immanuel kant - Digilander

annuncio pubblicitario
IMMANUEL KANT:
1. Metafisica, empirismo, criticismo
Kant orienta il sapere contro la conoscenza metafisica tradizionale, rifiuta il mondo dell’apriorismo
inverificabile e tende a trasformare la metafisica del conoscere nella scienza del conoscere; ma non
per questo si affida al puro empirismo. Non è disposto ad accettare l’idea che la superficiale
vistosità materiale dei fenomeni esaurisca l’oggetto del sapere. Chiuso nelle sue contingenze,
l’empirismo non può dire nulla né nel campo della conoscenza, né in quello della costruzione dei
valori morali, civili e politici. Da questa duplice critica (alla metafisica e all’empirismo), giunge al
concetto di sintesi a priori. La parola sintesi denota connessione di dati da stabilire su materiali
pratici, su realtà visibili, ma la sintesi non è tutta ricavabile da ciò che i fenomeni contengono i se
stessi, e quindi presenta anche un suo carattere aprioristico.
Il criticismo che pervade il pensiero di Kant, dato da un io criticamente dotato, consapevole di
questa sua connaturata facoltà di riflessione e di giudizio, si estende anche al campo della morale e
della politica. Kant non fonda i suoi imperativi etici su un’astratta e dogmatica precettistica, ma
neppure li disperde nel fluire delle contingenze. I principi empirici non sono mai idonei a fondare le
leggi morali.
2. La teoria della libertà
Kant prende decisamente posizione a favore dello spirito critico e della libertà di giudizio del
soggetto in tutti i campi rilevanti della esperienza umana. Ognuno può ricercare la sua felicità per la
via che a lui sembra buona, purchè non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso
scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con le libertà di ogni altro secondo una possibile
legge universale. I valori e i precetti per l’azione mutano nel tempo, e quindi nessun aspetto della
storia può essere elevato a norma universale e tutto deve essere discusso attraverso la libertà critica,
sempre abilitata a superare ogni limite che le si voglia assegnare. Usare pubblicamente la ragione on
significa però sancire una specie di anarchia del pensiero; Kant distingue tra l’uso pubblico e l’uso
privato della ragione e mentre il primo implica libertà della cultura, dell’insegnamento, della
conoscenza, diverso è per quanto concerne l’uso privato della ragione, quello che ognuno può farne
in un certo impiego o funzione pubblica e lui affidata. Qui si giustificano maggiori restrizioni e
vincoli.Ciascun uomo non è soltanto un libero pensatore che esprime una sua verità personale sugli
affari pubblici, ma è anche un cittadino che deve svolgere certi compiti nella comunità sociale. Kant
cerca di conciliare una larga libertà del giudizio con il rispetto delle norme proprie delle diverse
funzioni esercitate dai cittadini.
3. La concezione della storia
Kant si chiede se il genere umano conosca un continuo regresso verso il peggio o un continuo
progresso verso il meglio o se si mantenga fermo nel grado attuale del suo valore morale. Non si
può fare con gli uomini una storia soggetta a un ordine sistematico, ma si deve tuttavia cercare un
filo conduttore in grado di smentire la concezione terroristica della storia. La filosofia politica di
Kant non postula una disalienazione generale dell’umanità, non considera la storia portatrice di doni
infiniti, non crede che la logica del limite possa essere sradicata dalla realtà. L’uomo da solo non
sarebbe in grado di trarre dalla sua composizione esistenziale cose che non sono state poste in essa.
Questo non implica tuttavia immobilismo o regresso, essendo sempre possibile un migliore impiego
delle energie morali dell’umanità. Non si ravvisa però negli uomini una incontestabile inclinazione
al potenziamento qualitativo della loro moralità, ma usando più convenientemente le risorse etiche
di cui dispongono essi possono rendersi se non qualitativamente migliori almeno più tolleranti e più
costumati e procurarsi condizioni più civili di vita.
4. Il valore della pace
Il segno più qualitativo del progresso umano è la tensione ideale e pratica che pone il valore della
pace come criterio costitutivo ed esplicativo del destino storico e politico dell’umanità. Kant cerca
di dimostrare che la logica della guerra non può essere perpetua, che la guerra distrugge più di
quanto crei, che essa è sempre perdente anche per i vincitori, e che la conflittualità bellica non è
l’unica forma possibile di conflittualità, poiché sussistono antagonismi non distruttivi ed anzi
produttivi. L’umanità deve sapersi aprire a una visione cosmopolita dei propri interessi, e le nazioni
devono sperare la sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza o dalle proprie
valutazioni giuridiche, ma da una grande federazione di popoli, da una forza collettiva e dalla
deliberazione secondo leggi della volontà comune. L’ordinamento cosmopolitico di sicurezza
pubblica a cui egli tende non deve essere immune da qualche pericolo, per impedire che le forze
dell’umanità si assopiscano, ma è comunque indispensabile che si costituisca tra le nazioni un
principio di equilibrio delle loro azioni e reazioni reciproche, per impedirne la distruzione.
5. L’insocievole socievolezza
La socialità è per Kant una struttura permanente dell’uomo e per lui la socialità si forma
nell’ordinarsi spontaneo delle esistenze e delle attività interpersonali. La socialità è combinata in
modo tale da conoscere contestualmente attrazione e diffidenza, slancio e ritegno, avvicinamento e
distacco. Kant ha coniato l’espressione molto significativa di “insocievole socievolezza” per
designare la tendenza degli uomini a unirsi, congiunta però alla opposta tendenza alla delimitazione,
alla separatezza, all’avversione. La socialità è una esperienza aperta, ed ammette perciò possibilità
inesauribili di tensione, di diffidenza, di contrasto. Componente strutturale della socialità,
l’antagonismo è tuttavia una delle fondamentali condizioni esplicative del progresso della vita
sociale e del sapere. Senza antagonismo gli uomini rimarrebbero nella loro originaria primitività
(basta sottoporre l’antagonismo ad una disciplina che ne impedisca la degenerazione scissionistica e
distruttiva). La società postulata da Kant è quella in cui si attui da un lato, la massima libertà
congiunta con un generale antagonismo dei suoi membri e, dall’altro lato, la più rigorosa
determinazione e sicurezza dei limiti di tale libertà, affinché essa possa coesistere con la libertà
degli altri. Rispettare il valore di ogni individuo è un supremo dovere dell’agire etico. Per Kant
l’insocievole socievolezza non è solo il prezzo della limitazione e della difettività umana, ma
rappresenta anche un principio di garanzia. La socializzazione incompiuta suscita inevitabilmente
contrasti e antagonismi, che però, se disciplinati da un efficace sistema normativo, possono
convertisti da strumenti di lesione in fattori riproduttivi della vita sociale.
6. Lo stato di diritto
Kant distingue tra governo paterno e governo patriottico. Il primo pretende di distribuire senza
controlli risorse e vantaggi della vita sociale secondo sue esclusivistiche misure di giustizio o
semplicemente secondo gli impulsi della sua volontà arbitraria; nel secondo, invece gli individui si
sentono membri di una stessa comunità e trasformano progressivamente il loro status politico da
quello di sudditi a quello di cittadini. La sottomissione alla legge comune è condizione essenziale
dello stato di diritto il cui principio ispiratore è l’uguaglianza intesa come pari trattamento degli
individui da parte di regole giuridiche che si rivolgono alla generalità dei cittadini, senza
differenziare la loro coattività a seconda delle diverse classi di appartenenza dei soggetti. Lo stato di
diritto non modifica autoritativamente le condizioni pratiche dei consociati, e si limita solo a
garantire che ciascuno possa pervenire a quella posizione alla quale possono elevarlo il suo talento,
la sua operosità e la sua fortuna. Per qualificare pienamente la figura del cittadino è necessaria
l’indipendenza; c’è indipendenza dove non compare l’elemento servile, e perciò il problema di una
politica ispirata alle idee di libertà è di favorire il mondo dell’esistente (cioè della indipendenza nel
lavoro e nella creatività) rispetto al mondo dell’inerente (quello cioè in cui un soggetto è incluso in
una realtà non sua e dalla quale totalmente dipende). Lo stato di diritto di Kant guarda a un modello
repubblicano che egli distingue però dalla forma democratica, esposta ad implicazioni dispotiche
perché in questo regie tutti deliberano sopra uno ed eventualmente anche contro uno. Egli è fautore
di un costituzionalismo fondato sul sistema della rappresentanza e gli sembra informe un governo
che non sia rappresentativo.
7. Universalismo e formalismo
Il primo imperativo categorico di Kant recita: agisci come se la massima della tua azione dovesse
essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura. Siamo perciò tenuti a comportarci
come se fossimo legislatori per tutti. Vi è quindi una vocazione universalistica dell’etica, ma anche
della politica e della normatività. L’imperativo categorico non prescrive il contenuto perfetto
dell’azione, né esige che la volontà buona si consideri detentrice di una verità completa e si senta
perciò autorizzata a imporla agli altri. L’universalità di Kant non è distruzione del particolare,
eliminazione della pluralità ma è tensione ideale che cerca in ogni determinazione pratica del
pensare e dell’agire la valorizzazione di quella volontà buona che porta l’individuo ad essere
qualche cosa di più del meno che è sempre.
Il formalismo kantiano: non una vuotaggine che accoglie eterogeneità irrelate, ma un principio che
esercita sulla varietà della esperienza umana una peculiare funzione critica e formativa. Il
formalismo di Kant è un formativismo, perché mette in tutte le cose che comprende e commisura il
segno di una intenzionalità buona, orientata verso la positività dei valori della vita. Si comprende
come questa universalità critica e formale abbia una intrinseca esigenza di garantismo e cioè di
strumenti istituzionali e normativi idonei a consentire la coesistenza delle volontà libere.
G.W.FRIEDERICH HEGEL
1. Empirismo e universalità
Per Hegel dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo e non uno
scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento. Ciò che urta la mentalità di Hegel è lo
sparpagliamento di esperienze irrelate, chiuse nelle loro separatezze e reciproche indifferenze,
incapaci di scorgere l’anima direttrice e unificante del reale. Ma anche i tentativi dell’empirismo di
raccordare tutti questi dati con legami esteriori, con transazioni utilitaristiche o con il semplice
ricorso alle abitudini e alle convenzioni gli sembrano vani e inaccettabili.
Per Hegel la conoscenza del tutto progredisce attraverso la conoscenza delle parti, ma a patto che
queste si adeguino alla universalità del fine. Accertando le finitezze, la filosofia non deve fermarsi
ad esse, né presumere che ciascuna di loro, nella sua autonoma potenzialità qualitativa, sia tale da
poter aspirare all’universale per semplice svolgimento di una sua propria logica interna. L’analisi
delle parti è solo la prima fase di un processo di unificazione attraverso il quale le parzialità
smettono di essere dei distinti perché acquisiscono consapevolezza che il loro valore deriva da una
verità sovrastante. La sua ambizione è quella di assoggettare ogni realtà individuale a modelli
uniformi e unificanti.
2. Le false totalità
Dal giusnaturalismo classico Hegel riprende il principio di una ratio universale che supera le
rationes particolari, ma egli si sforza di dare a questa ratio un fondamento e un significato più
storicistico, anche se mai disgiunto da un certo orientamento teologale.
Il romanticismo, sempre alla ricerca di qualcosa che sfugge, si perde nel compiacimento di grandi
grovigli fenomenici ai quali non riesce a dare né disciplina culturale né ordine pratico.
L’universalismo etico e giuridico di Kant è invece atto più a regolare la coesistenza esteriorizzata
degli arbitri individuali che a spiegare la destinazione complessiva della vita umana e sociale.
Hegel ribalta il rapporto posto da Kant tra intelletto e ragione. Per Hegel la funzione dell’intelletto
si esaurisce nel coordinamento di dati esteriori e nell’organizzazione e distribuzione empirica delle
cose. Bisogna perciò andare oltre la dimensione puramente intellettualistica e riconoscere nella
ragione la vera sede della conoscenza. Solo la ragione è capace di pervenire a quelle sintesi e
ricomposizioni che rivelano, sotto le apparenti diversificazioni, l’unità intrinseca del mondo
concettuale, etico e storico.
3. Teologia e mondanità
Il problema di Hegel è che la totalità convogli tutte le energie della vita, penetri dappertutto, non
lasci in disparte alcun settore rilevante della vita coesistenziale. Il mondo sociale, politico,
economico, storico deve far parte di questo processo di globale inveramento qualitativo, in modo
che non si privilegino nelle unificazioni dialettiche sotto le dimensioni spirituali, lasciando le altre
in uno stato di irrelata molteplicità.
Per Hegel Dio è in collera continua con il creato, e tale collera è all’origine del dramma del mondo
e dei tentativi da parte degli uomini di placare queste dilacerazioni. Dio ha messo nelle vicende
mondane un principio di provvidenziale conciliazione, ma anche un suo impeto d’ira perché il
mondo, pur riconoscendo la supremazia di Dio, mostra una continua impazienza nei suoi confronti.
4. La dialettica
Tutta la filosofia di Hegel è animata da una logica di realizzazione e di riconciliazione che si
chiama “dialettica”. Vi è una dialettica come movimento della mente umana, e c’è una dialettica
come movimento della realtà. Queste due dialettiche non vanno in parallelo; esse si incontrano, si
combinano. Un terzo tipo di dialettica è quello che sussiste tra la dialettica della mente e quella
della realtà.
Il movimento dialettico si articola attraverso varie fasi. Il primo momento dialettico è la distinzione
che fa percepire i dati di ogni insieme pratico non più come interscambiabili ma come muniti di un
elemento individualizzante, di una coscienza di sé che fortifica ogni distinto nella propria
specificità. Da questa fase di distinzione e di separatezza si passa a un altro momento dialettico, più
aspro e competitivo, che è rappresentato dalla opposizione. La logica della opposizione,
rafforzandosi, si trasforma a sua volta in un altro momento dialettico che è quello della
contraddizione, cioè della tensione spinta verso i suoi punti critici. La contraddizione si interiorizza
facendo sentire il conflitto anche come propria dilacerazione esistenziale. Si pongono allora le
condizioni per la risoluzione della conflittualità, attraverso l’affermazione di una identità superiore
e di una conciliazione sintetica.
La tesi è l’io, l’antitesi è l’altro, la sintesi è ciò che si può prendere dall’uno e dall’altro. La sintesi
non è tuttavia immobile e stabilita una volta per tutte: può degradarsi, non riuscire più a
rappresentare l’unità del reale, e subire la reazione di nuove realtà diverse e antagoniste.
5. La ragione storica
Ciò che sussiste nella natura e nella società deve assoggettarsi al giudizio della storia entificata,
espressione di una razionalità universale, incarnazione di uno spirito assoluto che sa quello che
vuole. La ragione è la verità della storia, e la storia è l’inveramento della ragione. In questa ragione
storica opera una forza propulsiva che riesce a trascinare gli uomini nella realizzazione di compiti
universali. Hegel parla di una astuzia della ragione, cioè di uno stratagemma attraverso cui gli
uomini, pur presumendo di agire secondo i propri interessi, in realtà servono una logica immanente
all’interno sviluppo storico.
6. Gli individui storico-cosmici
Se la ragione storica di Hegel pervade il mondo, non si palesa però a tutti e non aspira a rendere
tutti partecipi dei suoi valori. Solo degli esseri privilegiati possono intuire questa razionalità
universale e cooperare al suo disvelamento e alla sua attuazione. Hegel parla così di grandi
individui cosmico-storici, cioè di uomini che, scelti provvidenzialmente da questa ragione storica,
colgono prima degli altri la verità, sanno dove va il mondo e lo spingono in quella direzione,
diventando gli interpreti più qualificati del complessivo movimento storico. Il rispetto dela pubblica
opinione non deve avere un ruolo rilevante nelle decisioni di questi esseri superiori.
7. La società civile
Le idee hegeliane di dialettica, di religione, di storia trovano la loro esplicazione nei rapporti tra
individuo, famiglia, società civile, nazione e stato. La famiglia è espressione di una sostanzialità
dello spirito più qualificata di quella individuale. Dalla famiglia si passa alla società civile, che
denota una maggiore ricchezza di contenuti. Hegel non sublima questa società civile, non la afferma
come entità in decomponibile, vuole anzi analizzarla nelle sue articolazioni multiple, nelle sue
sinuosità, nelle sue relazioni con il mondo degli interesse e delle attività particolari. I suoi elementi
costitutivi sono: il sistema dei bisogni, l’aministrazione dela giustizia, la polizia e la corporazione. Il
sentimento dell’universale è debole nel sistema dei bisogni per i caratteri propri dell’economia
moderna, la quale produce miseria ed emarginazione. Questa condizione di scissione determinata
dal perseguimento di una molteplicità anche irrelata di interessi e di bisogni è tuttavia già superata
con le altre determinazioni della società civile. In primo luogo con l’amministrazione della
giustizia, poi con la polizia ed infine con la corporazione.
Hegel è contro l’accumulazione delle ricchezze in poche mani e mette in risalto il fatto che la classe
lavoratrice, nel proprio compimento, diventerà il contrario di ciò che essa è immediatamente.
Dovendo adempiere prevalentemente a compiti di amministrazione, le istituzioni della società
civile, hanno una relativa autonomia rispetto alle istituzioni politiche e statali. Per quanto Hegel
idealizzi lo stato, egli scorpora dalla sua organizzazione certe funzioni che possono essere svolte
nell’ambito della società civile. Ciò che non riguarda i fini etici della politica va demandato alla
ordinaria amministrazione sociale.
8. Lo stato etico
Hegel però non fa della società civile il principale campo di esplicazione della storia, e la vede
piuttosto come una condizione preparatoria alla suprema eticità dello stato. Egli non ammette che il
potere del governo debba essere impiegato soprattutto per assecondare lo spontaneo equilibrio delle
azioni sociali, attraverso funzioni di garanzia e di arbitrato coscienti di non dover interferire oltre
misura nella libera dinamica degli interessi e dei bisogni dei cittadini. Per Hedel la società non
regge da sola il peso della vita storica; abbandonata a se stessa, si degraderebbe negli abusi
individualistici e utilitaristici. La nazione è in grado di superare gli interessi contingenti degli
individui e dei gruppi, e di suscitare la consapevolezza di un destino comune. Lo stato hegeliano
vuole andare in profondità vuole immettere nelle viscere del corpo sociale scopi e significati
universali, considerandosi depositario dei valori e degli strumenti che trasformano una semplice
consociazione in una comunità etica. Lo stato è il mondo che si è fatto spirito.
9. La potenza e la competizione internazionale
Poiché l’universalità è una e gli stati sono molti, bisogna risolvere questa contraddizione, e la
soluzione più conforme al volere della storia è che lo stato più forte e più convinto di avere il
possesso della verità agisca da protagonista assoluto. L’universalità deve essere non diluita, ma
accentrata, e perciò se uno stato si sente più capace di imprese di vasta portata, deve impegnarsi a
dimostrare di essere il primo nel mondo storico, accettando di usare i mezzi necessari al
dispiegamento della sua potenza. Se lo stato non riesce ad imporsi nel grande scacchiere del mondo
con degli strumenti pacifici deve farlo con mezzi più rudi. La militarizzazione dello stato e la guerra
possono così diventare fattori decisivi per il perseguimento di queste finalità universali.
JEREMY BENTHAM
1. Utilità e riforme
La natura ha messo l’uomo sotto due sollecitazioni opposte, il piacere e il dolore, e occorre perciò
che la legge, rinunciando a sublimare principi imperscrutabili, prenda maggiore confidenza con
questi dati tangibili dell’esperienza umana e intervenga affinché i flussi del piacere possano meglio
diffondersi nella generalità delle situazioni umane e sociali, e i flussi del dolore siano controllati e
progressivamente limitati.
L’utilità è il criterio più ragionevole ed efficace nell’analisi dei problemi sia morali che sociali, ed è
quello che consente di dirigere le azioni degli uomini verso la più grande somma possibile di
felicità. Come la morale, diventando utilitaristica, deve portare al soddisfacimento più ampio
possibile dei bisogni umani, così il governo e la legislazione, ispirandosi allo stesso principio,
devono correggere i modi falsi di ragionare in materia politica e sociale e mettersi al servizio degli
interessi reali degli individui. Il compito della politica e del diritto non è quello di imporre un bene
assoluto aprioristicamente determinato nei suoi intangibili contenuti, ma quello di comprendere che
nelle strutture permanenti della personalità c’è la naturale tendenza a non isolare il nostro interesse
da quello altrui e a consultare anche la felicità altrui.
2. Common law e legislazione
Bentham opra per il positivismo giuridico, e cioè per la codificazione delle leggi essenzialmente
stabilite attraversi atti del parlamento senza completamenti da parte dei giudici, ai quali tuttavia
riconosce la possibilità di appellarsi nelle loro interpretazioni a un principio di utilità. Pur negando
al diritto un fondamento giusnaturalistico, il positivismo giuridico di Bentham non si traduce in un
relativismo etico, in quanto il principio di utilità rappresenta sempre un criterio oggettivo e assoluto
per valutare queste stesse leggi.
3. La critica al contrattualismo
Bentham diffida dalle forme e dalle accezioni contrattualistiche del giusnaturalismo e ribadisce che
i vari contrattualismi fondano le loro teorie politiche su una finzione, e che non è ragionevole
mettere alla base della società un patto che gli uomini non hanno mai stipulato, che è solo un evento
immaginario e che crea perciò dispute interminabili fomentando lo sperpero di tante energie che
andrebbero invece utilizzate secondo criteri più positivi. L’azione politica è tenuta, nei limiti del
possibile, a cercare la felicità di tutti, e dove la natura delle cose non consente di raggiungere questo
traguardo, la regola da seguire è che il sacrificio di una porzione della felicità di pochi sia
condizione del più grande vantaggio del resto dei cittadini.
4. I sofismi politici
La vita collettiva è disseminata di molti sofismi, di diversa natura, che vano individuati e rimossi
perché ostacolano il lavoro politico e legislativo e insieme disturbano il retto intendimento degli
interessi individuali.
Ci sono i sofismi dilatori dei quesiti, cioè di coloro che rimandano le riforme a un futuro più o meno
indefinito, argomentando che i tempi non sono ancora maturi per procedere alla loro attuazione.
C’è il sofisma del principio di gradualità. Esso è certo un principio ragionevole e inerente allo
stesso metodo scientifico, se inteso come realistico calcolo delle convenienze pratiche e come
controllo degli effetti di certe innovazioni sulla globale fenomenicità sociale, ma diviene un sofisma
se proposto in modo dogmatico e applicato indiscriminatamente.
C’è il sofisma della diffidenza, cioè del sospetto che anche quando si propone una riforma
plausibile lo si faccia con la segreta intenzione di introdurne altre più pericolose. Si blocca così una
riforma necessaria paventando che essa sia strumento per ulteriori trasformazioni indesiderate.
La politica deve opporsi ai sofismi delle false consolazioni, secondo cui certi mali esistenti
diventano tollerabili se comparati ad altri. E’ opportuno che ogni male sociale sia considerato nella
sua propria determinazione e contrastato negli ambiti reali di vita in cui si manifesta.
Sono da evitare anche i sofismi della confusione, cioè le false e deformate rappresentazioni della
realtà di cui ci si serve per sollecitare l’attuazione di cose che non si farebbero, o per rinunciare ad
altre cose che andrebbero invece fatte, se si avesse una conoscenza corretta delle situazioni.
E’ ugualmente pericoloso anche l’abuso dei sofismi degli anti-pensatori, di coloro cioè che
respingono ogni programma di riforme in quanto prodotto di una teoria astratta che alterna la realtà.
5. Governo e libertà economica
Le critiche di Bentham non indulgono a forme di democraticismo egualitario e non spingono il
principio di utilità verso una logica di giustizia distributiva. Ci si può chiedere quanto nel
radicalismo di Bentham favorisca l’interventismo statale e quanto invece rimanga legato all’idea del
laissez-faire e dell’ordine spontaneo. I suoi piani riformistici sembrano richiedere una complessiva
estensione delle funzioni governative. Bentham considera responsabilità dello stato la protezione
dei ceti indigenti ed emarginati e la prevenzione della disoccupazione.
La democrazia è vista da Bentham non come uno strumento di giustizia sociale, ma essenzialmente
come limite all’arbitrio dei governanti.
BENJAMIN CONSTANT
1. La perfettibilità storica
Dall’Illuminismo Constant riprende l’idea della perfettibilità, adattandola alle sue esigenze. Il suo
senso critico della storicità lo porta a riconoscere che ad ogni secolo basta il proprio lavoro e lo
libera dalla tentazione di affidare alla politica il compito di perseguire con esclusiva intenzionalità
ideologica tutte le immaginarie perfezioni.
Lo sviluppo storico non dipende solo dalla riflessione consapevole e dalla volontà deliberata degli
uomini, ma anche da mediazioni collettive involontarie che, di volta in volta, formano e rinnovano
accordi ed equilibri nel mondo delle opinioni, dei comportamenti e delle istituzioni. Questo
sviluppo è comunque sempre animato da una continua tensione tra lo spirito conservatore e lo
spirito progressista (la sua preferenza è orientata verso il progresso).
Una storicità aperta, sensibile, adattabile alle molteplici articolazioni e sinuosità dell’esperienza ma
che ha sempre il suo essenziale criterio costitutivo ed esplicativo nell’idea di perfettibilità, la cui
azione è tanto più accelerata ed efficace quanto più i pregiudizi e gli abusi perdono la loro originaria
compattezza e sistematicità.
La storia del genere umano può essere divisa in tre parti: la parte constatata è quella su cui, per
consolidata acquisizione critica ed esperienza pratica, riusciamo a discernere meglio il positivo dal
negativo e su cui possiamo esprimere dei giudizi più veritieri. La parte incerta è caratterizzata da
una maggiore problematicità e esposta a rischi più o meno gravi di disorientamento e di
inconcludenza. La parte sconosciuta, sfugge alla nostra presa conoscitiva, morale e politica.
2. Ragione e politica
La ragione riveste un importante ruolo nel pensiero di Constant, ma per lui la ragione non è tutto e
non può interamente ispirare e disciplinare la vita esistenziale e collettiva. I limiti della ragione non
devono legittimare propensioni irrazionali e portare alla esaltazione dei miti dello stato assoluto, del
nazionalismo, dello spirito di conquista. La ragione può sbagliare, ma solo la ragione è capace di
rettificare il ragionamento sbagliato. Constant vede la ragione come il farsi razionale delle azioni
umane. Prive di innatismo, le idee razionali si formano attraverso l’attività sensitiva. Le sensazioni
– diventate – idee penetrano nella parte pensante del nostro essere, prima elaborandosi nella intimità
della coscienza e poi associandosi con le idee altrui, fino a formare una specie di forza collettiva che
esercita un ascendente simbolico e pratico superiore ai condizionamenti della pura attualità e a
quelli dell’autorità. Più vi è confronto tra idee e fatti, più vi è ragionamento.
Nella politica moderna una ragione pubblica compatibile con la sovranità popolare e con i principi
democratici va vista soprattutto come ragione comune pattuita, cioè come un prodotto medio al
quale non può essere riconosciuto il privilegio di esprimere una verità totale.
Constant fa una distinzione tra principi primi e principi sussidiari. Quando si getta ad un tratto un
primo principio in una società che ancora non può accoglierlo, e quando lo si separa da tutti i
principi intermediari che lo adatterebbero alla nostra situazione, si produce nella società scompiglio
e disordine. Stabilito un primo principio, bisogna determinare i principi sussidiari che lo rendano
applicabile e che lo correggano in quelle parti che risultano mal fondate.
Il principio della sovranità popolare un primo principio perché esprime il criterio più razionale più
giusto di legittimazione del potere e delle obbligazioni politiche, ma è un principio che, al di fuori
di comunità ristrette, non funziona senza un principio intermediario che lo renda agibile.
3. Sovranità e limiti al potere
Constant mira ad una critica al potere e alla lotta per la sua limitazione. Il potere è un mezzo e non
deve proporsi come un fine e come un bene che ha in sé la sua legittimazione. Lo scopo principale
dlela politica consiste nella garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Sovranità popolare:
nessun individuo e nessuna classe può esercitare un’autorità o una funzione pubblica invocando un
suo diritto originario. La sua azione deve manifestarsi non in modo diretto e assemblare, ma
attraverso la mediazione delle istituzioni che sono per Constant le divinità tutelari delle associazioni
umane.
Non ritiene che sia conveniente affidare indiscriminatamente l’azione riformistica al potere, perché
il potere non ha interesse a fare quelle riforme che potrebbero limitarlo e tutte le vere riforme
dovrebbero avere questa implicazione. L’intento teorico di Constant è di svincolare la ragione
pubblica dalla logica potestativa. Il potere non è mai interamente razionalizzabile e contiene sempre
rischi di arbitrio e perfino di degenerazione demoniaca. Non fidarsi troppo della influenza della
ragione sui troni, e prendere quindi le distanze da ogni forma di dispotismo illuminato; ma neppure
dare troppo credito alla influenza della ragione sulle masse, e reagire perciò ad ogni tentativo di
riconversione collettivistica della società. La ragione pubblica cerca di opporre al potere i valori e le
garanzie della libertà umana e dell’autonomia sociale. Le sedi della ragione pubblica devono essere
la nazione e la sovranità popolare.
4. La libertà degli antichi e dei moderni
La libertà degli antichi si accentrava e risolveva nella partecipazione al potere, nell’essere membri
di uno stesso corpo sovrano, nel mescolarsi il più intimamente possibile con la fonte comune della
sovranità, ma consentiva insieme che questo corpo sovrano disponesse integralmente della vita
privata dei cittadini. La libertà moderna ha una diversa esigenza: non vive di una solidarietà
predeterminata e di continuo drammatizzata dal potere, ma riceve il suo alimento dalla
consapevolezza attiva di individualità che non si esauriscono in status immobilistici e che non
credono più malgrado le tante suggestioni ricorrenti, al miracolismo della tutela esterna e al
vantaggio morale e pratico della armonie e delle coerenze sociali prestabilite.
La libertà che ha la sua origine nella interiorità della coscienza, si espande nel mondo dei rapporti
interpersonali e sociali e si presenta perciò, oltre che come un fatto esistenziale, come un criterio
costitutivo ed esplicativo della evoluzione del genere umano, come una forza collettiva immanente
all’insieme dei comportamenti privati e pubblici e non dipendente dalle sole virtù di un capo o dalle
tutele di una classe politica chiusa. Essa non deve essere fondata sul principio di utilità perché
l’utilità evoca l’idea di un tornaconto, mentre l’esercizio della libertà esige l’accettazione di
fondamentali obbligazioni etiche. E’ convinto che la libertà non può vincere la lotta contro il
dispotismo e contro le persistenti idealizzazioni del privilegio e della disuguaglianza se non sa darsi
una ispirazione religiosa. La religione non è una idea innata provvista di un contenuto ontologico
immutabile. Anche le idee religiose vengono dai sensi.
5. Il valore dell’uguaglianza
La libertà non è tuttavia il solo criterio esplicativo della perfettibilità umana, la quale, coltre che
sull’azione creativa della spontaneità, si fonda anche sui poteri correttivi della uguaglianza. Trattare
gli altri come uguali deve diventare l’obbligazione fondamentale della politica moderna. Nel
costituzionalismo di Constant il principio della legalità comprende quindi sia le garanzie del non
impedimento, sia la promozione dell’uguaglianza nella società.
6. Società e proprietà
La proprietà è per Constant una convenzione legale e come tale è sottomessa alla giurisdizione della
società che possiede su essa dei diritti che non ha nei confronti della libertà, della vita e delle
opinioni dei propri membri. La proprietà non deve impedire l’affermazione e la garanzia storia degli
altri diritti umani. Bisogna perciò assecondare la divisione, la suddivisione, la circolazione e la
dispersione della proprietà, per consentire a ciascuna forma di proprietà di prendere il rango che più
le compete nella generale produttività delle attività sociali, e per favorire l’accesso delle classi
lavoratrici a tale diritto.
ALEXIS DE TOCQUEVILLE
1. L’avvento della democrazia
Tocqueville può essere considerato il padre della liberaldemocrazia. Egli svolge una riflessione
approfondita sui rapporti tra libertà e democrazia. La democrazia fa della libertà un valore e
un’esperienza comune, riferibile alla generalità dei consociati, ma appunto per questo la libertà deve
impegnarsi in sfide che non hanno riscontro nelle società del passato e che non sono più contenibili
nelle capienze concettuali e istituzionali del primo liberalismo.
Tocqueville paventa che sviluppando tutte le sue implicazioni la democrazia provochi una crisi
profonda dei valori morali, delle strutture sociali e degli equilibri istituzionali. I rischi della
democrazia sono quelli della scissione e dell’anarchia, ma anche quelli della massificazione, del
conformismo e di una conversione dispotica della società.
2. Le due forme della libertà
La libertà può manifestarsi nel mondo in due modi diversi: o come privilegio o come diritto
comune. Intesa come privilegio la libertà viene assegnata a certi individui e gruppi in relazione alle
loro appartenenze, funzioni e posizioni. Il limite spirituale e sociale di questa logica aristocratica
della libertà è che in essa la nozione generale del simile è oscura; la sua forza è che essa produce in
coloro che ne sono i beneficiarsi un sentimento esaltato del loro valore individuale, un gusto
appassionato per l’indipendenza. Intesa come diritto comune è la sola nozione giusta di libertà, ma
ciò non significa che essa riesca a garantire meglio l’equilibrio della società. Con la democrazia
l’obbedienza perde la sua moralità, i sistemi di gerarchia si dissolvono, il principio dell’onore non è
più un fattore di strutturazione sociale.
3. La Monarchia e la Rivoluzione
La democrazia, però non è nata per incanto, non deriva dalla cogitazione di una mente illuminata,
non si presenta come un fatto radicalmente nuovo, privo di radici storiche. In Francia la democrazia
è stata preparata dall’azione della monarchia. E’ stato il potere regio a sradicare progressivamente il
valore dell’aristocrazia e delle autorità locali, mettendo al loro posto un apparato di funzionari alle
dirette dipendenze del governo centrale.
L’evento rivoluzionario si è compiuto nel momento in cui questo processo di accentramento era già
molto sviluppato, e se la rivoluzione ha avuto successo, ciò è dipeso dal fatto che i rivoluzionari non
erano servi, ma sudditi già parzialmente liberi e civilizzati, che le disuguaglianze più stridenti erano
state già denunciate e contrastate, che i poteri dell’aristocrazia erano stati già logorati e soppiantati.
4. Stato assistenziale e aristocrazia industriale
La democrazia promuove l’individualismo non però necessariamente il sentimento della dignità
personale e dei diritti umani perché le capacità di resistenza delle singole esistenze possono cedere
all’assorbimento nella massa, alla tirannia della maggioranza e alle tentazioni dello statalismo.
Lo stato assistenziale vorrebbe elargire alla generalità dei cittadini tutti i doni della vita sociale, ma
non si rende conto di quei punti critici superati i quali gli individui, anziché essere favoriti nella loro
maturazione, rischiano di essere mantenuti in uno stato di inferiorità.
Conciliare la tutela sociale dello stato con la libertà individuale è n’impresa difficile che la
democrazia non può affrontare esasperando i miti dell’uguaglianza e della sovranità popolare, ma
neppure applicando indiscriminatamente a tutto gli assiomi di una scienza industriale fondata
sull’esclusivismo del capitale.
Tocqueville paventa non solo i rischi di dispotismo dello stato-provvidenza, ma anche queli
connessi alle degenerazioni di un liberalismo padronale e di un certo meccanismo industriale. Una
nuova specie di aristocrazia e di autoritarismo può nascere all’interno di un mondo economico che
veda i capitalisti in una posizione di dominio nei confronti del proletariato privo di legami
comunitari ed esposto alla miseria e all’abbrutimento.
5. Libertà e istituzioni
La divisione dei poteri e le garanzie costituzionale hanno un ruolo essenziale nello stabilire le
regole del gioco di una società libera. Le istituzioni hanno il compito di impedire che gli impulsi
dissordanti che alla democrazia trasmettono l’azione delle masse e gli egoismi degli individui.
Reagire alle tentazioni dell’accentramento politico e amministrativo valorizzando il decentramento
e le autonomie, condizioni a loro volta di quell’associazionismo volontario e di quel
com’unitarismo spontaneo che favoriscono nella democrazia una convergenza dei principi di libertà
e solidarietà contro lo spirito di uniformità e contro le coalizioni tra potere politico e economico.
Una consapevole collaborazione tra libertà e religiosità può opporsi alle perverse combinazioni che
la demagogia e il fanatismo cercano di instaurare tra democrazia livellatrice e misticismo sociale. Il
compito che in una società democratica egli assegna al liberalismo di una specie nuova è quello di
educare i cittadini a rinunciare a ogni ideologia totalizzante così come a ogni tentazione
singolaristica e fare della libertà non un mito egualitario, ma uno strumento ideale e pratico come
vecchie e nuove forme di servitù.
CLAUDE-HENRI DE SAINT-SIMON
1. I socialisti francesi
E’ possibile definire il socialismo di Saint-Simon come il socialismo della produzione, quello di
Fourier come il socialismo del consumo e quello di Proudhon come il socialismo dello scambio.
2. Spirito critico e organizzazione sociale
L’obiettivo fondamentale della filosofia del XIX secolo è quello di organizzare la produzione, gli
interessi, i bisogni secondo le leggi fondamentali dell’economia e del lavoro. Queste leggi devono
soppiantare le vecchie categorie della politica. Saint Simon insiste sull’esigenza di fare della teoria
sociale una scienza positiva. La rivoluzione, che pure ha rappresentato uno strumento essenziale di
emanciapazione dal pregiudizio e dal privilegio, non può prorogarsi indefinitivamente; deve
completarsi e concludersi riconoscendo la superiorità dei metodi e dei valori si un pensiero
ricostruttivo che vede nella organizzazione industriale il futuro di una società prospera e giusta. La
società industriale va affidata alla competenza degli scienziati e degli intellettuali, i più adatti a
stabilire le leggi e le tecniche organizzative favorevoli all’emancipazione umana.
3. La filosofia positiva
Per la rivoluzione pacifica che deve portare verso nuove forme associative e nuove espansioni
produttive, gli sforzi combinati degli scienziati e degli intellettuali sul piano teorico e degli
industriali sul piano hanno le migliori possibilità di successo. La nuova scienza sociale deve
muovere da una riforma della storia nel senso che i materiali storici devono essere scelti con diverso
discernimento critico, senza privilegiare questo e quel dato abusivamente universalizzato, se nza
soprattutto ridurre la storiografia a una biografia del potere.
E’ solo con l’osservazione filosofica del passato che si può acquisire una conoscenza esatta dei veri
elementi del presente. Ciò che ci ha preceduto ha svolto una sua propria funzione storica perché ha
consentito ad ogni epoca di trovare il suo relativo equilibrio.
Saint Simon apre una lotta contro le classi sociali che personificano lo spirito teologico e metafisico
opponendolo allo spirito creativo . In primo luogo, lotta contro il clero e contro le sue ostinazioni
retrograde. Segue la critica ai ceti nobiliari. Uguale avversione manifesta contro la classe militare,
perché lo spirito militare è dannoso alla società moderna e il sistema di organizzazione che esso
produce è l’opposto del sistema industriale. Un’altra classe contro cui polemizza è quella dei legisti,
cioè di coloro che portano il diritto verso l’astrazione, occupandosi di cose che poco hanno a che
fare con le strutture produttive della vita sociale.
Il problema della modernità è di ridurre le cause di conflitto e di promuovere valori di cooperazione
per stabilire su basi più ragione e amichevoli le relazioni tra i popoli.
4. La classe industriale
Saint Simon contrappone l’esaltazione delle forze positive della nazione che egli vede personificate
dalla classe degli industriali, comprendente tutti coloro che con l’intelligenza, i capitali e l’operosità
pratica danno un contributo allo sviluppo produttivo. Gli industriali sono gli intellettuali, gli
scienziati, gli artisti positivi, gli imprenditori, ma anche gli artigiani, gli operai, i commercianti, i
tecnici.
5. Potere politico e ordinamento economico
Il governo per Saint Simon, è il male necessario e il fine da perseguire è di ridurre la sua forza
all’azione necessaria per il mantenimento dell’ordine. Lo stato ha scarse competenze in materia
economica e deve perciò lasciare che l’attività imprenditoriale si svolga senza intralci.
L’organizzazione industriale non deriva per lui dal semplice automatismo degli equilibri spontanei,
e la difesa della produttività economica contro le espropriazioni del potere non si identifica con
l’accettazione dell’esclusivismo dei proprietari.
Il problema di Saint Simon è quello di trovare un modo legale affinché il grande potere politico
passi nelle mani dell’industria.
Saint Simon intende lavorare alla formazione di una società libera, ma questo impegno esige che gli
scienziati possano orientare l’educazione pubblica e che i produttori seguano i criteri di razionalità
definiti dalla scienza. La logica della tecnocrazia è molto vicina alla mentalità di Saint Simon e ad
essa egli affida il compito di elaborare una teoria scientifica della organizzazione sociale e di fare
della politica la pratica di questa scienza.
I borghesi hanno ceto reso dei servizi agli industriali, ma la classe borghese pesa, con la classe
nobile, sulla classe industriale. Il partito liberale deve meglio chiarire i suoi rapporti con le classi
medie ed accertare quanto in esse vi sia ancora di inaccettabile privilegio, e quanto invece di
disponibilità all’emancipazione dei ceti diseredati.
6. Spiritualismo e materialismo
La morale deve penetrare nella politica e orientarla verso il rispetto dei diritti dell’umanità. Tra il
grande mondo delle forze collettive e il piccolo mondo degli individui reali e sensibili non ci deve
essere scissione e incommensurabilità, ma reazione continua del grande sul piccolo e del piccolo sul
grande perché piccolo e grande mondo sono due fenomeni assolutamente simili, diversi solo per la
dimensione e la durata.
7. Il nuovo cristianesimo
Sain Simon sente il problema che l’organismo industriale non sia troppo condizionato dai suoi
elementi fisici, materiali e quantitativi, e possa avere anche tensioni ideali, vocazioni morali,
aspirazioni qualitative. L’industria è per lui un fatto eticamente significative e non solo
economicamente produttivo, e perciò i beni industriali devono essere in qualche modo
dematerializzati da una filosofia orientata in senso umanistico. E’ necessario quindi che l’industria
lasci uno spazio significativo al lavoro degli artisti e dei letterati, la cui immaginazione rende meno
aspra la difettività del reale. Oltre a quella artistica si deve dare all’industria anche una ispirazione
religiosa, trasformando però la precettistica dogmatica e la visione penitenziale del cattolicesimo
tradizionale in un nuovo cristianesimo più sensibile alla ricerca del benessere e meno disdegnoso
verso le forme naturali della sensitività umana. Il nuovo cristianesimo è chiamato a dare il suo
contributo essenziale alla valorizzazione etica del lavoro, educando a vedere nell’industria un
ambito di esperienze personali e collettive in cui le cooperazioni sociali siano anche intese
spirituali.
CHARLES FOURIER
1. Natura umana e passioni
Fourier si è prevalentemente occupato di problemi di liberazione dell’uomo dai condizionamenti
esterni e dalle servitù interne causate da una morale repressiva. Alienazione esistenziale e
alienazione sociale hanno per lui un’intima connessione e le incoerenze delle attività produttive
trovano una loro corrispondenza negli errori grossolani di un’etica incapace di considerare
realisticamente le vere propensioni e passioni umane.
Si chiede se i comportamenti morali e sociali non compromettano, con i loro conformismi, le loro
frodi, i loro diritti e doveri fittizi, il necessario equilibrio tra quei quattro movimenti – sociale,
animale, organico e materiale – dalla cui equilibrata composizione dovrebbe risultare un ordine più
soddisfacente di vita personale e collettiva.
La riabilitazione delle passioni è al centro del sistema di Fourier. Esse sono state considerate causa
di corruzione e di disgregazione, mentre possono invece armonizzarsi e tendere alla concordia e
all’unità sociale.
Ciò che va fatto è effettuare un calcolo analitico e sintetico delle attrazioni e delle repulsioni
passionate, inserendo le passioni in una logica di serialità, cioè in un insieme di mediazioni e
combinazioni in grado di mutare il loro corso senza toccarne affatto la natura. La serialità serve ad
abbassare l’orgoglio dei presunti valori imperscrutabili e a rivalutare invece, in tutte le sue
articolazioni differenziate, il mondo dei bisogni, compresi quelli passionali e sensitivi. La serialità
rappresenta quindi un criterio di coordinamento in cui l’elemento della reciprocità e della
equivalenza soppianta le connessioni di tipo gerarchico e le esclusioni pregiudiziali.
Alcune fondamentali istituzioni della società e della morale sono poste da Fourier a critiche radicale
perché responsabili della incoerenza della vita dei sentimenti e della vita produttiva. Critica anche la
famiglia e la proprietà.
2. Il sistema societario
Fourier non guarda al collettivismo e neppure al solidarismo prestabilito e all’egualitarismo, e anzi
il suo pensiero è permeato di ostinato individualismo. Nulla vale di più della libertà e della
autonomia personale.
Il sistema societario da lui proposto è lontano sia dalla fraternità che dall’uguaglianza. Rivalità,
opposizioni, scissioni, gelosie, intrighi fanno parte della dialettica seriale dei gruppi che però riesce
ad assorbire l’egoismo e le discordie individuali negli accordi di massa. Il recupero della naturalità
si atteggia in Fourier non come liberazione di una istintività tumultuosa e confusa, bensì come
redenzione di una spontaneità rigidamente orientata come recupero di una socialità rigorosamente
disciplinata non vaga e generica, bensì estricantesi precipuamente nel campo del lavoro. La libertà è
il principio del sistema di Fourier, ma la libertà non è un dato semplice e la sua natura composta e
reciproca deve mirare a costituire un ordine combinato e societario.
3. Il falansterio
Occorre prevedere frequenti passaggi da un settore a un altro di attività e abbandonare certe imprese
industriali troppo gravose e poco utili, favorendo invece il rilancio delle occupazioni agricole, più
naturali, più misura d’uomo, più aperte all’immaginazione creativa.
Il centro del mondo sociale ed economico è il falansterio visto da lui non come comunità chiusa ma
come consorzio sociale di vita cooperativa in cui il capitale, il lavoro e il talento mantengono le loro
diverse attribuzioni funzionali, con esclusione però della figura del salariato, sostituita da quella di
un lavoratore precettore di dividendi.
I falansteri si presentano come dei complessi alberghieri e aziendali con una estensione di circa
2500 ettari e una popolazione di circa 1550 abitanti, differenziati per età, fortuna, caratteri,
conoscenze teoriche e pratiche, in cui ciascuno esercita un’attività corrispondente alla sua
condizione ma anche alle sue propensioni, in una grande e raccordata varietà di comportamenti e di
iniziative, entro gruppi di lavoro stabiliti in modo tale che ciascuno trovi gradevole cooperare con
gli altri.
PIERRE-JOSEPH PROUDHON
1. Le idee e la realtà
Proudhon rifiuta l’idea di una società pianificata su basi tecnocratiche, in cui le scienze e le
tecniche, diventate egemoniche rispetto alle altre forme non tecniche di civilizzazione, stabiliscono
nuove gerarchie in funzione delle esigenze produttive di un organismo industriale. Il senso
scrupoloso e severo della moralità proudhoniana si oppone a ogni forma di edonismo e, in
particolare, alla denigrazione della famiglia, che Fourier vedeva come una fonte di corruzione della
vita sociale.
Il pensiero proudhoniano rivela una intrinseca complessità problematica. Bisogna cercare nella
composizione plurima dei fenomeni ciò che si agita anche al di sotto delle apparenti stabilità. La
realtà sociale è sempre in azione, sempre in creazione di se stessa e poiché d’altra parte, ciascuna
delle sue forme è incompleta, c’è sempre sofferenza e disordine.
I fenomeni sociali non si spiegano con concettualizzazioni astratte e neppure sono da misurare
attraverso le loro densità materiali, ma vanno visti nell’intrinseca connessione dei loro elementi
ideali e materiali. Materialismo e idealismo sono due paradigmi teorici che finiscono per diventare
interscambiabili. Il materialismo, assolutizzandosi, si trasforma in una specie di idealismo della
materia, e l’idealismo sopprimendo ogni base reale della vita, si materializza.
2. Ragione storica, ragione eterna e ragione naturale
Poiché la società è sempre in atto essa tende ad acquisire nel suo perenne movimento ciò di cui ha
bisogno. I materiali che servono alla sua progressiva formazione la società li prende sia da ciò che
la sovrasta (il mondo della trascendenza), sia da ciò che è ad essa sottostante (il mondo della
natura). Tra ragioen storica, ragione eterna e ragione naturale esiste una complessa dialettica che
conosce antagonismi e tensioni, così come mutue implicazioni e reciproche sorveglianze. Per
costruire la realtà sociale bisogna sfidare il mistero e riportare al lavoro mondano risorse e
potenzialità trasferite dall’uomo nelle dimensioni extramondane.
E’ necessario escogitare nuove combinazioni sociali che possano riportare in terra ciò che altre
combinazioni sociali hanno proiettato fuori dalla realtà mondana. Di qui la critica a
quell’assolutismo metafisico che abitua l’intelligenza a dedurre i propri criteri cognitivi da valori
aprioristici, e che regola i comportamenti con precetti sottratti alla competenza umana.
C’è nell’esistenza umana un’antinomia sempre aperta. L’individuo deve darsi alla società e lavorare
in essa senza parassitismo, ma con la consapevolezza che ci sono bisogni metafisici e domande sul
destino esistenziali a cui la società non può dare risposte esaustive. Il progresso può eliminare
questo o quel limite pratico, può risolvere questa o quella contraddizione economica e sociale, ma la
contraddizione intima del nostro essere non sarà mai sciolta.
Pensa che la natura debba essere piegata alla supremazia del lavoro umano e che spetti alla società
creare cose che non hanno equivalenti nella creazione originaria, ma non gli sembra lecito arrivare
agli estremi di Saint Simon che chiedeva una mobilitazione delle energie sociali per lottare contro la
natura e disfarla e rifarla ad arbitrio.
3. Il socialismo pluralistico
Per Proudhon la società non dipende da un unico principio, non segue un’unica direzione, non è
tirata da un unico filo, ma risulta dal contemperamento di varie logiche di esperienza, ciascuna delle
quali riflette le esigenze di gruppi specifici di valori e di bisogni.
L’uomo cerca la comunità, ma insieme la sfugge aspria alla solidarietà, ma per amare i suoi simili
ha bisogno di mettere come condizione una solitudine quasi costante. La comunità non gli sembra
dunque la massima espressione qualitativa della politica, e rischia anzi di riunire meno forze di
quelle che distrugge.
Proudhon insiste sui vantaggi di un’articolazione pluralistica della società, dell’economia e della
cultura. Egli dà ampia rilevanza alla funzione delle forze collettive nell’integrazione e nello
sviluppo della vita associata, ma tali forze non possono fornire la giustificazione per una
conversione collettivistica della società, e devono essere costrette al rispetto e alla garanzia delle
loro componenti individuali.
4. Giustizia distributiva e commutativa
Proudhon sottopone a revisione critica gli assiomi liberali dell’automatica armonia degli interessi e
del ruolo dominante del libero accordo delle volontà soggettive nella formazione degli equilibri
economici. Considerare ogni attività e ogni pretesa che emani dall’io come munita delle stesse
attribuzioni qualitative che si riconoscono alla dignità etica dell’individuo è per Proudhon un errore,
causa di intolleranza ed arbitrio.
L’idea di giustizia non può però assumere per lui un carattere imperative e autoritario e ispirare
piani di uguaglianza assolutistica. La giustizia non ha il compito di creare i fenomeni sociali, né di
imporre loro delle leggi estranee, ma solo quello di cercare nella complessità del reale una
progressiva estensione di garanzie reciproche e di mutue esigibilità. Se il pluralismo è un valore, le
differenziazioni non vanno negate in nome della giustizia distributiva e la libera concorrenza deve
rimanere condizione essenziale dell’autenticità e della produttività delle transazioni sociali.
Ad essa deve sostituirsi l’idea di una giustizia commutativa che ammetta la manifestazione libera e
originale delle diverse potenzialità creative, stabilendo però nell’insieme degli scambi sociali regole
fondamentali di mutua esigibilità. Bisogna rovesciare l’antica nozione di giustizia distributiva e
arrivare a quella di giustizia commutativa che, nella logica della storia come in quella del diritto, le
succede.
5. Il principio di serialità
Principio di serialità significa per lui che all’interno di ogni consolidamento sociale agisce una forza
ideale e reale che tende a contrastare le condizioni di gerarchia, di sperequazione e di
discriminazione tra i diversi elementi costitutivi e a valorizzare invece le loro possibili equivalenze
e reciprocità. Con i suoi principi di equità la dialettica seriale critica i disordini e gli sfruttamenti del
liberismo puro, ma per il suo carattere mutualistico e contrattualistico essa si oppone anche a ogni
forma di assolutismo comunitario e statalistico. Nella serialità ciascuna delle parti sociali mantiene
la propria individuazione, ma i suoi rapporti con il mondo esterno si stabiliscono sulla base di una
logica relazionistica.
Non solo la lotta violenta attiva i principi di serialità. Anche altri fattori agiscono in queste
progressive aperture. Il progresso delle conoscenze, della cultura, dell’educazione, della moralità
suscita la consapevolezza che le serie chiuse diventano improduttive e non garantiscono dei
sostanziali vantaggi neppure ai ceti dominanti. La serialità non può essere indiscriminatamente
applicata alla realtà e ogni reinterpretazione dei fenomeni sociali in termini contrattualistici deve
realisticamente valutare quei punti critici oltre i quali si compromettono valori etici e combinazioni
sociali della più alta importanza.
6. Il problema della proprietà
La ricerca di un diverso equilibrio tra il capitale, il lavoro e l’intelligenza e di una nuova
qualificazione della proprietà è l’obiettivo essenziale del principio di serialità. Proudhon auspica la
costituzione di una alleanza difensiva e offensiva tra la borghesia e il proletariato per il trionfo
definitivo della rivoluzione. La borghesia simbolizza la libertà, il proletariato l’uguaglianza e la
giustizia rappresenta la fusione di questi due ideali.
Se la proprietà si pone come un primo principio, come un dogma extrasociale che pretende di avere
in se stesso la sua spiegazione e giustificazione, se la proprietà si considera una semplice proiezione
dell’assolutismo soggettivo, essa è un furto. La proprietà è sopruso quando è l’unico principio attivo
della vita sociale, quando tutte le garanzie sono accentrate a suo favore, quando le istituzioni
impediscono la sua circolazione, diffusione e distribuzione, ma essa non è più avidità e usurpazione
quando si libera dalle sue legittimazioni assiomatiche, quando non agisce da sola nella vita sociale e
può essere circondata da un insieme di principi contrari come quelli della cooperazione, della
mutualità, dell’autogestione, della democratizzazione del credito.
Affinché la rivoluzione vada a buon fine non basta armare il lavoro contro la proprietà; bisogna
armare anche la proprietà contro il comunismo se non si vuole che la libertà perisca insieme alla
proprietà. Perché la proprietà, nel suo principio o contenuto, che è la personalità umana, non deve
mai scomparire.
AUGUSTE COMTE
1. L’età del positivismo
Le preoccupazioni intellettuali di Comte non sono lontane da quelle di Saint Simon. Anche per
Comte l’evoluzione dell’umanità passa dalla fase teologica a quella metafisica per arrivare infine
all’età positiva, nella quale le nozioni di realtà, utilità, certezza, precisione, organicità consentono a
una scienza complessiva della società di ridurre i diversi ordini di fenomeni ad una legge comune.
Non si deve però integrare la società in un modo qualunque, ma nel modo più confacente agli
sviluppi delle scienze le quali, a loro volta devono orientare verso l’ordine ogni perfezionamento
spirituale e materiale dell’umanità. Il progresso va visto come sviluppo dell’ordine. Cote chiede alla
sociologia di inglobare e coordinare tutti i saperi e di dare alla società e alla morale una direzione
generale corrispondente a leggi determinate.
2. Amore, ordine, progresso
Il positivismo non è la fenomenicità colta nei suoi estremi pratici, non è il sostrato materiale dei
fatti, ma è soprattutto ciò che positivamente – cioè senza dispersioni e inutili complicazioni – può
portare le attività umane a una migliore interpenetrazione, ad una maggiore linearità di evoluzione,
ad una riqualificazione eticamente più significativa dei fini e delle opere sociali.
Per creare nuove sintesi bisogna certo criticare e superare quelle vecchie, ma cercando sempre di
comprendere che in effetti non si distrugge che ciò che si rimpiazza. La scienza non può appagarsi
di distinzioni, di separatezze, di parzialità, né deve sovrapporre ad esse unità fittizie e puramente
formali, che lasciano le cose nello stato di antagonismo in cui si trovano.
In Comte non c’è solo il simbolismo dell’ordine e dell’integrazione, ma anche quello del divenire e
del progresso. La sua filosofia non vuole consolidare l’ordine fondato solo sui materiali esistenti,ma
rivela anche un’accentuata proiezione verso il futuro. La formula del suo positivismo è: l’amore per
principio, l’ordine per base e il progresso per fine. L’amore rappresenta il grande ideale
accomunante, la fonte di un’etica pubblica sempre più qualitativa; l’ordine garantisce il
dispiegamento delle virtù e la governabilità delle attività sociale; e infine il progresso promuove
contro l’inerzia e l’assuefazione tutto ciò che può essere vantaggioso per l’umanità.
L’amore è disciplina regolare e armonica dei bisogni, volta a combinare in ,modo organico la legge
del dovere e quella della felicità. L’idea positiva di ordine deve fondarsi su una dottrina meno
costrittiva ma anceh più organica di quella teologica, e insieme meno astrattamente individualistica
e più progressiva di quella liberale.
3. I limiti della mentalità critica
La fase che Comte chiama “metafisica” è quella dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese, del
liberalismo, dell’individualismo e dei loro artificiali intendimenti della politica, del diritto, della
morale e dell’economia. Metafisico è per lui l’atteggiamento conoscitivo e pratico incapace, per
abuso di principi astratti, di ricostituire organicamente l’ordine dell’umanità.
Le stesse astrazioni, gli stessi abusi metafisici inficiano le concezioni dei diritti individuali elaborati
dalla mentalità critica, Questi pretesi diritti umani hanno svolto, per Comte, una contingente
funzione polemica, ma quando si è tentato di dare loro una sistemazione organica, hanno
manifestato la loro natura antisociale, e hanno teso a consacrare l’individualismo.
Le stesse inadeguatezze, astrazioni o false compensazioni, Comte riscontra anche nella politica
metafisica. IL principio della sovranità non ha significato se riferito agli individui isolati; ma anche
la sovranità popolare può degenerare nella anarchia, come dimostra la teoria di Rosseau la cui
disastrosa influenza ha fomentato soprattutto instabilità e violenza.
4. La vocazione sociale del cattolicesimo
Alla contestazione della teoria critica corrisponde la denuncia della teoria teocratica, ma l’intento di
Comte è di differenziare la vocazione sociale del cattolicesimo dal puro teocraticismo e di valutare
quanto tale vocazione possa favorire lo sviluppo di idee positive.
Comte mette in risalto l’assurda pretesa della politica teologica di evocare la ragione senza però
riconoscerle la necessaria autonomia simbolica e funzionale e costringendola anzi a ratificare la sua
inferiorità e la sua sottomissione. Queste contestazioni non impediscono a Comte di esaltare il genio
eminentemente sociale del cattolicesimo e di riconoscere che la religione cattolica ha fatto penetrare
l’etica nella politica nel modo che sembra il più appropriato anche dal punto di vista della politica
positivista, e cioè attraverso la costituzione di un potere spirituale distinto e indipendente da quello
politico, ma in grado di esercitare su quest’ultimo un forte ascendente qualitativo.
5. Sociologia e sociocrazia
Contro la democrazia anarchica e l’aristocrazia retrograda la società occidentale cerca una
destinazione la cui utilità possa essere universalmente sentita e il positivismo tenta di rispondere a
questa esigenza con una scienza della società in grado di intervenire sull’insieme dei fenomeni
rilevanti della vita associata per una più plausibile determinazione degli scopi da perseguire e delle
opere comuni da compiere. La scienza e l’industria sono in grado di assolvere a questa funzione.
Bisogna promuovere la lotta contro le passioni meno sociali e valorizzare quella sintesi altruistica
che la politica positivista vede come una sua suprema aspirazione etica. Il dilemma della esperienza
moderna è di scegliere tra due padroni, la personalità e la socialità e il positivismo non esita a
chiedere all’individuo di subordinarsi liberamente alla socialità.
Riconversione pubblica della vita sociale esige una coerente vocazione etica, una ridefinizione dei
ruoli delle classi sociali, una particolare organizzazione del potere e, sul piano internazionale, una
riqualificazione del ruolo dell’Europa e dell’Occidente nel mondo. Una scienza sociale come la
sociologia deve porre le basi di quella sociocrazia e sociolatria di cui Comte non vede i rischi di
degenerazione qualitative della comunità.
La sociologia, come la filosofia organica convergente con l’etica e con la scienza, ha il compito di
ridefinire il ruolo delle classi sociali, rivalutando soprattutto la dignità e la funzione del proletariato,
componente essenziale della vita sociale arbitrariamente degradata dalla politica tradizionale e
sostanzialmente trascurata dalla stesso politica rivoluzionaria.
Comte sembra affidare al proletariato una funzione decisiva nella rigenerazione globale della
umanità, riconoscendogli una connaturata vocazione a superare la logica dei particolarismi e a
percepire positivamente la destinazione sociale della politica.
L’elemento filosofica e l’elemento proletario sono solidali tra di loro, come lo sono con la
condizione femminile, dalla cui emancipazione dipende l’elevazione complessiva della moralità
della vita pubblica. La rivoluzione femminile deve completare la rivoluzione proletaria e
l’orientamento generale del positivismo deve essere conforme allo spirito femminile.
Il positivismo risponde meglio a dei problemi che il comunismo non può risolvere per il suo
carattere materialistico e violente e per la sua tendenza al livellamento dell’uniformità.
6. Potere spirituale e potere temporale
Nella politica positiva Comte introduce una distinzione essenziale tra potere spirituale e potere
temporale, distinzione corrispondente a quella tra classe speculativa e massa attiva. Il potere
spirituale si occupa essenzialmente dell’educazione e il potere temporale dell’azione. Questa
spartizione di competenze e di funzioni ha costituito il genio del cattolicesimo e dovrà essere
riproposta come base del positivismo, mentre la confusione di questi due poteri, teorizzata da
Rosseau, gli sembra matrice di corruzione politica, così come di improduttività economica.
Bisogna dunque costituire un solido potere spirituale, diverso da quello temporale ma legittimato a
esercitare su quest’ultimo una costante influenza. Compete al potere spirituale la responsabilità
generale del buon andamento di tutti gli affari sociali, senza però un impegno diretto nella loro
gestione, affidata ai produttori e alla classe proletaria.
JOHN STUART MILL
1. Le revisioni dell’utilitarismo
Mill, come i suoi predecessori, continua a disdegnare le entificazioni idealistiche, romantiche e
storicistiche della libertà e a prediligere un approccio pragmatico ai problemi della politica; sente
però anche l’esigenza di riconsiderare le teorie dell’utilitarismo in relazione alle più ampie
obbligazioni etiche che le trasformazioni della società moderna impongono ai principi liberali.
2. Libertà individuale e collettività
Sensibile alle nuove esigenze della società, il liberalismo di Mill è comunque saldamente ancorato
alla fondamentale ragion d’essere etica, politica e giuridica di questo orientamento dottrinario, che è
quella di circoscrivere il potere del governo sui cittadini. La sua qualificazione prioritaria è il non
impedimento. La politica progredisce quando matura la consapevolezza che i governanti non hanno
un’autorità indipendente e interessi diversi ed opposti rispetto a quelli della nazione, e che quindi il
potere politico non deve essere munito di uno statuto privilegiato rispetto a quello della generalità
dei cittadini.
Da Tocqueville Mill riprende l’idea che ci può essere anche una tirannia della maggioranza, se si
consente a tale maggioranza di avere un’ingerenza indebita sulla vita dei cittadini, e di diventare la
fonte di un’attività legislativa che rende legale ogni sua manifestazione di volontà.
C’è in Mill una netta professione di fede nel primato della individualità, e perciò egli paventa il
rischio delle forti e crescenti inclinazioni della società a dominare i cittadini con lo strumento della
legislazione e con gli apparati burocratici. La libertà entra in crisi se si affievoliscono gli slanci
vitali degli individui.
In ogni singola esistenza comune c’è una potenziale originalità e creatività da riconoscere e
proteggere, e perciò la diffidenza nei confronti delle masse è la stessa che si deve avere per le
pretese di certi individui di dominare la vita altrui in base alle loro presunte capacità superiori.
Fervente sostenitore dei diritti individuali, Mill si oppone a ogni entificazione dei diritti della
collettività e dell’autorità pubblica.
Lo stato non è una entità superiore munita di una sua propria moralità e razionalità e di una sua
propria forza produttiva. Esso ha solo le qualità che gli prestano gli individui e non può pretendere
di realizzare grandi cose se con la sua azione oppressiva crea soltanto dei piccoli uomini.
3. Le opinioni e le azioni
Liberalismo è essenzialmente rivendicazione di libertà in tutti gli ambiti significativi dell’esperienza
individuale e collettiva. E’ libertà di coscienza intesa nel senso più ampio dell’espressione, e quindi
comprendente la libertà della ricerca del sapere, dell’opinione, del giudizio, delle molteplici
vocazioni, tendenze, motivazioni proprie di ciascun uomo; è libertà di associazione, di
partecipazione alla vita comunitaria, così come diritto di ritirarsi da questo o da quel vincolo
associativo volontario; è libertà del lavoro e dell’attività economica, e cioè riconoscimento e tutela
dei modi diversi di rapportarsi al mondo della natura per socializzarlo e al mondo sociale per
renderlo produttivo e per adattarlo ai bisogni dei singoli.
Nella dialettica politica c’è un confronto tra due partiti e tra due movimenti ideali che si trovano in
uno stato di tendenziale opposizione, pur conoscendo nelle situazioni pratiche possibili
compromessi. Un partito, o un movimento di pensiero, ha una natura più conservatrice, e l’altro un
orientamento più radicale. Una mediazione tra queste due correnti ideali è comunque opportuna, e
bisogna perciò che ciascuna di esse si abitui non solo ad approfondire le proprie ragioni, ma anche a
penetrare nelle opinioni pubbliche opposte in modo da potersi presentare contestualmente sia come
principio di ordine che come principio di progresso e da poter assumere senza rischi di
sovvertimento funzioni sia di governo che di opposizione.
4. Economia e classe operaia
Il liberalismo di Mill non entifica la libertà, non vuole metterla al servizio dei soli ceti privilegiati e
la vede piuttosto come una esperienza da vivere senza pregiudizi e da utilizzare come strumento di
emancipazione. Egli si chiede come la dottrina liberale possa agire per il concreto miglioramento
delle condizioni di vita del proletariato. La scienza economica, a suo giudizio, deve occuparsi non
solo della produzione ma anche della distribuzione della ricchezza, scoprire quali sono i poteri e le
istituzioni che esercitano un ruolo decisivo su tale distribuzione, e cercare quali sistemi di vita
sociale potrebbero ridurre sostanzialmente quella sproporzione tra le classi che rende infelice tanta
parte dell’umanità.
Non gli sembra plausibile che l’emancipazione del proletariato debba dipendere solo dalla
benevolenza delle classi superiori o dalle concessioni dello stato. Occorre che le classi operaie
agiscano in proprio, in modo che tutto ciò che le concerne sia regolato da loro e non da poteri
tutelari esterni che pretendono di curarne gli interessi, mantenendo però il rapporto tra il ricco e il
povero come un rapporto di subordinazione.
5. Religione e laicità
Se lo spirito di tolleranza è sempre presente nel pensiero di Mill, la sua mentalità complessiva ha
una sua intensa accentuazione laica. Egli riconosce quanto importante sia il potere psicologico e la
forza sociale della fede nel destino dell’umanità. Pensa però che coltivare i sentimenti morali solo
sul modello religioso escludendo il modello secolare comporti il rischio di creare dei caratteri
personali troppo devoti e servili. Bisogna perciò cercare nella complessa struttura della società
moderna anche le componenti di un’etica laica che, senza pretesa di sostituirsi radicalmente a quella
cristiana, possa con essa autonomamente cooperare nella difesa della dignità umana.
HERBERT SPENCER
1. Regime militare e industriale
L’individualismo e la diffidenza nei confronti dello stato diventano i tratti caratteristici della sua
complessiva meditazione, tratti presenti nelle sue opere maggiori. La sua fondamentale
preoccupazione è questa: la politica moderna sembra perseguire l’obiettivo di una crescita della
libertà, ma il sempre più diffuso interventismo statale svilisce l’essenza stessa della libertà. E perciò
l’aumento formale di libertà nasconde una detrazione di libertà sostanziali. Sussistono due tipi
opposti di organizzazione sociali cui corrispondono due opposti regimi politici. IL primo tipo
raffigura un sistema militare o militante, l’altro un sistema industriale. Tutto ciò che somiglia al
primo tipo presuppone un potere statale forte e accentrato, in grado di penetrare in modo capillare
nella vita sociale come il comando penetra nella organizzazione di un esercito. Il secondo tipo è
invece prevalentemente regolato da una logica contrattualistica attraverso cui le parti attuano le loro
libere e spontanee transazioni, riducendo per quanto possibile l’autorità sovraordinata di quel terzo
io che è lo stato.
Nel modello militare di organizzazione sociale le forme di cooperazione, solidarietà e
partecipazione hanno natura obbligatoria perché lo stato le impone con la stessa logica con cui
programma la creazione e l’impiego di un esercito. Nel modello industriale la cooperazione non è
affatto assente, ha anzi maggiore estensione, ma essa assume un carattere di scelta volontario e si
attua attraverso una logica contrattualistica.
2. Liberalismo e governo
La vocazione fondamentale e abituale del primo liberalismo a difendere metodicamente gli
individui dai condizionamenti pubblici rischia di subire profonde modificazioni che per Spencer
equivalgono a delle degenerazioni. Avendo acquistato maggiore potenza, ed essendosi impadronito
di molte leve del governo, il liberalismo si è trasformato i una specie di liberalismo di stato e ha
dato alla legislazione una direzione sempre più programmatica e coercitiva. Il liberalismo originario
pensava che il bene pubblico dovesse essere ricercato attraverso misure indirette, e cioè limitandosi
a garantire le condizioni atte a consentire alle parti un libero movimento di iniziative sociali ed
economiche; il liberalismo diventato governo tende invece esso stesso a vedere il bene pubblico
come un fine diretto, evidente, e perciò da perseguire con volontà cosciente e deliberata.
Nella società moderna si sta rafforzando la coalizione di queste tre idee: che tutti i mali sociali siano
documentabili, visibili e tangibili; che essi, una volta individuati, possano essere sanati; e che ci sia
qualcuno, lo stato, il governo, munito del potere e della capacità di farlo. Le azioni umane che
vanno verso la creazione di un tipo di struttura sociale fondata sulla cooperazione obbligatoria
assumono così una preponderanza su quegli insiemi di azioni umane che vanno invece nella
direzione della cooperazione volontaria.
Per nuovo torismo si intende una forma di conservatorismo che, privilegiando la teoria e la pratica
della cooperazione obbligatoria, si dispone a credere che se la natura umana funziona male ci siano
delle istituzioni che possono farla funzionare bene.
3. Ordine spontaneo e giustizia
Spencer vede l’ordine sociale come una formazione spontanea legata in tutte le sue parti. Non si
può perciò agire su un settore con interventi deliberati, senza che tutti gli altri ne risentano.
Se i benefici che ogni individuo riceve fossero proporzionati alla sua inferiorità, ciò provocherebbe
la moltiplicazione degli esseri inferiori, è perciò una degenerazione sociale. Come Darwin, anche
Spencer ritiene che i troppi ostacoli frapposti al libero sviluppo delle energie superiori distruggono
le possibilità di successo della comunità sociale nelle sue sfide storiche. Ogni società è come una
specie che si trova sempre in rapporti di concorrenza e di antagonismo con altre società, cioè con
altre specie. E se una società si ostina ad avvantaggiare solo le sue unità inferiori a scapito di quelle
superiori, essa accresce le sue difficoltà nel confronto internazionale. Bisogna perciò elaborare
un’idea di giustizia che non sia di tipo puramente distributivo ma si rivolga soprattutto a stabilire tra
i cittadini condizioni e regole che permettono ad ognuno di ottenere in cambio del proprio lavoro
materiale o intellettuale, superiore o inferiore, quello che vale a seconda della maggiore o mino
richiesta.
4. La selezione naturale contro la guerra e il razzismo
Se Spencer pone al centro della sua teoria il principio della selezione naturale, anche quando questa
comporta conseguenze eticamente deplorevoli, egli esprime tuttavia un netto ripudio della guerra,
negando che essa costituisca un criterio esplicativo dell’evoluzione storica ed escludendo ogni
identificazione tra l’antagonismo e il fenomeno bellico, così come tra selezione naturale e razzismo.
La lotta per l’esistenza è una lotta necessaria, ma deve avvenire in forma il più possibile pacifica,
mentre la violenza bellica impedisce l’antagonismo produttivo, non riesce a selezionare
positivamente le energie umane e comunque infligge alla comunità dei danni infinitamente superiori
a quelli che può provocare la concorrenza.
5. I limiti della legislazione
La società è un corpo organico, ma questo organismo ha soprattutto una genesi spontanea, si forma
attraverso le correnti libere della creatività dei soggetti, e non deve perciò essere guardato come una
massa plastica da modellare secondo un’intenzionalità predeterminata.
Una specie di diritto divino dei parlamenti. E’ lecito chiedersi perché il parlamento debba coltivare
questa pretesa assolutistica. Essa aveva un senso quando si trattava di opporre la sovranità del
parlamento alla sovranità di origine divina del monarca, ma quando quest’ultima non sussiste più è
abusivo prorogare l’egemonia del potere parlamentare o governativo. Se la funzione del liberalismo
del passato era quella di imporre dei limiti al re, il liberalismo del futuro dovrebbe imporre dei limiti
al potere dello stato, del parlamento, della legislazione. Per Spencer gli uomini devono abituarsi a
cooperare liberamente anche prima che siano definiti i fini comuni da raggiungere.
I diritti individuali esistono prima che nasca il governo e che perciò essi non devono essere
politicizzati e considerati emanazione della volontà dello stato. Questi diritti sono tanto pià disattesi
quanto più la struttura dei poteri pubblici rassomiglia a una organizzazione militare, e assumono
invece tanta più rilevanza quanto più si abbandona quella condizione patologica della società che è
lo statalismo e quanto più si consente ai cittadini di contrarre liberamente i loro accordi, riducendo
il criterio imperativo al solo rispetto di tali contratti.
6. Utilitarismo empirico e razionale
Le posizioni di Spencer convergono per molti aspetti con quelle dell’utilitarismo, ma egli distingue
la nozione di utilitarismo empirico da quella di utilitarismo razionale. La prima forma di
utilitarismo viene calcolata solo sugli effetti immediati che certe ingerenze particolari dello stato
hanno in questo o in quel settore della vita sociale. L’utilitarismo razionale si impegna invece in
valutazioni comparative più approfondite cercando di discernere, nell’osservazione dei fatti, ciò che
è più empirico e occasionale da ciò che ha un suo significato fondamentale.
Egli vede un nesso molto stretto tra politica estera e politica interna. Una politica estera fondata
sulla guerra determina una politica interna fondata sullo statalismo, mentre la cooperazione
internazionale potrebbe rendere possibile una diminuzione di potere governativo ed accettabile una
corrispondente modificazione della teoria politica.
7. Diritti di libertà e diritti politici
All’antistatalismo di Spencer fa riscontro anche una netta avversione per ogni entificazione della
società. Mentre una volta la società doveva modellare l’individuo per farlo servire ai suoi fini, ora
invece l’individuo deve modellare la società per adattarla ai suoi fini.
L’esercizio dei diritti individuali deve avere una sua intrinseca possibilità di ridurre l’egemonia
dello stato, così come i condizionamenti della società sui suoi membri. Non basta però una
estensione formale dei diritti politici per accrescere queste garanzie.
E’ auspicabile l’estensione dei diritti politici e sarebbe giusto e utile che anche le donne ne avessero
l’esercizio, ma non vi è una meccanica identificazione di queste conquiste politiche con la tutela dei
diritti individuali.
8. Egoismo e altruismo
L’ordine spontaneo della società che Spencer propone richiede un tipo di educazione morale dei
cittadini ispirato alla ricerca di un giusto equilibrio tra egoismo e altruismo. Subordinare
interamente l’egoismo all’altruismo è pericoloso. Bisogna mitigare l’egoismo, razionalizzarlo, farlo
coesistere con l’altruismo, tenendo però presente che non è vero che la massimalizzazione
dell’altruismo provochi la scomparsa dell’egoismo. Le soddisfazioni egoistiche dipendono
d’altronde anche dai riguardi che abbiamo per le soddisfazioni altrui e, inversamente, vi sono aspetti
egoistici ed eccessi individualistici anche in certi comportamenti altruistici. Tale compromesso non
è possibile in presenza di regimi politici di tipo militare che idealizzano l’altruismo fino al massimo
sacrificio ma che idealizzano anche l’odio fino alla massima negazione degli altri.
KARL MARX
1. La critica della dialettica hegeliana
Marx opera una revisione della dialettica hegeliana, denunciandone il carattere idealistico e
concettualizzato e la propensione ad affidare opposizioni e superamenti alla tattica divina di uno
spirito che sempre trionfa nella storia. La dialettica hegeliana cammina sulla testa, cioè sulle
astrazioni logiche e sulle sublimazioni mistiche; deve essere perciò rovesciata, riportata a
camminare sui piedi e costretta a seguire le articolazioni della realtà umana e sociale.
L’esigenza di Marx è di passare dall’idealismo al materialismo; un materialismo inteso come prassi,
cioè come attività umana sensibile che coinvolge la totalità della fenomenicità pratica e si rivolge al
superamento non solo dell’idealismo, ma anche del naturalismo e del materialismo fisico,
meccanico e quantitativo. Occorre reinserire la dialettica all’interno della vita reale, riscoprendo e
ridefinendo il valore di quella società civile che per Hegel era soltanto un punto di passaggio per
andare verso la compiutezza dello stato etico.
I processi della vita sociale non si spiegano con sintesi spiritualistiche e non culminano nella
mistica dello stato etico, astrazioni rese possibili dall’innaturale scissione che la società attuale
stabilisce tra l’uomo privato e l’uomo pubblico.
Il materialismo non consiste nell’affidare a determinati elementi meccanici del reale il compito di
spiegare esaustivamente l’esistere dell’uomo e della società, ma nel riportare alla realtà storico tutto
ciò che è rilevante nella vita umana e sociale, impedendo che manipolazioni idealistiche, astrazioni
concettualistiche, mistificazioni del potere, arbitrarie entificazioni di forze e di categorie sociali
dominanti nascondano la realtà dei processi storici, impediscano di rilevarne le contraddizioni, e
comunque limitino le funzioni del sapere a un semplice esercizio di giustificazione dell’esistente e
discreditando l’azione innovativa e rivoluzionaria.
2. Il materialismo storico
Se il materialismo è attività, è l’attività economica che assume una sua priorità logica e funzionale
nella qualificazione della fenomenicità umana e sociale, nella determinazione dei bisogni, nella
costituzione delle strutture e delle forze collettive, nella spiegazione complessiva dello sviluppo
storico. Il mondo economico è irriducibile alla pura idealità.
Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere
sociale che determina la loro coscienza. La coscienza dell’uomo esiste perché esiste una realtà
economica che la forma e la sostiene. I valori umani in sé considerati non reggono il peso della
realtà storica e non sono comprensibili se non riferiti ai fenomeni circostanti e sottostanti che sono
quelli economici.
Se la base economica è il fattore esplicativo della vita sociale, gli uomini non ne hanno tuttavia
sempre consapevolezza e realistica cognizione perché mescolano in essa elementi di diversa natura,
o perché considerano la realtà economica attraverso categorie e leggi superiori e anteriori
illusoriamente dotate di un valore eterno, senza comprendere che queste categorie e leggi derivano
da rapporti sociali i cui caratteri mutuano essenzialmente con il mutamento e lo sviluppo delle forze
produttive.
Marx non si limita ad affermare che la realtà economica è fondamento della società, ma vuole dare
autenticità e coerenza a una vita economica che gli appare essenzialmente incoerente e
contraddittoria, perché su di essa gravitano troppi elementi di alienazione che impediscono
all’uomo di conoscere le condizioni reali del suo esistere.
Un’alienazione fondamentale è per il materialismo storico la religione, che maschera le storture
della realtà con rimandi a un mondo extrasensibile, dove tutto si concilia per fede, dove il mistero
dà l’illusione di una liberazione integrale e di una solidarietà compiuta.
Questa alienazione va combattuta per Marx in modo più radicale di quanto abbia fatto Feuerbach.
L’uomo non solo è chiamato a riprendersi le attribuzioni date a Dio, ma deve eliminare
radicalmente il concetto di divinità e dissolvere lo stesso intendimento dell’ateismo come filosofia
filantropica astratta che, in quanto tale, potrebbe apparire come un semplice rovescio della
religiosità e riguardare ancora il problema di Dio.
Egli distingue tra struttura e sovrastruttura. La prima è la base materiale costitutiva ed esplicativa
della realtà; la seconda – comprendente la religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la scienza, l’arte
– è il prodotto dei diversi modi di produzione; e dove questi modi di produzioni sono alienati essa
rappresenta l’artificio ideologico con cui si cerca di conciliare e di compensare con astrazioni
spiritualistiche il disordine del mondo.
La prassi ha in Marx una qualificazione non solo materialistica, ma anche storicistica, perché è nella
storia che si creano le forze critiche e di trasformazione dell’esistente. Il materialismo storico di
Marx vuole tenere in uno stato di reciproca immanenza materialismo e storicismo ed evitare quelle
semplificazioni per cui quando si è materialisti la storia non appare e quando si prende in
considerazione la storia non si è materialisti.
3. Borghesia e proletariato
Il mondo moderno ha avuto per Marx come protagonisti la borghesia e il capitalismo che hanno
preso decisamente la direzione di una trasformazione profonda dei rapporti sociali ed economici. La
borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Essa non può esistere
senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi
tutto l’insieme dei rapporti sociali. Marx non si ferma all’elogio della borghesia, non accetta l’idea
che la storia finisca con lo sviluppo capitalistico, e che il mondo dei valori umani e sociali debba
fare definitivo riferimento all’antropologia e alla cultura di questa classe dominante. I rinnovamenti
provocati dalla borghesia hanno smosso la vita sociale in modo tale da portare alla ribalta della
storia un insieme di forze destinate ad opporsi al regime capitalistico che, nella sua stessa
affermazione, mostra i vizi e le contraddizione che ha in sé e suscita perciò la reazione
rivoluzionaria del proletariato. Le forze produttive di così vasta portata create dalla borghesia non
sono bastate a garantire l’emancipazione sociale; esse hanno anzi asservito enormi masse operaie
che pure nella produzione hanno un ruolo decisivo. Secondo Marx, la creatività della vita
economica borghese è fondata sul dispregio dei valori umani, sulla brutalità sullo sfruttamento,
sulla perversità di meccanismi che rendono gli operai tanto più poveri quanto più essi producono
ricchezza.
Marx assume come imperativo categorico della sua teoria quello di rovesciare tutti i rapporti sociali
e produttivi che la borghesia ha creato, e vede nell’indignazione e nella lotta del proletariato contro
la borghesia la condizione di una rigenerazione della società.
Il regime borghese rende sempre più esplicita quella che è stata sempre la realtà della storia, che è
essenzialmente storia di lotte di classe. Questa lotta ha nella società moderna due antagonisti
irriducibili, la borghesia e il proletariato e vedrà il trionfo del proletariato che aspira a diventare una
classe generale e a identificarsi con tutta la società, che dalla sua azione rivoluzionaria sarà
interamente rigenerata. Il proletariato è una classe non classe; è classe perché costretto a esserlo in
un mondo classista, ma non è classe perché la sua missione ha un carattere di universalità. Spetta
dunque al proletariato rovesciare il dominio borghese, conquistare il potere politico e instaurare il
comunismo.
C’è il convincimento che le condizioni per un radicale mutamento siano state tutte raggiunte, che lo
spettro del comunismo debba ormai penetrare in tutti i luoghi della società esistente, che la lotta
contro il capitalismo debba essere inesorabile e che il proletariato debba imporre senza reticenze la
sua dittatura, considerata da Marx il punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze
di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per
l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il
sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali.
4. Pauperismo e lotta di classe
La critica di Marx alla società borghese segue, tre ordini di argomenti. In primo luogo egli sostiene
che lo sviluppo della borghesia provoca la miseria crescente e progressiva del proletariato.
Consegue da questo che la lotta tra le classi diventa sempre più accesa e ineluttabilmente destinata a
sfociare nella crisi rivoluzionaria. La terza argomentazione è che la borghesia è il focolaio infettivo
della società da cui emanano tutte le alienazioni, non solo quelle di natura economica, ma anche
quelle di natura esistenziale. La prima legittimazione del comunismo si fonda sulla necessità
politica e storica del proletariato di spezzare un meccanismo che accresce progressivamente il
divario tra ricchezza e miseria. Ponendosi su questo terreno, i giudizi di Marx dovrebbero accettare
un principio di verificabilità empirica. Si può sostenere – per quel che riguarda la seconda
argomentazione – che l’esasperazione della lotta di classe, e il suo presunto inevitabile sbocco
rivoluzionario, è qualcosa che può avere delle verifiche ma anche delle smentite storiche. Ci sono
dei momenti in cui questa lotta può essere aspra e inesorabile, ma ci sono altri momenti in cui una
certa pace sociale, p forme più tolleranti e mediate di denuncia e di contestazione, sono i dati più
regolari e rilevanti.
Si comprende come sdrammatizzando il rapporto tra capitalismo, pauperismo e conflittualità,
accettando una più complessa antropologia sociale, e valendosi di criteri cognitivi e di azione
pratica più empirici e pragmatici altre correnti del socialismo abbiano sostituito l’impegno
riformistico a quello della lotta rivoluzionaria, ricercando strumenti in grado di migliorare, nei modi
storicamente possibili, le condizioni delle classi lavoratrici e creando meccanismi di garanzie e di
tutele per i ceti più deboli, in un quadro di progressiva affermazione di valori democratici nella
società e nelle istituzioni.
Anche se nei giudizi di Marx sul capitalismo non mancano elementi problematicamente più aperti,
egli rifiuta comunque categoricamente che l’azione del movimento proletario possa piegarsi al
compromesso con il mondo borghese e con l’economia capitalistica.
L’opzione di Marx è per la rivoluzione in permanenza e quindi per il ripudio radicale di qualunque
adattamento al carattere capitalistico della produzione.
Marx è convinto che la lotta rivoluzionaria implichi l’esercizio della violenza. I comunisti
dichiarano apertamente che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l’abbattimento
violento di ogni ordinamento sociale esistente.
5. La dialettica delle alienazioni
Oltre che sulla teoria della miseria crescente del proletariato e sulla radicalizzazione ineluttabile
della lotta di classe, la legittimazione del comunismo si fonda su un terzo tipo di argomentazione,
secondo cui le alienazioni sociali ed economiche della società borghese diventano anche devastanti
alienazioni esistenziali da contrastare con l’alternativa radicale di quel compiuto umanismo che
appunto il regime comunista è chiamato a personificare.
Criticando la società borghese, Marx ha accentuato la portata disgregatrice delle sue alienazioni e,
con analisi impenitente, ha volute vederle anche dove esse non sarebbero percepite dalla coscienza
comune. Marx ha perciò creato una inflazione delle antinomie e delle contraddizioni.
Marx pensa che questa categoria della insocievole socievolezza, carattere essenziale della società
borghese, sia la fonte di tutti i mali, perché fonda i rapporti interpersonali sulla divisione e sulla
diffidenza, perché chiude gli individui nel proprio singolarismo, rendendo la loro finitezza sempre
più utilitaristica e sempre più portata a imporsi con l’arbitrio e la prevaricazione.
6. L’alternativa alla democrazia liberale
Queste posizioni di Marx discreditano anche i principi politici e istituzionali del costituzionalismo e
della democrazia liberale.
La laicità dello stato, l’indipendenza formale delle istituzioni statali dalla proprietà, le regole dello
stato di diritto e la stessa teoria dei diritti umani, così come si presentano nella cultura giuridica e
politica borghese, sono oggetto da parte di Marx di una metodica contestazione. Lo stato borghese
si professa laico ed agnostico, pretende di essersi liberato dalla religione, ma è in effetti più
cristiano del vecchio stato cristiano.
Questa astratta liberazione politica ha riguardato solo lo stato, il quale ha però lasciato le condizioni
che creano l’alienazione religiosa perché ha rinunciato a compiere quegli sforzi che avrebbero
dovuto eliminarla. Lo stato è uscito dalla religione, ma ha lasciato gli individui in balia della propria
alienazione religiosa, accentuando così il dualismo tra la vita politica e la vita della società civile.
Lo stato liberale moderno lascia i cittadini in una condizione di in solidarietà e di scissione per cui
la religiosità non rappresenta più la connessione dell’uomo con il tutto, ma è il contrassegno di un
disagio personale, di una dilacerazione esistenziale, di un isolamento di fronte al mondo; e più si
perfeziona la libertà religiosa, più si moltiplicano gli effetti negativi delle scissioni sociali.
Così per quanto riguarda la presunta autonomia dello stato borghese dalla proprietà. Questa
istituzione viene superata solo politicamente nel senso che si abbandona una concezione
patrimoniale dello stato, ma essa rimane il fondamento della società civile entro cui svolge la sua
logica di esclusivismo e di sopraffazione.
EDUARD BERNSTEIN
1. Il revisionismo marxista
Pur presentandosi all’origine come un erede spirituale di Marx, Bernstein è stato il primo iniziatore
di una revisione critica del marxismo, il primo interprete che, discostandosi in modo decisivo
dall’apologia marxista, ha messo in dubbio alcuni presupposti teorici e storici di questa dottrina.
Bernstein ritiene che la concezione materialistica della storia debba essere considerata in termini
non più apologetici, ma di riflessione analitica, e che perciò il socialismo e il comunismo che su
quella teoria sono sorti no abbiano il diritto di presentarsi come una specie di calvinismo senza Dio,
come una dottrina della predestinazione cui bisogna credere incondizionatamente, e in base alla
quale tutto ciò che accade è determinato in anticipo.
Non c’è più la certezza che un unico principio causativo spieghi tutto, e questo dubbio fa decadere
anche la teoria del materialismo storico nella sua versione dogmatica.
A suo giudizio la teoria marxista non ha adeguatamente valutato che oltre a quella economica, ci
sono nelle realtà umana e sociale componenti diverse che hanno rapporti con l’economia, senza per
questo diventare delle sovrastrutture di rapporti economici.
2. Movimento e scopo finale
Il socialismo ha una sua ragion d’essere perché nelle condizioni attuali della società sussiste un
carattere troppo privato dei modi di appropriazione al cospetto di un carattere molto più sociale del
modo di produzione.
Per Bernstein il socialismo deve essere qualificato come un movimento verso un nuovo ordine
associativo, ma il concetto dell’andare verso, della dinamica, del mutamento va differenziato dal
concetto della pura attuazione di un programma prestabilito.
Il socialismo deve d’altronde riconoscere che mondo moderno la democrazia, trasformando le
dimensioni, le forme e le ragioni stesse della lotta politica, consente di pervenire alla riduzione o
alla scomparsa del dominio di classe, almeno nel senso che in un regime democratico nessuno stato
sociale può godere di un privilegio politico rispetto ai diritti della generalità dei cittadini.
Bernstein afferma che il principio del suffragio universale propugnato dalla democrazia rappresenta
l’alternativa alla rivoluzione. Dove si instaura un regime democratico, la rivoluzione non è più
necessaria.
Bernstein definisce il socialismo come un liberalismo organizzatore. Se la libertà per la generalità
dei cittadini non è possibile senza organizzazione, è vero però che tutto ciò che separa le istituzioni
socialiste dalle istituzioni feudali apparentemente analoghe perché anch’esse fondate sul
com’unitarismo e sul corporativismo consiste proprio nel fatto che il socialismo riesce ad accettare i
principi liberali.
Il socialismo deve rappresentare un mezzo di difesa contro l’invadenza del capitalismo, ma anche
una protezione contro il determinismo sociale, l’esclusivismo corporativo e l’integrale
socializzazione della esperienza umana.
3. Collettivismo e pluralismo
In questo suo orientamento critico, Bernstien è tra i primi a intraprendere il tentativo di una
riconciliazione tra le due anime antagoniste del socialismo, quella marxista e quella proudhoniana.
La borghesia non è la causa di tutti i mali sociali, e non si deve presumere che con la sua distruzione
la società si ricomponga in un sistema di coerenza e di armonia.
La socialdemocrazia non può più entusiasmarsi per una rivoluzione violenta contro la totalità del
mondo non proletario, e non può aprioristicamente disdegnare accomodamenti e transazioni.
Non sarebbe più possibile nel mondo moderno una dottrina socialista non accompagnata dalle
istituzioni e anche dai costumi e dalle tradizioni della vita democratica. Bisogna che il socialismo
rinunci a penare che dallo stato dipenda la felicità di tutti. Occorre che il socialismo abbia maggiore
fiducia in un’autonoma capacità di realizzazione della società civile e si attenga al principio che il
proletariato moderno è molto povero, ma non mendicante e deve perciò comportarsi come un
soggetto politico dotato di una sua dignità democratica.
D’altra parte la socialdemocrazia, anche attraverso la sua partecipazione parlamentare, si sta
avvicinando al potere e al governo, e questo comporta certi obblighi nei confronti delle istituzioni.
Essa non può più pensare al potere come a qualcosa che appartiene ad altri, e nei cui confronti ogni
reazione è ammissibile, ma come a qualcosa che comincia ad essere parte del bagaglio concettuale e
dei mezzi disponibili del proletariato.
4. Il formalismo socialista
Il fondatore del comunismo prevedeva la proletarizzazione generale della società e la miseria
crescente del proletariato; ma se questo non si avvera, occorre che la dottrina socialista muti le sue
prospettive. Se il numero dei capitalisti aumenta, e il numero dei nullatenenti diminuisce, ci si
allontana dallo scopo finale del socialismo.
La base simbolica del socialismo di Bernstein è idealistica e di incitamento democratico e non ha
più bisogno di una giustificazione puramente materialistica, perché può arricchirsi di altri elementi.
Ciò che il socialismo deve fare lo deve fare attraverso il metodo legale e parlamentare, con le
misure indirette della legislazione, destinate a soppiantare le misure dirette della rivoluzione.
FRIEDRICH NIETZSCHE
1. Il nichilismo
Quella di Nietsche è una visione agonistica della vita, dove il dolore, la lotta, la distruzione, la
crudeltà, l’eccesso, l’errore sono caratteri inevitabili di una vicenda umana non dominabile con i
criteri della flessibilità, della tolleranza, del riguardo, della reciprocità, perché la vita è matrice
continua di irrazionalità. Al cospetto di questo mondo teso e contraddittorio vede essenzialmente
due atteggiamenti possibili: il primo è la rinuncia e il rifugio nell’isolamento, o nell’ascetismo e
nello spirito di sopportazione dell’etica cristiana; il secondo è invece quello di accettare la vita
anche nei suoi caratteri illogici e trascendere nell’azione entusiastica e nella volontà di potenza la
stessa dimensione umana.
Nietzsche non solo ha consapevolezza della svalutazione, nel mondo moderno, dei grandi valori
dei grandi ideali, ma vuole sollecitare e portare alle sue estreme conseguenze questa crisi. Tanto più
i principi tradizionali si consideravano universali, tanto più sono stati corrosi dallo spirito moderno
che sancisce la fine della loro legittimazione sia ontologica che storica.
La morale cristiana è entrata in una crisi profonda, e il pensiero moderno può già teorizzare la morte
di Dio. La fede ha perduto le sue verità forti, non riesce a dare all’uomo una garanzia metafisica,
non riesce a conciliare più la presenza del male nel mondo con la possibilità di un perfezionamento
spirituale, e neppure è in grado di impedire agli individui di disprezzare se stessi e le loro opere.
Se il nichilismo si diffonde è soprattutto perché nel mondo moderno manca una specie superiore
che con la sua fecondità e potenza possa rinsaldare la fede nell’uomo. Si assiste al dilagare di una
specie umana inferiore che con la sua volgarità tiranneggia tutta la vita sociale e che con la sua falsa
presunzione non conosce più la modestia e gonfia i suoi bisogni fino a farne dei valori cosmici e
metafisici.
2. La volontà di potenza
Contro questa modernità flaccida e banalizzata, contro gli ideali anemici, Nietzsche indica dei
rimedi vigorosi: il ripristino dei valori guerrieri e dello spirito militare; l’esaltazione dell’idea di
potenza; la restituzione agli uomini dei loro istinti naturali che, nella tensione verso uno scopo, non
risparmiano gli uomini.
I valori esaltati dalla morale tradizionale sono delle minacce. Ciò che è pacifico, sobrio, modesto,
coscienzioso, giusto, generoso, indulgente, disinteressato, non è forza morale, ma solo paravento
alla avidità, all’incertezza,a dell’abbandono di una fiera e robusta spiritualità.
Insiste sulla necessità di scegliere tra due tipi di morale: quella che fomenta la decadenza anche se
mascherata da apparente virtù e quella in cui l’istinto sano lotta contro ciò che snerva le energie
vitali.
Non esistono azioni buone e azioni cattive, morali o immorali; ciò che conta è la personalità di chi
agisce, la sua potenza, la sua superiore determinazione rispetto ad altri uomini. Un’azione è in sé
assolutamente priva di valore: tutto dipende da chi la compie. La sua opzione è per l’egoismo
piuttosto che per l’altruismo. L’egoismo è intensificazione dell’io, l’altruismo intensificazione del
non-io.
La vera morale deve riscoprire come verità decisiva della vita che esistono uomini che sono solo
frazione di uomini, e deve imporre come dovere il sacrificio delle libertà particolari e
opportunistiche per consentire la creazione di un modello superiore di umanità.
3. Il superuomo
La tendenza dell’uomo moderno a rimpicciolirsi è però da assecondare per qualche tempo, perché
questa massa di piccoli uomini costituisce la base su cui innalzare la specie degli uomini più forti.
L’appiattimento generale degli individui rischia certo di portare tutti, anche gli uomini superiori, a
uno stesso livello di gregge, ma la massa del gregge può diventare nella società moderna una massa
intelligente, consapevole della necessità di affidare a una razza temeraria e dominante i destini del
mondo. Il mito di Nietzsche è il superuomo, il grande uomo sintetico, l’essere sovrano posto al di là
del bene e del male che distrugge le forze minime, i valori minimi, le razze decadenti ed esalta
invece le grandezze incommensurabili di cui è portatore.
Il fine della politica non è la morale degli schiavi fondata su basi utilitaristiche, ma la morale del
dovere propria degli uomini superiori, tenendo però presente che i doveri di costoro non sono i
doveri di tutti.
4. La razza, la nazione, l’Europa
Il razzismo di Nietzsche volto alla distruzione della mediocrità non ha alcun rapporto con la
negazione di una razza individuata secondo criteri biologici, nazionali o storici, e non dà alcun
sostegno o alcuna giustificazione alla lotta contro la razza ebraica.
E’ da sottolineare che in Nietzsche non c’è una vera opzione nazionalistica, ma piuttosto la
vocazione a cercare gli indizi che prefigurano una volontà di unificazione europea, alla quale i vari
popoli possano dare il loro specifico contributo.
GEORGES SOREL
1. La mediocrità e il sublime
Sorel ha iniziato il suo itinerario intellettuale assumendo posizioni di intransigente opposizione
classista nei confronti del conservatorismo così come del riformismo liberale e socialista, ma nella
evoluzione del suo pensiero egli mostra una certa considerazione anche per movimenti politici di
destra, se in essi può ravvisarsi una forza ideale, una tensione eroica, un’azione risoluta in grado di
spezzare i vincoli della mentalità e della moralità borghese.
Per Sorel, sia il rivoluzionarismo di sinistra sia la reazione di destra hanno una loro giustificazione
se mettono in crisi gli schemi della democrazia borghese e diventano portatori di nuovi valori.
Rinunciare ad ogni intendimento della storia come processo armonico, guardare con drammatica
consapevolezza alle cose del mondo, e di questa drammaticità servirsi per innalzare l’eroico e il
sublime contro la mediocrità e la banalità di una vita comoda che svilisce la morale e, in politica,
alimenta le bassezze della democrazia.
2. Il mito dello sciopero generale
Come Marx, Sorel considera comunque la rivoluzione un fatto irreversibile e protesta contro il
socialismo saggio che si espone solo attraverso le parole. Bisogna invece vincolare il socialismo
all’azione rude, decisa, inequivocabile, senza accomodamenti e compromessi con gli avversari. Il
socialismo non può essere soppiantato da una scienza sociale accomodante, escogitata allo scopo di
neutralizzare e di reprimere le tensioni sociali ed economiche che spingono le masse alla rivolta.
La formula, la parola d’ordine del socialismo radicale di Sorel è lo sciopero generale, nozione che
ha per lui una decisiva portata storica e che, se tradotta coerentemente in pratica, paralizzerebbe
qualunque velleità borghese, vanificherebbe qualunque mediazione del moderatismo, toglierebbe ai
socialisti l’illusoria ricerca di una conciliazione con il capitalismo, e soppianterebbe il simbolismo
della contestazione velleitaria con i gesti dissacranti di un effettivo movimento rivoluzionario.
Il socialismo va saldamente unito allo sciopero generale e poiché tale sciopero incontrerà delle
esistenze ne deriverà una lotta violenta e radicale, che il proletariato accetterà come inveramento del
suo destino storico.
Il mito dello sciopero generale è il più potente strumento di apprendistato rivoluzionario per
scuotere le coscienze delle masse, per tenerle in uno stato epico, per disporle ad affrontare una lotta
totale, gigantesca, fatta nel grande giorno, senza nessuna attenuazione ipocrita.
3. Determinismo e volontarismo
Una prima divergenza nei confronti del marxismo è riscontrabile sul tema dell’individualità. Per
quanto Sorel attribuisca alla conoscenza storica il compito di comprendere quanto vi è di meno
individuale negli avvenimenti, egli vuole però che l’azione rivoluzionaria costituisca la
manifestazione più clamorosa della forza individualistica all’interno delle masse ribelli, e che un
individualismo ricco di passione rimanga il fermento più qualitativo del socialismo. Mentre in Marx
la lotta di classe si impone come inalterabile dato di fatto della realtà sociale di cui rispecchia gli
onnipresenti conflitti economici, in Sorel essa diventa soprattutto un dato ideale e volontaristico,
uno strumento tattico, assumendo con ciò una certa artificiosità. Al determinismo egli oppone il
volontarismo.
4. Socialismo e reazione borghese
Il proletariato, con lo sciopero generale si ribella contro la borghesia; ma se questa o un’altra classe
sociale è capace di mobilitarsi e di reagire con violenza altrettanto eroica, acquisisce un proprio
titolo di legittimazione politica e morale.
5. La critica all’Illuminismo e alla democrazia
Bisogna screditare coloro che in politica volgarizzano le idee illuministiche adattandole agli
interessi della borghesia e alla cupidigia delle masse, e valorizzare invece ciò che l’Illuminismo non
possiede e cioè il pensiero eroico, drammatico e sublime della vita e della storia. La democrazia
appare a Sorel come prosecuzione dello spirito illuministico e va perciò combattuta come fonte di
disgregazione e di appiattimento dei valori, come volgare mescolanza tra l’oligarchia dei politicanti
e i sentimenti meschini della generale mediocrità.
6. Il confronto con Proudhon
Gli ideali di Sorel cercano motivi di convergenza con il pensiero di Proudhon. Questa convergenza
può apparire molto discutibile perché nell’etica proudhoniana la violenza non esercitava alcuna
funzione rigeneratrice e non rappresentava affatto un valore sublime.
7. Le ambiguità teoriche
La forza motrice della storia è la lotta sublimata dall’eroismo; il metodo della lotta è la violenza
depurata dalla brutalità; l’ideologia è quella dello sciopero generale anch’esso tuttavia mosso non
da un istinto di odio, ma da un impegno di volontarismo etico.
MAX WEBER
1. Il realismo politico
Che l’essenza della politica sia la lotta, che le regole della politica non siano quelle della morale, e
che nei rapporti politici il potere assuma anche un volto demoniaco, tutto questo appartiene
all’ispirazione fondamentale del pensatore tedesco, per il quale il realismo politico è cosa diversa da
un machiavellismo spicciolo che fa della potenza solo un istinto volgare di dominio, e della
grandezza dello stato solo un fatto di prevaricazione e di usurpazione.
2. Avalutatività e scienze sociali
Le scienze sociali sono scienze della cultura, e cogliere il significato culturale degli oggetti studiati
è una loro essenziale obbligazione critica, anche se non convergente con l’obbligo di una
preliminare scelta di valori. Le scienze empiriche della società e della politica hanno il compito di
elaborare dei tipi ideali per fissare il senso della realtà storico-sociale in forme di pensiero.
Weber specifica che nella formulazione di un tipo ideale la scienza è tenuta a riconoscere la
rilevanza delle forze collettive e dei movimenti di massa, deve però guardarsi dall’impiego
indiscriminato di concetti collettivi. Il suo tipo ideale non cerca uniformità collettivistiche, ma
connessioni in cui l’elemento individuale sia misurato nella sua specifica incidenza su ogni insieme
pratico.
Avalutatività del metodo scientifico, ma sul presupposto che gli scienziato sociali sono cercatori
non solo di dati di fatto ma anche di significati e che l’ordinamento concettuale dei fenomeni
assume rilevanza anche dal punto di vista esistenziale e sociale.
Le scienze sociali sono chiamate a delle valutazioni pratiche e il loro compito consiste nel mettere
in luce, con i mezzi propri, alcune relazioni essenziali dell’agire umano nel mondo socio-politico.
3. Le legittimazioni del potere
La metodologia di Weber trova significative applicazioni in politica. La sua vocazione, come
abbiamo detto, è realistica, e perciò la politica è per lui non la ricerca di un modello di stato buono
in senso assoluto, ma un’attività che influenza e condiziona la direzione fondamentale che prende
un’associazione politica, nel mondo attuale costituita essenzialmente dallo stato. Tra stato e forza vi
è una relazione molto stretta. E’ illusorio pretendere di espellere l’energia e la potenza dalla
struttura e dall’azione dello stato,e di fare politica senza aspirazione a partecipare al potere e a
ripartirlo in un certo modo.
I criteri di legittimazione del dominio sono riconducibili essenzialmente a tre: l’autorità dell’eterno
ieri, cioè del costume, della consuetudine e della tradizione; l’autorità del carisma inteso come un
don di grazia personale di natura straordinaria; l’autorità della legalità basata su una fede pubblica
che crede nell’adempimento di doveri stabiliti da norme.
Egli distingue tra politici di occasioni e politici di professione, ma all’interno di questi ultimi tiene
separate due categorie tra loro diverse: coloro che vivono per la politica, e coloro che vivono di
politica. Per quanto un reclutamento non censitario dei ceti dirigenti richieda che questi possano
percepire per adempiere alle loro funzioni un reddito regolare e sicuro, fare politica nel primo
significato vuol dire dedicare ad essa il massimo impegno di conoscenza e di responsabilità,
considerandola come qualcosa di essenziale ai destini dell’uomo, mentre vivere di politica significa
sfruttare l’attività politica per costituire a proprio favore rendite parassitarie e per soddisfare la
propria sete di potere e i propri interessi personali.
4. Etica della convinzione e della responsabilità
Anche se la legge politica non è la legge morale e la dignità dello stato non si identifica con quella
della coscienza individuale, la politica include l’idea di orientamento etico. L’agire in senso etico
può tuttavia oscillare tra due massime diverse ed opposte. Da una parte l’etica della convinzione,
dall’altra l’etica della responsabilità. Con l’etica della convinzione si agisce in base a delle opzioni
di valore a cui si attribuisce una validità permanente, un fondamento qualitativo incontestabile, non
assoggettabile a transazioni, accomodamenti e compromessi. L’etica della responsabilità vede che
ogni azione ha delle conseguenze prevedibili, bisogna risponderne a noi stessi e soprattutto agli
altri. Chi segue l’etica della convinzione vorrebbe vincolare tutto a principi reputati i più coerenti, i
più saggi, i più logici e si comporta perciò come un razionalista cosmico-etico. Non si può
prescindere dall’etica della responsabilità nelle situazioni reali della vita politica.
5. Razionalità e disincantamento
La politica non esprime mai per Weber un sistema compiuto. Ogni equilibrio politico invecchia e
deve essere superato, e non ci si deve illudere di poterlo rendere più stabile e coerente attraverso le
progressive razionalizzazioni delle scienze e delle tecniche. Pur combattendo l’irrazionalismo,
Weber non ritiene che incrementare la razionalizzazione significhi di per sé accrescere il dominio
dell’uomo sulla realtà.
Se la crescente razionalizzazione della società moderna non riesce a darci una maggiore sicurezza,
né a rendere impeccabili i nostri comportamenti, essa crea ciò che Weber chiama il disincantamento
del mondo, cioè la perdita del fascino mistico e religioso delle grandi connessioni cosmiche della
vita, lo smarrimento di quel palpito dell’indefinibile che un tempo pervadeva e rinsaldava come un
soffio profetico e una fiamma impetuosa le grandi comunità.
6. Il valore del Parlamento
Per quanto egli sia teorico di uno stato forte, e anche di uno stato di potenza, egli è un critico della
politica di Bismark. Secondo Weber, la nazione tedesca è rimasta, dopo Bismark, senza educazione
e senza volontà politica, perché abituata al fatto che il grande uomo di stato dovesse interamente
sostituirsi ala nazione. Il parlamento tedesco gli sembra incapace di discutere i grandi problemi e di
decidere autorevolmente su di essi, mentre è dall’autonomia delle funzioni di un libero parlamento,
sottratto ai condizionamenti della burocrazia che dipende il futuro della politica.
Lo stato tedesco è progredito dal punto di vista della sua struttura burocratica, ma la
burocratizzazione universale minaccia la vita del parlamento, blocca la libera attività delle
rappresentanze popolari e demoralizza l’autorità stessa del governo.
La politica è positiva quando il parlamento può prendere delle decisioni, è negativa quando esso,
manovrato dalla burocrazia, è costretto ad agire in modo opportunistico, sfruttando per interessi
corporativi e per spartizioni di vantaggi contingenti i margini di iniziativa che gli sono lasciati
dall’amministrazione.
7. Il carisma
La formazione delle elites e di una leadership è essenziale alle funzioni dello stato moderno; ma ciò
diventa possibile quando un parlamento è reintegrato nella pienezza delle sue funzioni. Soltanto un
parlamento che lavora può costituire il terreno sul quale crescono e, attraverso la selezione,
compiono la loro ascesa uomini con qualità di capo autenticamente politiche e non meramente
demagogiche.
La figura del capo carismatico come esigenza di una democrazia funzionante e regolata.
Il parlamento deve garantire di fronte a questo capo scelto dalla massa come suo fiduciario una
certa stabilità, componendo entro un quadro istituzionale le lotte politiche e sociali. Spetta al
parlamento controllare la potenza dei capi, imponendo garanzie politiche e giuridiche nei loro
confronti e obbligando i politici che cercano la fiducia delle masse a dare prima di tutto prova di se
stessi nell’ambito parlamentare, allontanandoli da tentazioni autoritarie extraparlamentari. Compete
inoltre al parlamento la funzione essenziale di rimuovere pacificamente i capi quando essi hanno
perduto il consenso popolare.
8. Democrazia e partiti
La concezione weberiana della storia ha una certa connotazione aristocratica e il ruolo dei capi
carismatici e delle elites ha una incidenza fondamentale nei più importanti processi di mutamento e
particolarmente nelle situazioni di crisi. Le masse non sono però neppure nel rapporto carismatico,
un elemento passivo, perché possono dare e togliere potere al capo, la cui missione deve, in
definitiva, avere come scopo l’emancipazione popolare.
La democrazia ha bisogno di un capo, ma il principio essenziale di questo regime rimane
l’uguaglianza giuridica dei cittadini, che ha nel parlamento la suprema garanzia. Weber è un
democratico che tenta di collegare la borghesia con la classe lavoratrice anche attraverso
l’affidamento di questa causa superiore tenuta a equilibrare gli interessi contrastanti.
CARL SCHMITT
1. La logica amico-nemico
Schmitt è stato un teorico dell’autoritarsimo e con le sue opere ha cercato di rendere sistematici gli
assiomi dello stato totale personificati dal nazismo. Il punto essenziale della sua riflessione è di aver
posto come fondamentale categoria della politica la logica amico-nemico. Tutti i fenomeni
significativi della vita politica ruoterebbero intorno a questa categoria.
2. Sovranità e decisione
Schmitt muove dal presupposto che la categoria del politico abbia una sua dimensione totale ed
eserciti quindi una incidenza radicale su tutti i comportamenti significativi della vita umana e
sociale.
La sua opinione è che il principio di sovranità non possa essere collegato a un concetto di normalità
o di fisiologia sociale, che non possa essere dedotto dai canoni di un ordinamento puramente
normativo, che non possa riferirsi all’eterno luogo comune del generale, alla tranquilla superficialità
del generale. Sovrano è chi decido sullo stato di eccezione.
La natura essenziale di un ordinamento giuridico si manifesta nelle situazioni di eccezioni, rispetto
alle quali la sovranità non può che essere illimitata. Ciò significa che lo stato una sua superiorità
rispetto alla norma, superiorità politica m,a anche giuridica perché sia la norma sia la sua
sospensione derivante da una decisione sovrana appartengono all’ambito del diritto e devono perciò
restare accessibili alla conoscenza giuridica.
La prima cosa da fare è stabilire l’ordine, solo allora si può avere un ordinamento giuridico, il quale
però riposa sempre sul presupposto che il passaggio dal caos all’ordine implica un elemento
decisionale.
Egli considera che l’autorità è buona in quanto tale, in quanto sussiste. Il problema di Schmitt è di
uscire da una specie di limbo in cui il liberalismo, la democrazia, lo stato di diritto avrebbero
lasciato i problemi politici, nel loro illusorio tentativo di sfuggire alle responsabilità fondamentali
connesse agli imperativi della decisione.
L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine. Lo stato come modello dell’unità politica, lo
stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione
politica, sta per essere detronizzato.
3. I concetti polemici della politica
La logica amico-nemico è il politica tassativa ed esclusiva e non ha bisogno di essere completata
con altre distinzioni di carattere estetico, morale ed economico; essa vale in un senso prettamente
politico e la politica non ha bisogno di utilizzarla in altri sensi. I concetti di amico e nemico non
vanno considerati in un significato esistenziale, individualistico e privato, ma appunto in un
significato pubblico e politico.
A giudizio di Schmitt, tutti i concetti e i termini di cui la politica si vale hanno essenzialmente un
significato polemico; sono tutti nati con un senso avversativo, per contrapporsi a qualcosa. Se si
riuscisse a distruggere o a rendere irrilevante la polemica e la guerra, e a creare un mondo senza
nessuna distinzione tra amico e nemico non vi sarebbe più politica, e senza politica il mondo non
sarebbe più.
Nessun popolo riuscirebbe a proporre e a garantire all’umanità uno stato puramente morale o
puramente economico se rinunciasse a ogni decisione politica. Finchè esiste lo stato, ci sarà sempre
una molteplicità di stati in potenziale antagonismo tra loro.
4. Autorità, verità e neutralità
Le neutralizzazioni del liberalismo non sono fruibili pacificamente, vengono di volta in volta
smentite negli ambiti storici, sociali e culturali in cui si presumeva si fossero affermate e sono
quindi costrette a trasmigrare altrove, senza peraltro mai trovare localizzazioni sicure. Appena un
terreno neutrale sembra essere stato conquistato, appena la lotta sembra poter lasciare il posto a una
dialettica civile, pacata e tollerante, regolata dall’imparzialità del diritto. L’umanità migra in
continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale e continuamente il terreno neutrale
appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa
necessario cercare nuove sfere neutrali.
Schmitt ammette che ogni pensiero politico e giuridico si lavora sia attraverso regole normative, sia
attraverso decisioni, sia attraverso strutture, ma egli non ha fiducia nel principio normativistico che,
contrapponendo la lex al rex si illude che la legge conti più del comando, e che ciò che garantisce la
vita sociale siano solo norme impersonalmente vigenti.
VLADIMIR ILIC LENIN
1. L’intransigenza rivoluzionaria
L’ideologia leninista si presenta con una sistematicità intransigente e respinge ogni debolezza e
problematicità che possa scalfire l’organizzazione monolitica della classe operaia e la compattezza
granititica della lotta rivoluzionaria.
Il leninismo dà la caccia a tutto ciò che possa minacciare la disciplina di partito e rompere i passi
cadenzati dei battaglioni ferrei del proletariato che vanno alla conquista della società e dello stato.
La dottrina leninista continua, rinsalda e militarizza quella di Marx. La concezione materialistica
della storia, anche se non è la chiave di tutte le serrature storiche spiega l’organizzazione
dell’economia capitalistica in modo decisamente migliore di quanto non possano fare altre teorie e
dimostra, senza astratti giudizi moralistici, che lo sfruttamento è la conseguenza necessaria del
regime sociale esistente.
Lenin riprende l’essenziale argomentazione di Marx: il capitalismo è costretto a rendere sempre più
collettive le forme della produzione perché la sua organizzazione economica ha bisogno di un
progressivo accentramento e di una generale socializzazione, ma queste forme socializzate di
produzione entrano in contrasto inconciliabile con le forme di appropriazione imposte dal
capitalismo. Di qui l’esigenza inderogabile della trasformazione del regime capitalistico nel
socialismo integrale, che è a sua volta l’espressione compiuta di un programma coerentemente
democratico, se per democrazia si intende la radicale negazione dell’assolutismo, che è sempre
borghese, che ha in tutte le sue manifestazioni un contenuto di classe.
2. La lotta al revisionismo
Lenin rigetta il revisionismo e il tipo di connessione politica che voleva stabilire tra democrazia e
socialismo, e non esita per questo a rinunciare alla stessa espressione di socialdemocrazia quando
paventa che questo termine sia stato già contaminato. I torti aberranti di Bernstein sono stati per
Lenin quelli di aver trasformato il socialismo da partito di rivoluzione sociale a partito democratico
di riforma; di aver negato il fondamento scientifico del socialismo; di avere contestato il principio
della miseria crescente del proletariato nella società borghese e della lotta inevitabile tra le classi; di
aver abbandonato il concetto di scopo finale del socialismo; di aver respinto l’idea della dittatura
del proletariato; e di aver negato l’opposizione di principio tra liberalismo e socialismo.
Lenin ha dubbi: c’è un’ideologia borghese e c’è un’ideologia socialista, senza vie di mezzo. Una
terza ideologia non esiste né può formarsi perché in una società dilaniata dagli antagonismi di classe
ogni ideologia ha un fondamento classista.
3. La dittatura del proletariato
La nuova parola d’ordine dell’azione rivoluzionaria è la dittatura democratica rivoluzionaria del
proletariato e dei contadini; dittatura da fondare sulla forza armata delle masse, e da non spartire
con alcuno.
La dittatura del proletariato viene proposta come una istituzione transitoria, destinata a cessare
quando gli uomini si abitueranno ad osservare le regole della coesistenza senza violenza, senza
settarismi e sottomissione, in una società sena classi riconciliata con se stessa e resa armonica
dall’integrale disalienazione del lavoro e dal gigantesco sviluppo delle forze produttive conseguente
alla radicale espropriazione dei capitalisti.
L’unica morale valida per un comunista è quella che si connette alla inflessibile disciplina nei
confronti del partito e all’impegno incondizionato nelle lotte di massa. Distruggere le risorse
spirituali, oltre che materiali, dell’individualismo borghese è quindi una obbligazione etica del
comunismo.
4. Le difficoltà del nuovo ordine sociale
Lenin si è dovuto confrontare con gli immensi problemi sociali ed economici sorti dopo l’avvento
del potere proletario. Quando si trova alla direzione dello stato sovietico subentra in lui la
consapevolezza degli errori e delle insufficienze di metodo e di organizzazione che il comunismo ha
rivelato dopo il trionfo. La cosa più importante per il nuovo ordine sociale è la produttività del
lavoro; se questa non c’è, il capitalismo non potrà essere realmente battuto e anzi la società
comunista andrà in rovina.
Queste ed altre analoghe ammissioni. Le insufficienze del sistema comunista possono certo essere
addebitate al fatto che il bolscevismo non si è affermato come rivoluzione europea e mondiale e che
finchè la Russia è la sola repubblica operaia, in un mondo ancora dominato dal vecchio
ordinamento borghese, i comunisti rimangono più deboli dei capitalisti e si trovano sempre sotto la
minaccia della controrivoluzione.
5. Comunismo e capitalismo di stato
L’inattesa proposta avanzata da Lenin come uomo di stato di fronte alle difficoltà oggettive del
regime sovietico è quella di accettare una qualche sospensione nella lotta contro il capitalismo e di
sollecitarne una certa restaurazione, sempre però sotto l’egida del potere statale comunista e della
dittatura del proletariato.
Il problema prioritario gli sembra quello di salvare l’economia sovietica dal fallimento, e per questo
scopo ritiene indispensabile l’eredità scientifica e tecnica del capitalismo, perché il proletariato è
ancora incapace di gestire in proprio una moderna società industriale. La prospettiva politicoeconomica di Lenin cerca così, per far fronte alle difficoltà, una combinazione tra il capitalismo di
stato e la dittatura del proletariato.
IL FASCISMO
1. Lo stato totalitario
Rimane un dato permanente del fascismo la sua refrattarietà a definirsi in termini concettuali e la
sua inclinazione a proporsi soprattutto come un atto di vita che supera ogni esercitazione di parole.
L’antiintellettualismo, l’irrazionalismo, il volontarismo sono componenti del pensiero di Mussolini
e della mistica fascista.
L’elemento essenziale del fascismo vorrebbe essere il modo spiritualistico di concepire la vita
contro le concezioni positivistiche; un antipositivismo munito di un carattere positivo nel senso che
non indulge allo scetticismo, al relativismo, al nichilismo. Questo spiritualismo esalta l’azione e
l’avventura, disdegna la vita comoda del perbenismo borghese, incitando a vivere pericolosamente,
a cercare nell’entusiasmo la propria espansione vitale, a superare ogni forma di individualismo
democratico e liberale.
Il fascismo non intende fermarsi alla precaria spiritualità dell’individuo, ma cerca il compiuto
dispiegamento della spiritualità nell’assoluto valore etico dello stato. La dottrina fascista sostiene
che no c’è differenza sul piano etico tra individuo e stato perché l’autentica moralità del soggetto si
manifesta solo nella sua totale immedesimazione nella vita dello stato.
Lo stato non è il guardiano notturno, il semplice garante della coesistenza dei cittadini, ma ha una
natura universale che gli impone di controllare l’insieme delle forze politiche, economiche e morali
della nazione.
E’ la gerarchia e non l’uguaglianza che per il fascismo costituisce il fondamento dell’autorità statale
e dell’organicità sociale.
La dottrina fascista non esclude il consenso popolare, ma lo vede connesso all’impulso vitale che loi
stato riesce a dare all’intera collettività, e non intende invece accertarlo attraverso il pubblico
dibattito e le procedure parlamentari.
2. Il mito della nazione
La nazione è l’idea forza di cui il fascismo si serve per alimentare il suo mito politico, ma anche per
opporsi alle tentazioni della rivolta sociale. L’idea nazionale accoglie infatti l’impulso ideale della
rivoluzione, ma togliendole il suo carattere economicistico e mettendo al suo posto il superiore
valore etico di una comunità popolare, di fatto la rende inutile.
Il fondamento spiritualistico della nazione non può ridursi a semplice dato naturale, geografico ed
etnico.
Il fascismo non si sente rappresentante di una razza, e neppure si considera fenomeno
esclusivamente italiano perché, pur munito di propri istituti nazionali, aspira a irradiarsi ovunque a
proporsi come una categoria universale dello spirito. E a sua volta la nazione, per non essere
semplice etnia e per non subire il condizionamento dei suoi elementi più grossolani, deve intendersi
come prodotto della suprema idealità dello stato.
Il fascismo tende a identificare ideologia e mito. L’ideologia è un gruppo di valori prestabiliti che
nell’esaltazione del mito cercano la loro realizzazione al di fuori delle verifiche razionali e dei
calcoli delle possibilità. E a loro volta, mito e ideologia si distinguono dall’utopia che agli
intellettuali fascisti, influenzati da Sorel, appare come un artificio razionale per abbellire il mondo
futuro attraverso escogitazioni concettualistiche di pura immaginazione.
La sua matrice principale rimane l’attivismo, che vede compito essenziale dello stato dare al popolo
grandi parole, agitare grandi idee, proporre grandi traguardi, affascinare con esaltanti imprese.
IL NAZISMO
2. Il decadentismo borghese e marxista
Fin dalle sue origini il nazionalsocialismo ha una sua collocazione antiborghese,
antiindividualistica, anticapitalistica e antiparlamentare. I partiti borghesi sono considerati corrotti,
in disfacimento, non più in possesso di quel’attrazione magnetica a cui le masse umane
obbediscono, assolutamente incapaci di combattere con fanatica volontà per i propri punti di vista.
Occorre perciò foggiare un nuovo partito radicalmente diverso, militarizzato, composto da uno
stuolo di guerrieri decisi a liberarsi definitivamente delle fatiscenze del regime parlamentare.
3. Il partito e il capo
Il nazionalsocialismo mette al centro della lotta politica l’idea del dominio dei forti e della
sottomissione di chi è considerato inferiore. Il diritto è un privilegio che spetto solo a chi lo merita e
cioè alla razza dei potenti, alla razza padrona.
Per questo compito la dottrina nazista non deve assumere un contenuto genericamente politico, ma
affermarsi come strumento di lotta e coimplicare in questa tutte le masse. Ciò non significa però
agire secondo il punto di vista delle masse, riconoscendole protagoniste decisive della storia. Il
nazismo non si serve delle masse, vuole che dalle masse emerga l’uomo che deve formarle e
dominarle con principi ferrei che non ammettono discussioni o dissensi. Perciò la formula ottimale
del partito è quella che consente la formazione di un’organizzazione chiusa, saldamente unitaria. In
questa organizzazione il capo ha un potere carismatico e la sua volontà ha valore di legge suprema.
4. Lo stato e la razza
L’idea centrale di questa politica non è più la classe e neppure lo stato, ma è l’idea della razza che,
secondo Hitler, ha un inoppugnabile fondamento nella natura e si munisce quindi di una
legittimazione scientifica. Bisogna perciò obbedire alla natura ed eliminare ogni riferimento al
principio della uguaglianza delle razze, da sostituire radicalmente con il principio contrario,
positivisticametne e naturalisticamente definito, che la razza migliore ha diritto a trionfare nella
storia.
I problemi della politica si risolvono quando questa razza superiore è pienamente cosciente di se
stessa e combatte con tutti i mezzi per affermare il suo dominio nel mondo.
Il marxismo e il capitalismo sono intrinsecamente connessi con l’ebraismo, e perciò la lotta contro
quelle ideologie presuppone la lotta spietata contro gli ebrei, considerati responsabili di ogni
contaminazione del popolo tedesco.
Il nazismo non fa dello stato il protagonista essenziale della politica, perché lo stato non ha dei fini
propri, non rappresenta un valore autonomo, no personifica una sua originaria eticità, ma è solo un
mezzo per sevire gli interessi della razza superiore e per garantirne la forza e la purezza.
BENEDETTO CROCE
1. Storia e liberalismo
Più che come un partito o come una dottrina politica il liberalismo di Croce si propone dcome un
principio immedesimato nel corso degli eventi storici, di cui rappresenta l’inveramento e il segno
qualitativo.
Il progresso non è da misurare con i parametri pratici del piacere, dell’utilità, della felicità e si
connette invece a una più matura consapevolezza della condizione umana, che conosce il perpetuo
crescere della propria spiritualità anche perché sa meglio intendere l’alto e complesso dolore della
storia.
La storia è storia della libertà, senza bisogno di altre aggiunzioni qualificative. La libertà non chiede
ad altre idee e ad altre forze dei contenuti che le manchino. Questi contenuti essa deve darseli da
sola, scoprendoli e valorizzandoli nei vari ordini della creatività umana.
2. Etica e politica
Croce stabilisce un rapporto di distinzione tra filosofia della storia e liberalismo da un lato e politica
dall’altro. Storia e libertà raffigurano, nella sua speculazione teoretica, l’idea di un bene che
progressivamente si fa largo nella ressa dei fatti umani e sociali, coinvolgendoli nella ricerca
incessante della perfettibilità etica e immedesimandoli nella universalità della vita spirituale. La
politica è invece, in prima istanza, il mondo della forza, dell’interesse e del contrasto, una realtà
specifica retta da leggi che non sono quelle del bene e della libertà.
La politica non vive di competizioni etiche, ma di contese tra stati, ciascuno dei quali ha una sua
dignità da far valere come sua ragione d’essere. Assimilare la moralità degli stati a quella degli
individui sarebbe abusivo.
Lo stato e la politica raffigurati in termini di crudo realismo non comprendono tutto l’uomo, la cui
potenzialità etica supera le determinazioni pratiche della politica, e irradiandosi su tutta la vita
storica costringe le azioni politiche e statali a disfarsi e rifarsi per adattarsi di volta in volta alle
esigenze che la stessa moralità pone nel suo inestinguibile processo spirituale.
Il lavoro utilitaristico dello stato e della politica è un momento necessario e eterno, ma non è tutto, e
deve fare i conti con la coscienza e l’attività morale che penetrano anche nella vita dello stato,
imponendogli obbligazioni culturali non riducibili alla sua mera logica di potenza.
Da una parte lo stato politico e amorale che guarda al proprio interesse, che segue solo il suo
impulso e la sua regola di dominio, dall’altro lo stato etico che esprime una coscienza intellettiva e
morale e che aspira a una politica più che umana. Entrambe le definizioni e le posizioni dello stato
sono vere, non possono reciprocamente escludersi e devono perciò essere pensate e vissute
dialetticamente.
La politica è considerata in termini di realismo, ma di un realismo non così intransigente da
precludere ogni idea etica della politica e ogni possibilità dello stato di incarnare un ethos umano e
di elevarsi a stato di cultura.
3. Autorità, libertà e democrazia
Croce esalta la libertà ma, nella concretezza della vita politica, la vede inscindibilmente connessa
con l’autorità. Non esiste libertà pura, come non esiste autorità incondizionata. La sovranità statale
è una relazione di autorità e di libertà, principi da non polarizzare, ma da vedere piuttosto nelle loro
complementarità e mutue implicazioni.
Il liberalismo non persegue miti egualitari e non crede a quel demagogico romanticismo che
attribuisce alle masse il potere di una rigenerazione globale della società. L’uguaglianza non
sarebbe possibile se non nella completa autarchia, dove ciascuno degli uguali non avrebbe nulla da
chiedere all’altro. Ma tale uguaglianza non riuscirebbe a fondare uno stato, perché ogni individuo
sarebbe uno stato a sé, e neppure darebbe vita a una qualche forma di contrattualismo sociale perché
a individui uguali e autarchici manca la materia del contrattare, cioè la diversità su cui fondare i
rispettivi diritti e doveri.
4. Limiti liberali del liberalismo
Pone una netta differenza tra liberalismo e liberalismo economico. Se al liberalismo si dà valore di
regola e di legge suprema della vita sociale, esso si troverà accanto il liberalismo politico parimenti
convinto di personificare una legge suprema. Da ciò nasce un conflitto che per Croce si risolve
attribuendo al liberalismo etico una priorità qualitativa su quello economico. Per far avanzare
storicamente l’idea della libertà, il liberalismo deve servirsi di tutti i mezzi che si dimostrino più
idonei a tale compito, e quindi, all’occorrenza, anche di misure diverse da quelle libere. Il
liberalismo può approvare molte richieste del liberismo, ma esso le approva non per ragioni
economiche, ma per ragioni etiche, e con queste le sancisce.
5. Il confronto con il socialismo
Croce ammette che le istanze liberali possono avere delle convergenze anche con quelle socialiste,
quando esse fossero parimenti rivolte alla promozione della libertà. La seria opposizione di
principio del liberalismo nei confronti del socialismo riguarda l’ambizione di quest’ultimo a
costruire la società attraverso un modello da realizzare anche con misure di carattere autoritario. Il
liberalismo ha invece come suo unico ambiente la storia e qui sperimenta i suoi valori senza dedurli
da paradigmi di verità esterne. Il liberalismo non pone la borghesia come categoria costitutiva della
sua vocazione etica e politica e respinge perciò gli attacchi che il socialismo gli rivolge in questo
senso. La mentalità liberale non si schiera aprioristicamente a favore del conservatorismo o del
progressivismo, e cerca di comprendere e di mediare con criteri di imparzialità anche ragioni
avverse.
ANTONIO GRAMSCI
1. Marxismo e storicismo
Di questa espressione materialismo storico si è dato il maggior peso al primo membro, mentre
dovrebbe essere dato al secondo. Pur con tutte le essenziali differenze, Gramsci risente dello
storicismo di Croce e soprattutto di quello di Gentile, autore quest’ultimo che più di tutti gli ha
insegnato a considerare la storia come una realtà che ingloba integralmente ciò che serve alla vita,
che può definirsi in termini di civiltà e che tende a un progressivo completamento di tale civiltà. Ma
poiché la storia è un divenire e non un sistema di perfezione logica, il processo di totalizzazione
deve rimanere aperto e non pretendere ad alcuna predeterminata compiutezza fenomenica.
E’ compito del materialismo storico organizzare tutta la forza della massa, ma anche sfruttare tutti
gli apporti di filosofie di origine diversa suscettibili di confluire verso il marxismo, per creare,
secondo l’espressione di Sorel un blocco storico. C’è in Gramsci una forte rivalutazione del ruolo
degli intellettuali, ma per intellettuali egli intende non le figure tradizioni di uomini di cultura e di
scienza che praticano l’esercizio critico del pensiero da posizioni distaccate, ma tutti coloro che
hanno una funzione organica nello stabilire l’egemonia del gruppo dominante sull’intera società e
che rendono politicamente possibile u progresso intellettuale di massa. Non quindi intellettuali
senza massa, ma intellettuali di una massa. La funzione dell’intellettuale non è quella di consumare
la propria cultura in circuiti esistenziali, ma di usarla al servizio di un gruppo sociale e in funzione
di una prospettiva politica e cioè pensando, e agendo come intellettuale organico.
2. Totalità, egemonia, conformismo
Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria senza accomodamenti riformistici, anche se talvolta può
allearsi a movimenti estranei per contrastare condizionamenti precapitalistici ancora esistenti nella
società. In quanto pensiero rivoluzionario, la tendenza di fondo del marxismo è a determinare una
separazione completa tra due schieramenti opposti e a rappresentare un vertice inaccessibile agli
avversari. Il materialismo storico esprime una concezione della storia, della politica e
dell’economia, intrinsecamente connesse tra loro. IL suo problema è come la storia e la politica si
riflettono nell’economia, come l’economia e la politica si riflettono nella storia, come la storia e
l’economia si riflettono nella politica.
Al totalismo egli dà un significato positivo quando esso esprime la funzione totalizzante
dell’ideologia comunista. Il suo convincimento è che i partiti di tipo totalitario stiano dominando la
politica e che quindi la lotta si svolga tra opposte categorie totalizzanti.,
Si deve però distinguere tra vera e falsa totalità e totalitarismo falso gli appare quello fascista, che
mette forzosamente insieme cose eterogenee, senza capacità di attuare una vera unificazione
culturale e un amalgama completo della società. E’, d’altra parte, non c’è posto nella società del
futuro per uno stato di diritto neutrale che lasci agli individui il loro libero gioco limitandosi a
regolare le condizioni generali della coesistenza. Lo stato deve essere concepito come educazione a
un nuovo tipo di uomo, a un nuovo livello di civiltà e quindi come stato etico tendente a porre fine
alle divisioni interne di dominati e a creare un organismo sociale tecnico-morale.
La società così unificata attraverso la sovranità di una forza rivoluzionaria dominante deve
esprimere un nuovo conformismo, termine che Gramsci non usa in senso spregiativo, come
abbrutimento del comportamento umano, perché ogni lotta per l’egemonia gli sembra lotta tra
conformismi diversi, cioè tra gruppi sociali opposti, ciascuno dei quali si riconosce in uno stile di
vita e di pensiero.
3. Il nuovo principe
Gramsci ritiene che il proletariato, protagonista privilegiato di questo processo di totalizzazione,
abbia in molti sensi già acquistato storicamente una capacità espansiva che non cessa e che può
spingersi fino all’assorbimento integrale della società. Al contrario la borghesia, che pure era una
classe in ascesa, dà invece segni di decadenza, perde il contatto con l’universalità del suo destino,
dimostrando di avere esaurito la sua missione storica.
Gramsci concede poco al moralismo astratto; l’azione politica si misura in base all’efficacia con cui
persegue i suoi fini. Allo stesso modo, la rude lotta del proletariato non è da valutare con criteri
moralistici, ma in relazione all’universalità di una missione corrispondente a una necessità storica.
Il comunismo è espressione per Gramsci di una scienza nuova della società, in grado di spiegare
con propri mezzi le questioni vitali falsate dall’opposta ideologia borghese.
Il nuovo principe capace di rappresentare questi valori è il partito che organizza il proletariato, un
partito da vedere non in astratto e in riferimento a una classe sociale anch’essa astratta, ma in un
ambiente storico concreto in una determinata tradizione, in una specifica combinazione di forze
entro cui la volontà collettiva possa realmente impegnarsi.
Ciò che conta nel comunismo è la formazione dell’uomo collettivo, che si svolge in relazione alla
posizione occupata dalla generalità dei soggetti nel mondo della produzione. L’individuo storicopolitico non è da intendere nella sua composizione biologica o nei suoi dati esistenziali o nella sua
pretesa di libertà di iniziativa economica, perché la sua realtà è essenzialmente quella del gruppo
sociale di appartenenza. Il moderno principe deve essere non un individuo isolato, ma un organismo
che si concretizza in una azione di massa.
E’ interessante notare come Gramsci introduca nel lessico marxista il termine nazional popolare,
quasi a significare che il suo progetto intende riferirsi a un ambito nazionale piuttosto che a un
cosmopolitismo astratto. La volontà collettiva nazional popolare non è un espediente per
interrompere e deviare la logica rivoluzionaria; è, al contrario, nella sua forma compiuta,
espressione totale di una civiltà moderna. E perciò, riforma intellettuale e morale e volontà
collettiva nazional popolare sono parti integranti di una globale trasformazione economica.
4. Rivoluzione e fanatismo
La visione universalizzante di Gramsci implica la scomparsa progressiva delle contraddizioni
sociali. Una volta che la filosofia della prassi si è instaurata nella nuova società e nella nuova
civiltà, nessuna idea potrà nascere sul terreno delle contraddizioni economiche e sociali.
Per quanto Gramsci creda nella validazione oggettiva della necessità di un integrale mutamento,
egli è consapevole che l’oggettività è un divenire e che niente perciò può essere in materia sociale
vincolato a un parametro fisso e a uno schematismo logico prestabilito. La società borghese ha
comunque una sua intrinseca capacità di resistenza ed è vano illudersi che un elemento economico
catastrofico possa metterla in crisi definitiva. Vale per Gramsci il principio che nessuna forma di
società sparisce prima di aver esaurito tutte le possibilità di sviluppo. La borghesia ha perduto
queste possibilità.
KARL POPPER
1. Storicismo e sapere critico
Popper estende il metodo scientifico di osservazione e di verifica anche al campo delle conoscenze
politiche. Essenzialismi, apriorismi, sistematicità integrali portano inevitabilmente verso la società
chiusa e il totalitarismo, mentre l’idea della fallibilità, cioè del riconoscimento che possiamo
sbagliare è una condizione del progresso.
L’atteggiamento scientifico implica la critica ad ogni cosa, e si rivela perciò incompatibile con
l’idea che il mutamento possa essere previsto, perché è governato da una legge che non cambia.
La lotta al totalitarismo, all’essenzialismo, allo scientismo converge in Popper con la sua
intransigente opposizione allo storicismo, visto come una filosofia secondo la quale storia è guidata
da leggi immanenti al suo sviluppo, leggi che portano in un’unica direzione e definiscono un
traguardo per raggiungere il quale tutto può essere sacrificato. L’atteggiamento storicistico sembra a
Popper collegato con l’utopismo e con tutte le dottrine che, rifiutando una visione pluralistica della
società, mettono la scienza e l’azione politica al servizio di un disegno globalmente raffigurato.
2. Individualismo e collettivismo
Alla nozione di società chiusa, Popper oppone quella di società aperta, secondo una dicotomia già
proposta da Bergson, ma che in Popper assume un significato molto diverso da quello che le
attribuiva il filosofo francese.
L’intuizione esercita un ruolo importante nei processi di trasformazione di una società già costituita,
ma essa porta al fallimento quando si connette a visioni accomunanti che distruggono la logica della
pluralità, delle delimitazioni e delle garanzie reciproche e quando instaura una specie di
irrazionalismo oracolare che ignora o deplora l’esercizio critico della razionalità.
Tutti i collettivismi, nella loro pretesa di personificare il più positivo futurismo morale, lavorano
intorno a questo pregiudizio radicalmente arbitrario: che se si vuole vincere l’individualismo e
incrementare tutte le forme possibili di altruismo, bisogna accettare il collettivismo.
La vocazione principale della modernità occidentale è il continuo approfondimento del valore
dell’individualità e delle possibilità di sviluppare se stessi in coerenza con la propria libertà,
rendendosi nondimeno capaci, dio altruismo e di generosità.
Il totalitarismo rappresenta l’etica propria della società chiusa, un’etica che è solo egoismo
collettivo, inevitabilmente destinato a radicalizzare la logica amico-nemico e a provocare con ciò le
più gravi alterazioni della vita spirituale e sociale. La tentazione totalitaria è comprensibile perché
rappresenta lo sforzo di reincarnare storicamente quel senso di appartenenza e di tutela che gli
uomini avevano all’interno della società chiusa.
La vera rivoluzione che ha dato il via a una civiltà umanistica è il passaggio dalla società chiusa alla
società aperta. Tale rivoluzione può essere molto promettente se gli uomini non esasperano
artificialmente la reazione a quei sintomi di relativo disagio e alienazione che sempre si presentano
quando l’uomo, strappato da certe appartenenze tradizionali, deve cimentarsi in un campo più
aperto di esperienza.
3. La società chiusa di Hegel
Dopo Platone, il più ostinato difensore degli ideali di una società chiusa è Hegel, colpevole, di voler
ripristinare nel pensiero politico i miti della totalità attraverso un metodo storicistico che pretende di
accedere ai profondi segreti del mondo attraverso intuizioni e misticismi. Hegel è un filosofo che i è
messo al servizio dell’autorità prussiana e ha adattato le sue dottrine alle esigenze del governo.
4. Stato di diritto, società aperta e riforme
Se lo stato di diritto – espressione istituzionale di una società aperta – combatte il totalitarismo, non
rinuncia però ad intervenire sulla società per operare delle riforme a favore dei ceti più deboli. Lo
stato può intervenire sulla società in due modi diversi ed opposti: o attraverso strutture legali e un
sistema di istituzioni protettive impersonali, o conferendo agli organi dello stato il potere di agire
per il perseguimento di finalità che i governanti del momento reputano giuste. La prima procedura
si può chiamare quella dell’intervento istituzionale o indiretto, la seconda è invece quella
dell’intervento personale. La funzione della democrazia è quella di criticare ogni forma tirannica di
governo, ed è tirannia anche la pretesa che il governo sia legittimato ad attuare in modo diretto e
coercitivo la sua propria visione dell’ordine sociale.
Il problema della democrazia è di limitare il potere, ovunque situato, nella maggioranza o
nell’opposizione. Le minoranze vanno protette, ma non quelle che aspriano al rovesciamento
violento della legalità.
5. Razionalità e democrazia
La ragione deve essere sempre usata in un senso che include tanto l’empirismo quanto
intellettualismo e non può perciò intendersi come un dato puramente mentale, come una proiezione
dell’assolutismo dei nostri assiomi personali e neppure come autoanalisi esistenziale messa al posto
dell’agire pratico.
Popper riconosce che la razionalità è un prodotto sociale, ma specifica che teoria sociale della
ragione vuol dire che essa è frutto di scambi e di mediazioni tra idee e attività che non devono
perdere la specificità dei loro riferimenti personali.
Le istituzioni non rappresentano in sé la ragione, ma in quanto danno pubbliche garanzie al pensiero
sono componenti della stessa razionalità, la quale cresce attraverso la critica reciproca.
La democrazia per Popper non è chiamata a fare il bene dei cittadini nel senso che debba
considerarsi depositaria e dispensatrice di un bene pubblico contenutisticamente determinato, ma è
piuttosto un insieme di limiti e garanzie entro il quale i cittadini possono agire. La democrazia non
deve perciò accettare una concezione etica dello stato, e può anzi difendere il valore positivo di uno
stato la cui eticità consista nel non professare e imporre una sua propria morale.
Scarica