Autore: Lorenzo Coari Scuola: Istituto Statale Virgilio, Milano Classe: V° SB Sezione del progetto: “Il sociale come scienza” Docente di Scienze Sociali: Prof.ssa P. Lucarelli Una finestra sulla globalizzazione. I cambiamenti politico-economici, la crisi degli stati-nazione, le conseguenze sulle società e sulle persone nella riflessione di Zygmunt Bauman. Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, è uno tra i più influenti pensatori contemporanei, nonché uno tra i più critici e attenti interpreti del mondo postmoderno e globalizzato. La riflessione sulla globalizzazione viene affrontata da Bauman già nel 1998 col suo saggio “Dentro la globalizzazione”, una lucidissima analisi di quel macrofenomeno che ha ridimensionato e continua a ristrutturare tutt’oggi l’assetto globale dell’economia, della finanza, della politica e delle comunicazioni, ripercuotendosi, in ultima analisi, sulle società e sulle vite dei singoli individui. Con il termine “globalizzazione” non si fa riferimento a un fenomeno circoscritto, a sé stante e soprattutto comprensibile in modo univoco e determinato una volta per tutte, bensì si allude ad un insieme di processi che spingono alla globalizzazione da una parte e alla localizzazione dall’altra. Per essere più precisi, dunque, bisognerebbe parlare di “glocalizzazione”, per utilizzare l’espressione del sociologo Roland Robertson. Volendo definire questo fenomeno tipicamente postmoderno (o tardomoderno) con le parole dello stesso Bauman, possiamo parlare di globalizzazione (o meglio “glocalizzazione”) come quel processo di concentrazione di capitale, finanze e risorse che consentono scelte e possibilità di agire, ma soprattutto concentrazione nella libertà di muoversi e di agire. In un mondo globalizzato, quindi, il parametro di discrimine viene a essere la mobilità, intesa non tanto come elevazione da uno status sociale ad un altro, ma come possibilità di muoversi nel mondo globale, libertà di decidere, investire e consumare, in breve possibilità di accedere alla “mobilità globale”. Con i processi di globalizzazione, sono ridistribuiti privilegi e privazioni di diritti, ricchezze e povertà, potere e mancanza di potere, libertà e vincoli; hanno come scopo, questi molteplici processi, quello di ridisegnare una nuova scala di stratificazione socio-culturale su scala globale. Lungi dal considerare la globalizzazione come “universalizzazione dei diritti” o come redistribuzione equa di ricchezze e potere a livello mondiale, siamo di fronte a processi di frammentazione che polarizzano, che integrano alcuni e parcellizzano altri, che globalizzano e localizzano allo stesso tempo. Processi complementari che procedono parallelamente sotto il nome di “globalizzazione”, che redistribuiscono su scala mondiale ricchezze e libertà. Nel tentativo di individuare una causa a questo macrofenomeno, la riflessione rischia di acquisire una dimensione economica, apparentemente limitata a un ambito specifico o a interpretazioni di stampo prevalentemente marxista, in assenza, però, di spiegazioni eziologiche altrettanto efficaci o evidenti. Ciò che può aver innescato i detti processi di glocalizzazione e gerarchizzazione mondiale, affonda le sue radici in una modernizzazione economica portata all’estremo, in quello che comunemente passa sotto il nome di “neoliberismo”: la diffusione indiscriminata e inarrestabile di regole – spiega Bauman – a favore della libertà commerciale e soprattutto della libertà di movimento dei capitali e della finanza. L’annullamento tecnologico delle distanze e dei limiti spazio-temporali, resi possibili per esempio dalla rete Internet, consente alla finanza di viaggiare libera nell’”iperuranio globale”, esente da controlli statali o territoriali. Nel momento in cui il motore della finanza è divenuto globale, extraterritoriale e sovranazionale, libero dal controllo politico degli stati, libertà, ricchezze e potere vengono redistribuiti a livello globale, con conseguenze ben poco prevedibili, gestibili o controllabili. Il neoliberismo ha inevitabilmente condotto alla formazione di piccole élites globali che gestiscono il potere finanziario, piccole istituzioni extraterritoriali e sovranazionali che indirizzano e influenzano la politica dei singoli stati, svuotandoli lentamente del loro potere. Siamo di fronte ad una situazione assai simile al modello carcerario del Panopticon elaborato da Bentham a fine Settecento: un gruppo di pochi detiene il potere e il controllo sul resto degli individui, i quali sono costantemente sorvegliati in ogni momento e non hanno la possibilità di evadere. Attualmente, nello spazio globale, il potere (per lo più economico-finanziario) si è emancipato dalla politica, ed è proprio questo, secondo Bauman, uno degli effetti della globalizzazione: il potere, libero dalla politica, è divenuto globale, mentre la politica, depauperata del suo originario potere, è rimasta territoriale e locale. Un potere senza politica, e una politica ormai senza potere. Ne consegue, pertanto, che gli Stati-nazione, protagonisti nel processo di modernizzazione durante il quale hanno affermato la loro sovranità politica, economica, culturale e militare sullo scacchiere mondiale, sono soggetti, oggi, a un processo di espropriazione dei loro stessi poteri. La condizione necessaria di un efficace controllo politico sulle forze economiche (oggi assente) è che istituzioni politiche ed economiche lavorino sullo stesso piano, il che in questo periodo non sta avvenendo. Uno scollamento tra politica ed economia da una parte e tra politica e potere dall’altra, è ciò che sta decretando la crisi attuale degli Stati-nazione. Se il potere è ormai sovranazionale e globale, allo Stato non può che essere richiesto di limitarsi ad assicurare l’equilibrio del bilancio e allo stesso tempo il mantenimento dell’ordine locale in termini di sicurezza. Quando ogni questione sociale viene ridotta a problema di sicurezza, di “ambiente sicuro” e incolumità per i cittadini, i governi locali stanno facendo esattamente ciò che, inconsapevolmente, viene imposto loro di fare da parte delle forze globali del mercato: limitare l’iniziativa politica il più possibile, eseguire, far rispettare le leggi globali e mantenere l’ordine locale. In questa misura, ai governi è attribuito un ruolo non molto diverso da quello svolto dalle forze di polizia. Si inscrive in questa cornice di crisi, la fine (o quasi) del cosiddetto “Welfare state” o “Stato sociale”. Il modello di stato assistenziale, che interviene nella società e nell’economia, oggi è di fatto economicamente inutile, nella misura in cui non risponde a una logica capitalistica. Per capire questo passaggio è necessario fare un salto indietro nella storia. Il mondo, con la sua ossessiva spinta alla modernizzazione, ha dato vita a due industrie definite da Bauman “dello scarto umano”: la prima indirizzata alla costruzione di ordine, mentre la seconda finalizzata al progresso economico. Con la compulsiva tendenza a creare ordine e sicurezza, la società produce inevitabilmente scarti umani quali i disadattati, i cosiddetti non-normali, coloro che in qualche misura non sono conformi (o non si conformano) ai criteri di ordine e uniformità imposti. Con l’industria del progresso economico, invece, la società produce, più che “rifiuti”, “avanzi”, individui che non hanno alcun posto nell’economia di mercato e che, in una società dei consumi, non hanno alcun ruolo (economicamente utile e producente) di consumatori. La società modernizzata o, come viene definita, tardo o postmoderna, si trova a dover gestire individui disadattati e consumatori imperfetti. Lo Stato sociale nasce proprio con la finalità, peraltro fin troppo ambiziosa, di includere questi individui piuttosto che di escluderli stigmatizzandoli come emarginati sociali. È il tentativo di creare una rete di solidarietà sociale dalla quale nessuno è escluso. Questo modello di Stato viene però a sua volta progressivamente smantellato, mentre le industrie dello scarto continuano a lavorare a pieno ritmo producendo estranei e consumatori difettosi: questi individui entrano a far parte di una “sottoclasse”, fuori dalla gerarchia sociale, una “non-classe” di soggetti imperfetti e difettosi. Ecco, allora, che la crisi dello Stato sociale è comprensibile, nella misura in cui investire nei poveri e nelle fasce cosiddette “deboli” non è un investimento economicamente razionale e utile. Non essendo “potenziali lavoratori” questi individui divengono, secondo una logica capitalistica, “potenziali criminali”, coloro che potrebbero minare quell’ordine e quella sicurezza di cui il governo è chiamato a farsi tutore. Lo Stato, quindi, non promette più sicurezza esistenziale, demandando questo problema ai singoli individui, alle loro risorse e capacità particolari, bensì gioca sulle paure degli individui, le fomenta senza placarle. Ciò che conta, per i governi, è mostrare forza e determinatezza nel combattere le minacce alla sicurezza dei cittadini (per esempio la lotta all’immigrazione), senza però tutelarli come un tempo, e riducendone, senza che essi se ne rendano conto, le libertà un tempo duramente conquistate. Questi sono, pertanto, i rischi cui sono sottoposte oggi le democrazie. Se viviamo in un mondo insicuro e incerto, la posta in gioco si chiama sicurezza, ordine e certezza: per quanto efficacemente lo Stato possa opporsi alle sfide derivanti dall’incertezza postmoderna, queste “misteriose forze globali” continueranno a rimanere intatte, assegnando a chiunque quel destino di “consumatore imperfetto” in una società consumistica e di “vagabondo” in una società caratterizzata dalla mobilità globale, sorte dalla quale tentiamo incessantemente e illusoriamente di sottrarci con le nostre sole forze. BIBLIOGRAFIA: - Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 1999 Zygmunt Bauman, Vite che non possiamo permetterci, Laterza, Bari, 2011