IMMANUEL KANT: 1. Metafisica, empirismo, criticismo Kant orienta il sapere contro la conoscenza metafisica tradizionale, rifiuta il mondo dell’apriorismo inverificabile e tende a trasformare la metafisica del conoscere nella scienza del conoscere; ma non per questo si affida al puro empirismo. Non è disposto ad accettare l’idea che la superficiale vistosità materiale dei fenomeni esaurisca l’oggetto del sapere. Chiuso nelle sue contingenze, l’empirismo non può dire nulla né nel campo della conoscenza, né in quello della costruzione dei valori morali, civili e politici. Da questa duplice critica (alla metafisica e all’empirismo), giunge al concetto di sintesi a priori. La parola sintesi denota connessione di dati da stabilire su materiali pratici, su realtà visibili, ma la sintesi non è tutta ricavabile da ciò che i fenomeni contengono i se stessi, e quindi presenta anche un suo carattere aprioristico. Il criticismo che pervade il pensiero di Kant, dato da un io criticamente dotato, consapevole di questa sua connaturata facoltà di riflessione e di giudizio, si estende anche al campo della morale e della politica. Kant non fonda i suoi imperativi etici su un’astratta e dogmatica precettistica, ma neppure li disperde nel fluire delle contingenze. I principi empirici non sono mai idonei a fondare le leggi morali. 2. La teoria della libertà Kant prende decisamente posizione a favore dello spirito critico e della libertà di giudizio del soggetto in tutti i campi rilevanti della esperienza umana. Ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purchè non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con le libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale. I valori e i precetti per l’azione mutano nel tempo, e quindi nessun aspetto della storia può essere elevato a norma universale e tutto deve essere discusso attraverso la libertà critica, sempre abilitata a superare ogni limite che le si voglia assegnare. Usare pubblicamente la ragione on significa però sancire una specie di anarchia del pensiero; Kant distingue tra l’uso pubblico e l’uso privato della ragione e mentre il primo implica libertà della cultura, dell’insegnamento, della conoscenza, diverso è per quanto concerne l’uso privato della ragione, quello che ognuno può farne in un certo impiego o funzione pubblica e lui affidata. Qui si giustificano maggiori restrizioni e vincoli.Ciascun uomo non è soltanto un libero pensatore che esprime una sua verità personale sugli affari pubblici, ma è anche un cittadino che deve svolgere certi compiti nella comunità sociale. Kant cerca di conciliare una larga libertà del giudizio con il rispetto delle norme proprie delle diverse funzioni esercitate dai cittadini. 3. La concezione della storia Kant si chiede se il genere umano conosca un continuo regresso verso il peggio o un continuo progresso verso il meglio o se si mantenga fermo nel grado attuale del suo valore morale. Non si può fare con gli uomini una storia soggetta a un ordine sistematico, ma si deve tuttavia cercare un filo conduttore in grado di smentire la concezione terroristica della storia. La filosofia politica di Kant non postula una disalienazione generale dell’umanità, non considera la storia portatrice di doni infiniti, non crede che la logica del limite possa essere sradicata dalla realtà. L’uomo da solo non sarebbe in grado di trarre dalla sua composizione esistenziale cose che non sono state poste in essa. Questo non implica tuttavia immobilismo o regresso, essendo sempre possibile un migliore impiego delle energie morali dell’umanità. Non si ravvisa però negli uomini una incontestabile inclinazione al potenziamento qualitativo della loro moralità, ma usando più convenientemente le risorse etiche di cui dispongono essi possono rendersi se non qualitativamente migliori almeno più tolleranti e più costumati e procurarsi condizioni più civili di vita. 4. Il valore della pace Il segno più qualitativo del progresso umano è la tensione ideale e pratica che pone il valore della pace come criterio costitutivo ed esplicativo del destino storico e politico dell’umanità. Kant cerca di dimostrare che la logica della guerra non può essere perpetua, che la guerra distrugge più di quanto crei, che essa è sempre perdente anche per i vincitori, e che la conflittualità bellica non è l’unica forma possibile di conflittualità, poiché sussistono antagonismi non distruttivi ed anzi produttivi. L’umanità deve sapersi aprire a una visione cosmopolita dei propri interessi, e le nazioni devono sperare la sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche, ma da una grande federazione di popoli, da una forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune. L’ordinamento cosmopolitico di sicurezza pubblica a cui egli tende non deve essere immune da qualche pericolo, per impedire che le forze dell’umanità si assopiscano, ma è comunque indispensabile che si costituisca tra le nazioni un principio di equilibrio delle loro azioni e reazioni reciproche, per impedirne la distruzione. 5. L’insocievole socievolezza La socialità è per Kant una struttura permanente dell’uomo e per lui la socialità si forma nell’ordinarsi spontaneo delle esistenze e delle attività interpersonali. La socialità è combinata in modo tale da conoscere contestualmente attrazione e diffidenza, slancio e ritegno, avvicinamento e distacco. Kant ha coniato l’espressione molto significativa di “insocievole socievolezza” per designare la tendenza degli uomini a unirsi, congiunta però alla opposta tendenza alla delimitazione, alla separatezza, all’avversione. La socialità è una esperienza aperta, ed ammette perciò possibilità inesauribili di tensione, di diffidenza, di contrasto. Componente strutturale della socialità, l’antagonismo è tuttavia una delle fondamentali condizioni esplicative del progresso della vita sociale e del sapere. Senza antagonismo gli uomini rimarrebbero nella loro originaria primitività (basta sottoporre l’antagonismo ad una disciplina che ne impedisca la degenerazione scissionistica e distruttiva). La società postulata da Kant è quella in cui si attui da un lato, la massima libertà congiunta con un generale antagonismo dei suoi membri e, dall’altro lato, la più rigorosa determinazione e sicurezza dei limiti di tale libertà, affinché essa possa coesistere con la libertà degli altri. Rispettare il valore di ogni individuo è un supremo dovere dell’agire etico. Per Kant l’insocievole socievolezza non è solo il prezzo della limitazione e della difettività umana, ma rappresenta anche un principio di garanzia. La socializzazione incompiuta suscita inevitabilmente contrasti e antagonismi, che però, se disciplinati da un efficace sistema normativo, possono convertisti da strumenti di lesione in fattori riproduttivi della vita sociale. 6. Lo stato di diritto Kant distingue tra governo paterno e governo patriottico. Il primo pretende di distribuire senza controlli risorse e vantaggi della vita sociale secondo sue esclusivistiche misure di giustizio o semplicemente secondo gli impulsi della sua volontà arbitraria; nel secondo, invece gli individui si sentono membri di una stessa comunità e trasformano progressivamente il loro status politico da quello di sudditi a quello di cittadini. La sottomissione alla legge comune è condizione essenziale dello stato di diritto il cui principio ispiratore è l’uguaglianza intesa come pari trattamento degli individui da parte di regole giuridiche che si rivolgono alla generalità dei cittadini, senza differenziare la loro coattività a seconda delle diverse classi di appartenenza dei soggetti. Lo stato di diritto non modifica autoritativamente le condizioni pratiche dei consociati, e si limita solo a garantire che ciascuno possa pervenire a quella posizione alla quale possono elevarlo il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna. Per qualificare pienamente la figura del cittadino è necessaria l’indipendenza; c’è indipendenza dove non compare l’elemento servile, e perciò il problema di una politica ispirata alle idee di libertà è di favorire il mondo dell’esistente (cioè della indipendenza nel lavoro e nella creatività) rispetto al mondo dell’inerente (quello cioè in cui un soggetto è incluso in una realtà non sua e dalla quale totalmente dipende). Lo stato di diritto di Kant guarda a un modello repubblicano che egli distingue però dalla forma democratica, esposta ad implicazioni dispotiche perché in questo regie tutti deliberano sopra uno ed eventualmente anche contro uno. Egli è fautore di un costituzionalismo fondato sul sistema della rappresentanza e gli sembra informe un governo che non sia rappresentativo. 7. Universalismo e formalismo Il primo imperativo categorico di Kant recita: agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura. Siamo perciò tenuti a comportarci come se fossimo legislatori per tutti. Vi è quindi una vocazione universalistica dell’etica, ma anche della politica e della normatività. L’imperativo categorico non prescrive il contenuto perfetto dell’azione, né esige che la volontà buona si consideri detentrice di una verità completa e si senta perciò autorizzata a imporla agli altri. L’universalità di Kant non è distruzione del particolare, eliminazione della pluralità ma è tensione ideale che cerca in ogni determinazione pratica del pensare e dell’agire la valorizzazione di quella volontà buona che porta l’individuo ad essere qualche cosa di più del meno che è sempre. Il formalismo kantiano: non una vuotaggine che accoglie eterogeneità irrelate, ma un principio che esercita sulla varietà della esperienza umana una peculiare funzione critica e formativa. Il formalismo di Kant è un formativismo, perché mette in tutte le cose che comprende e commisura il segno di una intenzionalità buona, orientata verso la positività dei valori della vita. Si comprende come questa universalità critica e formale abbia una intrinseca esigenza di garantismo e cioè di strumenti istituzionali e normativi idonei a consentire la coesistenza delle volontà libere. G.W.FRIEDERICH HEGEL 1. Empirismo e universalità Per Hegel dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo e non uno scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento. Ciò che urta la mentalità di Hegel è lo sparpagliamento di esperienze irrelate, chiuse nelle loro separatezze e reciproche indifferenze, incapaci di scorgere l’anima direttrice e unificante del reale. Ma anche i tentativi dell’empirismo di raccordare tutti questi dati con legami esteriori, con transazioni utilitaristiche o con il semplice ricorso alle abitudini e alle convenzioni gli sembrano vani e inaccettabili. Per Hegel la conoscenza del tutto progredisce attraverso la conoscenza delle parti, ma a patto che queste si adeguino alla universalità del fine. Accertando le finitezze, la filosofia non deve fermarsi ad esse, né presumere che ciascuna di loro, nella sua autonoma potenzialità qualitativa, sia tale da poter aspirare all’universale per semplice svolgimento di una sua propria logica interna. L’analisi delle parti è solo la prima fase di un processo di unificazione attraverso il quale le parzialità smettono di essere dei distinti perché acquisiscono consapevolezza che il loro valore deriva da una verità sovrastante. La sua ambizione è quella di assoggettare ogni realtà individuale a modelli uniformi e unificanti. 2. Le false totalità Dal giusnaturalismo classico Hegel riprende il principio di una ratio universale che supera le rationes particolari, ma egli si sforza di dare a questa ratio un fondamento e un significato più storicistico, anche se mai disgiunto da un certo orientamento teologale. Il romanticismo, sempre alla ricerca di qualcosa che sfugge, si perde nel compiacimento di grandi grovigli fenomenici ai quali non riesce a dare né disciplina culturale né ordine pratico. L’universalismo etico e giuridico di Kant è invece atto più a regolare la coesistenza esteriorizzata degli arbitri individuali che a spiegare la destinazione complessiva della vita umana e sociale. Hegel ribalta il rapporto posto da Kant tra intelletto e ragione. Per Hegel la funzione dell’intelletto si esaurisce nel coordinamento di dati esteriori e nell’organizzazione e distribuzione empirica delle cose. Bisogna perciò andare oltre la dimensione puramente intellettualistica e riconoscere nella ragione la vera sede della conoscenza. Solo la ragione è capace di pervenire a quelle sintesi e ricomposizioni che rivelano, sotto le apparenti diversificazioni, l’unità intrinseca del mondo concettuale, etico e storico. 3. Teologia e mondanità Il problema di Hegel è che la totalità convogli tutte le energie della vita, penetri dappertutto, non lasci in disparte alcun settore rilevante della vita coesistenziale. Il mondo sociale, politico, economico, storico deve far parte di questo processo di globale inveramento qualitativo, in modo che non si privilegino nelle unificazioni dialettiche sotto le dimensioni spirituali, lasciando le altre in uno stato di irrelata molteplicità. Per Hegel Dio è in collera continua con il creato, e tale collera è all’origine del dramma del mondo e dei tentativi da parte degli uomini di placare queste dilacerazioni. Dio ha messo nelle vicende mondane un principio di provvidenziale conciliazione, ma anche un suo impeto d’ira perché il mondo, pur riconoscendo la supremazia di Dio, mostra una continua impazienza nei suoi confronti. 4. La dialettica Tutta la filosofia di Hegel è animata da una logica di realizzazione e di riconciliazione che si chiama “dialettica”. Vi è una dialettica come movimento della mente umana, e c’è una dialettica come movimento della realtà. Queste due dialettiche non vanno in parallelo; esse si incontrano, si combinano. Un terzo tipo di dialettica è quello che sussiste tra la dialettica della mente e quella della realtà. Il movimento dialettico si articola attraverso varie fasi. Il primo momento dialettico è la distinzione che fa percepire i dati di ogni insieme pratico non più come interscambiabili ma come muniti di un elemento individualizzante, di una coscienza di sé che fortifica ogni distinto nella propria specificità. Da questa fase di distinzione e di separatezza si passa a un altro momento dialettico, più aspro e competitivo, che è rappresentato dalla opposizione. La logica della opposizione, rafforzandosi, si trasforma a sua volta in un altro momento dialettico che è quello della contraddizione, cioè della tensione spinta verso i suoi punti critici. La contraddizione si interiorizza facendo sentire il conflitto anche come propria dilacerazione esistenziale. Si pongono allora le condizioni per la risoluzione della conflittualità, attraverso l’affermazione di una identità superiore e di una conciliazione sintetica. La tesi è l’io, l’antitesi è l’altro, la sintesi è ciò che si può prendere dall’uno e dall’altro. La sintesi non è tuttavia immobile e stabilita una volta per tutte: può degradarsi, non riuscire più a rappresentare l’unità del reale, e subire la reazione di nuove realtà diverse e antagoniste. 5. La ragione storica Ciò che sussiste nella natura e nella società deve assoggettarsi al giudizio della storia entificata, espressione di una razionalità universale, incarnazione di uno spirito assoluto che sa quello che vuole. La ragione è la verità della storia, e la storia è l’inveramento della ragione. In questa ragione storica opera una forza propulsiva che riesce a trascinare gli uomini nella realizzazione di compiti universali. Hegel parla di una astuzia della ragione, cioè di uno stratagemma attraverso cui gli uomini, pur presumendo di agire secondo i propri interessi, in realtà servono una logica immanente all’interno sviluppo storico. 6. Gli individui storico-cosmici Se la ragione storica di Hegel pervade il mondo, non si palesa però a tutti e non aspira a rendere tutti partecipi dei suoi valori. Solo degli esseri privilegiati possono intuire questa razionalità universale e cooperare al suo disvelamento e alla sua attuazione. Hegel parla così di grandi individui cosmico-storici, cioè di uomini che, scelti provvidenzialmente da questa ragione storica, colgono prima degli altri la verità, sanno dove va il mondo e lo spingono in quella direzione, diventando gli interpreti più qualificati del complessivo movimento storico. Il rispetto dela pubblica opinione non deve avere un ruolo rilevante nelle decisioni di questi esseri superiori. 7. La società civile Le idee hegeliane di dialettica, di religione, di storia trovano la loro esplicazione nei rapporti tra individuo, famiglia, società civile, nazione e stato. La famiglia è espressione di una sostanzialità dello spirito più qualificata di quella individuale. Dalla famiglia si passa alla società civile, che denota una maggiore ricchezza di contenuti. Hegel non sublima questa società civile, non la afferma come entità in decomponibile, vuole anzi analizzarla nelle sue articolazioni multiple, nelle sue sinuosità, nelle sue relazioni con il mondo degli interesse e delle attività particolari. I suoi elementi costitutivi sono: il sistema dei bisogni, l’aministrazione dela giustizia, la polizia e la corporazione. Il sentimento dell’universale è debole nel sistema dei bisogni per i caratteri propri dell’economia moderna, la quale produce miseria ed emarginazione. Questa condizione di scissione determinata dal perseguimento di una molteplicità anche irrelata di interessi e di bisogni è tuttavia già superata con le altre determinazioni della società civile. In primo luogo con l’amministrazione della giustizia, poi con la polizia ed infine con la corporazione. Hegel è contro l’accumulazione delle ricchezze in poche mani e mette in risalto il fatto che la classe lavoratrice, nel proprio compimento, diventerà il contrario di ciò che essa è immediatamente. Dovendo adempiere prevalentemente a compiti di amministrazione, le istituzioni della società civile, hanno una relativa autonomia rispetto alle istituzioni politiche e statali. Per quanto Hegel idealizzi lo stato, egli scorpora dalla sua organizzazione certe funzioni che possono essere svolte nell’ambito della società civile. Ciò che non riguarda i fini etici della politica va demandato alla ordinaria amministrazione sociale. 8. Lo stato etico Hegel però non fa della società civile il principale campo di esplicazione della storia, e la vede piuttosto come una condizione preparatoria alla suprema eticità dello stato. Egli non ammette che il potere del governo debba essere impiegato soprattutto per assecondare lo spontaneo equilibrio delle azioni sociali, attraverso funzioni di garanzia e di arbitrato coscienti di non dover interferire oltre misura nella libera dinamica degli interessi e dei bisogni dei cittadini. Per Hedel la società non regge da sola il peso della vita storica; abbandonata a se stessa, si degraderebbe negli abusi individualistici e utilitaristici. La nazione è in grado di superare gli interessi contingenti degli individui e dei gruppi, e di suscitare la consapevolezza di un destino comune. Lo stato hegeliano vuole andare in profondità vuole immettere nelle viscere del corpo sociale scopi e significati universali, considerandosi depositario dei valori e degli strumenti che trasformano una semplice consociazione in una comunità etica. Lo stato è il mondo che si è fatto spirito. 9. La potenza e la competizione internazionale Poiché l’universalità è una e gli stati sono molti, bisogna risolvere questa contraddizione, e la soluzione più conforme al volere della storia è che lo stato più forte e più convinto di avere il possesso della verità agisca da protagonista assoluto. L’universalità deve essere non diluita, ma accentrata, e perciò se uno stato si sente più capace di imprese di vasta portata, deve impegnarsi a dimostrare di essere il primo nel mondo storico, accettando di usare i mezzi necessari al dispiegamento della sua potenza. Se lo stato non riesce ad imporsi nel grande scacchiere del mondo con degli strumenti pacifici deve farlo con mezzi più rudi. La militarizzazione dello stato e la guerra possono così diventare fattori decisivi per il perseguimento di queste finalità universali. JEREMY BENTHAM 1. Utilità e riforme La natura ha messo l’uomo sotto due sollecitazioni opposte, il piacere e il dolore, e occorre perciò che la legge, rinunciando a sublimare principi imperscrutabili, prenda maggiore confidenza con questi dati tangibili dell’esperienza umana e intervenga affinché i flussi del piacere possano meglio diffondersi nella generalità delle situazioni umane e sociali, e i flussi del dolore siano controllati e progressivamente limitati. L’utilità è il criterio più ragionevole ed efficace nell’analisi dei problemi sia morali che sociali, ed è quello che consente di dirigere le azioni degli uomini verso la più grande somma possibile di felicità. Come la morale, diventando utilitaristica, deve portare al soddisfacimento più ampio possibile dei bisogni umani, così il governo e la legislazione, ispirandosi allo stesso principio, devono correggere i modi falsi di ragionare in materia politica e sociale e mettersi al servizio degli interessi reali degli individui. Il compito della politica e del diritto non è quello di imporre un bene assoluto aprioristicamente determinato nei suoi intangibili contenuti, ma quello di comprendere che nelle strutture permanenti della personalità c’è la naturale tendenza a non isolare il nostro interesse da quello altrui e a consultare anche la felicità altrui. 2. Common law e legislazione Bentham opra per il positivismo giuridico, e cioè per la codificazione delle leggi essenzialmente stabilite attraversi atti del parlamento senza completamenti da parte dei giudici, ai quali tuttavia riconosce la possibilità di appellarsi nelle loro interpretazioni a un principio di utilità. Pur negando al diritto un fondamento giusnaturalistico, il positivismo giuridico di Bentham non si traduce in un relativismo etico, in quanto il principio di utilità rappresenta sempre un criterio oggettivo e assoluto per valutare queste stesse leggi. 3. La critica al contrattualismo Bentham diffida dalle forme e dalle accezioni contrattualistiche del giusnaturalismo e ribadisce che i vari contrattualismi fondano le loro teorie politiche su una finzione, e che non è ragionevole mettere alla base della società un patto che gli uomini non hanno mai stipulato, che è solo un evento immaginario e che crea perciò dispute interminabili fomentando lo sperpero di tante energie che andrebbero invece utilizzate secondo criteri più positivi. L’azione politica è tenuta, nei limiti del possibile, a cercare la felicità di tutti, e dove la natura delle cose non consente di raggiungere questo traguardo, la regola da seguire è che il sacrificio di una porzione della felicità di pochi sia condizione del più grande vantaggio del resto dei cittadini. 4. I sofismi politici La vita collettiva è disseminata di molti sofismi, di diversa natura, che vano individuati e rimossi perché ostacolano il lavoro politico e legislativo e insieme disturbano il retto intendimento degli interessi individuali. Ci sono i sofismi dilatori dei quesiti, cioè di coloro che rimandano le riforme a un futuro più o meno indefinito, argomentando che i tempi non sono ancora maturi per procedere alla loro attuazione. C’è il sofisma del principio di gradualità. Esso è certo un principio ragionevole e inerente allo stesso metodo scientifico, se inteso come realistico calcolo delle convenienze pratiche e come controllo degli effetti di certe innovazioni sulla globale fenomenicità sociale, ma diviene un sofisma se proposto in modo dogmatico e applicato indiscriminatamente. C’è il sofisma della diffidenza, cioè del sospetto che anche quando si propone una riforma plausibile lo si faccia con la segreta intenzione di introdurne altre più pericolose. Si blocca così una riforma necessaria paventando che essa sia strumento per ulteriori trasformazioni indesiderate. La politica deve opporsi ai sofismi delle false consolazioni, secondo cui certi mali esistenti diventano tollerabili se comparati ad altri. E’ opportuno che ogni male sociale sia considerato nella sua propria determinazione e contrastato negli ambiti reali di vita in cui si manifesta. Sono da evitare anche i sofismi della confusione, cioè le false e deformate rappresentazioni della realtà di cui ci si serve per sollecitare l’attuazione di cose che non si farebbero, o per rinunciare ad altre cose che andrebbero invece fatte, se si avesse una conoscenza corretta delle situazioni. E’ ugualmente pericoloso anche l’abuso dei sofismi degli anti-pensatori, di coloro cioè che respingono ogni programma di riforme in quanto prodotto di una teoria astratta che alterna la realtà. 5. Governo e libertà economica Le critiche di Bentham non indulgono a forme di democraticismo egualitario e non spingono il principio di utilità verso una logica di giustizia distributiva. Ci si può chiedere quanto nel radicalismo di Bentham favorisca l’interventismo statale e quanto invece rimanga legato all’idea del laissez-faire e dell’ordine spontaneo. I suoi piani riformistici sembrano richiedere una complessiva estensione delle funzioni governative. Bentham considera responsabilità dello stato la protezione dei ceti indigenti ed emarginati e la prevenzione della disoccupazione. La democrazia è vista da Bentham non come uno strumento di giustizia sociale, ma essenzialmente come limite all’arbitrio dei governanti. BENJAMIN CONSTANT 1. La perfettibilità storica Dall’Illuminismo Constant riprende l’idea della perfettibilità, adattandola alle sue esigenze. Il suo senso critico della storicità lo porta a riconoscere che ad ogni secolo basta il proprio lavoro e lo libera dalla tentazione di affidare alla politica il compito di perseguire con esclusiva intenzionalità ideologica tutte le immaginarie perfezioni. Lo sviluppo storico non dipende solo dalla riflessione consapevole e dalla volontà deliberata degli uomini, ma anche da mediazioni collettive involontarie che, di volta in volta, formano e rinnovano accordi ed equilibri nel mondo delle opinioni, dei comportamenti e delle istituzioni. Questo sviluppo è comunque sempre animato da una continua tensione tra lo spirito conservatore e lo spirito progressista (la sua preferenza è orientata verso il progresso). Una storicità aperta, sensibile, adattabile alle molteplici articolazioni e sinuosità dell’esperienza ma che ha sempre il suo essenziale criterio costitutivo ed esplicativo nell’idea di perfettibilità, la cui azione è tanto più accelerata ed efficace quanto più i pregiudizi e gli abusi perdono la loro originaria compattezza e sistematicità. La storia del genere umano può essere divisa in tre parti: la parte constatata è quella su cui, per consolidata acquisizione critica ed esperienza pratica, riusciamo a discernere meglio il positivo dal negativo e su cui possiamo esprimere dei giudizi più veritieri. La parte incerta è caratterizzata da una maggiore problematicità e esposta a rischi più o meno gravi di disorientamento e di inconcludenza. La parte sconosciuta, sfugge alla nostra presa conoscitiva, morale e politica. 2. Ragione e politica La ragione riveste un importante ruolo nel pensiero di Constant, ma per lui la ragione non è tutto e non può interamente ispirare e disciplinare la vita esistenziale e collettiva. I limiti della ragione non devono legittimare propensioni irrazionali e portare alla esaltazione dei miti dello stato assoluto, del nazionalismo, dello spirito di conquista. La ragione può sbagliare, ma solo la ragione è capace di rettificare il ragionamento sbagliato. Constant vede la ragione come il farsi razionale delle azioni umane. Prive di innatismo, le idee razionali si formano attraverso l’attività sensitiva. Le sensazioni – diventate – idee penetrano nella parte pensante del nostro essere, prima elaborandosi nella intimità della coscienza e poi associandosi con le idee altrui, fino a formare una specie di forza collettiva che esercita un ascendente simbolico e pratico superiore ai condizionamenti della pura attualità e a quelli dell’autorità. Più vi è confronto tra idee e fatti, più vi è ragionamento. Nella politica moderna una ragione pubblica compatibile con la sovranità popolare e con i principi democratici va vista soprattutto come ragione comune pattuita, cioè come un prodotto medio al quale non può essere riconosciuto il privilegio di esprimere una verità totale. Constant fa una distinzione tra principi primi e principi sussidiari. Quando si getta ad un tratto un primo principio in una società che ancora non può accoglierlo, e quando lo si separa da tutti i principi intermediari che lo adatterebbero alla nostra situazione, si produce nella società scompiglio e disordine. Stabilito un primo principio, bisogna determinare i principi sussidiari che lo rendano applicabile e che lo correggano in quelle parti che risultano mal fondate. Il principio della sovranità popolare un primo principio perché esprime il criterio più razionale più giusto di legittimazione del potere e delle obbligazioni politiche, ma è un principio che, al di fuori di comunità ristrette, non funziona senza un principio intermediario che lo renda agibile. 3. Sovranità e limiti al potere Constant mira ad una critica al potere e alla lotta per la sua limitazione. Il potere è un mezzo e non deve proporsi come un fine e come un bene che ha in sé la sua legittimazione. Lo scopo principale dlela politica consiste nella garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Sovranità popolare: nessun individuo e nessuna classe può esercitare un’autorità o una funzione pubblica invocando un suo diritto originario. La sua azione deve manifestarsi non in modo diretto e assemblare, ma attraverso la mediazione delle istituzioni che sono per Constant le divinità tutelari delle associazioni umane. Non ritiene che sia conveniente affidare indiscriminatamente l’azione riformistica al potere, perché il potere non ha interesse a fare quelle riforme che potrebbero limitarlo e tutte le vere riforme dovrebbero avere questa implicazione. L’intento teorico di Constant è di svincolare la ragione pubblica dalla logica potestativa. Il potere non è mai interamente razionalizzabile e contiene sempre rischi di arbitrio e perfino di degenerazione demoniaca. Non fidarsi troppo della influenza della ragione sui troni, e prendere quindi le distanze da ogni forma di dispotismo illuminato; ma neppure dare troppo credito alla influenza della ragione sulle masse, e reagire perciò ad ogni tentativo di riconversione collettivistica della società. La ragione pubblica cerca di opporre al potere i valori e le garanzie della libertà umana e dell’autonomia sociale. Le sedi della ragione pubblica devono essere la nazione e la sovranità popolare. 4. La libertà degli antichi e dei moderni La libertà degli antichi si accentrava e risolveva nella partecipazione al potere, nell’essere membri di uno stesso corpo sovrano, nel mescolarsi il più intimamente possibile con la fonte comune della sovranità, ma consentiva insieme che questo corpo sovrano disponesse integralmente della vita privata dei cittadini. La libertà moderna ha una diversa esigenza: non vive di una solidarietà predeterminata e di continuo drammatizzata dal potere, ma riceve il suo alimento dalla consapevolezza attiva di individualità che non si esauriscono in status immobilistici e che non credono più malgrado le tante suggestioni ricorrenti, al miracolismo della tutela esterna e al vantaggio morale e pratico della armonie e delle coerenze sociali prestabilite. La libertà che ha la sua origine nella interiorità della coscienza, si espande nel mondo dei rapporti interpersonali e sociali e si presenta perciò, oltre che come un fatto esistenziale, come un criterio costitutivo ed esplicativo della evoluzione del genere umano, come una forza collettiva immanente all’insieme dei comportamenti privati e pubblici e non dipendente dalle sole virtù di un capo o dalle tutele di una classe politica chiusa. Essa non deve essere fondata sul principio di utilità perché l’utilità evoca l’idea di un tornaconto, mentre l’esercizio della libertà esige l’accettazione di fondamentali obbligazioni etiche. E’ convinto che la libertà non può vincere la lotta contro il dispotismo e contro le persistenti idealizzazioni del privilegio e della disuguaglianza se non sa darsi una ispirazione religiosa. La religione non è una idea innata provvista di un contenuto ontologico immutabile. Anche le idee religiose vengono dai sensi. 5. Il valore dell’uguaglianza La libertà non è tuttavia il solo criterio esplicativo della perfettibilità umana, la quale, coltre che sull’azione creativa della spontaneità, si fonda anche sui poteri correttivi della uguaglianza. Trattare gli altri come uguali deve diventare l’obbligazione fondamentale della politica moderna. Nel costituzionalismo di Constant il principio della legalità comprende quindi sia le garanzie del non impedimento, sia la promozione dell’uguaglianza nella società. 6. Società e proprietà La proprietà è per Constant una convenzione legale e come tale è sottomessa alla giurisdizione della società che possiede su essa dei diritti che non ha nei confronti della libertà, della vita e delle opinioni dei propri membri. La proprietà non deve impedire l’affermazione e la garanzia storia degli altri diritti umani. Bisogna perciò assecondare la divisione, la suddivisione, la circolazione e la dispersione della proprietà, per consentire a ciascuna forma di proprietà di prendere il rango che più le compete nella generale produttività delle attività sociali, e per favorire l’accesso delle classi lavoratrici a tale diritto. ALEXIS DE TOCQUEVILLE 1. L’avvento della democrazia Tocqueville può essere considerato il padre della liberaldemocrazia. Egli svolge una riflessione approfondita sui rapporti tra libertà e democrazia. La democrazia fa della libertà un valore e un’esperienza comune, riferibile alla generalità dei consociati, ma appunto per questo la libertà deve impegnarsi in sfide che non hanno riscontro nelle società del passato e che non sono più contenibili nelle capienze concettuali e istituzionali del primo liberalismo. Tocqueville paventa che sviluppando tutte le sue implicazioni la democrazia provochi una crisi profonda dei valori morali, delle strutture sociali e degli equilibri istituzionali. I rischi della democrazia sono quelli della scissione e dell’anarchia, ma anche quelli della massificazione, del conformismo e di una conversione dispotica della società. 2. Le due forme della libertà La libertà può manifestarsi nel mondo in due modi diversi: o come privilegio o come diritto comune. Intesa come privilegio la libertà viene assegnata a certi individui e gruppi in relazione alle loro appartenenze, funzioni e posizioni. Il limite spirituale e sociale di questa logica aristocratica della libertà è che in essa la nozione generale del simile è oscura; la sua forza è che essa produce in coloro che ne sono i beneficiarsi un sentimento esaltato del loro valore individuale, un gusto appassionato per l’indipendenza. Intesa come diritto comune è la sola nozione giusta di libertà, ma ciò non significa che essa riesca a garantire meglio l’equilibrio della società. Con la democrazia l’obbedienza perde la sua moralità, i sistemi di gerarchia si dissolvono, il principio dell’onore non è più un fattore di strutturazione sociale. 3. La Monarchia e la Rivoluzione La democrazia, però non è nata per incanto, non deriva dalla cogitazione di una mente illuminata, non si presenta come un fatto radicalmente nuovo, privo di radici storiche. In Francia la democrazia è stata preparata dall’azione della monarchia. E’ stato il potere regio a sradicare progressivamente il valore dell’aristocrazia e delle autorità locali, mettendo al loro posto un apparato di funzionari alle dirette dipendenze del governo centrale. L’evento rivoluzionario si è compiuto nel momento in cui questo processo di accentramento era già molto sviluppato, e se la rivoluzione ha avuto successo, ciò è dipeso dal fatto che i rivoluzionari non erano servi, ma sudditi già parzialmente liberi e civilizzati, che le disuguaglianze più stridenti erano state già denunciate e contrastate, che i poteri dell’aristocrazia erano stati già logorati e soppiantati. 4. Stato assistenziale e aristocrazia industriale La democrazia promuove l’individualismo non però necessariamente il sentimento della dignità personale e dei diritti umani perché le capacità di resistenza delle singole esistenze possono cedere all’assorbimento nella massa, alla tirannia della maggioranza e alle tentazioni dello statalismo. Lo stato assistenziale vorrebbe elargire alla generalità dei cittadini tutti i doni della vita sociale, ma non si rende conto di quei punti critici superati i quali gli individui, anziché essere favoriti nella loro maturazione, rischiano di essere mantenuti in uno stato di inferiorità. Conciliare la tutela sociale dello stato con la libertà individuale è n’impresa difficile che la democrazia non può affrontare esasperando i miti dell’uguaglianza e della sovranità popolare, ma neppure applicando indiscriminatamente a tutto gli assiomi di una scienza industriale fondata sull’esclusivismo del capitale. Tocqueville paventa non solo i rischi di dispotismo dello stato-provvidenza, ma anche queli connessi alle degenerazioni di un liberalismo padronale e di un certo meccanismo industriale. Una nuova specie di aristocrazia e di autoritarismo può nascere all’interno di un mondo economico che veda i capitalisti in una posizione di dominio nei confronti del proletariato privo di legami comunitari ed esposto alla miseria e all’abbrutimento. 5. Libertà e istituzioni La divisione dei poteri e le garanzie costituzionale hanno un ruolo essenziale nello stabilire le regole del gioco di una società libera. Le istituzioni hanno il compito di impedire che gli impulsi dissordanti che alla democrazia trasmettono l’azione delle masse e gli egoismi degli individui. Reagire alle tentazioni dell’accentramento politico e amministrativo valorizzando il decentramento e le autonomie, condizioni a loro volta di quell’associazionismo volontario e di quel com’unitarismo spontaneo che favoriscono nella democrazia una convergenza dei principi di libertà e solidarietà contro lo spirito di uniformità e contro le coalizioni tra potere politico e economico. Una consapevole collaborazione tra libertà e religiosità può opporsi alle perverse combinazioni che la demagogia e il fanatismo cercano di instaurare tra democrazia livellatrice e misticismo sociale. Il compito che in una società democratica egli assegna al liberalismo di una specie nuova è quello di educare i cittadini a rinunciare a ogni ideologia totalizzante così come a ogni tentazione singolaristica e fare della libertà non un mito egualitario, ma uno strumento ideale e pratico come vecchie e nuove forme di servitù. CLAUDE-HENRI DE SAINT-SIMON 1. I socialisti francesi E’ possibile definire il socialismo di Saint-Simon come il socialismo della produzione, quello di Fourier come il socialismo del consumo e quello di Proudhon come il socialismo dello scambio. 2. Spirito critico e organizzazione sociale L’obiettivo fondamentale della filosofia del XIX secolo è quello di organizzare la produzione, gli interessi, i bisogni secondo le leggi fondamentali dell’economia e del lavoro. Queste leggi devono soppiantare le vecchie categorie della politica. Saint Simon insiste sull’esigenza di fare della teoria sociale una scienza positiva. La rivoluzione, che pure ha rappresentato uno strumento essenziale di emanciapazione dal pregiudizio e dal privilegio, non può prorogarsi indefinitivamente; deve completarsi e concludersi riconoscendo la superiorità dei metodi e dei valori si un pensiero ricostruttivo che vede nella organizzazione industriale il futuro di una società prospera e giusta. La società industriale va affidata alla competenza degli scienziati e degli intellettuali, i più adatti a stabilire le leggi e le tecniche organizzative favorevoli all’emancipazione umana. 3. La filosofia positiva Per la rivoluzione pacifica che deve portare verso nuove forme associative e nuove espansioni produttive, gli sforzi combinati degli scienziati e degli intellettuali sul piano teorico e degli industriali sul piano hanno le migliori possibilità di successo. La nuova scienza sociale deve muovere da una riforma della storia nel senso che i materiali storici devono essere scelti con diverso discernimento critico, senza privilegiare questo e quel dato abusivamente universalizzato, se nza soprattutto ridurre la storiografia a una biografia del potere. E’ solo con l’osservazione filosofica del passato che si può acquisire una conoscenza esatta dei veri elementi del presente. Ciò che ci ha preceduto ha svolto una sua propria funzione storica perché ha consentito ad ogni epoca di trovare il suo relativo equilibrio. Saint Simon apre una lotta contro le classi sociali che personificano lo spirito teologico e metafisico opponendolo allo spirito creativo . In primo luogo, lotta contro il clero e contro le sue ostinazioni retrograde. Segue la critica ai ceti nobiliari. Uguale avversione manifesta contro la classe militare, perché lo spirito militare è dannoso alla società moderna e il sistema di organizzazione che esso produce è l’opposto del sistema industriale. Un’altra classe contro cui polemizza è quella dei legisti, cioè di coloro che portano il diritto verso l’astrazione, occupandosi di cose che poco hanno a che fare con le strutture produttive della vita sociale. Il problema della modernità è di ridurre le cause di conflitto e di promuovere valori di cooperazione per stabilire su basi più ragione e amichevoli le relazioni tra i popoli. 4. La classe industriale Saint Simon contrappone l’esaltazione delle forze positive della nazione che egli vede personificate dalla classe degli industriali, comprendente tutti coloro che con l’intelligenza, i capitali e l’operosità pratica danno un contributo allo sviluppo produttivo. Gli industriali sono gli intellettuali, gli scienziati, gli artisti positivi, gli imprenditori, ma anche gli artigiani, gli operai, i commercianti, i tecnici. 5. Potere politico e ordinamento economico Il governo per Saint Simon, è il male necessario e il fine da perseguire è di ridurre la sua forza all’azione necessaria per il mantenimento dell’ordine. Lo stato ha scarse competenze in materia economica e deve perciò lasciare che l’attività imprenditoriale si svolga senza intralci. L’organizzazione industriale non deriva per lui dal semplice automatismo degli equilibri spontanei, e la difesa della produttività economica contro le espropriazioni del potere non si identifica con l’accettazione dell’esclusivismo dei proprietari. Il problema di Saint Simon è quello di trovare un modo legale affinché il grande potere politico passi nelle mani dell’industria. Saint Simon intende lavorare alla formazione di una società libera, ma questo impegno esige che gli scienziati possano orientare l’educazione pubblica e che i produttori seguano i criteri di razionalità definiti dalla scienza. La logica della tecnocrazia è molto vicina alla mentalità di Saint Simon e ad essa egli affida il compito di elaborare una teoria scientifica della organizzazione sociale e di fare della politica la pratica di questa scienza. I borghesi hanno ceto reso dei servizi agli industriali, ma la classe borghese pesa, con la classe nobile, sulla classe industriale. Il partito liberale deve meglio chiarire i suoi rapporti con le classi medie ed accertare quanto in esse vi sia ancora di inaccettabile privilegio, e quanto invece di disponibilità all’emancipazione dei ceti diseredati. 6. Spiritualismo e materialismo La morale deve penetrare nella politica e orientarla verso il rispetto dei diritti dell’umanità. Tra il grande mondo delle forze collettive e il piccolo mondo degli individui reali e sensibili non ci deve essere scissione e incommensurabilità, ma reazione continua del grande sul piccolo e del piccolo sul grande perché piccolo e grande mondo sono due fenomeni assolutamente simili, diversi solo per la dimensione e la durata. 7. Il nuovo cristianesimo Sain Simon sente il problema che l’organismo industriale non sia troppo condizionato dai suoi elementi fisici, materiali e quantitativi, e possa avere anche tensioni ideali, vocazioni morali, aspirazioni qualitative. L’industria è per lui un fatto eticamente significative e non solo economicamente produttivo, e perciò i beni industriali devono essere in qualche modo dematerializzati da una filosofia orientata in senso umanistico. E’ necessario quindi che l’industria lasci uno spazio significativo al lavoro degli artisti e dei letterati, la cui immaginazione rende meno aspra la difettività del reale. Oltre a quella artistica si deve dare all’industria anche una ispirazione religiosa, trasformando però la precettistica dogmatica e la visione penitenziale del cattolicesimo tradizionale in un nuovo cristianesimo più sensibile alla ricerca del benessere e meno disdegnoso verso le forme naturali della sensitività umana. Il nuovo cristianesimo è chiamato a dare il suo contributo essenziale alla valorizzazione etica del lavoro, educando a vedere nell’industria un ambito di esperienze personali e collettive in cui le cooperazioni sociali siano anche intese spirituali. CHARLES FOURIER 1. Natura umana e passioni Fourier si è prevalentemente occupato di problemi di liberazione dell’uomo dai condizionamenti esterni e dalle servitù interne causate da una morale repressiva. Alienazione esistenziale e alienazione sociale hanno per lui un’intima connessione e le incoerenze delle attività produttive trovano una loro corrispondenza negli errori grossolani di un’etica incapace di considerare realisticamente le vere propensioni e passioni umane. Si chiede se i comportamenti morali e sociali non compromettano, con i loro conformismi, le loro frodi, i loro diritti e doveri fittizi, il necessario equilibrio tra quei quattro movimenti – sociale, animale, organico e materiale – dalla cui equilibrata composizione dovrebbe risultare un ordine più soddisfacente di vita personale e collettiva. La riabilitazione delle passioni è al centro del sistema di Fourier. Esse sono state considerate causa di corruzione e di disgregazione, mentre possono invece armonizzarsi e tendere alla concordia e all’unità sociale. Ciò che va fatto è effettuare un calcolo analitico e sintetico delle attrazioni e delle repulsioni passionate, inserendo le passioni in una logica di serialità, cioè in un insieme di mediazioni e combinazioni in grado di mutare il loro corso senza toccarne affatto la natura. La serialità serve ad abbassare l’orgoglio dei presunti valori imperscrutabili e a rivalutare invece, in tutte le sue articolazioni differenziate, il mondo dei bisogni, compresi quelli passionali e sensitivi. La serialità rappresenta quindi un criterio di coordinamento in cui l’elemento della reciprocità e della equivalenza soppianta le connessioni di tipo gerarchico e le esclusioni pregiudiziali. Alcune fondamentali istituzioni della società e della morale sono poste da Fourier a critiche radicale perché responsabili della incoerenza della vita dei sentimenti e della vita produttiva. Critica anche la famiglia e la proprietà. 2. Il sistema societario Fourier non guarda al collettivismo e neppure al solidarismo prestabilito e all’egualitarismo, e anzi il suo pensiero è permeato di ostinato individualismo. Nulla vale di più della libertà e della autonomia personale. Il sistema societario da lui proposto è lontano sia dalla fraternità che dall’uguaglianza. Rivalità, opposizioni, scissioni, gelosie, intrighi fanno parte della dialettica seriale dei gruppi che però riesce ad assorbire l’egoismo e le discordie individuali negli accordi di massa. Il recupero della naturalità si atteggia in Fourier non come liberazione di una istintività tumultuosa e confusa, bensì come redenzione di una spontaneità rigidamente orientata come recupero di una socialità rigorosamente disciplinata non vaga e generica, bensì estricantesi precipuamente nel campo del lavoro. La libertà è il principio del sistema di Fourier, ma la libertà non è un dato semplice e la sua natura composta e reciproca deve mirare a costituire un ordine combinato e societario. 3. Il falansterio Occorre prevedere frequenti passaggi da un settore a un altro di attività e abbandonare certe imprese industriali troppo gravose e poco utili, favorendo invece il rilancio delle occupazioni agricole, più naturali, più misura d’uomo, più aperte all’immaginazione creativa. Il centro del mondo sociale ed economico è il falansterio visto da lui non come comunità chiusa ma come consorzio sociale di vita cooperativa in cui il capitale, il lavoro e il talento mantengono le loro diverse attribuzioni funzionali, con esclusione però della figura del salariato, sostituita da quella di un lavoratore precettore di dividendi. I falansteri si presentano come dei complessi alberghieri e aziendali con una estensione di circa 2500 ettari e una popolazione di circa 1550 abitanti, differenziati per età, fortuna, caratteri, conoscenze teoriche e pratiche, in cui ciascuno esercita un’attività corrispondente alla sua condizione ma anche alle sue propensioni, in una grande e raccordata varietà di comportamenti e di iniziative, entro gruppi di lavoro stabiliti in modo tale che ciascuno trovi gradevole cooperare con gli altri. PIERRE-JOSEPH PROUDHON 1. Le idee e la realtà Proudhon rifiuta l’idea di una società pianificata su basi tecnocratiche, in cui le scienze e le tecniche, diventate egemoniche rispetto alle altre forme non tecniche di civilizzazione, stabiliscono nuove gerarchie in funzione delle esigenze produttive di un organismo industriale. Il senso scrupoloso e severo della moralità proudhoniana si oppone a ogni forma di edonismo e, in particolare, alla denigrazione della famiglia, che Fourier vedeva come una fonte di corruzione della vita sociale. Il pensiero proudhoniano rivela una intrinseca complessità problematica. Bisogna cercare nella composizione plurima dei fenomeni ciò che si agita anche al di sotto delle apparenti stabilità. La realtà sociale è sempre in azione, sempre in creazione di se stessa e poiché d’altra parte, ciascuna delle sue forme è incompleta, c’è sempre sofferenza e disordine. I fenomeni sociali non si spiegano con concettualizzazioni astratte e neppure sono da misurare attraverso le loro densità materiali, ma vanno visti nell’intrinseca connessione dei loro elementi ideali e materiali. Materialismo e idealismo sono due paradigmi teorici che finiscono per diventare interscambiabili. Il materialismo, assolutizzandosi, si trasforma in una specie di idealismo della materia, e l’idealismo sopprimendo ogni base reale della vita, si materializza. 2. Ragione storica, ragione eterna e ragione naturale Poiché la società è sempre in atto essa tende ad acquisire nel suo perenne movimento ciò di cui ha bisogno. I materiali che servono alla sua progressiva formazione la società li prende sia da ciò che la sovrasta (il mondo della trascendenza), sia da ciò che è ad essa sottostante (il mondo della natura). Tra ragioen storica, ragione eterna e ragione naturale esiste una complessa dialettica che conosce antagonismi e tensioni, così come mutue implicazioni e reciproche sorveglianze. Per costruire la realtà sociale bisogna sfidare il mistero e riportare al lavoro mondano risorse e potenzialità trasferite dall’uomo nelle dimensioni extramondane. E’ necessario escogitare nuove combinazioni sociali che possano riportare in terra ciò che altre combinazioni sociali hanno proiettato fuori dalla realtà mondana. Di qui la critica a quell’assolutismo metafisico che abitua l’intelligenza a dedurre i propri criteri cognitivi da valori aprioristici, e che regola i comportamenti con precetti sottratti alla competenza umana. C’è nell’esistenza umana un’antinomia sempre aperta. L’individuo deve darsi alla società e lavorare in essa senza parassitismo, ma con la consapevolezza che ci sono bisogni metafisici e domande sul destino esistenziali a cui la società non può dare risposte esaustive. Il progresso può eliminare questo o quel limite pratico, può risolvere questa o quella contraddizione economica e sociale, ma la contraddizione intima del nostro essere non sarà mai sciolta. Pensa che la natura debba essere piegata alla supremazia del lavoro umano e che spetti alla società creare cose che non hanno equivalenti nella creazione originaria, ma non gli sembra lecito arrivare agli estremi di Saint Simon che chiedeva una mobilitazione delle energie sociali per lottare contro la natura e disfarla e rifarla ad arbitrio. 3. Il socialismo pluralistico Per Proudhon la società non dipende da un unico principio, non segue un’unica direzione, non è tirata da un unico filo, ma risulta dal contemperamento di varie logiche di esperienza, ciascuna delle quali riflette le esigenze di gruppi specifici di valori e di bisogni. L’uomo cerca la comunità, ma insieme la sfugge aspria alla solidarietà, ma per amare i suoi simili ha bisogno di mettere come condizione una solitudine quasi costante. La comunità non gli sembra dunque la massima espressione qualitativa della politica, e rischia anzi di riunire meno forze di quelle che distrugge. Proudhon insiste sui vantaggi di un’articolazione pluralistica della società, dell’economia e della cultura. Egli dà ampia rilevanza alla funzione delle forze collettive nell’integrazione e nello sviluppo della vita associata, ma tali forze non possono fornire la giustificazione per una conversione collettivistica della società, e devono essere costrette al rispetto e alla garanzia delle loro componenti individuali. 4. Giustizia distributiva e commutativa Proudhon sottopone a revisione critica gli assiomi liberali dell’automatica armonia degli interessi e del ruolo dominante del libero accordo delle volontà soggettive nella formazione degli equilibri economici. Considerare ogni attività e ogni pretesa che emani dall’io come munita delle stesse attribuzioni qualitative che si riconoscono alla dignità etica dell’individuo è per Proudhon un errore, causa di intolleranza ed arbitrio. L’idea di giustizia non può però assumere per lui un carattere imperative e autoritario e ispirare piani di uguaglianza assolutistica. La giustizia non ha il compito di creare i fenomeni sociali, né di imporre loro delle leggi estranee, ma solo quello di cercare nella complessità del reale una progressiva estensione di garanzie reciproche e di mutue esigibilità. Se il pluralismo è un valore, le differenziazioni non vanno negate in nome della giustizia distributiva e la libera concorrenza deve rimanere condizione essenziale dell’autenticità e della produttività delle transazioni sociali. Ad essa deve sostituirsi l’idea di una giustizia commutativa che ammetta la manifestazione libera e originale delle diverse potenzialità creative, stabilendo però nell’insieme degli scambi sociali regole fondamentali di mutua esigibilità. Bisogna rovesciare l’antica nozione di giustizia distributiva e arrivare a quella di giustizia commutativa che, nella logica della storia come in quella del diritto, le succede. 5. Il principio di serialità Principio di serialità significa per lui che all’interno di ogni consolidamento sociale agisce una forza ideale e reale che tende a contrastare le condizioni di gerarchia, di sperequazione e di discriminazione tra i diversi elementi costitutivi e a valorizzare invece le loro possibili equivalenze e reciprocità. Con i suoi principi di equità la dialettica seriale critica i disordini e gli sfruttamenti del liberismo puro, ma per il suo carattere mutualistico e contrattualistico essa si oppone anche a ogni forma di assolutismo comunitario e statalistico. Nella serialità ciascuna delle parti sociali mantiene la propria individuazione, ma i suoi rapporti con il mondo esterno si stabiliscono sulla base di una logica relazionistica. Non solo la lotta violenta attiva i principi di serialità. Anche altri fattori agiscono in queste progressive aperture. Il progresso delle conoscenze, della cultura, dell’educazione, della moralità suscita la consapevolezza che le serie chiuse diventano improduttive e non garantiscono dei sostanziali vantaggi neppure ai ceti dominanti. La serialità non può essere indiscriminatamente applicata alla realtà e ogni reinterpretazione dei fenomeni sociali in termini contrattualistici deve realisticamente valutare quei punti critici oltre i quali si compromettono valori etici e combinazioni sociali della più alta importanza. 6. Il problema della proprietà La ricerca di un diverso equilibrio tra il capitale, il lavoro e l’intelligenza e di una nuova qualificazione della proprietà è l’obiettivo essenziale del principio di serialità. Proudhon auspica la costituzione di una alleanza difensiva e offensiva tra la borghesia e il proletariato per il trionfo definitivo della rivoluzione. La borghesia simbolizza la libertà, il proletariato l’uguaglianza e la giustizia rappresenta la fusione di questi due ideali. Se la proprietà si pone come un primo principio, come un dogma extrasociale che pretende di avere in se stesso la sua spiegazione e giustificazione, se la proprietà si considera una semplice proiezione dell’assolutismo soggettivo, essa è un furto. La proprietà è sopruso quando è l’unico principio attivo della vita sociale, quando tutte le garanzie sono accentrate a suo favore, quando le istituzioni impediscono la sua circolazione, diffusione e distribuzione, ma essa non è più avidità e usurpazione quando si libera dalle sue legittimazioni assiomatiche, quando non agisce da sola nella vita sociale e può essere circondata da un insieme di principi contrari come quelli della cooperazione, della mutualità, dell’autogestione, della democratizzazione del credito. Affinché la rivoluzione vada a buon fine non basta armare il lavoro contro la proprietà; bisogna armare anche la proprietà contro il comunismo se non si vuole che la libertà perisca insieme alla proprietà. Perché la proprietà, nel suo principio o contenuto, che è la personalità umana, non deve mai scomparire. AUGUSTE COMTE 1. L’età del positivismo Le preoccupazioni intellettuali di Comte non sono lontane da quelle di Saint Simon. Anche per Comte l’evoluzione dell’umanità passa dalla fase teologica a quella metafisica per arrivare infine all’età positiva, nella quale le nozioni di realtà, utilità, certezza, precisione, organicità consentono a una scienza complessiva della società di ridurre i diversi ordini di fenomeni ad una legge comune. Non si deve però integrare la società in un modo qualunque, ma nel modo più confacente agli sviluppi delle scienze le quali, a loro volta devono orientare verso l’ordine ogni perfezionamento spirituale e materiale dell’umanità. Il progresso va visto come sviluppo dell’ordine. Cote chiede alla sociologia di inglobare e coordinare tutti i saperi e di dare alla società e alla morale una direzione generale corrispondente a leggi determinate. 2. Amore, ordine, progresso Il positivismo non è la fenomenicità colta nei suoi estremi pratici, non è il sostrato materiale dei fatti, ma è soprattutto ciò che positivamente – cioè senza dispersioni e inutili complicazioni – può portare le attività umane a una migliore interpenetrazione, ad una maggiore linearità di evoluzione, ad una riqualificazione eticamente più significativa dei fini e delle opere sociali. Per creare nuove sintesi bisogna certo criticare e superare quelle vecchie, ma cercando sempre di comprendere che in effetti non si distrugge che ciò che si rimpiazza. La scienza non può appagarsi di distinzioni, di separatezze, di parzialità, né deve sovrapporre ad esse unità fittizie e puramente formali, che lasciano le cose nello stato di antagonismo in cui si trovano. In Comte non c’è solo il simbolismo dell’ordine e dell’integrazione, ma anche quello del divenire e del progresso. La sua filosofia non vuole consolidare l’ordine fondato solo sui materiali esistenti,ma rivela anche un’accentuata proiezione verso il futuro. La formula del suo positivismo è: l’amore per principio, l’ordine per base e il progresso per fine. L’amore rappresenta il grande ideale accomunante, la fonte di un’etica pubblica sempre più qualitativa; l’ordine garantisce il dispiegamento delle virtù e la governabilità delle attività sociale; e infine il progresso promuove contro l’inerzia e l’assuefazione tutto ciò che può essere vantaggioso per l’umanità. L’amore è disciplina regolare e armonica dei bisogni, volta a combinare in ,modo organico la legge del dovere e quella della felicità. L’idea positiva di ordine deve fondarsi su una dottrina meno costrittiva ma anceh più organica di quella teologica, e insieme meno astrattamente individualistica e più progressiva di quella liberale. 3. I limiti della mentalità critica La fase che Comte chiama “metafisica” è quella dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese, del liberalismo, dell’individualismo e dei loro artificiali intendimenti della politica, del diritto, della morale e dell’economia. Metafisico è per lui l’atteggiamento conoscitivo e pratico incapace, per abuso di principi astratti, di ricostituire organicamente l’ordine dell’umanità. Le stesse astrazioni, gli stessi abusi metafisici inficiano le concezioni dei diritti individuali elaborati dalla mentalità critica, Questi pretesi diritti umani hanno svolto, per Comte, una contingente funzione polemica, ma quando si è tentato di dare loro una sistemazione organica, hanno manifestato la loro natura antisociale, e hanno teso a consacrare l’individualismo. Le stesse inadeguatezze, astrazioni o false compensazioni, Comte riscontra anche nella politica metafisica. IL principio della sovranità non ha significato se riferito agli individui isolati; ma anche la sovranità popolare può degenerare nella anarchia, come dimostra la teoria di Rosseau la cui disastrosa influenza ha fomentato soprattutto instabilità e violenza. 4. La vocazione sociale del cattolicesimo Alla contestazione della teoria critica corrisponde la denuncia della teoria teocratica, ma l’intento di Comte è di differenziare la vocazione sociale del cattolicesimo dal puro teocraticismo e di valutare quanto tale vocazione possa favorire lo sviluppo di idee positive. Comte mette in risalto l’assurda pretesa della politica teologica di evocare la ragione senza però riconoscerle la necessaria autonomia simbolica e funzionale e costringendola anzi a ratificare la sua inferiorità e la sua sottomissione. Queste contestazioni non impediscono a Comte di esaltare il genio eminentemente sociale del cattolicesimo e di riconoscere che la religione cattolica ha fatto penetrare l’etica nella politica nel modo che sembra il più appropriato anche dal punto di vista della politica positivista, e cioè attraverso la costituzione di un potere spirituale distinto e indipendente da quello politico, ma in grado di esercitare su quest’ultimo un forte ascendente qualitativo. 5. Sociologia e sociocrazia Contro la democrazia anarchica e l’aristocrazia retrograda la società occidentale cerca una destinazione la cui utilità possa essere universalmente sentita e il positivismo tenta di rispondere a questa esigenza con una scienza della società in grado di intervenire sull’insieme dei fenomeni rilevanti della vita associata per una più plausibile determinazione degli scopi da perseguire e delle opere comuni da compiere. La scienza e l’industria sono in grado di assolvere a questa funzione. Bisogna promuovere la lotta contro le passioni meno sociali e valorizzare quella sintesi altruistica che la politica positivista vede come una sua suprema aspirazione etica. Il dilemma della esperienza moderna è di scegliere tra due padroni, la personalità e la socialità e il positivismo non esita a chiedere all’individuo di subordinarsi liberamente alla socialità. Riconversione pubblica della vita sociale esige una coerente vocazione etica, una ridefinizione dei ruoli delle classi sociali, una particolare organizzazione del potere e, sul piano internazionale, una riqualificazione del ruolo dell’Europa e dell’Occidente nel mondo. Una scienza sociale come la sociologia deve porre le basi di quella sociocrazia e sociolatria di cui Comte non vede i rischi di degenerazione qualitative della comunità. La sociologia, come la filosofia organica convergente con l’etica e con la scienza, ha il compito di ridefinire il ruolo delle classi sociali, rivalutando soprattutto la dignità e la funzione del proletariato, componente essenziale della vita sociale arbitrariamente degradata dalla politica tradizionale e sostanzialmente trascurata dalla stesso politica rivoluzionaria. Comte sembra affidare al proletariato una funzione decisiva nella rigenerazione globale della umanità, riconoscendogli una connaturata vocazione a superare la logica dei particolarismi e a percepire positivamente la destinazione sociale della politica. L’elemento filosofica e l’elemento proletario sono solidali tra di loro, come lo sono con la condizione femminile, dalla cui emancipazione dipende l’elevazione complessiva della moralità della vita pubblica. La rivoluzione femminile deve completare la rivoluzione proletaria e l’orientamento generale del positivismo deve essere conforme allo spirito femminile. Il positivismo risponde meglio a dei problemi che il comunismo non può risolvere per il suo carattere materialistico e violente e per la sua tendenza al livellamento dell’uniformità. 6. Potere spirituale e potere temporale Nella politica positiva Comte introduce una distinzione essenziale tra potere spirituale e potere temporale, distinzione corrispondente a quella tra classe speculativa e massa attiva. Il potere spirituale si occupa essenzialmente dell’educazione e il potere temporale dell’azione. Questa spartizione di competenze e di funzioni ha costituito il genio del cattolicesimo e dovrà essere riproposta come base del positivismo, mentre la confusione di questi due poteri, teorizzata da Rosseau, gli sembra matrice di corruzione politica, così come di improduttività economica. Bisogna dunque costituire un solido potere spirituale, diverso da quello temporale ma legittimato a esercitare su quest’ultimo una costante influenza. Compete al potere spirituale la responsabilità generale del buon andamento di tutti gli affari sociali, senza però un impegno diretto nella loro gestione, affidata ai produttori e alla classe proletaria. JOHN STUART MILL 1. Le revisioni dell’utilitarismo Mill, come i suoi predecessori, continua a disdegnare le entificazioni idealistiche, romantiche e storicistiche della libertà e a prediligere un approccio pragmatico ai problemi della politica; sente però anche l’esigenza di riconsiderare le teorie dell’utilitarismo in relazione alle più ampie obbligazioni etiche che le trasformazioni della società moderna impongono ai principi liberali. 2. Libertà individuale e collettività Sensibile alle nuove esigenze della società, il liberalismo di Mill è comunque saldamente ancorato alla fondamentale ragion d’essere etica, politica e giuridica di questo orientamento dottrinario, che è quella di circoscrivere il potere del governo sui cittadini. La sua qualificazione prioritaria è il non impedimento. La politica progredisce quando matura la consapevolezza che i governanti non hanno un’autorità indipendente e interessi diversi ed opposti rispetto a quelli della nazione, e che quindi il potere politico non deve essere munito di uno statuto privilegiato rispetto a quello della generalità dei cittadini. Da Tocqueville Mill riprende l’idea che ci può essere anche una tirannia della maggioranza, se si consente a tale maggioranza di avere un’ingerenza indebita sulla vita dei cittadini, e di diventare la fonte di un’attività legislativa che rende legale ogni sua manifestazione di volontà. C’è in Mill una netta professione di fede nel primato della individualità, e perciò egli paventa il rischio delle forti e crescenti inclinazioni della società a dominare i cittadini con lo strumento della legislazione e con gli apparati burocratici. La libertà entra in crisi se si affievoliscono gli slanci vitali degli individui. In ogni singola esistenza comune c’è una potenziale originalità e creatività da riconoscere e proteggere, e perciò la diffidenza nei confronti delle masse è la stessa che si deve avere per le pretese di certi individui di dominare la vita altrui in base alle loro presunte capacità superiori. Fervente sostenitore dei diritti individuali, Mill si oppone a ogni entificazione dei diritti della collettività e dell’autorità pubblica. Lo stato non è una entità superiore munita di una sua propria moralità e razionalità e di una sua propria forza produttiva. Esso ha solo le qualità che gli prestano gli individui e non può pretendere di realizzare grandi cose se con la sua azione oppressiva crea soltanto dei piccoli uomini. 3. Le opinioni e le azioni Liberalismo è essenzialmente rivendicazione di libertà in tutti gli ambiti significativi dell’esperienza individuale e collettiva. E’ libertà di coscienza intesa nel senso più ampio dell’espressione, e quindi comprendente la libertà della ricerca del sapere, dell’opinione, del giudizio, delle molteplici vocazioni, tendenze, motivazioni proprie di ciascun uomo; è libertà di associazione, di partecipazione alla vita comunitaria, così come diritto di ritirarsi da questo o da quel vincolo associativo volontario; è libertà del lavoro e dell’attività economica, e cioè riconoscimento e tutela dei modi diversi di rapportarsi al mondo della natura per socializzarlo e al mondo sociale per renderlo produttivo e per adattarlo ai bisogni dei singoli. Nella dialettica politica c’è un confronto tra due partiti e tra due movimenti ideali che si trovano in uno stato di tendenziale opposizione, pur conoscendo nelle situazioni pratiche possibili compromessi. Un partito, o un movimento di pensiero, ha una natura più conservatrice, e l’altro un orientamento più radicale. Una mediazione tra queste due correnti ideali è comunque opportuna, e bisogna perciò che ciascuna di esse si abitui non solo ad approfondire le proprie ragioni, ma anche a penetrare nelle opinioni pubbliche opposte in modo da potersi presentare contestualmente sia come principio di ordine che come principio di progresso e da poter assumere senza rischi di sovvertimento funzioni sia di governo che di opposizione. 4. Economia e classe operaia Il liberalismo di Mill non entifica la libertà, non vuole metterla al servizio dei soli ceti privilegiati e la vede piuttosto come una esperienza da vivere senza pregiudizi e da utilizzare come strumento di emancipazione. Egli si chiede come la dottrina liberale possa agire per il concreto miglioramento delle condizioni di vita del proletariato. La scienza economica, a suo giudizio, deve occuparsi non solo della produzione ma anche della distribuzione della ricchezza, scoprire quali sono i poteri e le istituzioni che esercitano un ruolo decisivo su tale distribuzione, e cercare quali sistemi di vita sociale potrebbero ridurre sostanzialmente quella sproporzione tra le classi che rende infelice tanta parte dell’umanità. Non gli sembra plausibile che l’emancipazione del proletariato debba dipendere solo dalla benevolenza delle classi superiori o dalle concessioni dello stato. Occorre che le classi operaie agiscano in proprio, in modo che tutto ciò che le concerne sia regolato da loro e non da poteri tutelari esterni che pretendono di curarne gli interessi, mantenendo però il rapporto tra il ricco e il povero come un rapporto di subordinazione. 5. Religione e laicità Se lo spirito di tolleranza è sempre presente nel pensiero di Mill, la sua mentalità complessiva ha una sua intensa accentuazione laica. Egli riconosce quanto importante sia il potere psicologico e la forza sociale della fede nel destino dell’umanità. Pensa però che coltivare i sentimenti morali solo sul modello religioso escludendo il modello secolare comporti il rischio di creare dei caratteri personali troppo devoti e servili. Bisogna perciò cercare nella complessa struttura della società moderna anche le componenti di un’etica laica che, senza pretesa di sostituirsi radicalmente a quella cristiana, possa con essa autonomamente cooperare nella difesa della dignità umana. HERBERT SPENCER 1. Regime militare e industriale L’individualismo e la diffidenza nei confronti dello stato diventano i tratti caratteristici della sua complessiva meditazione, tratti presenti nelle sue opere maggiori. La sua fondamentale preoccupazione è questa: la politica moderna sembra perseguire l’obiettivo di una crescita della libertà, ma il sempre più diffuso interventismo statale svilisce l’essenza stessa della libertà. E perciò l’aumento formale di libertà nasconde una detrazione di libertà sostanziali. Sussistono due tipi opposti di organizzazione sociali cui corrispondono due opposti regimi politici. IL primo tipo raffigura un sistema militare o militante, l’altro un sistema industriale. Tutto ciò che somiglia al primo tipo presuppone un potere statale forte e accentrato, in grado di penetrare in modo capillare nella vita sociale come il comando penetra nella organizzazione di un esercito. Il secondo tipo è invece prevalentemente regolato da una logica contrattualistica attraverso cui le parti attuano le loro libere e spontanee transazioni, riducendo per quanto possibile l’autorità sovraordinata di quel terzo io che è lo stato. Nel modello militare di organizzazione sociale le forme di cooperazione, solidarietà e partecipazione hanno natura obbligatoria perché lo stato le impone con la stessa logica con cui programma la creazione e l’impiego di un esercito. Nel modello industriale la cooperazione non è affatto assente, ha anzi maggiore estensione, ma essa assume un carattere di scelta volontario e si attua attraverso una logica contrattualistica. 2. Liberalismo e governo La vocazione fondamentale e abituale del primo liberalismo a difendere metodicamente gli individui dai condizionamenti pubblici rischia di subire profonde modificazioni che per Spencer equivalgono a delle degenerazioni. Avendo acquistato maggiore potenza, ed essendosi impadronito di molte leve del governo, il liberalismo si è trasformato i una specie di liberalismo di stato e ha dato alla legislazione una direzione sempre più programmatica e coercitiva. Il liberalismo originario pensava che il bene pubblico dovesse essere ricercato attraverso misure indirette, e cioè limitandosi a garantire le condizioni atte a consentire alle parti un libero movimento di iniziative sociali ed economiche; il liberalismo diventato governo tende invece esso stesso a vedere il bene pubblico come un fine diretto, evidente, e perciò da perseguire con volontà cosciente e deliberata. Nella società moderna si sta rafforzando la coalizione di queste tre idee: che tutti i mali sociali siano documentabili, visibili e tangibili; che essi, una volta individuati, possano essere sanati; e che ci sia qualcuno, lo stato, il governo, munito del potere e della capacità di farlo. Le azioni umane che vanno verso la creazione di un tipo di struttura sociale fondata sulla cooperazione obbligatoria assumono così una preponderanza su quegli insiemi di azioni umane che vanno invece nella direzione della cooperazione volontaria. Per nuovo torismo si intende una forma di conservatorismo che, privilegiando la teoria e la pratica della cooperazione obbligatoria, si dispone a credere che se la natura umana funziona male ci siano delle istituzioni che possono farla funzionare bene. 3. Ordine spontaneo e giustizia Spencer vede l’ordine sociale come una formazione spontanea legata in tutte le sue parti. Non si può perciò agire su un settore con interventi deliberati, senza che tutti gli altri ne risentano. Se i benefici che ogni individuo riceve fossero proporzionati alla sua inferiorità, ciò provocherebbe la moltiplicazione degli esseri inferiori, è perciò una degenerazione sociale. Come Darwin, anche Spencer ritiene che i troppi ostacoli frapposti al libero sviluppo delle energie superiori distruggono le possibilità di successo della comunità sociale nelle sue sfide storiche. Ogni società è come una specie che si trova sempre in rapporti di concorrenza e di antagonismo con altre società, cioè con altre specie. E se una società si ostina ad avvantaggiare solo le sue unità inferiori a scapito di quelle superiori, essa accresce le sue difficoltà nel confronto internazionale. Bisogna perciò elaborare un’idea di giustizia che non sia di tipo puramente distributivo ma si rivolga soprattutto a stabilire tra i cittadini condizioni e regole che permettono ad ognuno di ottenere in cambio del proprio lavoro materiale o intellettuale, superiore o inferiore, quello che vale a seconda della maggiore o mino richiesta. 4. La selezione naturale contro la guerra e il razzismo Se Spencer pone al centro della sua teoria il principio della selezione naturale, anche quando questa comporta conseguenze eticamente deplorevoli, egli esprime tuttavia un netto ripudio della guerra, negando che essa costituisca un criterio esplicativo dell’evoluzione storica ed escludendo ogni identificazione tra l’antagonismo e il fenomeno bellico, così come tra selezione naturale e razzismo. La lotta per l’esistenza è una lotta necessaria, ma deve avvenire in forma il più possibile pacifica, mentre la violenza bellica impedisce l’antagonismo produttivo, non riesce a selezionare positivamente le energie umane e comunque infligge alla comunità dei danni infinitamente superiori a quelli che può provocare la concorrenza. 5. I limiti della legislazione La società è un corpo organico, ma questo organismo ha soprattutto una genesi spontanea, si forma attraverso le correnti libere della creatività dei soggetti, e non deve perciò essere guardato come una massa plastica da modellare secondo un’intenzionalità predeterminata. Una specie di diritto divino dei parlamenti. E’ lecito chiedersi perché il parlamento debba coltivare questa pretesa assolutistica. Essa aveva un senso quando si trattava di opporre la sovranità del parlamento alla sovranità di origine divina del monarca, ma quando quest’ultima non sussiste più è abusivo prorogare l’egemonia del potere parlamentare o governativo. Se la funzione del liberalismo del passato era quella di imporre dei limiti al re, il liberalismo del futuro dovrebbe imporre dei limiti al potere dello stato, del parlamento, della legislazione. Per Spencer gli uomini devono abituarsi a cooperare liberamente anche prima che siano definiti i fini comuni da raggiungere. I diritti individuali esistono prima che nasca il governo e che perciò essi non devono essere politicizzati e considerati emanazione della volontà dello stato. Questi diritti sono tanto pià disattesi quanto più la struttura dei poteri pubblici rassomiglia a una organizzazione militare, e assumono invece tanta più rilevanza quanto più si abbandona quella condizione patologica della società che è lo statalismo e quanto più si consente ai cittadini di contrarre liberamente i loro accordi, riducendo il criterio imperativo al solo rispetto di tali contratti. 6. Utilitarismo empirico e razionale Le posizioni di Spencer convergono per molti aspetti con quelle dell’utilitarismo, ma egli distingue la nozione di utilitarismo empirico da quella di utilitarismo razionale. La prima forma di utilitarismo viene calcolata solo sugli effetti immediati che certe ingerenze particolari dello stato hanno in questo o in quel settore della vita sociale. L’utilitarismo razionale si impegna invece in valutazioni comparative più approfondite cercando di discernere, nell’osservazione dei fatti, ciò che è più empirico e occasionale da ciò che ha un suo significato fondamentale. Egli vede un nesso molto stretto tra politica estera e politica interna. Una politica estera fondata sulla guerra determina una politica interna fondata sullo statalismo, mentre la cooperazione internazionale potrebbe rendere possibile una diminuzione di potere governativo ed accettabile una corrispondente modificazione della teoria politica. 7. Diritti di libertà e diritti politici All’antistatalismo di Spencer fa riscontro anche una netta avversione per ogni entificazione della società. Mentre una volta la società doveva modellare l’individuo per farlo servire ai suoi fini, ora invece l’individuo deve modellare la società per adattarla ai suoi fini. L’esercizio dei diritti individuali deve avere una sua intrinseca possibilità di ridurre l’egemonia dello stato, così come i condizionamenti della società sui suoi membri. Non basta però una estensione formale dei diritti politici per accrescere queste garanzie. E’ auspicabile l’estensione dei diritti politici e sarebbe giusto e utile che anche le donne ne avessero l’esercizio, ma non vi è una meccanica identificazione di queste conquiste politiche con la tutela dei diritti individuali. 8. Egoismo e altruismo L’ordine spontaneo della società che Spencer propone richiede un tipo di educazione morale dei cittadini ispirato alla ricerca di un giusto equilibrio tra egoismo e altruismo. Subordinare interamente l’egoismo all’altruismo è pericoloso. Bisogna mitigare l’egoismo, razionalizzarlo, farlo coesistere con l’altruismo, tenendo però presente che non è vero che la massimalizzazione dell’altruismo provochi la scomparsa dell’egoismo. Le soddisfazioni egoistiche dipendono d’altronde anche dai riguardi che abbiamo per le soddisfazioni altrui e, inversamente, vi sono aspetti egoistici ed eccessi individualistici anche in certi comportamenti altruistici. Tale compromesso non è possibile in presenza di regimi politici di tipo militare che idealizzano l’altruismo fino al massimo sacrificio ma che idealizzano anche l’odio fino alla massima negazione degli altri. KARL MARX 1. La critica della dialettica hegeliana Marx opera una revisione della dialettica hegeliana, denunciandone il carattere idealistico e concettualizzato e la propensione ad affidare opposizioni e superamenti alla tattica divina di uno spirito che sempre trionfa nella storia. La dialettica hegeliana cammina sulla testa, cioè sulle astrazioni logiche e sulle sublimazioni mistiche; deve essere perciò rovesciata, riportata a camminare sui piedi e costretta a seguire le articolazioni della realtà umana e sociale. L’esigenza di Marx è di passare dall’idealismo al materialismo; un materialismo inteso come prassi, cioè come attività umana sensibile che coinvolge la totalità della fenomenicità pratica e si rivolge al superamento non solo dell’idealismo, ma anche del naturalismo e del materialismo fisico, meccanico e quantitativo. Occorre reinserire la dialettica all’interno della vita reale, riscoprendo e ridefinendo il valore di quella società civile che per Hegel era soltanto un punto di passaggio per andare verso la compiutezza dello stato etico. I processi della vita sociale non si spiegano con sintesi spiritualistiche e non culminano nella mistica dello stato etico, astrazioni rese possibili dall’innaturale scissione che la società attuale stabilisce tra l’uomo privato e l’uomo pubblico. Il materialismo non consiste nell’affidare a determinati elementi meccanici del reale il compito di spiegare esaustivamente l’esistere dell’uomo e della società, ma nel riportare alla realtà storico tutto ciò che è rilevante nella vita umana e sociale, impedendo che manipolazioni idealistiche, astrazioni concettualistiche, mistificazioni del potere, arbitrarie entificazioni di forze e di categorie sociali dominanti nascondano la realtà dei processi storici, impediscano di rilevarne le contraddizioni, e comunque limitino le funzioni del sapere a un semplice esercizio di giustificazione dell’esistente e discreditando l’azione innovativa e rivoluzionaria. 2. Il materialismo storico Se il materialismo è attività, è l’attività economica che assume una sua priorità logica e funzionale nella qualificazione della fenomenicità umana e sociale, nella determinazione dei bisogni, nella costituzione delle strutture e delle forze collettive, nella spiegazione complessiva dello sviluppo storico. Il mondo economico è irriducibile alla pura idealità. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. La coscienza dell’uomo esiste perché esiste una realtà economica che la forma e la sostiene. I valori umani in sé considerati non reggono il peso della realtà storica e non sono comprensibili se non riferiti ai fenomeni circostanti e sottostanti che sono quelli economici. Se la base economica è il fattore esplicativo della vita sociale, gli uomini non ne hanno tuttavia sempre consapevolezza e realistica cognizione perché mescolano in essa elementi di diversa natura, o perché considerano la realtà economica attraverso categorie e leggi superiori e anteriori illusoriamente dotate di un valore eterno, senza comprendere che queste categorie e leggi derivano da rapporti sociali i cui caratteri mutuano essenzialmente con il mutamento e lo sviluppo delle forze produttive. Marx non si limita ad affermare che la realtà economica è fondamento della società, ma vuole dare autenticità e coerenza a una vita economica che gli appare essenzialmente incoerente e contraddittoria, perché su di essa gravitano troppi elementi di alienazione che impediscono all’uomo di conoscere le condizioni reali del suo esistere. Un’alienazione fondamentale è per il materialismo storico la religione, che maschera le storture della realtà con rimandi a un mondo extrasensibile, dove tutto si concilia per fede, dove il mistero dà l’illusione di una liberazione integrale e di una solidarietà compiuta. Questa alienazione va combattuta per Marx in modo più radicale di quanto abbia fatto Feuerbach. L’uomo non solo è chiamato a riprendersi le attribuzioni date a Dio, ma deve eliminare radicalmente il concetto di divinità e dissolvere lo stesso intendimento dell’ateismo come filosofia filantropica astratta che, in quanto tale, potrebbe apparire come un semplice rovescio della religiosità e riguardare ancora il problema di Dio. Egli distingue tra struttura e sovrastruttura. La prima è la base materiale costitutiva ed esplicativa della realtà; la seconda – comprendente la religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la scienza, l’arte – è il prodotto dei diversi modi di produzione; e dove questi modi di produzioni sono alienati essa rappresenta l’artificio ideologico con cui si cerca di conciliare e di compensare con astrazioni spiritualistiche il disordine del mondo. La prassi ha in Marx una qualificazione non solo materialistica, ma anche storicistica, perché è nella storia che si creano le forze critiche e di trasformazione dell’esistente. Il materialismo storico di Marx vuole tenere in uno stato di reciproca immanenza materialismo e storicismo ed evitare quelle semplificazioni per cui quando si è materialisti la storia non appare e quando si prende in considerazione la storia non si è materialisti. 3. Borghesia e proletariato Il mondo moderno ha avuto per Marx come protagonisti la borghesia e il capitalismo che hanno preso decisamente la direzione di una trasformazione profonda dei rapporti sociali ed economici. La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Essa non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Marx non si ferma all’elogio della borghesia, non accetta l’idea che la storia finisca con lo sviluppo capitalistico, e che il mondo dei valori umani e sociali debba fare definitivo riferimento all’antropologia e alla cultura di questa classe dominante. I rinnovamenti provocati dalla borghesia hanno smosso la vita sociale in modo tale da portare alla ribalta della storia un insieme di forze destinate ad opporsi al regime capitalistico che, nella sua stessa affermazione, mostra i vizi e le contraddizione che ha in sé e suscita perciò la reazione rivoluzionaria del proletariato. Le forze produttive di così vasta portata create dalla borghesia non sono bastate a garantire l’emancipazione sociale; esse hanno anzi asservito enormi masse operaie che pure nella produzione hanno un ruolo decisivo. Secondo Marx, la creatività della vita economica borghese è fondata sul dispregio dei valori umani, sulla brutalità sullo sfruttamento, sulla perversità di meccanismi che rendono gli operai tanto più poveri quanto più essi producono ricchezza. Marx assume come imperativo categorico della sua teoria quello di rovesciare tutti i rapporti sociali e produttivi che la borghesia ha creato, e vede nell’indignazione e nella lotta del proletariato contro la borghesia la condizione di una rigenerazione della società. Il regime borghese rende sempre più esplicita quella che è stata sempre la realtà della storia, che è essenzialmente storia di lotte di classe. Questa lotta ha nella società moderna due antagonisti irriducibili, la borghesia e il proletariato e vedrà il trionfo del proletariato che aspira a diventare una classe generale e a identificarsi con tutta la società, che dalla sua azione rivoluzionaria sarà interamente rigenerata. Il proletariato è una classe non classe; è classe perché costretto a esserlo in un mondo classista, ma non è classe perché la sua missione ha un carattere di universalità. Spetta dunque al proletariato rovesciare il dominio borghese, conquistare il potere politico e instaurare il comunismo. C’è il convincimento che le condizioni per un radicale mutamento siano state tutte raggiunte, che lo spettro del comunismo debba ormai penetrare in tutti i luoghi della società esistente, che la lotta contro il capitalismo debba essere inesorabile e che il proletariato debba imporre senza reticenze la sua dittatura, considerata da Marx il punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali. 4. Pauperismo e lotta di classe La critica di Marx alla società borghese segue, tre ordini di argomenti. In primo luogo egli sostiene che lo sviluppo della borghesia provoca la miseria crescente e progressiva del proletariato. Consegue da questo che la lotta tra le classi diventa sempre più accesa e ineluttabilmente destinata a sfociare nella crisi rivoluzionaria. La terza argomentazione è che la borghesia è il focolaio infettivo della società da cui emanano tutte le alienazioni, non solo quelle di natura economica, ma anche quelle di natura esistenziale. La prima legittimazione del comunismo si fonda sulla necessità politica e storica del proletariato di spezzare un meccanismo che accresce progressivamente il divario tra ricchezza e miseria. Ponendosi su questo terreno, i giudizi di Marx dovrebbero accettare un principio di verificabilità empirica. Si può sostenere – per quel che riguarda la seconda argomentazione – che l’esasperazione della lotta di classe, e il suo presunto inevitabile sbocco rivoluzionario, è qualcosa che può avere delle verifiche ma anche delle smentite storiche. Ci sono dei momenti in cui questa lotta può essere aspra e inesorabile, ma ci sono altri momenti in cui una certa pace sociale, p forme più tolleranti e mediate di denuncia e di contestazione, sono i dati più regolari e rilevanti. Si comprende come sdrammatizzando il rapporto tra capitalismo, pauperismo e conflittualità, accettando una più complessa antropologia sociale, e valendosi di criteri cognitivi e di azione pratica più empirici e pragmatici altre correnti del socialismo abbiano sostituito l’impegno riformistico a quello della lotta rivoluzionaria, ricercando strumenti in grado di migliorare, nei modi storicamente possibili, le condizioni delle classi lavoratrici e creando meccanismi di garanzie e di tutele per i ceti più deboli, in un quadro di progressiva affermazione di valori democratici nella società e nelle istituzioni. Anche se nei giudizi di Marx sul capitalismo non mancano elementi problematicamente più aperti, egli rifiuta comunque categoricamente che l’azione del movimento proletario possa piegarsi al compromesso con il mondo borghese e con l’economia capitalistica. L’opzione di Marx è per la rivoluzione in permanenza e quindi per il ripudio radicale di qualunque adattamento al carattere capitalistico della produzione. Marx è convinto che la lotta rivoluzionaria implichi l’esercizio della violenza. I comunisti dichiarano apertamente che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l’abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente. 5. La dialettica delle alienazioni Oltre che sulla teoria della miseria crescente del proletariato e sulla radicalizzazione ineluttabile della lotta di classe, la legittimazione del comunismo si fonda su un terzo tipo di argomentazione, secondo cui le alienazioni sociali ed economiche della società borghese diventano anche devastanti alienazioni esistenziali da contrastare con l’alternativa radicale di quel compiuto umanismo che appunto il regime comunista è chiamato a personificare. Criticando la società borghese, Marx ha accentuato la portata disgregatrice delle sue alienazioni e, con analisi impenitente, ha volute vederle anche dove esse non sarebbero percepite dalla coscienza comune. Marx ha perciò creato una inflazione delle antinomie e delle contraddizioni. Marx pensa che questa categoria della insocievole socievolezza, carattere essenziale della società borghese, sia la fonte di tutti i mali, perché fonda i rapporti interpersonali sulla divisione e sulla diffidenza, perché chiude gli individui nel proprio singolarismo, rendendo la loro finitezza sempre più utilitaristica e sempre più portata a imporsi con l’arbitrio e la prevaricazione. 6. L’alternativa alla democrazia liberale Queste posizioni di Marx discreditano anche i principi politici e istituzionali del costituzionalismo e della democrazia liberale. La laicità dello stato, l’indipendenza formale delle istituzioni statali dalla proprietà, le regole dello stato di diritto e la stessa teoria dei diritti umani, così come si presentano nella cultura giuridica e politica borghese, sono oggetto da parte di Marx di una metodica contestazione. Lo stato borghese si professa laico ed agnostico, pretende di essersi liberato dalla religione, ma è in effetti più cristiano del vecchio stato cristiano. Questa astratta liberazione politica ha riguardato solo lo stato, il quale ha però lasciato le condizioni che creano l’alienazione religiosa perché ha rinunciato a compiere quegli sforzi che avrebbero dovuto eliminarla. Lo stato è uscito dalla religione, ma ha lasciato gli individui in balia della propria alienazione religiosa, accentuando così il dualismo tra la vita politica e la vita della società civile. Lo stato liberale moderno lascia i cittadini in una condizione di in solidarietà e di scissione per cui la religiosità non rappresenta più la connessione dell’uomo con il tutto, ma è il contrassegno di un disagio personale, di una dilacerazione esistenziale, di un isolamento di fronte al mondo; e più si perfeziona la libertà religiosa, più si moltiplicano gli effetti negativi delle scissioni sociali. Così per quanto riguarda la presunta autonomia dello stato borghese dalla proprietà. Questa istituzione viene superata solo politicamente nel senso che si abbandona una concezione patrimoniale dello stato, ma essa rimane il fondamento della società civile entro cui svolge la sua logica di esclusivismo e di sopraffazione. EDUARD BERNSTEIN 1. Il revisionismo marxista Pur presentandosi all’origine come un erede spirituale di Marx, Bernstein è stato il primo iniziatore di una revisione critica del marxismo, il primo interprete che, discostandosi in modo decisivo dall’apologia marxista, ha messo in dubbio alcuni presupposti teorici e storici di questa dottrina. Bernstein ritiene che la concezione materialistica della storia debba essere considerata in termini non più apologetici, ma di riflessione analitica, e che perciò il socialismo e il comunismo che su quella teoria sono sorti no abbiano il diritto di presentarsi come una specie di calvinismo senza Dio, come una dottrina della predestinazione cui bisogna credere incondizionatamente, e in base alla quale tutto ciò che accade è determinato in anticipo. Non c’è più la certezza che un unico principio causativo spieghi tutto, e questo dubbio fa decadere anche la teoria del materialismo storico nella sua versione dogmatica. A suo giudizio la teoria marxista non ha adeguatamente valutato che oltre a quella economica, ci sono nelle realtà umana e sociale componenti diverse che hanno rapporti con l’economia, senza per questo diventare delle sovrastrutture di rapporti economici. 2. Movimento e scopo finale Il socialismo ha una sua ragion d’essere perché nelle condizioni attuali della società sussiste un carattere troppo privato dei modi di appropriazione al cospetto di un carattere molto più sociale del modo di produzione. Per Bernstein il socialismo deve essere qualificato come un movimento verso un nuovo ordine associativo, ma il concetto dell’andare verso, della dinamica, del mutamento va differenziato dal concetto della pura attuazione di un programma prestabilito. Il socialismo deve d’altronde riconoscere che mondo moderno la democrazia, trasformando le dimensioni, le forme e le ragioni stesse della lotta politica, consente di pervenire alla riduzione o alla scomparsa del dominio di classe, almeno nel senso che in un regime democratico nessuno stato sociale può godere di un privilegio politico rispetto ai diritti della generalità dei cittadini. Bernstein afferma che il principio del suffragio universale propugnato dalla democrazia rappresenta l’alternativa alla rivoluzione. Dove si instaura un regime democratico, la rivoluzione non è più necessaria. Bernstein definisce il socialismo come un liberalismo organizzatore. Se la libertà per la generalità dei cittadini non è possibile senza organizzazione, è vero però che tutto ciò che separa le istituzioni socialiste dalle istituzioni feudali apparentemente analoghe perché anch’esse fondate sul com’unitarismo e sul corporativismo consiste proprio nel fatto che il socialismo riesce ad accettare i principi liberali. Il socialismo deve rappresentare un mezzo di difesa contro l’invadenza del capitalismo, ma anche una protezione contro il determinismo sociale, l’esclusivismo corporativo e l’integrale socializzazione della esperienza umana. 3. Collettivismo e pluralismo In questo suo orientamento critico, Bernstien è tra i primi a intraprendere il tentativo di una riconciliazione tra le due anime antagoniste del socialismo, quella marxista e quella proudhoniana. La borghesia non è la causa di tutti i mali sociali, e non si deve presumere che con la sua distruzione la società si ricomponga in un sistema di coerenza e di armonia. La socialdemocrazia non può più entusiasmarsi per una rivoluzione violenta contro la totalità del mondo non proletario, e non può aprioristicamente disdegnare accomodamenti e transazioni. Non sarebbe più possibile nel mondo moderno una dottrina socialista non accompagnata dalle istituzioni e anche dai costumi e dalle tradizioni della vita democratica. Bisogna che il socialismo rinunci a penare che dallo stato dipenda la felicità di tutti. Occorre che il socialismo abbia maggiore fiducia in un’autonoma capacità di realizzazione della società civile e si attenga al principio che il proletariato moderno è molto povero, ma non mendicante e deve perciò comportarsi come un soggetto politico dotato di una sua dignità democratica. D’altra parte la socialdemocrazia, anche attraverso la sua partecipazione parlamentare, si sta avvicinando al potere e al governo, e questo comporta certi obblighi nei confronti delle istituzioni. Essa non può più pensare al potere come a qualcosa che appartiene ad altri, e nei cui confronti ogni reazione è ammissibile, ma come a qualcosa che comincia ad essere parte del bagaglio concettuale e dei mezzi disponibili del proletariato. 4. Il formalismo socialista Il fondatore del comunismo prevedeva la proletarizzazione generale della società e la miseria crescente del proletariato; ma se questo non si avvera, occorre che la dottrina socialista muti le sue prospettive. Se il numero dei capitalisti aumenta, e il numero dei nullatenenti diminuisce, ci si allontana dallo scopo finale del socialismo. La base simbolica del socialismo di Bernstein è idealistica e di incitamento democratico e non ha più bisogno di una giustificazione puramente materialistica, perché può arricchirsi di altri elementi. Ciò che il socialismo deve fare lo deve fare attraverso il metodo legale e parlamentare, con le misure indirette della legislazione, destinate a soppiantare le misure dirette della rivoluzione. FRIEDRICH NIETZSCHE 1. Il nichilismo Quella di Nietsche è una visione agonistica della vita, dove il dolore, la lotta, la distruzione, la crudeltà, l’eccesso, l’errore sono caratteri inevitabili di una vicenda umana non dominabile con i criteri della flessibilità, della tolleranza, del riguardo, della reciprocità, perché la vita è matrice continua di irrazionalità. Al cospetto di questo mondo teso e contraddittorio vede essenzialmente due atteggiamenti possibili: il primo è la rinuncia e il rifugio nell’isolamento, o nell’ascetismo e nello spirito di sopportazione dell’etica cristiana; il secondo è invece quello di accettare la vita anche nei suoi caratteri illogici e trascendere nell’azione entusiastica e nella volontà di potenza la stessa dimensione umana. Nietzsche non solo ha consapevolezza della svalutazione, nel mondo moderno, dei grandi valori dei grandi ideali, ma vuole sollecitare e portare alle sue estreme conseguenze questa crisi. Tanto più i principi tradizionali si consideravano universali, tanto più sono stati corrosi dallo spirito moderno che sancisce la fine della loro legittimazione sia ontologica che storica. La morale cristiana è entrata in una crisi profonda, e il pensiero moderno può già teorizzare la morte di Dio. La fede ha perduto le sue verità forti, non riesce a dare all’uomo una garanzia metafisica, non riesce a conciliare più la presenza del male nel mondo con la possibilità di un perfezionamento spirituale, e neppure è in grado di impedire agli individui di disprezzare se stessi e le loro opere. Se il nichilismo si diffonde è soprattutto perché nel mondo moderno manca una specie superiore che con la sua fecondità e potenza possa rinsaldare la fede nell’uomo. Si assiste al dilagare di una specie umana inferiore che con la sua volgarità tiranneggia tutta la vita sociale e che con la sua falsa presunzione non conosce più la modestia e gonfia i suoi bisogni fino a farne dei valori cosmici e metafisici. 2. La volontà di potenza Contro questa modernità flaccida e banalizzata, contro gli ideali anemici, Nietzsche indica dei rimedi vigorosi: il ripristino dei valori guerrieri e dello spirito militare; l’esaltazione dell’idea di potenza; la restituzione agli uomini dei loro istinti naturali che, nella tensione verso uno scopo, non risparmiano gli uomini. I valori esaltati dalla morale tradizionale sono delle minacce. Ciò che è pacifico, sobrio, modesto, coscienzioso, giusto, generoso, indulgente, disinteressato, non è forza morale, ma solo paravento alla avidità, all’incertezza,a dell’abbandono di una fiera e robusta spiritualità. Insiste sulla necessità di scegliere tra due tipi di morale: quella che fomenta la decadenza anche se mascherata da apparente virtù e quella in cui l’istinto sano lotta contro ciò che snerva le energie vitali. Non esistono azioni buone e azioni cattive, morali o immorali; ciò che conta è la personalità di chi agisce, la sua potenza, la sua superiore determinazione rispetto ad altri uomini. Un’azione è in sé assolutamente priva di valore: tutto dipende da chi la compie. La sua opzione è per l’egoismo piuttosto che per l’altruismo. L’egoismo è intensificazione dell’io, l’altruismo intensificazione del non-io. La vera morale deve riscoprire come verità decisiva della vita che esistono uomini che sono solo frazione di uomini, e deve imporre come dovere il sacrificio delle libertà particolari e opportunistiche per consentire la creazione di un modello superiore di umanità. 3. Il superuomo La tendenza dell’uomo moderno a rimpicciolirsi è però da assecondare per qualche tempo, perché questa massa di piccoli uomini costituisce la base su cui innalzare la specie degli uomini più forti. L’appiattimento generale degli individui rischia certo di portare tutti, anche gli uomini superiori, a uno stesso livello di gregge, ma la massa del gregge può diventare nella società moderna una massa intelligente, consapevole della necessità di affidare a una razza temeraria e dominante i destini del mondo. Il mito di Nietzsche è il superuomo, il grande uomo sintetico, l’essere sovrano posto al di là del bene e del male che distrugge le forze minime, i valori minimi, le razze decadenti ed esalta invece le grandezze incommensurabili di cui è portatore. Il fine della politica non è la morale degli schiavi fondata su basi utilitaristiche, ma la morale del dovere propria degli uomini superiori, tenendo però presente che i doveri di costoro non sono i doveri di tutti. 4. La razza, la nazione, l’Europa Il razzismo di Nietzsche volto alla distruzione della mediocrità non ha alcun rapporto con la negazione di una razza individuata secondo criteri biologici, nazionali o storici, e non dà alcun sostegno o alcuna giustificazione alla lotta contro la razza ebraica. E’ da sottolineare che in Nietzsche non c’è una vera opzione nazionalistica, ma piuttosto la vocazione a cercare gli indizi che prefigurano una volontà di unificazione europea, alla quale i vari popoli possano dare il loro specifico contributo. GEORGES SOREL 1. La mediocrità e il sublime Sorel ha iniziato il suo itinerario intellettuale assumendo posizioni di intransigente opposizione classista nei confronti del conservatorismo così come del riformismo liberale e socialista, ma nella evoluzione del suo pensiero egli mostra una certa considerazione anche per movimenti politici di destra, se in essi può ravvisarsi una forza ideale, una tensione eroica, un’azione risoluta in grado di spezzare i vincoli della mentalità e della moralità borghese. Per Sorel, sia il rivoluzionarismo di sinistra sia la reazione di destra hanno una loro giustificazione se mettono in crisi gli schemi della democrazia borghese e diventano portatori di nuovi valori. Rinunciare ad ogni intendimento della storia come processo armonico, guardare con drammatica consapevolezza alle cose del mondo, e di questa drammaticità servirsi per innalzare l’eroico e il sublime contro la mediocrità e la banalità di una vita comoda che svilisce la morale e, in politica, alimenta le bassezze della democrazia. 2. Il mito dello sciopero generale Come Marx, Sorel considera comunque la rivoluzione un fatto irreversibile e protesta contro il socialismo saggio che si espone solo attraverso le parole. Bisogna invece vincolare il socialismo all’azione rude, decisa, inequivocabile, senza accomodamenti e compromessi con gli avversari. Il socialismo non può essere soppiantato da una scienza sociale accomodante, escogitata allo scopo di neutralizzare e di reprimere le tensioni sociali ed economiche che spingono le masse alla rivolta. La formula, la parola d’ordine del socialismo radicale di Sorel è lo sciopero generale, nozione che ha per lui una decisiva portata storica e che, se tradotta coerentemente in pratica, paralizzerebbe qualunque velleità borghese, vanificherebbe qualunque mediazione del moderatismo, toglierebbe ai socialisti l’illusoria ricerca di una conciliazione con il capitalismo, e soppianterebbe il simbolismo della contestazione velleitaria con i gesti dissacranti di un effettivo movimento rivoluzionario. Il socialismo va saldamente unito allo sciopero generale e poiché tale sciopero incontrerà delle esistenze ne deriverà una lotta violenta e radicale, che il proletariato accetterà come inveramento del suo destino storico. Il mito dello sciopero generale è il più potente strumento di apprendistato rivoluzionario per scuotere le coscienze delle masse, per tenerle in uno stato epico, per disporle ad affrontare una lotta totale, gigantesca, fatta nel grande giorno, senza nessuna attenuazione ipocrita. 3. Determinismo e volontarismo Una prima divergenza nei confronti del marxismo è riscontrabile sul tema dell’individualità. Per quanto Sorel attribuisca alla conoscenza storica il compito di comprendere quanto vi è di meno individuale negli avvenimenti, egli vuole però che l’azione rivoluzionaria costituisca la manifestazione più clamorosa della forza individualistica all’interno delle masse ribelli, e che un individualismo ricco di passione rimanga il fermento più qualitativo del socialismo. Mentre in Marx la lotta di classe si impone come inalterabile dato di fatto della realtà sociale di cui rispecchia gli onnipresenti conflitti economici, in Sorel essa diventa soprattutto un dato ideale e volontaristico, uno strumento tattico, assumendo con ciò una certa artificiosità. Al determinismo egli oppone il volontarismo. 4. Socialismo e reazione borghese Il proletariato, con lo sciopero generale si ribella contro la borghesia; ma se questa o un’altra classe sociale è capace di mobilitarsi e di reagire con violenza altrettanto eroica, acquisisce un proprio titolo di legittimazione politica e morale. 5. La critica all’Illuminismo e alla democrazia Bisogna screditare coloro che in politica volgarizzano le idee illuministiche adattandole agli interessi della borghesia e alla cupidigia delle masse, e valorizzare invece ciò che l’Illuminismo non possiede e cioè il pensiero eroico, drammatico e sublime della vita e della storia. La democrazia appare a Sorel come prosecuzione dello spirito illuministico e va perciò combattuta come fonte di disgregazione e di appiattimento dei valori, come volgare mescolanza tra l’oligarchia dei politicanti e i sentimenti meschini della generale mediocrità. 6. Il confronto con Proudhon Gli ideali di Sorel cercano motivi di convergenza con il pensiero di Proudhon. Questa convergenza può apparire molto discutibile perché nell’etica proudhoniana la violenza non esercitava alcuna funzione rigeneratrice e non rappresentava affatto un valore sublime. 7. Le ambiguità teoriche La forza motrice della storia è la lotta sublimata dall’eroismo; il metodo della lotta è la violenza depurata dalla brutalità; l’ideologia è quella dello sciopero generale anch’esso tuttavia mosso non da un istinto di odio, ma da un impegno di volontarismo etico. MAX WEBER 1. Il realismo politico Che l’essenza della politica sia la lotta, che le regole della politica non siano quelle della morale, e che nei rapporti politici il potere assuma anche un volto demoniaco, tutto questo appartiene all’ispirazione fondamentale del pensatore tedesco, per il quale il realismo politico è cosa diversa da un machiavellismo spicciolo che fa della potenza solo un istinto volgare di dominio, e della grandezza dello stato solo un fatto di prevaricazione e di usurpazione. 2. Avalutatività e scienze sociali Le scienze sociali sono scienze della cultura, e cogliere il significato culturale degli oggetti studiati è una loro essenziale obbligazione critica, anche se non convergente con l’obbligo di una preliminare scelta di valori. Le scienze empiriche della società e della politica hanno il compito di elaborare dei tipi ideali per fissare il senso della realtà storico-sociale in forme di pensiero. Weber specifica che nella formulazione di un tipo ideale la scienza è tenuta a riconoscere la rilevanza delle forze collettive e dei movimenti di massa, deve però guardarsi dall’impiego indiscriminato di concetti collettivi. Il suo tipo ideale non cerca uniformità collettivistiche, ma connessioni in cui l’elemento individuale sia misurato nella sua specifica incidenza su ogni insieme pratico. Avalutatività del metodo scientifico, ma sul presupposto che gli scienziato sociali sono cercatori non solo di dati di fatto ma anche di significati e che l’ordinamento concettuale dei fenomeni assume rilevanza anche dal punto di vista esistenziale e sociale. Le scienze sociali sono chiamate a delle valutazioni pratiche e il loro compito consiste nel mettere in luce, con i mezzi propri, alcune relazioni essenziali dell’agire umano nel mondo socio-politico. 3. Le legittimazioni del potere La metodologia di Weber trova significative applicazioni in politica. La sua vocazione, come abbiamo detto, è realistica, e perciò la politica è per lui non la ricerca di un modello di stato buono in senso assoluto, ma un’attività che influenza e condiziona la direzione fondamentale che prende un’associazione politica, nel mondo attuale costituita essenzialmente dallo stato. Tra stato e forza vi è una relazione molto stretta. E’ illusorio pretendere di espellere l’energia e la potenza dalla struttura e dall’azione dello stato,e di fare politica senza aspirazione a partecipare al potere e a ripartirlo in un certo modo. I criteri di legittimazione del dominio sono riconducibili essenzialmente a tre: l’autorità dell’eterno ieri, cioè del costume, della consuetudine e della tradizione; l’autorità del carisma inteso come un don di grazia personale di natura straordinaria; l’autorità della legalità basata su una fede pubblica che crede nell’adempimento di doveri stabiliti da norme. Egli distingue tra politici di occasioni e politici di professione, ma all’interno di questi ultimi tiene separate due categorie tra loro diverse: coloro che vivono per la politica, e coloro che vivono di politica. Per quanto un reclutamento non censitario dei ceti dirigenti richieda che questi possano percepire per adempiere alle loro funzioni un reddito regolare e sicuro, fare politica nel primo significato vuol dire dedicare ad essa il massimo impegno di conoscenza e di responsabilità, considerandola come qualcosa di essenziale ai destini dell’uomo, mentre vivere di politica significa sfruttare l’attività politica per costituire a proprio favore rendite parassitarie e per soddisfare la propria sete di potere e i propri interessi personali. 4. Etica della convinzione e della responsabilità Anche se la legge politica non è la legge morale e la dignità dello stato non si identifica con quella della coscienza individuale, la politica include l’idea di orientamento etico. L’agire in senso etico può tuttavia oscillare tra due massime diverse ed opposte. Da una parte l’etica della convinzione, dall’altra l’etica della responsabilità. Con l’etica della convinzione si agisce in base a delle opzioni di valore a cui si attribuisce una validità permanente, un fondamento qualitativo incontestabile, non assoggettabile a transazioni, accomodamenti e compromessi. L’etica della responsabilità vede che ogni azione ha delle conseguenze prevedibili, bisogna risponderne a noi stessi e soprattutto agli altri. Chi segue l’etica della convinzione vorrebbe vincolare tutto a principi reputati i più coerenti, i più saggi, i più logici e si comporta perciò come un razionalista cosmico-etico. Non si può prescindere dall’etica della responsabilità nelle situazioni reali della vita politica. 5. Razionalità e disincantamento La politica non esprime mai per Weber un sistema compiuto. Ogni equilibrio politico invecchia e deve essere superato, e non ci si deve illudere di poterlo rendere più stabile e coerente attraverso le progressive razionalizzazioni delle scienze e delle tecniche. Pur combattendo l’irrazionalismo, Weber non ritiene che incrementare la razionalizzazione significhi di per sé accrescere il dominio dell’uomo sulla realtà. Se la crescente razionalizzazione della società moderna non riesce a darci una maggiore sicurezza, né a rendere impeccabili i nostri comportamenti, essa crea ciò che Weber chiama il disincantamento del mondo, cioè la perdita del fascino mistico e religioso delle grandi connessioni cosmiche della vita, lo smarrimento di quel palpito dell’indefinibile che un tempo pervadeva e rinsaldava come un soffio profetico e una fiamma impetuosa le grandi comunità. 6. Il valore del Parlamento Per quanto egli sia teorico di uno stato forte, e anche di uno stato di potenza, egli è un critico della politica di Bismark. Secondo Weber, la nazione tedesca è rimasta, dopo Bismark, senza educazione e senza volontà politica, perché abituata al fatto che il grande uomo di stato dovesse interamente sostituirsi ala nazione. Il parlamento tedesco gli sembra incapace di discutere i grandi problemi e di decidere autorevolmente su di essi, mentre è dall’autonomia delle funzioni di un libero parlamento, sottratto ai condizionamenti della burocrazia che dipende il futuro della politica. Lo stato tedesco è progredito dal punto di vista della sua struttura burocratica, ma la burocratizzazione universale minaccia la vita del parlamento, blocca la libera attività delle rappresentanze popolari e demoralizza l’autorità stessa del governo. La politica è positiva quando il parlamento può prendere delle decisioni, è negativa quando esso, manovrato dalla burocrazia, è costretto ad agire in modo opportunistico, sfruttando per interessi corporativi e per spartizioni di vantaggi contingenti i margini di iniziativa che gli sono lasciati dall’amministrazione. 7. Il carisma La formazione delle elites e di una leadership è essenziale alle funzioni dello stato moderno; ma ciò diventa possibile quando un parlamento è reintegrato nella pienezza delle sue funzioni. Soltanto un parlamento che lavora può costituire il terreno sul quale crescono e, attraverso la selezione, compiono la loro ascesa uomini con qualità di capo autenticamente politiche e non meramente demagogiche. La figura del capo carismatico come esigenza di una democrazia funzionante e regolata. Il parlamento deve garantire di fronte a questo capo scelto dalla massa come suo fiduciario una certa stabilità, componendo entro un quadro istituzionale le lotte politiche e sociali. Spetta al parlamento controllare la potenza dei capi, imponendo garanzie politiche e giuridiche nei loro confronti e obbligando i politici che cercano la fiducia delle masse a dare prima di tutto prova di se stessi nell’ambito parlamentare, allontanandoli da tentazioni autoritarie extraparlamentari. Compete inoltre al parlamento la funzione essenziale di rimuovere pacificamente i capi quando essi hanno perduto il consenso popolare. 8. Democrazia e partiti La concezione weberiana della storia ha una certa connotazione aristocratica e il ruolo dei capi carismatici e delle elites ha una incidenza fondamentale nei più importanti processi di mutamento e particolarmente nelle situazioni di crisi. Le masse non sono però neppure nel rapporto carismatico, un elemento passivo, perché possono dare e togliere potere al capo, la cui missione deve, in definitiva, avere come scopo l’emancipazione popolare. La democrazia ha bisogno di un capo, ma il principio essenziale di questo regime rimane l’uguaglianza giuridica dei cittadini, che ha nel parlamento la suprema garanzia. Weber è un democratico che tenta di collegare la borghesia con la classe lavoratrice anche attraverso l’affidamento di questa causa superiore tenuta a equilibrare gli interessi contrastanti. CARL SCHMITT 1. La logica amico-nemico Schmitt è stato un teorico dell’autoritarsimo e con le sue opere ha cercato di rendere sistematici gli assiomi dello stato totale personificati dal nazismo. Il punto essenziale della sua riflessione è di aver posto come fondamentale categoria della politica la logica amico-nemico. Tutti i fenomeni significativi della vita politica ruoterebbero intorno a questa categoria. 2. Sovranità e decisione Schmitt muove dal presupposto che la categoria del politico abbia una sua dimensione totale ed eserciti quindi una incidenza radicale su tutti i comportamenti significativi della vita umana e sociale. La sua opinione è che il principio di sovranità non possa essere collegato a un concetto di normalità o di fisiologia sociale, che non possa essere dedotto dai canoni di un ordinamento puramente normativo, che non possa riferirsi all’eterno luogo comune del generale, alla tranquilla superficialità del generale. Sovrano è chi decido sullo stato di eccezione. La natura essenziale di un ordinamento giuridico si manifesta nelle situazioni di eccezioni, rispetto alle quali la sovranità non può che essere illimitata. Ciò significa che lo stato una sua superiorità rispetto alla norma, superiorità politica m,a anche giuridica perché sia la norma sia la sua sospensione derivante da una decisione sovrana appartengono all’ambito del diritto e devono perciò restare accessibili alla conoscenza giuridica. La prima cosa da fare è stabilire l’ordine, solo allora si può avere un ordinamento giuridico, il quale però riposa sempre sul presupposto che il passaggio dal caos all’ordine implica un elemento decisionale. Egli considera che l’autorità è buona in quanto tale, in quanto sussiste. Il problema di Schmitt è di uscire da una specie di limbo in cui il liberalismo, la democrazia, lo stato di diritto avrebbero lasciato i problemi politici, nel loro illusorio tentativo di sfuggire alle responsabilità fondamentali connesse agli imperativi della decisione. L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine. Lo stato come modello dell’unità politica, lo stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, sta per essere detronizzato. 3. I concetti polemici della politica La logica amico-nemico è il politica tassativa ed esclusiva e non ha bisogno di essere completata con altre distinzioni di carattere estetico, morale ed economico; essa vale in un senso prettamente politico e la politica non ha bisogno di utilizzarla in altri sensi. I concetti di amico e nemico non vanno considerati in un significato esistenziale, individualistico e privato, ma appunto in un significato pubblico e politico. A giudizio di Schmitt, tutti i concetti e i termini di cui la politica si vale hanno essenzialmente un significato polemico; sono tutti nati con un senso avversativo, per contrapporsi a qualcosa. Se si riuscisse a distruggere o a rendere irrilevante la polemica e la guerra, e a creare un mondo senza nessuna distinzione tra amico e nemico non vi sarebbe più politica, e senza politica il mondo non sarebbe più. Nessun popolo riuscirebbe a proporre e a garantire all’umanità uno stato puramente morale o puramente economico se rinunciasse a ogni decisione politica. Finchè esiste lo stato, ci sarà sempre una molteplicità di stati in potenziale antagonismo tra loro. 4. Autorità, verità e neutralità Le neutralizzazioni del liberalismo non sono fruibili pacificamente, vengono di volta in volta smentite negli ambiti storici, sociali e culturali in cui si presumeva si fossero affermate e sono quindi costrette a trasmigrare altrove, senza peraltro mai trovare localizzazioni sicure. Appena un terreno neutrale sembra essere stato conquistato, appena la lotta sembra poter lasciare il posto a una dialettica civile, pacata e tollerante, regolata dall’imparzialità del diritto. L’umanità migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali. Schmitt ammette che ogni pensiero politico e giuridico si lavora sia attraverso regole normative, sia attraverso decisioni, sia attraverso strutture, ma egli non ha fiducia nel principio normativistico che, contrapponendo la lex al rex si illude che la legge conti più del comando, e che ciò che garantisce la vita sociale siano solo norme impersonalmente vigenti. VLADIMIR ILIC LENIN 1. L’intransigenza rivoluzionaria L’ideologia leninista si presenta con una sistematicità intransigente e respinge ogni debolezza e problematicità che possa scalfire l’organizzazione monolitica della classe operaia e la compattezza granititica della lotta rivoluzionaria. Il leninismo dà la caccia a tutto ciò che possa minacciare la disciplina di partito e rompere i passi cadenzati dei battaglioni ferrei del proletariato che vanno alla conquista della società e dello stato. La dottrina leninista continua, rinsalda e militarizza quella di Marx. La concezione materialistica della storia, anche se non è la chiave di tutte le serrature storiche spiega l’organizzazione dell’economia capitalistica in modo decisamente migliore di quanto non possano fare altre teorie e dimostra, senza astratti giudizi moralistici, che lo sfruttamento è la conseguenza necessaria del regime sociale esistente. Lenin riprende l’essenziale argomentazione di Marx: il capitalismo è costretto a rendere sempre più collettive le forme della produzione perché la sua organizzazione economica ha bisogno di un progressivo accentramento e di una generale socializzazione, ma queste forme socializzate di produzione entrano in contrasto inconciliabile con le forme di appropriazione imposte dal capitalismo. Di qui l’esigenza inderogabile della trasformazione del regime capitalistico nel socialismo integrale, che è a sua volta l’espressione compiuta di un programma coerentemente democratico, se per democrazia si intende la radicale negazione dell’assolutismo, che è sempre borghese, che ha in tutte le sue manifestazioni un contenuto di classe. 2. La lotta al revisionismo Lenin rigetta il revisionismo e il tipo di connessione politica che voleva stabilire tra democrazia e socialismo, e non esita per questo a rinunciare alla stessa espressione di socialdemocrazia quando paventa che questo termine sia stato già contaminato. I torti aberranti di Bernstein sono stati per Lenin quelli di aver trasformato il socialismo da partito di rivoluzione sociale a partito democratico di riforma; di aver negato il fondamento scientifico del socialismo; di avere contestato il principio della miseria crescente del proletariato nella società borghese e della lotta inevitabile tra le classi; di aver abbandonato il concetto di scopo finale del socialismo; di aver respinto l’idea della dittatura del proletariato; e di aver negato l’opposizione di principio tra liberalismo e socialismo. Lenin ha dubbi: c’è un’ideologia borghese e c’è un’ideologia socialista, senza vie di mezzo. Una terza ideologia non esiste né può formarsi perché in una società dilaniata dagli antagonismi di classe ogni ideologia ha un fondamento classista. 3. La dittatura del proletariato La nuova parola d’ordine dell’azione rivoluzionaria è la dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini; dittatura da fondare sulla forza armata delle masse, e da non spartire con alcuno. La dittatura del proletariato viene proposta come una istituzione transitoria, destinata a cessare quando gli uomini si abitueranno ad osservare le regole della coesistenza senza violenza, senza settarismi e sottomissione, in una società sena classi riconciliata con se stessa e resa armonica dall’integrale disalienazione del lavoro e dal gigantesco sviluppo delle forze produttive conseguente alla radicale espropriazione dei capitalisti. L’unica morale valida per un comunista è quella che si connette alla inflessibile disciplina nei confronti del partito e all’impegno incondizionato nelle lotte di massa. Distruggere le risorse spirituali, oltre che materiali, dell’individualismo borghese è quindi una obbligazione etica del comunismo. 4. Le difficoltà del nuovo ordine sociale Lenin si è dovuto confrontare con gli immensi problemi sociali ed economici sorti dopo l’avvento del potere proletario. Quando si trova alla direzione dello stato sovietico subentra in lui la consapevolezza degli errori e delle insufficienze di metodo e di organizzazione che il comunismo ha rivelato dopo il trionfo. La cosa più importante per il nuovo ordine sociale è la produttività del lavoro; se questa non c’è, il capitalismo non potrà essere realmente battuto e anzi la società comunista andrà in rovina. Queste ed altre analoghe ammissioni. Le insufficienze del sistema comunista possono certo essere addebitate al fatto che il bolscevismo non si è affermato come rivoluzione europea e mondiale e che finchè la Russia è la sola repubblica operaia, in un mondo ancora dominato dal vecchio ordinamento borghese, i comunisti rimangono più deboli dei capitalisti e si trovano sempre sotto la minaccia della controrivoluzione. 5. Comunismo e capitalismo di stato L’inattesa proposta avanzata da Lenin come uomo di stato di fronte alle difficoltà oggettive del regime sovietico è quella di accettare una qualche sospensione nella lotta contro il capitalismo e di sollecitarne una certa restaurazione, sempre però sotto l’egida del potere statale comunista e della dittatura del proletariato. Il problema prioritario gli sembra quello di salvare l’economia sovietica dal fallimento, e per questo scopo ritiene indispensabile l’eredità scientifica e tecnica del capitalismo, perché il proletariato è ancora incapace di gestire in proprio una moderna società industriale. La prospettiva politicoeconomica di Lenin cerca così, per far fronte alle difficoltà, una combinazione tra il capitalismo di stato e la dittatura del proletariato. IL FASCISMO 1. Lo stato totalitario Rimane un dato permanente del fascismo la sua refrattarietà a definirsi in termini concettuali e la sua inclinazione a proporsi soprattutto come un atto di vita che supera ogni esercitazione di parole. L’antiintellettualismo, l’irrazionalismo, il volontarismo sono componenti del pensiero di Mussolini e della mistica fascista. L’elemento essenziale del fascismo vorrebbe essere il modo spiritualistico di concepire la vita contro le concezioni positivistiche; un antipositivismo munito di un carattere positivo nel senso che non indulge allo scetticismo, al relativismo, al nichilismo. Questo spiritualismo esalta l’azione e l’avventura, disdegna la vita comoda del perbenismo borghese, incitando a vivere pericolosamente, a cercare nell’entusiasmo la propria espansione vitale, a superare ogni forma di individualismo democratico e liberale. Il fascismo non intende fermarsi alla precaria spiritualità dell’individuo, ma cerca il compiuto dispiegamento della spiritualità nell’assoluto valore etico dello stato. La dottrina fascista sostiene che no c’è differenza sul piano etico tra individuo e stato perché l’autentica moralità del soggetto si manifesta solo nella sua totale immedesimazione nella vita dello stato. Lo stato non è il guardiano notturno, il semplice garante della coesistenza dei cittadini, ma ha una natura universale che gli impone di controllare l’insieme delle forze politiche, economiche e morali della nazione. E’ la gerarchia e non l’uguaglianza che per il fascismo costituisce il fondamento dell’autorità statale e dell’organicità sociale. La dottrina fascista non esclude il consenso popolare, ma lo vede connesso all’impulso vitale che loi stato riesce a dare all’intera collettività, e non intende invece accertarlo attraverso il pubblico dibattito e le procedure parlamentari. 2. Il mito della nazione La nazione è l’idea forza di cui il fascismo si serve per alimentare il suo mito politico, ma anche per opporsi alle tentazioni della rivolta sociale. L’idea nazionale accoglie infatti l’impulso ideale della rivoluzione, ma togliendole il suo carattere economicistico e mettendo al suo posto il superiore valore etico di una comunità popolare, di fatto la rende inutile. Il fondamento spiritualistico della nazione non può ridursi a semplice dato naturale, geografico ed etnico. Il fascismo non si sente rappresentante di una razza, e neppure si considera fenomeno esclusivamente italiano perché, pur munito di propri istituti nazionali, aspira a irradiarsi ovunque a proporsi come una categoria universale dello spirito. E a sua volta la nazione, per non essere semplice etnia e per non subire il condizionamento dei suoi elementi più grossolani, deve intendersi come prodotto della suprema idealità dello stato. Il fascismo tende a identificare ideologia e mito. L’ideologia è un gruppo di valori prestabiliti che nell’esaltazione del mito cercano la loro realizzazione al di fuori delle verifiche razionali e dei calcoli delle possibilità. E a loro volta, mito e ideologia si distinguono dall’utopia che agli intellettuali fascisti, influenzati da Sorel, appare come un artificio razionale per abbellire il mondo futuro attraverso escogitazioni concettualistiche di pura immaginazione. La sua matrice principale rimane l’attivismo, che vede compito essenziale dello stato dare al popolo grandi parole, agitare grandi idee, proporre grandi traguardi, affascinare con esaltanti imprese. IL NAZISMO 2. Il decadentismo borghese e marxista Fin dalle sue origini il nazionalsocialismo ha una sua collocazione antiborghese, antiindividualistica, anticapitalistica e antiparlamentare. I partiti borghesi sono considerati corrotti, in disfacimento, non più in possesso di quel’attrazione magnetica a cui le masse umane obbediscono, assolutamente incapaci di combattere con fanatica volontà per i propri punti di vista. Occorre perciò foggiare un nuovo partito radicalmente diverso, militarizzato, composto da uno stuolo di guerrieri decisi a liberarsi definitivamente delle fatiscenze del regime parlamentare. 3. Il partito e il capo Il nazionalsocialismo mette al centro della lotta politica l’idea del dominio dei forti e della sottomissione di chi è considerato inferiore. Il diritto è un privilegio che spetto solo a chi lo merita e cioè alla razza dei potenti, alla razza padrona. Per questo compito la dottrina nazista non deve assumere un contenuto genericamente politico, ma affermarsi come strumento di lotta e coimplicare in questa tutte le masse. Ciò non significa però agire secondo il punto di vista delle masse, riconoscendole protagoniste decisive della storia. Il nazismo non si serve delle masse, vuole che dalle masse emerga l’uomo che deve formarle e dominarle con principi ferrei che non ammettono discussioni o dissensi. Perciò la formula ottimale del partito è quella che consente la formazione di un’organizzazione chiusa, saldamente unitaria. In questa organizzazione il capo ha un potere carismatico e la sua volontà ha valore di legge suprema. 4. Lo stato e la razza L’idea centrale di questa politica non è più la classe e neppure lo stato, ma è l’idea della razza che, secondo Hitler, ha un inoppugnabile fondamento nella natura e si munisce quindi di una legittimazione scientifica. Bisogna perciò obbedire alla natura ed eliminare ogni riferimento al principio della uguaglianza delle razze, da sostituire radicalmente con il principio contrario, positivisticametne e naturalisticamente definito, che la razza migliore ha diritto a trionfare nella storia. I problemi della politica si risolvono quando questa razza superiore è pienamente cosciente di se stessa e combatte con tutti i mezzi per affermare il suo dominio nel mondo. Il marxismo e il capitalismo sono intrinsecamente connessi con l’ebraismo, e perciò la lotta contro quelle ideologie presuppone la lotta spietata contro gli ebrei, considerati responsabili di ogni contaminazione del popolo tedesco. Il nazismo non fa dello stato il protagonista essenziale della politica, perché lo stato non ha dei fini propri, non rappresenta un valore autonomo, no personifica una sua originaria eticità, ma è solo un mezzo per sevire gli interessi della razza superiore e per garantirne la forza e la purezza. BENEDETTO CROCE 1. Storia e liberalismo Più che come un partito o come una dottrina politica il liberalismo di Croce si propone dcome un principio immedesimato nel corso degli eventi storici, di cui rappresenta l’inveramento e il segno qualitativo. Il progresso non è da misurare con i parametri pratici del piacere, dell’utilità, della felicità e si connette invece a una più matura consapevolezza della condizione umana, che conosce il perpetuo crescere della propria spiritualità anche perché sa meglio intendere l’alto e complesso dolore della storia. La storia è storia della libertà, senza bisogno di altre aggiunzioni qualificative. La libertà non chiede ad altre idee e ad altre forze dei contenuti che le manchino. Questi contenuti essa deve darseli da sola, scoprendoli e valorizzandoli nei vari ordini della creatività umana. 2. Etica e politica Croce stabilisce un rapporto di distinzione tra filosofia della storia e liberalismo da un lato e politica dall’altro. Storia e libertà raffigurano, nella sua speculazione teoretica, l’idea di un bene che progressivamente si fa largo nella ressa dei fatti umani e sociali, coinvolgendoli nella ricerca incessante della perfettibilità etica e immedesimandoli nella universalità della vita spirituale. La politica è invece, in prima istanza, il mondo della forza, dell’interesse e del contrasto, una realtà specifica retta da leggi che non sono quelle del bene e della libertà. La politica non vive di competizioni etiche, ma di contese tra stati, ciascuno dei quali ha una sua dignità da far valere come sua ragione d’essere. Assimilare la moralità degli stati a quella degli individui sarebbe abusivo. Lo stato e la politica raffigurati in termini di crudo realismo non comprendono tutto l’uomo, la cui potenzialità etica supera le determinazioni pratiche della politica, e irradiandosi su tutta la vita storica costringe le azioni politiche e statali a disfarsi e rifarsi per adattarsi di volta in volta alle esigenze che la stessa moralità pone nel suo inestinguibile processo spirituale. Il lavoro utilitaristico dello stato e della politica è un momento necessario e eterno, ma non è tutto, e deve fare i conti con la coscienza e l’attività morale che penetrano anche nella vita dello stato, imponendogli obbligazioni culturali non riducibili alla sua mera logica di potenza. Da una parte lo stato politico e amorale che guarda al proprio interesse, che segue solo il suo impulso e la sua regola di dominio, dall’altro lo stato etico che esprime una coscienza intellettiva e morale e che aspira a una politica più che umana. Entrambe le definizioni e le posizioni dello stato sono vere, non possono reciprocamente escludersi e devono perciò essere pensate e vissute dialetticamente. La politica è considerata in termini di realismo, ma di un realismo non così intransigente da precludere ogni idea etica della politica e ogni possibilità dello stato di incarnare un ethos umano e di elevarsi a stato di cultura. 3. Autorità, libertà e democrazia Croce esalta la libertà ma, nella concretezza della vita politica, la vede inscindibilmente connessa con l’autorità. Non esiste libertà pura, come non esiste autorità incondizionata. La sovranità statale è una relazione di autorità e di libertà, principi da non polarizzare, ma da vedere piuttosto nelle loro complementarità e mutue implicazioni. Il liberalismo non persegue miti egualitari e non crede a quel demagogico romanticismo che attribuisce alle masse il potere di una rigenerazione globale della società. L’uguaglianza non sarebbe possibile se non nella completa autarchia, dove ciascuno degli uguali non avrebbe nulla da chiedere all’altro. Ma tale uguaglianza non riuscirebbe a fondare uno stato, perché ogni individuo sarebbe uno stato a sé, e neppure darebbe vita a una qualche forma di contrattualismo sociale perché a individui uguali e autarchici manca la materia del contrattare, cioè la diversità su cui fondare i rispettivi diritti e doveri. 4. Limiti liberali del liberalismo Pone una netta differenza tra liberalismo e liberalismo economico. Se al liberalismo si dà valore di regola e di legge suprema della vita sociale, esso si troverà accanto il liberalismo politico parimenti convinto di personificare una legge suprema. Da ciò nasce un conflitto che per Croce si risolve attribuendo al liberalismo etico una priorità qualitativa su quello economico. Per far avanzare storicamente l’idea della libertà, il liberalismo deve servirsi di tutti i mezzi che si dimostrino più idonei a tale compito, e quindi, all’occorrenza, anche di misure diverse da quelle libere. Il liberalismo può approvare molte richieste del liberismo, ma esso le approva non per ragioni economiche, ma per ragioni etiche, e con queste le sancisce. 5. Il confronto con il socialismo Croce ammette che le istanze liberali possono avere delle convergenze anche con quelle socialiste, quando esse fossero parimenti rivolte alla promozione della libertà. La seria opposizione di principio del liberalismo nei confronti del socialismo riguarda l’ambizione di quest’ultimo a costruire la società attraverso un modello da realizzare anche con misure di carattere autoritario. Il liberalismo ha invece come suo unico ambiente la storia e qui sperimenta i suoi valori senza dedurli da paradigmi di verità esterne. Il liberalismo non pone la borghesia come categoria costitutiva della sua vocazione etica e politica e respinge perciò gli attacchi che il socialismo gli rivolge in questo senso. La mentalità liberale non si schiera aprioristicamente a favore del conservatorismo o del progressivismo, e cerca di comprendere e di mediare con criteri di imparzialità anche ragioni avverse. ANTONIO GRAMSCI 1. Marxismo e storicismo Di questa espressione materialismo storico si è dato il maggior peso al primo membro, mentre dovrebbe essere dato al secondo. Pur con tutte le essenziali differenze, Gramsci risente dello storicismo di Croce e soprattutto di quello di Gentile, autore quest’ultimo che più di tutti gli ha insegnato a considerare la storia come una realtà che ingloba integralmente ciò che serve alla vita, che può definirsi in termini di civiltà e che tende a un progressivo completamento di tale civiltà. Ma poiché la storia è un divenire e non un sistema di perfezione logica, il processo di totalizzazione deve rimanere aperto e non pretendere ad alcuna predeterminata compiutezza fenomenica. E’ compito del materialismo storico organizzare tutta la forza della massa, ma anche sfruttare tutti gli apporti di filosofie di origine diversa suscettibili di confluire verso il marxismo, per creare, secondo l’espressione di Sorel un blocco storico. C’è in Gramsci una forte rivalutazione del ruolo degli intellettuali, ma per intellettuali egli intende non le figure tradizioni di uomini di cultura e di scienza che praticano l’esercizio critico del pensiero da posizioni distaccate, ma tutti coloro che hanno una funzione organica nello stabilire l’egemonia del gruppo dominante sull’intera società e che rendono politicamente possibile u progresso intellettuale di massa. Non quindi intellettuali senza massa, ma intellettuali di una massa. La funzione dell’intellettuale non è quella di consumare la propria cultura in circuiti esistenziali, ma di usarla al servizio di un gruppo sociale e in funzione di una prospettiva politica e cioè pensando, e agendo come intellettuale organico. 2. Totalità, egemonia, conformismo Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria senza accomodamenti riformistici, anche se talvolta può allearsi a movimenti estranei per contrastare condizionamenti precapitalistici ancora esistenti nella società. In quanto pensiero rivoluzionario, la tendenza di fondo del marxismo è a determinare una separazione completa tra due schieramenti opposti e a rappresentare un vertice inaccessibile agli avversari. Il materialismo storico esprime una concezione della storia, della politica e dell’economia, intrinsecamente connesse tra loro. IL suo problema è come la storia e la politica si riflettono nell’economia, come l’economia e la politica si riflettono nella storia, come la storia e l’economia si riflettono nella politica. Al totalismo egli dà un significato positivo quando esso esprime la funzione totalizzante dell’ideologia comunista. Il suo convincimento è che i partiti di tipo totalitario stiano dominando la politica e che quindi la lotta si svolga tra opposte categorie totalizzanti., Si deve però distinguere tra vera e falsa totalità e totalitarismo falso gli appare quello fascista, che mette forzosamente insieme cose eterogenee, senza capacità di attuare una vera unificazione culturale e un amalgama completo della società. E’, d’altra parte, non c’è posto nella società del futuro per uno stato di diritto neutrale che lasci agli individui il loro libero gioco limitandosi a regolare le condizioni generali della coesistenza. Lo stato deve essere concepito come educazione a un nuovo tipo di uomo, a un nuovo livello di civiltà e quindi come stato etico tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati e a creare un organismo sociale tecnico-morale. La società così unificata attraverso la sovranità di una forza rivoluzionaria dominante deve esprimere un nuovo conformismo, termine che Gramsci non usa in senso spregiativo, come abbrutimento del comportamento umano, perché ogni lotta per l’egemonia gli sembra lotta tra conformismi diversi, cioè tra gruppi sociali opposti, ciascuno dei quali si riconosce in uno stile di vita e di pensiero. 3. Il nuovo principe Gramsci ritiene che il proletariato, protagonista privilegiato di questo processo di totalizzazione, abbia in molti sensi già acquistato storicamente una capacità espansiva che non cessa e che può spingersi fino all’assorbimento integrale della società. Al contrario la borghesia, che pure era una classe in ascesa, dà invece segni di decadenza, perde il contatto con l’universalità del suo destino, dimostrando di avere esaurito la sua missione storica. Gramsci concede poco al moralismo astratto; l’azione politica si misura in base all’efficacia con cui persegue i suoi fini. Allo stesso modo, la rude lotta del proletariato non è da valutare con criteri moralistici, ma in relazione all’universalità di una missione corrispondente a una necessità storica. Il comunismo è espressione per Gramsci di una scienza nuova della società, in grado di spiegare con propri mezzi le questioni vitali falsate dall’opposta ideologia borghese. Il nuovo principe capace di rappresentare questi valori è il partito che organizza il proletariato, un partito da vedere non in astratto e in riferimento a una classe sociale anch’essa astratta, ma in un ambiente storico concreto in una determinata tradizione, in una specifica combinazione di forze entro cui la volontà collettiva possa realmente impegnarsi. Ciò che conta nel comunismo è la formazione dell’uomo collettivo, che si svolge in relazione alla posizione occupata dalla generalità dei soggetti nel mondo della produzione. L’individuo storicopolitico non è da intendere nella sua composizione biologica o nei suoi dati esistenziali o nella sua pretesa di libertà di iniziativa economica, perché la sua realtà è essenzialmente quella del gruppo sociale di appartenenza. Il moderno principe deve essere non un individuo isolato, ma un organismo che si concretizza in una azione di massa. E’ interessante notare come Gramsci introduca nel lessico marxista il termine nazional popolare, quasi a significare che il suo progetto intende riferirsi a un ambito nazionale piuttosto che a un cosmopolitismo astratto. La volontà collettiva nazional popolare non è un espediente per interrompere e deviare la logica rivoluzionaria; è, al contrario, nella sua forma compiuta, espressione totale di una civiltà moderna. E perciò, riforma intellettuale e morale e volontà collettiva nazional popolare sono parti integranti di una globale trasformazione economica. 4. Rivoluzione e fanatismo La visione universalizzante di Gramsci implica la scomparsa progressiva delle contraddizioni sociali. Una volta che la filosofia della prassi si è instaurata nella nuova società e nella nuova civiltà, nessuna idea potrà nascere sul terreno delle contraddizioni economiche e sociali. Per quanto Gramsci creda nella validazione oggettiva della necessità di un integrale mutamento, egli è consapevole che l’oggettività è un divenire e che niente perciò può essere in materia sociale vincolato a un parametro fisso e a uno schematismo logico prestabilito. La società borghese ha comunque una sua intrinseca capacità di resistenza ed è vano illudersi che un elemento economico catastrofico possa metterla in crisi definitiva. Vale per Gramsci il principio che nessuna forma di società sparisce prima di aver esaurito tutte le possibilità di sviluppo. La borghesia ha perduto queste possibilità. KARL POPPER 1. Storicismo e sapere critico Popper estende il metodo scientifico di osservazione e di verifica anche al campo delle conoscenze politiche. Essenzialismi, apriorismi, sistematicità integrali portano inevitabilmente verso la società chiusa e il totalitarismo, mentre l’idea della fallibilità, cioè del riconoscimento che possiamo sbagliare è una condizione del progresso. L’atteggiamento scientifico implica la critica ad ogni cosa, e si rivela perciò incompatibile con l’idea che il mutamento possa essere previsto, perché è governato da una legge che non cambia. La lotta al totalitarismo, all’essenzialismo, allo scientismo converge in Popper con la sua intransigente opposizione allo storicismo, visto come una filosofia secondo la quale storia è guidata da leggi immanenti al suo sviluppo, leggi che portano in un’unica direzione e definiscono un traguardo per raggiungere il quale tutto può essere sacrificato. L’atteggiamento storicistico sembra a Popper collegato con l’utopismo e con tutte le dottrine che, rifiutando una visione pluralistica della società, mettono la scienza e l’azione politica al servizio di un disegno globalmente raffigurato. 2. Individualismo e collettivismo Alla nozione di società chiusa, Popper oppone quella di società aperta, secondo una dicotomia già proposta da Bergson, ma che in Popper assume un significato molto diverso da quello che le attribuiva il filosofo francese. L’intuizione esercita un ruolo importante nei processi di trasformazione di una società già costituita, ma essa porta al fallimento quando si connette a visioni accomunanti che distruggono la logica della pluralità, delle delimitazioni e delle garanzie reciproche e quando instaura una specie di irrazionalismo oracolare che ignora o deplora l’esercizio critico della razionalità. Tutti i collettivismi, nella loro pretesa di personificare il più positivo futurismo morale, lavorano intorno a questo pregiudizio radicalmente arbitrario: che se si vuole vincere l’individualismo e incrementare tutte le forme possibili di altruismo, bisogna accettare il collettivismo. La vocazione principale della modernità occidentale è il continuo approfondimento del valore dell’individualità e delle possibilità di sviluppare se stessi in coerenza con la propria libertà, rendendosi nondimeno capaci, dio altruismo e di generosità. Il totalitarismo rappresenta l’etica propria della società chiusa, un’etica che è solo egoismo collettivo, inevitabilmente destinato a radicalizzare la logica amico-nemico e a provocare con ciò le più gravi alterazioni della vita spirituale e sociale. La tentazione totalitaria è comprensibile perché rappresenta lo sforzo di reincarnare storicamente quel senso di appartenenza e di tutela che gli uomini avevano all’interno della società chiusa. La vera rivoluzione che ha dato il via a una civiltà umanistica è il passaggio dalla società chiusa alla società aperta. Tale rivoluzione può essere molto promettente se gli uomini non esasperano artificialmente la reazione a quei sintomi di relativo disagio e alienazione che sempre si presentano quando l’uomo, strappato da certe appartenenze tradizionali, deve cimentarsi in un campo più aperto di esperienza. 3. La società chiusa di Hegel Dopo Platone, il più ostinato difensore degli ideali di una società chiusa è Hegel, colpevole, di voler ripristinare nel pensiero politico i miti della totalità attraverso un metodo storicistico che pretende di accedere ai profondi segreti del mondo attraverso intuizioni e misticismi. Hegel è un filosofo che i è messo al servizio dell’autorità prussiana e ha adattato le sue dottrine alle esigenze del governo. 4. Stato di diritto, società aperta e riforme Se lo stato di diritto – espressione istituzionale di una società aperta – combatte il totalitarismo, non rinuncia però ad intervenire sulla società per operare delle riforme a favore dei ceti più deboli. Lo stato può intervenire sulla società in due modi diversi ed opposti: o attraverso strutture legali e un sistema di istituzioni protettive impersonali, o conferendo agli organi dello stato il potere di agire per il perseguimento di finalità che i governanti del momento reputano giuste. La prima procedura si può chiamare quella dell’intervento istituzionale o indiretto, la seconda è invece quella dell’intervento personale. La funzione della democrazia è quella di criticare ogni forma tirannica di governo, ed è tirannia anche la pretesa che il governo sia legittimato ad attuare in modo diretto e coercitivo la sua propria visione dell’ordine sociale. Il problema della democrazia è di limitare il potere, ovunque situato, nella maggioranza o nell’opposizione. Le minoranze vanno protette, ma non quelle che aspriano al rovesciamento violento della legalità. 5. Razionalità e democrazia La ragione deve essere sempre usata in un senso che include tanto l’empirismo quanto intellettualismo e non può perciò intendersi come un dato puramente mentale, come una proiezione dell’assolutismo dei nostri assiomi personali e neppure come autoanalisi esistenziale messa al posto dell’agire pratico. Popper riconosce che la razionalità è un prodotto sociale, ma specifica che teoria sociale della ragione vuol dire che essa è frutto di scambi e di mediazioni tra idee e attività che non devono perdere la specificità dei loro riferimenti personali. Le istituzioni non rappresentano in sé la ragione, ma in quanto danno pubbliche garanzie al pensiero sono componenti della stessa razionalità, la quale cresce attraverso la critica reciproca. La democrazia per Popper non è chiamata a fare il bene dei cittadini nel senso che debba considerarsi depositaria e dispensatrice di un bene pubblico contenutisticamente determinato, ma è piuttosto un insieme di limiti e garanzie entro il quale i cittadini possono agire. La democrazia non deve perciò accettare una concezione etica dello stato, e può anzi difendere il valore positivo di uno stato la cui eticità consista nel non professare e imporre una sua propria morale.