’Asia Minore ben conosciute da Paolo. 3 L’ autore e la data Tutti questi elementi, insieme allo stile dello scritto che si caratterizza per un linguaggio ed uno stile molto diversi da quello degli scritti di Paolo ed assai vicini a quello della lettera ai Colossesi, fanno pensare che entrambe queste lettere appartengano alla scuola di Paolo, la “tradizione paolina”. La stessa lettera ai Colossesi è maturata nell’ambiente efesino; Colossi, infatti, si trova a distanza di circa 150 km da Efeso, nella valle del Lico, affluente del più celebre Meandro, come non sono distanti Laodicea e Gerapoli. Inoltre, due delle tre lettere Pastorali sono destinate a Timoteo, che l’apostolo lascia ad Efeso con il compito di organizzare la chiesa e di mantenere la sana dottrina (1Tim 1,3). Il pensiero dell’apostolo ebbe un tale seguito da lasciare dietro di sé una tradizione, una scuola, di cui si fanno portavoce anonimi discepoli di Paolo. Pur nella differenza che, di fatto, s’instaura, si può notare il richiamo costante all’unico maestro. Tale “tradizione paolina” si presenta come un fenomeno di straordinaria vitalità, da non poter essere mai considerato statico. Questo dato impedisce di considerare la tradizione paolina una forma di degradazione o di corruzione del pensiero originario di Paolo. L’apostolo può essere considerato come depositario di un carisma, forse superiore a quello dell’apostolo Pietro, nel favorire un’ampia unità ecclesiale che raccoglie insieme chiese molto diverse e molto distanti fra di loro, che pure si rifanno all’apostolo Paolo. Chi ha scritto questa lettera, se difficilmente è Paolo, come pensa la gran parte degli studiosi, non è neppure l’autore della lettera ai Colossesi. Dalla ricchezza del pensiero di Paolo l’anonimo autore ha attinto molti elementi, tanto che si pensa ad un cristiano di seconda generazione, forse nella stessa Efeso, che possiede la raccolta completa delle lettere. Questo spiegherebbe 1 ' aggiunta del nome della città, fatta apposta per ricordare il collegamento tra la lettera e questa città. Quanto alla data, se rimaniamo in quest’ipotesi, dovremmo collocarci intorno agli anni 90 del I secolo, poiché è conosciuta da Ignazio d’Antiochia, in un periodo poco posteriore alla composizione della lettera ai Colossesi. Se, viceversa dovessimo attribuirla a Paolo, dovremmo risalire fino agli anni 60, durante la sua prigionia romana; ma ciò appare poco probabile. Resta in ogni caso un fatto: queste ipotesi, come in altri casi, non intaccano, neppure parzialmente, la canonicità dello scritto. Quale lettera? La Lettera agli Efesini pur nella relativa brevità ha un vocabolario molto ricco, con alcune decine di termini (circa quaranta) che non ritroviamo altrove nel Nuovo Testamento; quasi altrettanti (una cinquantina) che non sono presenti in Paolo se non nelle Lettere Pastorali e qualcuno di meno (circa trenta) che si trovano solo in Paolo, ma con un senso profondamente diverso. Fra questi ultimi troviamo ad esempio: “filiazione adottiva” (1,5; Gal 4,5; Rom 8,15.33); “prestabilire” (1,9; Rom 3,25); “caparra” (1,14; 2 Cor 1,22; 5,5); “efficacia [della forza, della potenza]” (1,19; 3,7; 4,16; Col 1,29; Fil 3,1; 2Ts 2,9-11); “imperscrutabile” (3,8; Rom 11,33); “collaborazione, elargizione” (4,16; Fil 1,19); “essere ambasciatore” (6,20; 2 Cor 5,20). Sono inoltre caratteristici della lettera i verbi greci con la particella che significa “con-” (circa trenta), ma l’uso che ne viene fatto si differenzia nella nostra lettera. Sembra proprio che la prospettiva teologica di questa lettera ne abbia influenzato non poco il vocabolario. Anche lo stile ridondante di Efesini può far pensare a Colossesi, ma qui si accentua ulteriormente. Basti pensare alla preghiera di lode che apre la lettera (1,3-14): sono diciassette frasi e circa duecento parole, dove i termini sono accostati per l’assonanza (“Benedetto sia Dio... che ci ha benedetti con ogni benedizione”: 1,3) e non è raro l’effetto “eco” nel testo originale greco. Di sicuro lo scritto agli Efesini presenta le caratteristiche della lettera, ma con l’accenno essenziale al mittente e con il problema dei destinatari cui abbiamo accennato. Anche i saluti iniziali e quelli finali sono molto sobri, comprese le istruzioni di chi scrive la lettera. Come altrove nel Nuovo Testamento, sembra che le indicazioni che fanno di uno scritto una lettera siano una saldatura artificiale su una struttura già data. Secondo molti studiosi, la lettera agli Ebrei è un’omelia inviata a una comunità, forse la stessa Chiesa di Roma, con i saluti del mittente anonimo: ciò la rende una lettera. Anche l’epistola agli Efesini è caratterizzata da inni, schemi di catechesi, soprattutto battesimale, ed elenchi di virtù, vizi e doveri: una coloritura catechistica e liturgica che, secondo alcuni interpreti, ne fa un’omelia, se non una specie di trattato spirituale e teologico. Nonostante questo lo scritto agli Efesini resta una lettera. Sono riconducibili allo stile proprio di una lettera le istruzioni inviate da un gruppo di discepoli di Paolo alle comunità dell’Asia minore, legate alla tradizione dell’apostolo. Di certo la continuità con il suo insegnamento è tale da non far trascurare le differenze, soprattutto la rilettura in senso ecclesiologico della sua teologia, ma permette anche di seguire l’evoluzione di quelle comunità legate a Paolo, nel cristianesimo della fine del primo secolo, e in particolare di quello efesino, su cui il mittente intende intervenire in maniera concreta. Bene scrive Romano Penna: “ciò che caratterizza la chiesa efesina non è una dottrina eretica, ma la mancanza di un approfondimento della novità ecclesiologica e morale e di un autentico radicamento della parola annunciata nella vita. Per questo l’autore insiste sulle caratteristiche dell’ “uomo nuovo” (2,15; 4,24), “interiore” (3,16) e “perfetto” (4,13). I lettori devono prendere fortemente coscienza di ciò che col battesimo sono diventati, sia collettivamente che individualmente, e tradurlo in vita vissuta, in una costante crescita “verso l’intera pienezza di Dio” (3,19).... tuttavia, Efesini non è comandata da un pessimistico e ansioso atteggiamento di difesa; al contrario la sua atmosfera di serena contemplazione e la sua esuberante proclamazione di una vittoria già conseguita da Cristo ... conferisce ai lettori la costante ricerca di un libero accesso in piena fiducia a Dio Padre (cfr. 3,12; 2,18)”. IL PENSIERO DELLA LETTERA La lettera agli Efesini è uno splendido esempio di sintesi del pensiero e della teologia di Paolo, anche se non completa (manca del tutto il tema della “giustificazione” e l’attesa escatologica passa in secondo piano). Il suo autore, oltre che dagli scritti autentici dell’apostolo, attinge le idee-guida dalla Scrittura e dagli sviluppi del pensiero ebraico nel mondo ellenistico. Paolo, che si definiva “l’infimo degli apostoli” (1Cor 15,9) è ormai “l’infimo di tutti i santi” (3,8). Le lotte tra ex-giudei ed ex-pagani sono concluse; si va affermando la missione di Paolo. Questi è a conoscenza non solo della redenzione compiuta attraverso la passione e la risurrezione, ma anche dell’intero piano divino: “ricapitolare in Cristo tutte le cose” (1,10). Tutto ciò diventa visibile nella Chiesa. La cristologia In questa lettera la presentazione della figura di Cristo è profondamente connessa con il suo linguaggio impiegato: così Gesù Cristo è il Figlio Diletto (1,6; cfr. Col 1,13: “il Figlio del suo amore”), nel quale i cristiani sono redenti. L’amore di Dio per il suo Figlio perdura nel tempo (lett. “è amato”) e accompagna il Cristo nella sua passione: “in lui abbiamo la redenzione, mediante il suo sangue”. L’idea centrale della cristologia è che il Cristo è il capo della chiesa e anche del cosmo. Per questo egli assume un ruolo straordinariamente importante sulla realtà creata e sulla Chiesa, ma si rapporta con quest’ultima anche come sposo. Il Cristo capo e sposo della Chiesa Se la lettera ai Colossesi insiste sul fatto che il Cristo è principio vitale e capo dell’universo e Paolo ne sottolinea l’autorità, nella lettera agli Efesini il corpo cosmico diventa la Chiesa. Tutta la creazione è stata fatta in lui, ma Cristo è stato dato come capo di tutte le cose alla Chiesa (1,22); essa afferma la signoria di lui di fronte a tutti i popoli. Tutto ciò significa, prima di tutto, che tutta la realtà dipende da lui (4,15-16; cfr. Col 2,18-19); così nella Chiesa tutti i battezzati ricevono da lui le loro responsabilità: “a ciascuno è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” (4,7). Dal Cristo, che asceso al di sopra dei cieli riempie ogni cosa (4,10), derivano anche i ministeri nella comunità: “è lui che ha stabilito alcuni come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri” (4,11). Sta qui una delle differenze più importanti con gli scritti autentici di Paolo: nella Prima Lettera ai Corinzi questa funzione era affidata infatti allo Spirito (1Cor 12,7.1 l) o a Dio (1Cor 12,28). La risurrezione di Gesù è fonte perenne della vitalità della sua Chiesa, alla quale è unito in un rapporto sponsale (5,22- 33). Egli, che è il capo della Chiesa (5,23), lo è nel ruolo di salvatore del suo corpo: è capo in quanto ama con tutto se stesso la Chiesa, che mantiene con lui un rapporto privilegiato. Lo stesso mistero matrimoniale è riferito a questa realtà così ricca. La Chiesa è l’unica amata, perché il Cristo sceglie di amarla e di renderla amabile: “per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, alfine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia e senza ruga” (5,26-27). Il Cristo e la rivelazione del mistero A partire dalla risurrezione, l’autorità di Cristo capo, si estende al cosmo nella sua totalità (1,20-21); c’è un “disegno” divino, da rivelare nella “pienezza dei tempi ”: “ricapitolare in Cristo tutte le cose”(1,10), come attuazione di un disegno divino. Il tema del disegno, in greco letteralmente “economia”, contiene anche una sfumatura giuridica: una “sentenza” da realizzare. Ecco perché questa parola passa a indicare la “storia della salvezza”: la realizzazione nella storia di ciò che Dio ha stabilito prima d’ogni tempo. Questo disegno comprende anche la designazione del Cristo come capo di tutte le cose alla Chiesa dopo che Dio gli ha sottomesso ogni cosa (la CEI ha invece: “lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa”1,22). Pertanto, se già la ricapitolazione significa raccogliere in unità tutti gli elementi dispersi, se cioè “Cristo riconduce a unità ciò che nel cosmo appare non solo frammentato, ma anche diviso e lacerato” (R. Penna), l’accogliere il Cristo come capo da parte della Chiesa, significa accogliere la sua universale autorità, che si estende anche al di fuori dei suoi confini. La Chiesa, corpo del Cristo, accetta quest’autorità, consapevole di essere il suo corpo, in cammino e in crescita armonica verso il Cristo, proprio capo (4,15). Questo tema racchiude anche, sempre in riferimento a Cristo, un progetto che deve essere svelato in Cristo: un “mistero della volontà divina” (1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19; Col 1,26; 2,2; 4,3), che solo in Cristo, come “sapienza multiforme di Dio” viene svelato (3,9-10; cfr. 3,17-19), pur rimanendo prerogativa di Dio. 5 La Chiesa e l'ecclesiologia Questa lettera contiene senz’altro l’esaltazione della Chiesa (1,22.24; 3,10.21; 5,23; cfr. Col 1,18; 5,24.27.29.32), un tema che affronta sempre con riferimento al Cristo, il suo capo (1,22; cfr. Col 1,18). La Chiesa è la comunità universale, anche in senso cosmico (1,22-23). Il Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei (5,25); ha voluto santificare la Chiesa e continua a nutrirla e ad amarla (5,22-23). In questa lettera, essa diviene lo scopo della missione e della morte di Cristo, ma anche del ministero dell’apostolo, il quale compie nel proprio corpo quello che manca alle sofferenze di Cristo a favore del suo corpo, la Chiesa (1,24), Addirittura il ministero diventa il “fondamento” della comunità, prendendo così, in un certo senso, il posto di Cristo (et. all’opposto 1Cor 3,11). Così l’esperienza ecclesiale diventa la chiave concreta di attuazione del disegno divino di salvezza. Questo va considerato nell’orizzonte particolare dello scritto, in cui si affronta la condizione dei due gruppi che compongono la comunità. Quanti arrivano alla fede cristiana (i “santi”) dal giudaismo e quanti invece provengono dal paganesimo trovano in Gesù la composizione di ogni differenza (2,14-20) e la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo (1,10). Gli ex-pagani, in particolare, sono oggetto della sua attenzione, con un orientamento che completa l’orientamento del ministero di Paolo: “a me era stato affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi” (Gal 2,7). Ma d’altra parte, l’autore della lettera, senza avere l’afflato originale dell’apostolo, ne conserva tutta l’intuizione originaria. Il Vangelo non può vedere differenze, perché la sua destinazione è universale e nelle comunità cui si indirizza il gruppo dei gentili finisce per prevalere. Pertanto il ministero apostolico dovrà fondarsi su questa precisa realtà: guidare i pagani a comprendere il ruolo nuovo che l’opera di Cristo riserva loro nella comunità di cui è diventato ministro (3,5-7). Questo costituisce l’attuazione piena di un disegno divino, che è già attuato nella comunità ecclesiale (cfr. 1,10; 3,2.9). Non va neppure trascurata la forte intensità battesimale del linguaggio della lettera, se non consapevole almeno esplicita nel linguaggio di una tradizione comune (cfr. 1,13-14; 4,5.30; 5,8). Il sigillo dato dallo Spirito implica, oltre alla caparra della vera eredità, la vera circoncisione non fatta da mani d’uomo ma dallo Spirito: “con Cristo siete stati sepolti insieme nel battesimo” (Col 2,12; cfr. 2,11-13). I DOVERI FAMILIARI In questa prospettiva ecclesiologica, assumono un senso forte anche i doveri familiari (5,21-6,9; cfr. Col 3,18-4,1) che l’apostolo invita a realizzare. La lettera presenta un vero e proprio codice di vita per la famiglia dei cristiani: mariti e mogli, genitori e figli, padroni e schiavi. Ben oltre le parole della lettera ai Colossesi, tutta la sezione ha un fondamento nell’invito alla sottomissione reciproca “nel timore di Cristo”. Quest’impegno si applica alle mogli nei confronti dei mariti ma anche di questi ultimi verso le mogli. La stessa parenesi modella, sull’amore di Cristo per la Chiesa, l’amore dell’uomo per la donna. Efesini, infatti, più che alla sottomissione della donna, guarda all’amore del marito per lei (5,25-33), una riflessione che forse proviene da un antico inno battesimale (5,25-27). L’amore dell’uomo per la donna deve essere modellato sull’amore di Cristo per la Chiesa: quella sola carne, che l’uomo e la donna secondo il disegno della creazione dovranno formare (Gen 2,24), è lo stesso principio che in Cristo crea l’unità fra i due popoli divisi. Ma esso non rimane come un principio teorico, bensì spiega tutte le sue esigenze nell’amore per la propria carne, fatto di tenerezza e passione, ma anche di cura e di attenzione. Anche le relazioni tra genitori e figli si basano su una norma dell’Antico Testamento, che chiede ai figli l’obbedienza ai genitori (Es 20,12 e Dt 5,16), ma ingiungono ai padri, e non solo a questi, il dovere di creare le condizioni di una educazione saggia e rispettosa. Per quanto riguarda i rapporti tra padroni (lett. “signori”) e schiavi, impone doveri soprattutto ai padroni, posti di fronte al solo Signore, il Cristo, che non fa preferenze di persone. Lo scritto non si spinge fino alla eliminazione della schiavitù in sé, come può aspettarsi la nostra sensibilità, in quanto essa viene superata nei rapporti interpersonali (cfr. Fm 16). Anzi, dove la lettera arriva a dire agli schiavi di servire nel loro signore terreno quello celeste, sono gettate le basi per ricostruire dalla radice le condizioni che regolano il rapporto tra chi ha l’autorità e quanti vi sono sottomessi. La lettera agli Efesini e l'unità L’unità costituisce lo sforzo più grande a cui la comunità è chiamata: “camminare in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e longanimità (CEI: “pazienza ”), sopportandovi a vicenda con amore e cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (4,1 -3). Nella città di Efeso, in cui vanno maturando anche le tradizioni vicine a quella di Giovanni (il Quarto Vangelo e l’Apocalisse), si stanno infatti evidenziando le differenze tra pagani e giudei, all’interno e all’esterno del cristianesimo nascente, anche per l’influsso di vari culti che l’ambiente favoriva, dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.. Di fronte al rischio di una chiusura degli uni verso gli altri, ecco l’appello all’unità della comunità cristiana in tutte le sue componenti. La comunità dovrà restare unita, se vuole rimanere fedele al Vangelo, prendendo lo spunto da quanto Paolo, “il prigioniero nel Signore” (4,1), ha testimoniato a costo della sua vita. Anche se ciò si differenzia, e non poco, con il pensiero delle ultime lettere autentiche dell’apostolo, questa è la sua eredità. Paradossalmente la non autenticità paolina dello scritto non indebolisce, ma rafforza l’autorità di Paolo. 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