Fort Apollonia (ex Routledge per AM)x

Patrimoni condivisi e patrimoni contesi a Fort Apollonia (Ghana sudoccidentale)1
Matteo Aria (Sapienza Università di Roma)
Mariaclaudia Cristofano (Sapienza Università di Roma)
Stefano Maltese (Università degli Studi di Verona)
1. Introduzione
Il 30 ottobre 2010 a Beyin, – antica capitale del regno Nzema e oggi piccolo villaggio costiero del Ghana
sud-occidentale (Western Nzema Traditional Area) – è stato inaugurato il Fort Apollonia Museum of the
Nzema Culture and History. Attraverso un articolato percorso di reinterpretazione del passato coloniale e
della relazione con gli europei, un forte inglese della fine del XVIII sec., simbolo della dominazione e dello
sfruttamento occidentale e dalla metà degli anni Sessanta quartier generale degli antropologi italiani della
Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG), è stato trasformato nel luogo della valorizzazione della storia
e della cultura della popolazione locale.
La realizzazione del museo etnografico si configura come uno dei risultati più significativi del progetto di
cooperazione Fort Apollonia and the Nzemas: community-based management of the natural and cultural
heritage, Western Ghana, volto allo sviluppo economico, turistico e culturale dell’area nzema 2 e alla
salvaguardia del suo patrimonio naturale. Finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano e gestito tra il
2008 e il 2011 dalla ONG COSPE (Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti), il progetto ha visto il
coinvolgimento di una varietà di istituzioni politiche e culturali locali, nazionali e internazionali e di
organizzazioni e attori ghanesi e italiani. La complessa interazione tra questi diversi soggetti ha dato vita a
un particolare processo di patrimonializzazione caratterizzato non solo da conflitti, negoziazioni, dinamiche
di potere e interessi economici, ma anche da nuove pratiche e narrazioni condivise frutto della sinergia
creativa tra retoriche e immaginari africani e europei. Le loro azioni non hanno infatti sostanziato il
dogmatico recupero di un’autentica cultura originaria, né rafforzato irriducibili appartenenze in
contrapposizione all’Occidente; al contrario hanno messo in valore la lunga storia della relazione con gli
europei e in particolare – come vedremo – con gli antropologi italiani. Proponiamo per questo di interpretare
il caso del Fort Apollonia Museum attraverso la nozione di patrimonializzazione condivisa. Essa a nostro
avviso permette di far luce su quei particolari fenomeni di valorizzazione culturale propri dell’Africa
contemporanea che non rafforzano chiusure identitarie ma promuovono un mutuo riconoscimento,
1
Questo saggio costituisce la versione riveduta e aggiornata di un lavoro inedito in lingua inglese (Aria - Cristofano Maltese, in pubblicazione). Pur essendo il contributo nel suo complesso frutto di esperienze e riflessioni largamente
condivise tra i tre autori, la redazione dei singoli paragrafi è da attribuirsi nel seguente modo: ad Aria i paragrafi 1 e 3; a
Cristofano il 4 e il 5; a Maltese il 2 e il 6. Le conclusioni sono il risultato di una scrittura congiunta.
2
Con questo termine ci riferiamo alla regione costiera delimitata a Est dalla foce del fiume Ankobra e a Ovest dal fiume
Tano e dal sistema lagunare che separa il Ghana dalla Costa d’Avorio. Lo Nzema, abitato dall’omonima popolazione
parte del gruppo akan, corrisponde alle due aree tradizionali locali (Western Nzema Traditional Area, con capitale a
Beyin ed Eastern Nzema Traditional Area, con capitale ad Atuabo) e in parte alle due assemblee di distretto regionali
(Jomoro District Assembly ed Ellembele District Assembly).
contribuendo alla rielaborazione del rapporto coloniale all’interno di una visione negoziata del passato.
L’aggettivo ‘condiviso’ non va inteso in un senso ‘positivo’ e ‘caritatevole’: esso mette piuttosto l’accento
sulla costruzione a più mani, non priva di tensioni e resistenze, di ciò che è ‘patrimonio’; sulla circolazione
di rappresentazioni e pratiche tra l’Africa e l’Occidente messa in atto da passeurs culturels de patrimoine
(Tachot - Gruzinski 2001; Aria 2007; Aria - Favole 2011; Ciarcia 2011), di entrambe le parti (antropologi
italiani, da un lato, autorità tradizionali e leader politici dall’altro), capaci di dar vita a forme culturali
originali. Questi protagonisti dei processi di patrimonializzazione si mostrano particolarmente abili nel
muoversi agilmente fra più culture e nel metterle in comunicazione attraversando e riconfigurando frontiere
semiotiche e simboliche altrimenti difficilmente permeabili. Manipolando molteplici linguaggi rielaborano le
retoriche del discorso erudito e dello sviluppo e risemantizzano le nozioni chiave di tradizione e identità che
diventano strutture costitutive delle nuove forme di valorizzazione3. Riteniamo infine che le categorie di
patrimonializzazione condivisa e passeurs culturels, così come emergono dalla nostra analisi delle pratiche e
delle ideologie relative al progetto Fort Apollonia and the Nzemas, possano rivelarsi utili sia per interpretare
il dinamismo dei fenomeni di costruzione del patrimonio nell’Africa postcoloniale, sia per arricchire il
dibattito interno agli studi sullo sviluppo. Tali concetti, ponendo l’accento sulle relazioni culturali, sulla
mutualità e sulla compartecipazione possono aiutare ad approfondire il dialogo tra le prospettive teoriche
della socio antropologia dello sviluppo e i ripensamenti critici propri delle recenti riflessioni sul patrimonio e
sulla museografia, fino a oggi poco comunicanti.
2. Antropologi e Nzema a Fort Apollonia: percorsi di risemantizzazione
Rileggendo Fort Apollonia secondo la prospettiva suggerita da Kopytoff nei suoi studi sugli oggetti e sulla
schiavitù (1986), è possibile interpretarne la ‘biografia culturale’ come l’esito delle complesse e mutevoli
relazioni tra gli europei e gli nzema. Da simbolo del giogo coloniale inglese a monumento dell’identità
nazionale; da casa degli antropologi italiani a luogo vitale della rappresentazione della storia e della cultura
Nzema: nel tempo Fort Apollonia è stato protagonista di costanti ri-significazioni, frutto di conflitti e
reciproci isolamenti, ma anche di convergenze ed esperienze condivise.
Con la fine della dominazione inglese, il forte, divenuto segno tangibile di una storia dolorosa da
dimenticare, fu abbandonato a uno stato di degrado che lo ridusse a poco più che un rudere. Le
rivendicazioni indipendentiste che attraversarono il Ghana negli anni Cinquanta del secolo scorso,
promossero infatti la rimozione del passato coloniale e, insieme, il recupero di un’‘autentica’ cultura
africana, immaginata come inalterata nonostante le contaminazioni e le offese perpetrate dalla
colonizzazione. L’incuria degli Nzema e dell’establishment politico nazionale verso il forte rappresentò, in
quella particolare stagione, il sintomo di una netta contrapposizione verso i bianchi, che individuava nella
necessità di disfarsi degli ingombranti lasciti del colonialismo una possibilità per generare un genuino
Sul ruolo svolto dai passeurs come mediatori di azioni rituali, di materiali e di saperi ‘tradizionali’; come attori nei
processi d’istituzionalizzazione di memorie collettive ‘viventi’ da esporre e raccontare; e come interlocutori privilegiati
per i ricercatori, i finanziatori di progetti internazionali, i politici, i giornalisti, i cooperanti, gli artisti, i turisti, ecc. vedi
Ciarcia (2011). Per la loro declinazione nei termini di broker vedi Olivier de Sardan (1995) e per un loro ripensamento
critico attraverso la categoria di translator vedi Lewis - Mosse (2006).
3
sentimento di appartenenza alla nuova identità ghanese. In questa stessa prospettiva, Kwame Nkrumah –
divenuto nel 1957 il primo presidente del Ghana indipendente – assunse un atteggiamento ostile nei confronti
del potere tradizionale, ritenuto colpevole sia di essere stato per lungo tempo colluso con gli interessi
dell’amministrazione inglese, sia di rappresentare un ostacolo alle sue politiche di centralizzazione statale di
stampo socialista (Rathbone 2000; Afari-Gyan 2001).
È in tale scenario che gli antropologi italiani cominciarono a frequentare con assiduità lo Nzema. Nel 1954
Vinigi Grottanelli, titolare della prima cattedra di Etnologia bandita in Italia, giunse nell’area con l’idea di
sviluppare uno studio prolungato e articolato della cultura locale. Due anni più tardi fondò la MEIG e avviò
una prima fase di ricerca, con l’obiettivo di restituire una rappresentazione olistica e organica delle diverse
componenti della società prima che questa si disgregasse sotto i colpi della modernizzazione. Tra gli
argomenti investigati trovarono ampia trattazione i temi classici della antropologia sociale dell’epoca: il ciclo
di vita dell’individuo con i suoi riti di passaggio, la magia e la stregoneria, le pratiche mediche tradizionali, il
rapporto con le entità ultraterrene e con gli antenati (Grottanelli 1977, 1978). Furono invece trascurate le
interazioni tra i locali e le autorità coloniali e tutti gli altri processi di trasformazione e di contaminazione
culturale. Si affermò così una prospettiva essenzializzante, che privilegiando l’analisi sincronica della società
nzema la sottraeva di fatto al divenire storico.
Nelle rappresentazioni prodotte dagli antropologi della MEIG, come pure nell’azione delle élite politiche del
giovane stato ghanese, erano dunque implicite tanto la rimozione delle relazioni tra gli nzema e gli europei,
quanto la promozione di un contesto tradizionale, autentico e del tutto impermeabile ai contatti. Tale
convergenza fu del resto sancita dal permesso che Nkrumah concesse direttamente a Grottanelli per avviare
le sue ricerche, e trovò ulteriore conferma alla fine degli anni Sessanta, quando la Missione si stabilì nel forte
appena restaurato per volere dello stesso presidente ghanese.
La rivalorizzazione dell’antico insediamento inglese e l’accondiscendenza mostrata allo studioso italiano
nonostante il diffuso sentimento di diffidenza verso gli antropologi occidentali – visti come emanazione
diretta del potere coloniale – erano probabilmente strumentali agli scopi della politica locale di Nkrumah.
Come uomo politico e come nzema4, egli era infatti interessato non solo a controllare da vicino l’area e i suoi
poteri tradizionali, ma anche a migliorare la conoscenza di una regione periferica e promuoverne così lo
sviluppo (Pavanello 2007: 127). Queste strategie appaiono ancor più significative alla luce delle
rivendicazioni del movimento panafricanista, di cui Nkrumah fu ispiratore e leader indiscusso (Arhin 2001).
Negli anni Sessanta il Ghana socialista e nkrumahista, divenne infatti simbolo dell’emancipazione del
continente africano e meta di consistenti flussi di intellettuali e attivisti, provenienti da altri paesi africani e
dagli Stati Uniti. La ricerca delle origini che animava questi movimenti di ritorno sulle rotte della tratta
schiavistica contribuì alla ri-significazione dei forti costieri5, i quali furono trasformati da luoghi dell’oblio a
Kwame Nhrumah nacque il 21 settembre del 1909 a Nkroful, un piccolo villaggio dell’entroterra nell’attuale distretto
amministrativo di Ellembele, che coincide territorialmente con l’Eastern Nzema Traditional Area.
5
In Ghana, i castelli e i forti presenti lungo tutta la costa costituiscono l’eredità più visibile della tratta degli schiavi e
degli scambi commerciali portati avanti dagli europei a partire dal XV secolo. Nella seconda metà del Novecento,
alcuni di essi sono stati oggetto di un rinnovato interesse da parte dell’UNESCO, che ha condotto nel 1979 al loro
4
monumenti della diaspora afroamericana e di una storia dolorosa, ma anche simboli di riscatto e di
un’auspicata unità panafricana (Bruner 1996; Schramm 2007). La ristrutturazione di Fort Apollonia
rispondeva proprio all’esigenza di rafforzare e promuovere le nuove appartenenze nazionali e continentali,
ma al contempo si configurava come un primo tentativo di valorizzare turisticamente un territorio altrimenti
destinato a rimanere marginale e arretrato.
In realtà, le vicende successive delinearono uno scenario ben diverso da quello prospettato da Nkrumah. La
sua destituzione decretò il venir meno dell’interesse governativo per lo sviluppo dell’area, mentre le
rappresentazioni prodotte dagli studiosi italiani, poco inclini a riflettere sul dinamismo della società locale,
non fecero che rafforzare l’immagine di un mondo ancestrale e immobile nel tempo. Di conseguenza, fino
alla fine degli anni Novanta, lo Nzema continuò a distinguersi per l’isolamento e la lontananza dai progressi
della modernità. Parallelamente Fort Apollonia, nonostante la pervasiva azione delle retoriche
nazionalistiche, conservò per molti anni ancora i tratti di un luogo di esclusione, nuovamente occupato dai
soli europei bianchi. La piccola guest house realizzata al suo interno con i lavori di rinnovamento alla fine
degli anni Sessanta non divenne il ricovero dei primi viaggiatori afroamericani in pellegrinaggio nei luoghi
della tratta schiavistica, ma si trasformò nella casa degli antropologi della MEIG. Fu proprio il Ghana
Museums and Monuments Board (GMMB), l’ente governativo ghanese da cui dipendono i musei e i
monumenti nazionali, a concederne l’uso esclusivo a Grottanelli. Questi a sua volta dotò il forte di tutte le
comodità (zanzariere, stanza da bagno, filtro per la potabilizzazione dell’acqua), rendendolo un luogo
ospitale nel quale fosse anche possibile ricevere e intervistare gli ‘informatori’ rintracciati sul terreno con
l’aiuto di mediatori locali. Le mura del castello continuarono così a rappresentare il segno di demarcazione
tra appartenenze rigidamente definite, almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando gli etnologi smisero
di frequentarlo. L’impresa scientifica della MEIG fu considerata infatti conclusa da Grottanelli con la
pubblicazione in quegli anni di una corposa opera in due volumi sulla società nzema (Grottanelli 1977,
1978). Del resto, la delicata situazione politica del Ghana, caratterizzata da una serie di colpi di stato sfociati
nel 1981 nella dittatura militare di Jerry John Rawlings, rendeva logisticamente più problematica
l’organizzazione dei viaggi di ricerca in una regione sempre più povera e marginale.
3. Dal forte alla capanna: la svolta degli anni Novanta
La ripresa delle attività della Missione avvenne solo negli anni Novanta, in un momento storico molto
diverso da quello che aveva visto operare Kwame Nkrumah e Vinigi Grottanelli. Con la firma della nuova
Costituzione nel 1992, in Ghana si assistette alla graduale affermazione del multipartitismo, a cui si
accompagnò una progressiva crescita economica che sostenne a sua volta l’ulteriore democratizzazione del
paese. Nello Nzema tale fase fu caratterizzata da uno slittamento dalle retoriche dell’identità e della
contrapposizione agli europei a inedite pratiche e narrazioni ‘condivise’ e dal contemporaneo avvio della
patrimonializzazione del territorio. Protagonisti di questi processi furono da un lato Annor Adjaye III,
inserimento all’interno della World Heritage List. Cfr.: http://whc.unesco.org/en/list/34. Per una riflessione sui forti
costieri ghanesi vedi tra gli altri Delpino (2006).
paramount chief (ɔmanhene) della Western Nzema Traditional Area ed espressione della rinascita del potere
tradizionale; dall’altro Mariano Pavanello che, assunta nel 1989 la direzione scientifica della MEIG,
promosse un graduale ripensamento del modo di intendere e di praticare la ricerca antropologica. In questo
scenario, Fort Apollonia mutò nuovamente di segno, trasformandosi in oggetto simbolicamente e
politicamente conteso tra le autorità locali e gli antropologi italiani.
A partire dagli anni Ottanta del Novecento in gran parte dell’Africa occidentale il potere tradizionale acquisì
una nuova centralità. Non più considerato come forza antagonista alla formazione dello stato nazione
africano, esso vide aumentare la sua legittimità fino ad assumere il ruolo di pilastro morale dell’unità
nazionale (Arhin - Pavanello 2006). Questo processo di straordinaria reviviscenza (Valsecchi 2006),
felicemente riassunto nell’espressione “il ritorno dei re” (Perrot - Fauvelle-Aymar 2003), trovò attuazione in
Ghana nella già menzionata carta costituzionale del 1992, che riconoscendo esplicitamente le prerogative
della chieftaincy adottò le misure necessarie per proteggerla dalle ingerenze del governo e ne stabilì
contemporaneamente i limiti di azione. In tale scenario, i capi tradizionali non si accontentarono di
riaffermare la sacralità e la rilevanza del proprio ruolo attraverso la messa in scena delle performance rituali;
al contrario, rivelandosi particolarmente abili nell’individuare spazi di consenso esterni ai circuiti classici del
confronto politico, si aprirono alle opportunità offerte dalla cooperazione internazionale. Gli anni Novanta
segnarono infatti l’affermazione delle retoriche e delle politiche del patrimonio culturale e naturale promosse
da organismi come l’UNESCO; ad esse, si affiancò il moltiplicarsi di progetti di sviluppo decentrati, volti a
coinvolgere attivamente le comunità locali. Si andò così delineando un quadro fortemente dinamico, in cui i
capi tradizionali, da figure investite di esclusive funzioni rituali a livello locale, si trasformarono in operatori
sempre più proiettati nella dimensione politica ed economica dello ‘sviluppo’. Tali mutamenti hanno avuto
un’importante ricaduta anche nello Nzema, dove sin dalle prime fasi del suo regno, Annor Adjaye III ha
incarnato in maniera paradigmatica un nuovo modello di autorità tradizionale. Pur rivendicando l’autenticità
del suo status, la sua azione si è distinta per una decisa adesione alle pratiche e alle retoriche della modernità:
in apparente contraddizione con un’idea stereotipica di capo, egli ha compiuto studi avanzati e ha fatto
carriera come funzionario pubblico nelle amministrazioni locali. Inoltre, oscillando costantemente tra la
dimensione sacra propria della regalità nzema e la dimensione politica sopra delineata, l’ɔmanhene ha
espresso una leadership carismatica in grado non solo di padroneggiare con disinvoltura il linguaggio dello
sviluppo ma anche di relazionarsi in maniera non subalterna con il sapere degli antropologi. Proprio facendo
leva su queste abilità, ha posto gli studiosi italiani di fronte all’ineludibile questione della restituzione
etnografica, cioè delle modalità attraverso cui condividere con gli interlocutori locali gli esiti della loro
ricerca. Sottolineando la rilevanza del loro ‘ritorno’ dopo anni di assenza e la continuità tra Grottanelli e
Pavanello, Annor Adjaye III ha ripetutamente fatto presente ai ricercatori l’obbligo di rendere fruibili alla
popolazione i loro studi e di mettere in atto forme di risarcimento e compenso per i risultati scientifici
conseguiti (Pavanello 2007). Nel far ciò, egli ha attuato una precisa strategia, che da una parte mirava al
prestigio derivante dalla possibilità di manipolare a suo favore il linguaggio e il sapere degli antropologi;
dall’altra intendeva sfruttare i rapporti con Pavanello per avviare un’operazione che facesse di Fort
Apollonia un volano di progresso economico e culturale per l’intera area nzema. Le retoriche della
restituzione e dello sviluppo messe in campo dall’ɔmanhene attestano inoltre che la relazione con gli studiosi
italiani era divenuta ormai un elemento chiave della sua legittimazione politica nei confronti del contesto
locale e delle autorità governative. La sua figura sembra allora configurarsi non solo come quella di un
courtier de développement (Olivier de Sardan - Bieschenk 1993), ma soprattutto come un translator (Lewis Mosse 2006), un ‘traghettatore di culture’ in grado di connettere creativamente immaginari, contaminare
pratiche, gettare ponti tra universi simbolici talvolta estremamente distanti. D’altro canto Annor Adjaye III
non avrebbe potuto pretendere reciprocità e restituzione dagli antropologi se il loro modo di stare sul campo
e produrre sapere non fosse stato oggetto, in quegli stessi anni, di radicali mutamenti. La svolta criticoriflessiva intervenuta nelle discipline antropologiche a metà degli anni Ottanta contribuì infatti a dotare i
ricercatori di strumenti teorici e metodologici atti a scongiurare il pericolo di generare rappresentazioni
essenzialistiche dei contesti da loro indagati. Ma ancor più significativa fu l’apertura degli studi italiani sugli
nzema ai temi del mutamento e del dinamismo culturale, fino ad allora trascurati. Le indagini di Pavanello
sull’economia locale e sulle tradizioni orali (2000), come pure le ricerche storiche di Valsecchi (2002),
svelarono infatti la trama dei costanti attraversamenti che avevano caratterizzato questo territorio sin dalle
prime esplorazioni portoghesi e delinearono una concezione culturalmente condivisa della storia, fondata sul
contatto e sulla relazione. Per indagare temi sensibili quali il rapporto con gli antenati, la storia, la proprietà
della terra e le capacità creative della tradizione, i rappresentanti della MEIG si immersero in profondità nel
tessuto della società nzema, allontanando gradualmente il baricentro delle loro pratiche di ricerca da Fort
Apollonia. Allo stesso tempo essi furono indotti a cercare inediti spazi di accreditamento della propria
ricerca per giustificare la loro presenza, divenuta assai più intrusiva che in passato. A fronte delle richieste di
restituzione provenienti anche dal GMMB, che lamentava la carenza di ricadute locali del sapere prodotto
dalla Missione, gli antropologi italiani cominciarono così a interrogarsi sulle possibili soluzioni da mettere in
campo. In questo quadro Pavanello operò in un duplice senso: da una parte stabilì con i più autorevoli
rappresentanti della ‘tradizione’ delle relazioni tanto profonde da permettergli di essere riconosciuto egli
stesso come un capo tra i capi, e accedere in tal modo ai livelli più nascosti della conoscenza storica;
dall’altra, per colmare il debito contratto dalla MEIG, si trasformò in intraprendente attivatore di processi di
sviluppo e valorizzazione dell’area.
Appare dunque evidente che i due passeurs Annor Adjaye III e Pavanello, accomunati da una medesima
ricerca di legittimazione politica, individuarono nel destino di Fort Apollonia una rilevante posta in gioco.
Quando nel 1998 il GMMB rinnovò la concessione esclusiva dell’edificio alla Missione chiese in cambio che
gli antropologi si impegnassero in un processo di valorizzazione che potesse comportare benefici immediati
della popolazione locale. Non passarono molti anni prima che Pavanello incoraggiasse la definitiva uscita dei
ricercatori dal forte e la loro dispersione sul territorio. Egli stesso andò a risiedere in una capanna di rafia in
un villaggio costiero a pochi chilometri da Beyin. Contestualmente coinvolse in una serie di progetti di
sviluppo l’ONG italiana COSPE, il Comune toscano di Peccioli, le autorità tradizionali e quelle governative
ghanesi. All’interno di una simile spinta sviluppista, Fort Apollonia cominciò a essere percepito come
oggetto di una possibile valorizzazione, certamente simbolo di una storia di conflitti e contrapposizioni, ma
anche di aperture reciproche e di storie condivise. I tempi erano dunque maturi per farne il centro simbolico e
fisico di un progetto di sviluppo per l’intera area nzema.
4. Attori, strategie e poste in gioco di un progetto di cooperazione culturale
Nel 2002 il COSPE iniziò a lavorare alla preparazione del progetto Fort Apollonia and the Nzemas.
Community-based Management of the Natural and Cultural Heritage, spostando i suoi interessi dai
programmi sulla microimpresa e sul microcredito ai nuovi orizzonti della patrimonializzazione culturale di
un territorio che era stato solo recentemente investito dai primi processi di valorizzazione naturalistica. Al
contrario infatti di altre regioni costiere del Ghana che già a partire dagli anni Ottanta avevano conosciuto
consistenti azioni nazionali e internazionali a favore dello sviluppo economico, della salvaguardia ambientale
e della promozione del patrimonio locale, lo Nzema era rimasto fino ad allora poco attraversato dai flussi
turistici e dagli interventi delle istituzioni della cooperazione occidentale.
In questo scenario, Fort Apollonia non era diventato uno degli elementi centrali del discorso turistico
nazionale, né l’oggetto di pellegrinaggio della diaspora afroamericana. Non rappresentava infatti un
monumento da visitare ma solo una guest house dove gli occidentali alloggiavano per studiare gli nzema o
per visitare per qualche ora il vicino villaggio di Nzulezo. Situato nella laguna retrocostiera dell’Amanzule, a
circa un chilometro di distanza da Fort Apollonia e costruito interamente su palafitte, esso incarnava a pieno
l’immaginario esotico di un’Africa nera primitiva, ancestrale e senza tempo, ricercata dai viaggiatori alla
scoperta di luoghi remoti e incontaminati e narrata in parte dalle stesse rappresentazioni degli antropologi
italiani.
Alla fine degli anni Novanta però questo panorama iniziò a mutare rapidamente. Alla luce del fascino
esercitato da Nzulezo e sollecitati dalle politiche governative orientate alla valorizzazione turistica del
patrimonio naturale, si attivarono nello Nzema i primi programmi di protezione ambientale. Nel 1997,
proprio quando stava per essere inaugurato l’Ankasa National Park, ideato per tutelare e promuovere una
vasta porzione di foresta equatoriale, l’ONG ghanese Ghana Wildlife Society (GWS) giungeva a Beyin per
realizzare un ampio programma di conservazione e di messa in valore dell’ambiente lagunare del bacino
dell’Amanzule. Tale intervento inseriva nell’immaginario locale un elemento nuovo che poneva le basi per
ripensare il territorio nzema in termini patrimoniali. Al contempo apriva la strada allo sviluppo eco-turistico
dell’area, dando inizio a un processo di profondo mutamento ancora oggi in atto. Nzulezo in particolare si
trasformò nel giro di pochi anni da remoto sito, difficilmente raggiungibile, in un’accessibile attrazione
turistica capace di richiamare numerosi visitatori e di favorire lo sviluppo di diverse strutture di accoglienza
nell’area intorno a Fort Apollonia.
È in questo contesto in trasformazione che, grazie all’azione congiunta di attori ghanesi ed europei, prese
avvio Fort Apollonia and the Nzemas. Tale programma fu in larga parte promosso, come abbiamo visto,
dalle azioni intraprese dagli antropologi italiani per tradurre il loro proposito di restituzione in termini di
collaborazione allo sviluppo economico e sociale, e per assicurarsi un accreditamento politico nell’arena
locale. La patrimonializzazione della cultura attraverso l’istituzione di un museo all’interno del forte
restaurato divenne il perno centrale del progetto portato avanti a partire dal 2002 dal COSPE e sostenuto dal
GMMB, dal governo regionale della Western Region, dal potere tradizionale, dall’amministrazione comunale
di Peccioli e dalle università italiane di Pisa e di Roma. Accumunati dalle iniziative e dalle connessioni
realizzate da Pavanello, al contempo ricercatore e agente dello sviluppo, questi vari soggetti, pur
perseguendo le proprie specifiche strategie, mostrarono di condividere l’interesse a mettere in risalto una
storia comune, costruita intorno alle relazioni tra gli italiani e gli nzema.
Parallelamente si ritenne indispensabile collegare i nuovi obiettivi culturali con i programmi di
valorizzazione eco-turistica realizzati da GWS. In particolare, attraverso il restauro del forte, la realizzazione
del museo, l’identificazione di ulteriori percorsi turistici, la creazione di un centro di produzione e vendita
per l’artigianato locale, il progetto mirava a fare della cultura e del territorio nzema delle risorse generatrici
di reddito per una vasta area intorno a Beyin.
Nel 2005 il programma del COSPE ottenne un consistente finanziamento da parte del Ministero degli Affari
Esteri italiano, che dimostrava così di volere riconoscere l’importanza e la continuità della presenza italiana
in Ghana e la lunga attività di ricerca degli antropologi della MEIG. Questo intento ben si confaceva con
l’idea di trasformare il forte in un museo dove dar conto della storia degli nzema e delle loro interazioni con
gli europei. Tale risignificazione era al contempo sostenuta dal potere tradizionale e anche dalle politiche
delle più importanti istituzioni culturali ghanesi, interessate a fare del patrimonio non più uno strumento di
contrapposizione all’Occidente ma un dispositivo di sviluppo e relazione.
L’inaugurazione del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History il 30 ottobre 2010 segnò così il
momento culminante di un processo di patrimonializzazione costruito a più mani da una pluralità di
organizzazioni e passeurs capaci di mescolare in maniera creativa e inedita le rappresentazioni dei locali e
gli immaginari occidentali. Tuttavia, questo percorso di rilettura condivisa del passato e di ridefinizione di
Fort Apollonia come luogo d’incontro non è stato esente da dinamiche conflittuali e da logiche di potere che
hanno in vario modo segnato i rapporti dei soggetti coinvolti nel progetto.
Ricorrendo alle prospettive teoriche della socio-antropologia dello sviluppo elaborate da Olivier de Sardan, è
possibile (Aria - Cristofano - Maltese in pubblicazione) rileggere Fort Apollonia and the Nzemas come
un’‘arena’ all’interno della quale ogni attore gioca la propria ‘partita’ cercando di sfruttare a proprio favore
le risorse e le opportunità offerte dal progetto. Questa prospettiva ‘actor-oriented’ (Olivier de Sardan 1995)
permette di interpretare l’arena-progetto come una sorta di palcoscenico dove i differenti protagonisti della
valorizzazione della cultura nzema si affrontano per poste in gioco come il potere, l’influenza, il prestigio, la
notorietà o il controllo sugli altri. Ne è prova il fatto che Fort Apollonia ha assunto una connotazione
differente a seconda del punto di vista da cui è stato osservato: un monumento di proprietà nazionale per
GMMB, istituzione governativa centrale che intendeva avocare a sé l’amministrazione del museo; un centro
di sviluppo comunitario per il COSPE, che invece immaginava il forte come un polo culturale gestito
direttamente ‘dal basso’ e completamente autonomo dal controllo di GMMB; un edificio costruito sulla terra
degli antenati per l’ɔmanhene, che rivendicava su di esso esclusivi diritti di proprietà per rafforzare la propria
agency politica rispetto ai poteri statali; infine, come più volte ricordato, l’esito tangibile della restituzione
per gli antropologi italiani. In tutte queste rappresentazioni l’antico insediamento inglese è stato il perno di
negoziazioni e interazioni conflittuali che possono essere decodificate alla luce delle categorie di ‘arena’ e di
‘gruppi strategici’ (Olivier de Sardan 1995). Spostando invece l’attenzione sulle retoriche e sulle le pratiche
che sono state alla base della realizzazione del museo, Fort Apollonia cessa di essere unicamente l’emblema
di differenti poste in gioco e risulta nuovamente comprensibile attraverso l’analisi dei processi di
partecipazione e collaborazione.
5. Il museo di Fort Apollonia
Lo studio delle rappresentazioni e delle strategie degli attori in interazione nel progetto-arena non basta da
sola a dar conto della complessità che ha caratterizzato la creazione del Fort Apollonia Museum. Per far ciò è
necessario considerare le peculiarità di un museo costruito intorno alla relazione tra gli nzema e gli
antropologi e connetterle alle pratiche e ai protagonisti della sua messa in opera. Si tratta infatti di
un’istituzione che, pur essendo ospitata in un ex forte inglese, non narra le travagliate vicende della tratta
atlantica, ma mira piuttosto a “rappresentare un punto di riferimento culturale, storico e simbolico per
l’identità della popolazione locale [e a] promuovere la conoscenza e la salvaguardia del territorio
sviluppando nella comunità una maggiore consapevolezza della sua importanza strategica”6.
Per capire il modo in cui le retoriche e le pratiche partecipative hanno orientato sia la fase preparatoria sia
l’allestimento del museo è necessario analizzare brevemente il nostro coinvolgimento nel percorso di
musealizzazione. Sul finire del 2008, a progetto ormai avviato, si delineò per due di noi7 la possibilità di
essere non solo osservatori, ma anche protagonisti attivi di un processo di patrimonializzazione disegnato a
più mani. Il COSPE ci incaricò infatti – in quanto giovani antropologi della MEIG ancora in formazione, ma
impegnati nello studio del patrimonio culturale e dei musei – di elaborare una proposta museografica da
sottoporre al vaglio dei differenti stakeholder. Da questo primo momento di confronto scaturì l’articolazione
dei nodi tematici da sviluppare nell’esposizione: il sistema di parentela e i sette clan in cui si divide la
popolazione nzema; la gerarchia del potere tradizionale; il racconto istoriologico; la medicina tradizionale; il
rapporto tra l’uomo e gli ecosistemi locali.
Dovendo tener conto delle aspettative dei diversi committenti e delle rivendicazione dei vari attori, ci
trovammo di fronte a due tipi di problemi. Il primo di questi era legato allo statuto del museo. All’avvio del
progetto non era infatti chiaro cosa sarebbe dovuto diventare Fort Apollonia, nonostante fosse da tutti
riconosciuto come il centro dei processi di valorizzazione del territorio e della cultura locale. Doveva essere
un luogo per gli nzema o per i turisti? Un museo prettamente storico-antropologico oppure un ecomuseo?
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Così recita uno dei punti della missione del museo, esposta nel pannello che accoglie il visitatore sulla soglia di
entrata.
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Gli autori del presente saggio hanno svolto ruoli differenti nell’operazione di valorizzazione culturale avviata nel
quadro del progetto Fort Apollonia and the Nzemas. Mariaclaudia Cristofano e Stefano Maltese hanno curato, a partire
dal giugno 2009, la progettazione e la realizzazione dell’allestimento museografico. Di entrambi, Matteo Aria è stato
tutor sin dal 2008, e negli ultimi giorni prima dell’inaugurazione del museo ha collaborato attivamente alla messa in
opera delle installazioni.
Una galleria di vetrine e oggetti in esposizione? Un centro culturale? Uno strumento per lo sviluppo
economico dell’area?
Il secondo elemento di criticità era relativo invece al metodo da adottare per dare forma all’allestimento. A
noi era stato infatti attribuito il compito di idearlo traducendo in installazioni museali la conoscenza
accumulata negli anni dagli antropologi italiani. Tale impostazione era in linea con il programma di
restituzione che aveva ispirato l’intero progetto di sviluppo, ma correva il rischio di promuovere
rappresentazioni reificanti e esotizzanti, marginalizzando l’agency dei locali. Il nostro obiettivo era piuttosto
quello di conciliare la patrimonializzazione di saperi costruiti secondo le impostazioni teoriche e
metodologiche classiche dell’antropologia, con una forma di museo capace di dialogare costantemente con la
contemporaneità nzema, attraverso un’operazione riflessiva di mediazione e contaminazione tra immaginari
e linguaggi differenti.
Per mettere in pratica i nostri propositi si sono rivelati fondamentali gli studi sui processi di
patrimonializzazione (Handler 1988; Herzfeld 1997; Lowenthal 1998; Palumbo 2003) e le prospettive
dell’antropologia museale (Karp - Lavine 1991; Clemente - Rossi 1999; Karp - Kratz et. al. 2006; Padiglione
2008). Entrambi questi indirizzi hanno contribuito a superare l’idea oggettivista, essenzializzante e
classificatoria di museo e di patrimonio. Al contempo hanno sostenuto da un lato la necessità di far dialogare
“un’antropologia nei musei con un’antropologia dei musei” (Padiglione 2008: 92) e dall’altro l’importanza di
una postura conoscitiva attenta ad analizzare i contesti politici e intellettuali che stanno alla base dei
fenomeni di costruzione del patrimonio. In particolare, secondo l’approccio partecipativo dell’antropologia
museale, l’opera del ricercatore si dimostra tanto più efficace quanto più egli è in grado di passare con abilità
dal ruolo di museografo impegnato nella negoziazione delle rappresentazioni con i ‘nativi’, a quello di
etnografo critico che analizza riflessivamente i fenomeni di valorizzazione di cui egli stesso è protagonista.
L’adozione di queste metodologie ci ha permesso di aprire il Fort Apollonia Museum a una pluralità di
sguardi incrociati sulla cultura e sulla società nzema, proprio quando maggiore appariva il pericolo che esso
potesse divenire il luogo dove mettere in mostra solo il sapere e l’autorità accademica degli antropologi. Per
quanto concerne le pratiche, tutto ciò si è concretizzato nella formazione di gruppi di lavoro per pensare e
realizzare gli allestimenti del museo in una dimensione partecipativa. Si sono così avviate costanti
negoziazioni e collaborazioni tra noi antropologi, un artista americano designato dal COSPE per lavorare
insieme all’associazione degli artigiani del territorio (la Nzema Art and Crafts Association), e diversi altri
personaggi ghanesi intervenuti nell’allestimento in virtù delle loro competenze o di un’autorevolezza
localmente riconosciuta.
Queste intense relazioni permeano in vario modo tutto il museo. La sala dedicata alla medicina tradizionale,
per esempio, è stata immaginata e allestita con l’aiuto del segretario della più rappresentativa tra le
associazioni di medici tradizionali attive nello Nzema (la Ghana Psychic and Traditional Healers
Association). Nel tentativo di mettere in discussione la visione essenzialista inscritta in una certa parte della
produzione etnografica italiana, in questo spazio si è cercato di descrivere il sistema medico locale
presentando quattro categorie di guaritori tradizionali, attraverso la messa in scena degli ambienti, degli
oggetti, e dei simboli delle loro pratiche terapeutiche. Un caso ancor più esemplare dell’approccio
collaborativo adottato è stato il pannello artistico sul Kundum8. La sua realizzazione ha tenuto conto di
contributi eterogenei: la descrizione dei rituali festivi fornitaci da alcuni autorevoli capi tradizionali; il punto
di vista del leader del corpo di ballo che ogni anno cura le coreografie della festa; i materiali audiovisivi dei
ricercatori italiani, impiegati per la creazione dei bozzetti; la sensibilità estetica e i saperi incorporati degli
artigiani che hanno lavorato al pannello; e infine l’ispirazione a un’istallazione analoga realizzata nel 2010
nel Museo dell’Infiorata di Genzano da Vincenzo Padiglione e Sandra Ferracuti. Il risultato di questa
interazione è un grande affresco realizzato con tecniche differenti, che cerca di raffigurare, unicamente
attraverso il linguaggio visivo, la scansione delle principali fasi del più importante festival nzema.
6. La patrimonializzazione della storia
Gli esempi sin qui descritti ben esemplificano la particolare congiuntura che ha reso Fort Apollonia, per la
prima volta nella sua storia, un luogo aperto, un atelier creativo vissuto insieme da nzema, giovani
antropologi, artisti e cooperanti. Non bisogna però credere che la valorizzazione della cultura nzema non sia
stata caratterizzata – oltre che dalle sinergie e dalle convergenze di cui si è detto – anche da conflitti,
malintesi e resistenze. Emblematico, a tal proposito, è il caso della patrimonializzazione della memoria
storica locale, inestricabilmente legata all’economia, alla legittimità del potere consuetudinario e ai diritti
fondiari. Mutevole in quanto basata sulla trasmissione orale; segreta perché vincolata al rapporto sacro con
gli antenati; fondativa di un diritto allodiale ad amministrare la terra e quindi a trarne profitto (Pavanello
2000); in area nzema, la storia rappresenta il crocevia di interessi e tensioni socio-economiche di primo
piano, e come tale è stata ritenuta dalla direzione della MEIG un elemento centrale da valorizzare nel
costituendo museo. In maniera complementare, essa si è venuta configurando come rilevante posta in gioco
anche per le autorità tradizionali, le quali, attribuendo agli antropologi e all’istituzione museale la facoltà di
legittimare alcuni racconti istoriologici a scapito di altri, si sono rivelate abili nel risemantizzare il museo
collocandolo all’interno di specifiche strategie politiche. Apparve ben presto evidente, infatti, che dedicare
una parte degli allestimenti del Fort Apollonia Museum alla storia costituiva per alcuni capi un’occasione per
avvalorare narrazioni particolari e acquisire maggiore capacità negoziale nelle frequenti dispute sulle
successioni, sui confini tra i villaggi e sul possesso delle terre.
Consapevoli delle forze e degli interessi in campo, dovevamo decidere quale strategia adottare per restituire
negli allestimenti la complessità di un tema tanto delicato. Bisognava dare voce a tutti i capi, accordando
implicitamente pari dignità a ciascuna versione della storia e provocando così le reazioni ostili dei detentori
di narrazioni egemoniche? Oppure tentare una difficile opera di mediazione, affiancando la storiografia
europea sull’area a un’elaborazione concordata della storia nzema prodotta dai Traditional Council?
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Il Kundum è un festival tradizionale itinerante che ogni anno, tra agosto e novembre, attraversa da est ad ovest le aree
Ahanta, Evaloe e Nzema del Ghana sud-occidentale per poi concludersi nell’enclave nzema di Grand Bassam, in Costa
d’Avorio. Originariamente nato come capodanno agricolo, o festa legata al raccolto dell’igname, esso ha conosciuto in
epoca coloniale profonde trasformazioni; oggi rappresenta un fondamentale snodo della vita politica e sociale dell’area,
in quanto fornisce un’occasione di pubblico confronto tra le gerarchie del potere tradizionale e le articolazioni regionali
e nazionali del potere amministrativo statale, in una cornice di forte impulso ai processi di sviluppo.
Inizialmente decidemmo di non percorrere nessuna di queste strade e di non sviluppare un’istallazione
espressamente dedicata alla storia locale, nella convinzione che questa meritasse un’attenzione speciale e
tempi più dilatati per essere adeguatamente problematizzata. Tuttavia, dal dialogo costante con i capi
tradizionali emerse che per portare la storia dentro al Museo sarebbe stato necessario attuare forme di
intervento ampiamente condivise: era cioè necessario tradurre le legittime istanze di auto-rappresentazione
degli attori locali in allestimenti capaci di sviluppare un discorso critico e scientificamente rilevante, senza
appiattirsi su una rappresentazione oggettivante di una supposta ‘verità’ storiografica, chimerica quanto
inverificabile.
Sono serviti circa due anni dalla inaugurazione del Museo affinché finalmente maturassero le condizioni
ideali per attuare un intervento del genere. Un’opportunità concreta è stata offerta da un progetto di
cooperazione culturale volto alla salvaguardia e alla digitalizzazione di patrimoni archivistici a rischio. Nel
febbraio 2012 il Fort Apollonia Museum, supportato dalla MEIG, ha ottenuto infatti un finanziamento dalla
British Library nel quadro dell’Endangered Archives Programme (www.eap.bl.uk), per un progetto pilota
della durata di 10 mesi intitolato Safeguarding Nzema History: Documents on Nzema Land in Ghanaian
National and Local Archives. Conclusosi il 30 giugno 2013, l’intervento ha avuto come obiettivi principali la
messa in sicurezza, il riordino e la digitalizzazione del patrimonio archivistico del potere tradizionale, che
include documenti di estrema rilevanza tanto per la definizione dei rapporti formali tra documentazione
scritta e fonti orali, quanto per un generale ripensamento delle dinamiche storiche che hanno attraversato
l’area negli ultimi due secoli. Safeguarding Nzema History costituisce solamente la prima fase di un ben più
ampio e complesso intervento di catalogazione e digitalizzazione dei materiali archivistici in possesso dei
paramount chief delle aree tradizionali nzema. L’obiettivo ultimo, ampiamente condiviso con la gerarchia
del potere tradizionale locale, è quello di creare una piattaforma digitale che possa ospitare in futuro la
versione multimediale e interattiva degli allestimenti di Fort Apollonia e gli archivi dei Traditional Council.
I mesi immediatamente precedenti l’avvio del progetto sono stati segnati da un intenso confronto tra gli
antropologi della MEIG e i capi nzema intorno alle politiche e alle pratiche da attuare per procedere alla
conservazione e alla valorizzazione degli archivi storici del potere consuetudinario. L’intervento proposto dal
Fort Apollonia Museum è stato riconosciuto come il più indicato per cominciare ad affrontare con la
necessaria analiticità temi delicati come quelli afferenti all’ampio dominio della storia e dei complessi
rapporti tra memoria orale e fonti scritte. D’altra parte, alcuni avvenimenti pregressi sembravano suggerire
proprio questo tipo di soluzione. Nel 2002 Pavanello aveva iniziato, senza tuttavia poterlo completare, il
riordino dell’archivio storico del Western Nzema Traditional Council, depositato presso il palazzo di Annor
Adjaye III; da allora, l’ɔmanhene aveva più volte sollecitato il completamento di quel progetto, sostenendo
l’importanza dei documenti d’archivio per la conservazione della memoria storica nella sua area. Inoltre,
nelle fasi iniziali della ricerca che avrebbe poi guidato la progettazione degli allestimenti del Fort Apollonia
Museum, molti capi tradizionali avevano espresso chiaramente l’idea che il museo dovesse costituire il luogo
fisico in cui depositare i documenti d’archivio in loro possesso; Fort Apollonia sarebbe dovuto diventare una
sorta di museo-archivio, in cui preservare per le future generazioni il patrimonio documentario disperso nei
villaggi dell’area.
Nonostante l’ampia condivisione degli obiettivi e della natura del progetto, il processo di
patrimonializzazione della storia ha continuato a far emergere numerosi elementi di criticità. I paramount
chief di Eastern e Western Nzema Traditional Council hanno infatti attuato precise strategie per controllare e
indirizzare la scelta dei documenti da digitalizzare, nella consapevolezza che questi, a progetto finito,
sarebbero divenuti accessibili attraverso il sito web della British Library. Allo stesso tempo, hanno
esplicitamente affermato che la ricostruzione della storia dell’area deve necessariamente passare per un
lavoro di approfondita analisi dei materiali conservati presso i loro archivi; nel far questo hanno messo in
secondo piano la rilevanza e soprattutto la supposta ‘veridicità’ dell’informazione rintracciabile invece negli
archivi dei capi a loro subordinati. In senso più generale, Safeguarding Nzema History ha fornito una
preziosa occasione da un lato per osservare da presso le modalità attraverso cui la tradizione orale prende a
prestito – manipolandole e rivisitandole in maniera creativa – le suggestioni veicolate dalle fonti scritte;
dall’altro per gettare uno sguardo inedito sulle strategie attraverso cui gli attori locali partecipano attivamente
con gli antropologi alla creazione del patrimonio.
7. Conclusione
A circa tre anni dalla sua inaugurazione, il Fort Apollonia Museum è ancora al centro di un processo
dinamico, in cui si confrontano gli interessi e le strategie di differenti attori. Pur non avendo qui modo di
approfondirne l’analisi, segnaliamo come esso sia caratterizzato da criticità, quali la sostenibilità economica
e l’organizzazione delle attività sul territorio, ma anche da inedite opportunità, frutto tra l’altro della
collaborazione tra lo staff del museo e gli antropologi italiani. L’esempio della musealizzazione della storia,
con le interazioni e gli attriti che lo distinguono, mostra come il museo non sia un’istituzione vuota ed
esogena rispetto al contesto in cui è inserito. Oltre a essere una realtà ‘buona da pensare’ per antropologi e
cooperanti esso si rivela infatti un luogo vivo e denso di interessi per la comunità locale, o almeno per una
sua parte. Alla luce di queste considerazioni, il destino del museo appare legato alla sua capacità di non
diventare semplicemente un luogo per turisti o una vetrina per il sapere degli antropologi, né tantomeno una
piattaforma di rivendicazioni identitarie locali. Piuttosto, esso sembra dipendere dal perdurare di quella
continua oscillazione tra dinamiche del conflitto e pratiche della condivisione che ne ha caratterizzato la
creazione. Proprio la necessità di mediare continuamente tra istanze diversificate ha infatti determinato le
condizioni entro cui, sia i locali sia gli antropologi, hanno agito come passeurs culturels abili nel produrre,
nell’oggettivare e nel mettere in valore nuove rappresentazioni culturali.
In conclusione, riteniamo che il Fort Apollonia Museum e il progetto da cui esso è nato possano essere
compresi e descritti attraverso la nozione di patrimonializzazione condivisa. Essi si distinguono infatti non
solo per le retoriche e le pratiche partecipative che abbiamo visto all’opera nell’allestimento, ma soprattutto
per l’intreccio e l’appropriazione reciproca di immaginari e concetti volti a valorizzare l’incontro e la
relazione. Tale prospettiva, che enfatizza la rielaborazione creativa del ‘noi’ e del ‘passato’ e le articolazioni
tra punti di vista nativi ed europei (Clifford 2001), può inoltre contribuire ad ampliare le riflessioni della
socio-antropologia dello sviluppo – troppo spesso attenta alle politiche e poco sensibile alle poetiche –
connettendole con gli studi sul patrimonio culturale e accreditando così una visione più dinamica dei processi
di valorizzazione.
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