Alle origini della la filosofia: la Grecia, patria della filosofiai Quali furono le condizioni che permisero la nascita di quella che fu chiamata filosofia? Partiamo anzitutto dal nome stesso. Secondo una tradizione riportata, tra gli altri, da Diogene Laerzio, Pitagora (sì, proprio quello del teorema!) per primo avrebbe usato la parola filosofia in un significato specifico. "Era solito dire che la vita è simile ad una panegiria: come infatti alcuni partecipano a questa per lottare, altri per commerciare, altri ancora - e sono i migliori - per assistervi, così nella vita, diceva, alcuni ancora nascono schiavi della gloria e cacciatori di guadagno, altri filosofi avidi della verità" (Vite dei filosofi, VIII, 8). La filosofia fu dunque vista come una attività disinteressata volta alla ricerca della verità. In altri termini, la conoscenza fu per i Greci il massimo valore della vita. E allora, accennando alla sapienza e alla saggezza (filosofia = amore per la sapienza) non ci si può non soffermare sulla figura del sapiente, che era così importante nell'antichità. Platone stesso, che è alle origini della filosofia occidentale, ebbene, egli stesso guardava già al passato con venerazione perché riteneva che i veri sapienti fossero esistiti molto tempo prima di lui; non per nulla egli si definiva "filo-sofo" (amante della sapienza) e non "sofo" cioè sapiente. La sua ricerca viene da lui chiamata "filosofia" per una forma di rispetto verso i sapienti del passato, mentre lui era un ricercatore e non un possessore della sapienza. Ma come era visto, allora, il sapiente? Il sapiente era colui che gettava luce nell'oscurità, colui che scioglieva gli enigmi, colui che manifestava l'ignoto e precisava l'incerto; solo colui che scioglie l'enigma può salvare se stesso: la conoscenza è l'istanza ultima, rispetto alla quale si combatte la lotta suprema da parte dell'uomo. L'arma decisiva è la sapienza. E la lotta è mortale. Si pensi al mito della Sfinge: essa, mostro in forma di leonessa alata col volto da donna, proponeva a tutti un enigma e uccideva chi non fosse riuscito a rispondere esattamente. L'enigma diceva: "C'è sulla terra un animale che può avere quattro , due o anche tre gambe ed è sempre chiamato con lo stesso nome". Solo Edipo riuscì a risolverlo: è l'uomo, che nell'infanzia va a carponi e nella vecchiaia usa una terza gamba, il bastone. La Sfinge allora si uccise ed Edipo fu acclamato il salvatore di Tebe. Che cosa indica tutto questo? Indica che il sapiente è colui che riesce a capire qualche cosa che appartiene in genere all'ambito del divino, del misterioso, qualcosa che è nascosto agli uomini. La verità , in altri termini, appartiene all'ambito del divino e non è data agli uomini se non in momenti o in luoghi particolari. Si pensi agli oracoli dell'antichità. L'oracolo di Delfi, forse il più famoso della Grecia, quando era interrogato dagli uomini, non diceva tutto apertamente ma neppure nascondeva del tutto: parlava accennando. L'oscurità del responso dell'oracolo alludeva al divario enorme che vi è tra la sfera dell'umano e quella del divino. Gli dèi, a quanto pare, amano gli enigmi e all'uomo non rimane altro che restare al gioco e cercare di svelarli. Gli dèi accennano all'uomo di stare in guardia quando vuole conoscere la verità, giacché la sfera divina è sconfinata, insondabile, terribile per l'uomo, e l'unica manifestazione sopportabile per l'uomo è data dalla parola, parola che però, per essere appunto accettabile da parte dell'uomo, è necessariamente enigmatica e densa di un significato nascosto. Inoltre la manifestazione della parola nel mondo umano non può che essere una norma di invito alla moderazione, al controllo, al limite, giacché la parola è il punto in cui la misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con la sfera umana e si manifesta nella udibilità, cioè in una condizione sensibile, adatta all'uomo. Il sapiente è allora colui che riesce a cogliere la parola divina, colui che riesce a cogliere la sua verità e cerca di trasmetterla agli altri uomini. Ecco perché i sapienti parlavano poco e quando parlavano si esprimevano sinteticamente in detti che venivano poi trasmessi alle generazioni future, come ad es. "Ottima è la misura" (di Cleobulo), "Conosci te stesso" (attribuito a Talete, si trova sul frontone del tempio di Delfi, e Socrate la farà sua), "Sappi cogliere l'opportunità" (Pittaco) ecc. Per noi, oggi, le parole non contano poi molto: parliamo spesso e volentieri a vanvera, diciamo una cosa e poco dopo la smentiamo, senza preoccuparci se abbiamo ferito o no una persona con quello che abbiamo detto. Nei tempi antichi non era così: la parola era "densa" di significato, era "qualcosa", aveva quasi una realtà a sé. Tale pienezza verrà a poco a poco impoverita (lo vedremo con i Sofisti) e solo la filosofia cercherà di ricordare l'importanza della parola. La filosofia nascerà come attività a sé quando diventerà quella parola che poggia esclusivamente su di sé, e che quindi non ha bisogno di fondarsi sulla autorità di chi 1 parla (gli dèi o l'oracolo come nel pensiero mitico-religioso-sacro) e neppure sulla forza persuasiva della retorica che, con la deduzione, riesce a riscuotere dei consensi (lo vedremo quando parleremo dei Sofisti e di Socrate). In altri termini, la filosofia vorrà essere l'imporsi di ciò che si manifesta così come si manifesta, cioè della a-letheia, della verità. In greco a-letheia è il non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone a tutti, è da tutti riconosciuto come vero. La verità filosofica non sarà, d'ora in poi, una semplice descrizione, come nella narrazione mitica, ma un sapere fondato e incontrovertibile, cioè tale che nessuna divinità e nessun uomo, per quanto grande sia la loro potenza o la quantità delle loro argomentazioni, potrà mai confutarlo. Ma vi è ancora qualcos'altro alle origini della filosofia. Ricordiamo anzitutto la visione religiosa greca. La vita umana è concepita entro i confini segnati dagli dèi e dal destino (Moira), a cui tutti devono sottostare (Cfr. Iliade, 8° , 1-52). Il bene e il male, d'altra parte, non sono pensati anticamente come valori morali, concetti astratti: sono invece forze oggettive, potenze che convivono nell'universo e tra esse Zeus pone l'equilibrio. Felice dunque l'uomo a cui Zeus manda il bene, infelice l'uomo a cui Zeus manda i mali! Da questo punto di vista potrebbe sembrare che la religiosità greca sia essenzialmente all'insegna del pessimismo: l'esistenza umana è per definizione effimera ("l'uomo è il sogno di un'ombra", diceva Pindaro, 8° Pitica, 18) e sovraccarica di affanni, poi viene la morte che non risolve, del resto, proprio nulla. Per i contemporanei di Omero, la morte era infatti una sorta di post-esistenza, ridotta ed umiliante, nelle tenebre sotterranee dell'Ade, popolate da pallide ombre, prive di ogni forza e memoria. L'uomo insomma dispone solo di questa vita terrena e solo dei propri limiti, quelli che gli sono stati assegnati dalla sua condizione e, in particolare, dalla sua Moira (nella vita non si può pretendere di sapere qual è il fato di una persona e di agire a dispetto di esso. Nella vita, la credenza della Moira serve ad indicare che quanto è Moira deve accadere). Eppure, proprio in questa situazione, l'uomo greco potrà intravedere una soluzione positiva: la saggezza, per l'uomo greco, comincerà infatti dalla coscienza della finitezza e della precarietà della vita, ed è questa la lezione di Omero: vivere totalmente ma nobilmente nel presente (l'eccellenza dell'eroe è onore, gloria, rispetto). Dal momento che gli dèi hanno costretto l'uomo a non oltrepassare i propri limiti (si ricordino le massime "ottima è la misura", "nulla di troppo" ecc.), egli ricerca la perfezione e la sacralità nella e della vita. In altre parole, l'uomo greco ha riscoperto e perfezionato il senso religioso della gioia di vivere, il valore "sacramentale" dell'esperienza erotica e della bellezza del corpo umano, la valenza religiosa di ogni festeggiamento organizzato collettivamente (processioni, giochi, danze, canti, competizioni sportive, spettacoli, banchetti ecc.). La gioia di vivere non fu un godimento di tipo profano: rivela la beatitudine di esistere, di partecipare, anche in modo temporaneo, alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo. I Greci hanno forse capito che il mezzo più idoneo (per l'uomo) per sfuggire al tempo è quello di sfruttare sino in fondo la ricchezza - a prima vista insospettabile dell'attimo sfuggente. Ed infine vi è la tragedia, che riveste un'importanza fondamentale per conoscere le condizioni che permisero la nascita e lo sviluppo della filosofia. I Greci si ponevano di fronte al teatro in modo assai diverso dai moderni. Essi assistevano alla rappresentazione teatrale nel corso di una solenne festa religiosa, programmata e organizzata dallo Stato. Per l'ateniese del 5° sec. a.C., nel teatro aveva luogo una esperienza politico-religiosa di grande importanza. La realtà di cui lo "spettatore" fa esperienza nel teatro è altrettanto concreta e presente di quella della sua esistenza quotidiana. Tuttavia non si identifica con quest'ultima: lo spettatore viene in qualche modo proiettato in una situazione capace di rivelare significati nuovi e più alti. E' la tradizione mitico-religiosa, non la storia vicina o contemporanea (con l'unica eccezione dei Persiani di Eschilo) né l'invenzione del poeta, a offrire alla tragedia i suoi temi. Occorre però chiarire meglio quale rapporto si instauri nella tragedia con la tradizione mitico-religiosa. Quando la tragedia si afferma e istituzionalizza in Atene, il mondo del mito è già visto come distante, ma non ancora estraneo o insignificante. Ciò rende possibile, nella tragedia, la riattualizzazione del mito stesso e dei suoi significati. E' una sorta di filtro attraverso il quale lo spettatore è chiamato a riflettere e 2 ad interrogarsi su valori, credenze, istituzioni, sulla sua stessa esistenza. E' di grande importanza, in questo senso, la figura dell'eroe mitico, di cui nella tragedia si fanno rivivere le peripezie e le sofferenze. L'eroe mitico è problematico: vivono in lui qualità opposte come il coraggio, la fermezza, la capacità di soffrire, ma anche la violenza, la follia, l'orgogliosa tracotanza (o hybris, concetto importantissimo per i Greci!). La situazione tragica è dunque fortemente dinamica: l'eroe tragico viene posto in situazionilimite in cui tutto viene messo in gioco, in cui l'impegno è totale, e dunque è alle prese con la verità. E la verità tragica è contraddittoria: non è mai una, non è mai certa, data una volta per tutte, ma molteplice e mutevole. la tragedia rivela dunque la contraddittorietà e la non trasparenza della realtà e del rapporto dell'uomo con essa, e pone lo spettatore di fronte a questa scoperta. Conflitti ed enigmi contrassegnano tutti i grandi temi della situazione tragica. Al centro sta il rapporto tra l'uomo e il divino. Ma nel "divino" dobbiamo comprendere non solo i vari dèi ma anche e soprattutto il complesso di quelle forze della cui ineluttabilità e imperscrutabilità l'eroe tragico fa esperienza e che sono nominate come il Destino. In ogni momento l'eroe tragico si scontra con l'impossibilità di determinare autonomamente il corso degli eventi; in ogni sua azione egli si scopre "strumento" di una volontà superiore che non può controllare. Progetti e intenzioni mostrano la loro fragilità di fronte all'imprevisto, rovesciandosi in effetti contrari a quelli voluti. Poiché l'origine dell'azione si colloca insieme nell'uomo e fuori di lui, lo stesso personaggio appare ora agente, causa e fonte dei suoi atti, ora elemento passivo, immerso in una forza che lo supera e lo trascina. Qual è allora il significato di questa tensione costantemente mantenuta dai tragici tra la spontaneità dell'eroe e il destino fissato dagli dèi? Per la nostra cultura, la responsabilità personale è sempre associata alla consapevolezza, ad una scelta compiuta liberamente. Nella cultura greca arcaica, al contrario, si può essere colpevoli di atti compiuti senza consapevolezza, come mostra la figura dell'Edipo re di Sofocle che, senza saperlo, in forza della maledizione che grava sulla sua stirpe, uccide il padre e sposa la madre. La consapevolezza tragica si costituisce così in un confronto costante tra l'antica concezione della colpa come macchia legata a tutta una stirpe, che si trasmette inesorabilmente di generazione in generazione sotto forma di ate, di una follia inviata dagli dèi, e la Moira, concezione in cui il colpevole si definisce come individuo che, senza esservi costretto, ha scelto deliberatamente di commettere un delitto, giacché la sua azione si inserisce in un ordine temporale sul quale egli non ha presa e che subisce, i suoi atti insomma gli sfuggono, lo superano. Per i Greci dell'età classica, l'azione si rivela - senza il soccorso degli dèi - illusoria, vana, impotente. Le manca il possesso di quella forza di realizzazione, di quella efficacia di cui solo la divinità ha il privilegio. La tragedia esprime quella debolezza dell'azione, quella povertà interiore dell'agente, facendo apparire, dietro agli uomini, gli dèi all'opera da un capo all'altro del dramma, per condurre ogni cosa al suo termine. Nel conflitto tra individuo e destino, libertà e necessità, innocenza e colpa, la tragedia rappresenta il dolore come nota dominante dell'esistenza. I personaggi tragici soffrono e la partecipazione alla sofferenza appartiene anche allo spettatore. Ma la tragedia pone anche un forte legame tra dolore e conoscenza: l'eroe tragico soffre consapevolmente; non solo: attraverso il dolore si genera conoscenza e questo vale sia per i personaggi sulla scena che per il pubblico in teatro. L'antico detto di Esiodo, "solo soffrendo lo stolto impara", diventa il senso fondamentale dell'esperienza tragica: nel dolore l'uomo acquista la consapevolezza di ciò che è, del carattere conflittuale ed enigmatico della realtà e della sua vita. La tragedia doveva avere - teorizzerà Aristotele nella Poetica - un esito catartico (= di purificazione): contemplare le vicende umane raccontate nel mito, vedere la crudeltà della vita, conduceva gli uomini ad assumere un atteggiamento di equilibrio, né depressione nella sofferenza né superbia nel successo. Tutto questo lo ritroveremo nella filosofia: accettazione della vita, esaltazione della moderazione e della misura per trovare la felicità; oltre agli interrogativi, allo stupore, al crollo delle illusioni, alla ricerca della verità. Non per nulla la polis del vecchio Eschilo, di Sofocle e di Euripide è anche quella dei primi filosofi e dei Sofisti. 3 2. Le forme della vita greca che prepararono la nascita della filosofiaii 2.1. I poemi omerici e i poeti gnomici Gli studiosi sono concordi nel ritenere che, per poter capire la filosofia di un popolo e di una civiltà, è indispensabile far riferimento 1) all’arte, 2) alla religione e 3) alle condizioni socio-politiche di questo popolo. 1) Infatti la grande arte tende a raggiungere in maniera mitica e fantastica, ossia mediante l’intuizione e l’immaginazione, obiettivi che sono propri anche della filosofia. 2) E la religione, analogamente, tende a raggiungere per via di fede certi obiettivi che la filosofia cerca di raggiungere coi concetti e con la ragione. 3) Ma non meno importanti (e oggi si insiste molto su questo punto) sono le condizioni socio-economiche e politiche che spesso condizionano il nascere di determinate idee, e che, in particolare, nel mondo greco, creando le prime forme della libertà istituzionalizzata e della democrazia, hanno reso possibile appunto il nascere della filosofia, che della libertà si alimenta in maniera essenziale. Incominciamo dal primo punto. Anteriormente alla nascita della filosofia i poeti ebbero grandissima importanza nella educazione e nella formazione spirituale dell’uomo greco, assai più di quanto essi l’avessero presso altri popoli. La prima grecità cercò alimento spirituale prevalentemente nei poemi omerici, ossia nell’Iliade e nell’Odissea (che, come è noto, esercitarono un influsso analogo a quello che la Bibbia esercitò presso gli Ebrei, non essendoci in Grecia testi sacri), in Esiodo e nei poeti gnomici dei secoli VII e VI a.C. Ora, i poemi omerici contengono alcune peculiarità che ti differenziano da altri poemi che stanno all’origine della civiltà di altri popoli e contengono già alcuni di quei caratteri dello spirito greco che risulteranno essenziali per la creazione della filosofia. a) Infatti, Omero ha un grande senso dell’armonia, della proporzione, del limite e della misura; b) non si limita a narrare una serie di fatti, ma ne ricerca anche le cause e le ragioni (sia pure a livello mitico-fantastico); c) cerca in vario modo di presentare la realtà nella sua interezza, sia pure in forma mitica (Dei e uomini, cielo e terra, guerra e pace, bene e male, gioia e dolore, totalità dei valori che reggono la vita dell’uomo). Molto importante fu poi, per i Greci, Esiodo con la sua Teogonia, che narra la nascita di tutti gli Dei. E poiché molti Dei coincidono con parti dell’universo e con fenomeni del cosmo, la teogonia diventa anche cosmogonia, ossia spiegazione mitico-poetica e fantastica della genesi dell’universo e dei fenomeni cosmici, a partire dal Caos originario, che fu il primo a generarsi. Questo poema spianò la strada alla successiva cosmologia filosofica, che cercherà con la ragione, e non più con la fantasia, il «principio primo» da cui tutto si è generato. E lo stesso Esiodo con l’altro suo poema Le opere e i giorni, ma soprattutto i poeti successivi impressero nella mentalità greca alcuni principi che saranno di grande importanza per il costituirsi dell’etica e in genere del pensiero filosofico antico. La giustizia viene esaltata come valore supremo in molti poeti e diventerà addirittura concetto ontologico, oltre che morale e politico, in molti filosofi e specialmente in Platone. Un altro concetto i poeti lirici fissarono in maniera stabile: quello del limite, ossia del né troppo né troppo poco, vale a dire il concetto della giusta misura, che costituisce il connotato più peculiare dello spirito greco e il centro del pensiero filosofico classico. Ricordiamo un’ultima sentenza, attribuita ad uno degli antichi saggi e incisa sul tempio di Delfi sacro ad Apollo: «Conosci te stesso». Questa sentenza, che fu famosissima fra i Greci, diverrà non solo il motto del pensiero di Socrate, ma addirittura il principio basilare del sapere filosofico greco fino agli ultimi Neoplatonici. 2.2 La religione pubblica e i misteri orfici 2.2.1. Le due forme della religione greca La seconda componente cui bisogna fare riferimento per capire la genesi della filosofia greca, come abbiamo detto sopra, è la religione. Ma quando si parla di religione greca bisogna distinguere tra la religione pubblica , che ha il suo modello nella rappresentazione degli Dei e del culto dataci da 4 Omero, e la religione dei misteri. Fra queste due forme di religiosità ci sono numerosi elementi comuni (come ad esempio la concezione di base politeistica), ma anche importanti differenze che diventano addirittura, in alcuni punti salienti (come ad esempio nella concezione dell’uomo, del senso della sua vita e dei suoi destini ultimi), vere e proprie antitesi. Per spiegare la nascita della filosofia sono molto importanti ambedue le forme di religione, ma almeno per certi aspetti ancor più la seconda. — — 2.2.2. Alcuni tratti essenziali della religione pubblica Per Omero e per Esiodo, che costituiscono il punto di riferimento per le credenze proprie della religione pubblica, si può dire che tutto quanto è divino, perché tutto ciò che accade viene spiegato in funzione di interventi degli Dei. I fenomeni naturali sono promossi da Numi: tuoni e fulmini sono scagliati da Zeus dall’alto dell’Olimpo, i flutti del mare sono sollevati dal tridente di Posidone, il sole è portato dall’aureo carro di Apollo, e così di seguito. Ma anche la vita associata degli uomini, le sorti delle città, le guerre e le paci sono immaginate come collegate agli Dei in modo non accidentale e talora addirittura essenziale. Ma chi sono questi Dei? Come da tempo gli studiosi hanno riconosciuto e messo in evidenza, questi Dei sono forze naturali personificate in forme umane idealizzate, oppure sono forze ed aspetti dell’uomo sublimati, ipostatizzati e calati in splendide sembianze antropomorfe. (Oltre agli esempi sopra addotti, ricordiamo che Zeus è la personificazione della giustizia, Atena dell’intelligenza, Afrodite dell’amore, e così via). Questi Dei sono, dunque, uomini amplificati ed idealizzati, e, pertanto, differenti dall’uomo comune solo per quantità e non per qualità. Per questo gli studiosi classificano la religione pubblica dei Greci come una forma di «naturalismo», in quanto essa richiede all’uomo non di mutare la propria natura, ossia di elevarsi al di sopra di se medesimo, ma, al contrario, di seguire la propria natura. Fare in onore degli Dei ciò che è conforme alla propria natura è tutto quanto si richiede all’uomo. E come «naturalistica» fu la religione pubblica greca, così «naturalistica» fu la prima filosofia greca, e il riferimento alla «natura» rimase una costante del pensiero greco nel corso di tutto il suo sviluppo storico. 2.2.3. L’Orfismo e le sue credenze essenziali Ma la religione pubblica non fu sentita da tutti i Greci come soddisfacente, e per questo si svilupparono, presso cerchie ristrette, i «misteri», aventi proprie credenze specifiche (sia pure inserite nel generale quadro del politeismo) e proprie pratiche. Fra i misteri influirono sulla filosofia greca soprattutto quelli orfici, e di questi dobbiamo brevemente parlare. L’Orfismo e gli Orfici derivano il loro nome dal poeta tracio Orfeo, il presunto fondatore, i cui tratti storici sono interamente ricoperti dalla nebbia del mito. L’Orfismo è particolarmente importante perché, come gli studiosi moderni hanno riconosciuto, introduce nella civiltà greca un nuovo schema di credenze ed una nuova interpretazione dell’esistenza umana. Infatti, mentre la tradizionale concezione greca, a partire da Omero, riteneva l’uomo mortale e poneva la fine totale della sua esistenza appunto con la morte, l’Orfismo proclama l’immortalità dell’anima e concepisce l’uomo secondo lo schema dualistico che contrappone il corpo all’anima. Il nucleo delle credenze orfiche può essere riassunto come segue. a) Nell’uomo alberga un principio divino, un demone (anima), caduto in un corpo a motivo di una colpa originaria. b) Questo demone non solo preesiste al corpo, ma non muore col corpo, ed è destinato a reincarnarsi in corpi successivi, per espiare quella colpa originaria. c) La «vita orfica» con i suoi riti e le sue pratiche è la sola in grado di porre fine al ciclo delle reincarnazioni e di liberare, così, l’anima dal corpo. d) Per chi si è purificato (per gli iniziati ai misteri orfici), nell’al di là vi è un premio (così come per i non iniziati vi sono punizioni). In alcune laminette orfiche trovate nei sepolcri dei seguaci di questa setta si leggono tra l’altro — — 5 queste parole che riassumono il nucleo centrale della dottrina: «Rallegrati, tu che hai patito la passione: questo prima non l’avevi ancora patito. Da uomo sei nato Dio»; «Felice e beatissimo, sarai Dio anziché mortale»; «Da uomo nascerai Dio perché dal divino derivi». Il che significa che il destino ultimo dell’uomo è quello di «ritornare ad essere presso gli Dei». Con questo nuovo schema di credenza, l’uomo vedeva per la prima volta contrapporsi in sé due principi fra loro in contrasto e in lotta: l’anima (demone) e il corpo (come tomba o luogo di espiazione dell’anima). Si incrina, così, la visione naturalistica; l’uomo comprende che alcune tendenze legate al corpo sono da reprimere, e la purificazione dell’elemento divino da quello corporeo diviene lo scopo del vivere. Ora, si tenga presente questo. Senza l’Orfismo non si spiega Pitagora, non Eraclito, non Empedocle, e, soprattutto, non si spiega una parte essenziale del pensiero di Platone e poi di tutta la tradizione che deriva da Platone, il che significa che non si spiega una grossa parte della filosofia antica, come avremo modo di vedere meglio più avanti. 2.2.4. Mancanza di dogmi e dei loro custodi nella religione greca Un’ultima notazione è necessaria. I Greci non ebbero libri sacri o ritenuti frutto di divina rivelazione. Essi, di conseguenza, non ebbero una dogmatica fissa ed immodificabile. I poeti, come abbiamo visto, costituirono il veicolo di diffusione delle loro credenze religiose. Inoltre (e questa è una ulteriore conseguenza della mancanza di libri sacri e di una dogmatica fissa), in Grecia non poté nemmeno sussistere una casta sacerdotale custode del dogma (i sacerdoti in Grecia ebbero scarsa rilevanza e scarsissimo potere, perché né ebbero la prerogativa di conservare i dogmi, né ebbero l’esclusiva delle offerte religiose e dell’officiatura dei sacrifici). Questa mancanza di dogmi e di custodi dei medesimi lasciò ampia libertà al pensiero filosofico, il quale non incontrò quegli ostacoli che avrebbe trovato in paesi orientali, dove la libera speculazione avrebbe trovato resistenza e restrizioni difficilmente superabili. Perciò gli studiosi giustamente sottolineano questa circostanza favorevole alla nascita della filosofia che si verificò presso i Greci, e che, nell’antichità, non ha paralleli. 2.3. Le condizioni socio-politico-economiche che favorirono il sorgere della filosofia Gli studiosi, già nel secolo scorso e soprattutto nel nostro secolo, hanno giustamente messo l’accento anche sulla libertà politica di cui beneficiarono i Greci rispetto ai popoli orientali. L’uomo orientale era tenuto a una cieca obbedienza non solo al potere religioso ma altresì a quello politico, mentre il Greco anche a questo riguardo godette di una situazione privilegiata, perché, per primo nella storia, riuscì a darsi libere istituzioni politiche. Nei secoli VII e VI a.C. la Grecia subì una trasformazione socio-economica considerevole. Da paese prevalentemente agricolo quale era si trasformò, sviluppando in misura sempre crescente l’artigianato ed il commercio. Fu così necessario fondare centri di smistamento per il commercio, che sorsero dapprima nelle colonie ioniche, in particolar modo a Mileto, e poi anche altrove. Le città divennero fiorenti centri commerciali, e questo comportò un incremento demografico cospicuo. il nuovo ceto di commercianti e di artigiani raggiunse a poco a poco una notevole forza economica e si oppose all’accentramento del potere politico, che era nelle mani della nobiltà terriera. Con le lotte che i Greci ingaggiarono per trasformare le vecchie forme aristocratiche di governo nelle nuove forme repubblicane, nacquero le condizioni, il senso e l’amore della libertà. Ma c’è un fatto molto importante da rilevare, che conferma quanto ora si è detto, nel modo migliore: la filosofia nacque prima nelle colonie che non nella madrepatria, e, precisamente, prima nelle colonie d’Oriente dell’Asia Minore (a Mileto) e subito dopo nelle colonie d’Occidente dell’Italia meridionale appunto perché le colonie con la loro operosità e con i loro commerci raggiunsero per prime il benessere, e, a causa della lontananza dalla madrepatria, poterono darsi libere istituzioni prima di quest’ultima. Furono, dunque, le più favorevoli condizioni socio-politico-economiche delle colonie che, unitamente ai fattori illustrati nei precedenti paragrafi, permisero il sorgere e il fiorire in esse della filosofia, la quale poi, passata nella madrepatria, raggiunse le più alte vette ad Atene, cioè proprio in quella città in cui fiorì la più grande libertà di cui i Greci abbiano goduto. Dunque, la capitale della — — 6 filosofia greca fu la capitale della libertà greca. Un ultimo rilievo resta da fare. Col costituirsi e consolidarsi della Polis, cioè della Città-Stato, il Greco non senti più alcuna antitesi e alcun vincolo alla propria libertà; anzi, fu portato a cogliere se medesimo essenzialmente come cittadino. L’uomo, per il Greco, venne a coincidere con il cittadino medesimo. E così lo Stato divenne e rimase fino all’età ellenistica l’orizzonte etico dell’uomo greco. I cittadini sentirono i fini dello Stato come propri fini, il bene dello Stato come il proprio bene, la grandezza dello Stato come la propria grandezza, la libertà dello Stato come la propria libertà. Se non si tiene presente questo, non si può capire gran parte della filosofia greca, in particolare l’etica e tutta la politica dell’età classica, e poi anche i complessi rivolgimenti dell’età ellenistica. Dopo queste precisazioni preliminari siamo in grado di affrontare la questione della definizione del concetto greco di filosofia. 3. Concetto e fine della filosofia antica 3.1. I connotati essenziali della filosofia antica 3.1.1. La filosofia come «amore di sapienza» La tradizione vuole che il creatore del termine filo-sofia sia stato Pitagora: cosa, questa, che, se non è storicamente sicura, è tuttavia verosimile. Il termine è stato certamente coniato da uno spirito religioso, che presupponeva come possibile solo agli Dei una «sofia» (una «sapienza»), ossia un possesso certo e totale del vero, mentre riteneva come possibile per l’uomo solamente una tendenza alla sofia, un continuo avvicinarsi al vero, un amore di sapere mai appagato del tutto, donde, appunto, il nome filo-sofia, ossia «amore di sapienza». Ma che cosa intesero i Greci, in sostanza, con questa amata e ricercata «sa Fin dal suo primo nascere, la filosofia presentò in modo ben netto i seguenti tre connotati, riguardanti, rispettivamente, a) il suo contenuto, b) il suo metodo, e) il suo scopo. 3.1.2. Il contenuto della filosofia Per quanto concerne il contenuto, la filosofia vuole spiegare la totalità de//e cose, ossia tutta quanta la realtà, senza esclusione di parti o di momenti. La filosofia si distingue pertanto dalle scienze particolari, che si chiamano così appunto perché si limitano a spiegare parti o settori della realtà, gruppi di cose o di fenomeni. E già la domanda di quello che fu ed è considerato il primo dei filosofi: «quale è il principio di tutte le cose», mostra la perfetta acquisizione di questo punto. Dunque, la filosofia si propone come oggetto l’intero de/la realtà e dell’essere. E vedremo che l’intero della realtà e dell’essere si raggiunge scoprendo la natura del primo «principio», ossia il primo «perché» delle cose. 3.1.3. Il metodo della filosofia Per quanto concerne il metodo, la filosofia mira ad essere «spiegazione puramente razionale di quella totalità» che ha come oggetto. Ciò che vale in filosofia è l’argomento di ragione, la motivazione logica, il logos. Non basta alla filosofia costatare, accertare dati di fatto, adunare esperienze: la filosofia deve andare oltre il fatto, oltre le esperienze, per trovare la causa o le cause solo con la ragione. È proprio questo il carattere che conferisce «scientificità» alla filosofia. Si dirà che tale carattere è comune anche alle altre scienze, le quali, in quanto tali, non sono mai mero accertamento empirico, ma sono sempre ricerca di cause e di ragioni; ma la differenza sta nel fatto che, mentre le scienze particolari sono ricerche razionali di realtà particolari e di settori particolari, la filosofia, come si è già detto, è ricerca razionale di tutta quanta la realtà (del principio o dei principi di tutta quanta la realtà). E, con questo, resta chiarita la differenza fra filosofia, arte e religione. Anche la grande arte e le grandi religioni mirano a cogliere il senso della totalità del reale, ma lo fanno, l’una, con il mito e la fantasia, l’altra, invece, con la credenza e con la fede, mentre la filosofia cerca la spiegazione della totalità del reale appunto a livello di logos. 7 3.1.4. Lo scopo della filosofia Lo scopo o il fine della filosofia sta nel puro desiderio di conoscere e di contemplare la verità. La filosofia greca è, insomma, disinteressato amore di verità. Gli uomini scrive Aristotele nel filosofare «ricercarono il conoscere al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica». E infatti la filosofia nasce solo dopo che gli uomini hanno risolto i problemi fondamentali della sussistenza e si sono liberati delle più urgenti necessità materiali. «È evidente dunque conclude Aristotele che noi non ricerchiamo la filosofia per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa, e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non asservito ad altn, così questa sola, tra tutte le altre scienze, diciamo libera: essa sola è fine a se stessa». È fine a se stessa perché ha di mira la verità, la quale è cercata, contemplata e fruita come tale. Si capisce, quindi, l’affermazione di Aristotele: «Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore». Una affermazione che tutta la greeità ha fatto propria. — — — 3.1.5. Conclusioni sul concetto greco di filosofia Una riflessione si impone. La «contemplazione» che è peculiare della filosofia greca non è vacuo otiuin. Essa non è asservita a scopi utilitaristici, ma possiede una rilevanza morale e anche politica di prim’ordine. È evidente, infatti, che, contemplando l’intero, cambiano necessariamente tutte le prospettive usuali, muta il significato della vita dell’uomo, e una nuova gerarchia di valori si impone. La verità contemplata infonde, insomma, una enorme energia morale e, Platone, proprio sulla base di questa energia morale, vorrà costruire il suo Stato ideale. Ma questi concetti li potremo adeguatamente svolgere e chiarire solo più avanti. Intanto, è risultata evidente l’assoluta originalità di questa creazione greca. Anche i popoli orientali ebbero una «sapienza» che tentava di interpretare il senso di tutte le cose (il senso dell’intero), e che non era asservita a scopi pragmatici. Ma tale sapienza era intrisa di rappresentazioni fantastiche e mitiche, e questo la riportava nella sfera dell’arte, della poesia o della religione. Nell’aver tentato questo approccio con l’intero facendo uso de/la sola ragione (del logos) e del metodo razionale, sta, in conclusione, la grande scoperta della greca filo-sofia. Una scoperta che ha condizionato strutturalmente e in maniera irreversibile tutto l’Occidente. 3.2 La filosofia come bisogno primario dello spirito umano Ma si domanderà perché l’uomo ha sentito il bisogno di filosofare? Gli antichi rispondevano che tale bisogno si radica in maniera strutturale nella stessa natura dell’uomo: «Tutti gli uomini scrive Aristotele per natura aspirano al sapere». E ancora: «L’esercitare la sapienza e il conoscere sono desiderabili per se stessi dagli uomini: non è possibile, infatti, vivere da uomini senza queste cose». E gli uomini tendono al sapere perché si sentono pieni di «stupore» o di «meraviglia». Dice Aristotele: « Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porre problemi sempre maggiori, come i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri e poi i problemi riguardanti l’origine dell’intero universo». Dunque, proprio questa «meraviglia», la quale sorge nell’uomo che si pone nei confronti del Tutto (dell’intero) e si chiede quale sia l’origine e il fondamento di esso e quale posto occupi egli stesso in questo universo, è la radice della filosofia. E se così è, la filosofia è ineliminabile e irrinunciabile, appunto perché è ineliminabile la meraviglia di fronte all’essere, così come irrinunciabile è il bisogno di soddisfare ad essa. Perché c’è questo tutto? Da che cosa è sorto? Qual è la sua ragion d’essere? Sono problemi, questi, che equivalgono al seguente: perché c’è l’essere e non il nulla? E non altro che un momento particolare di tale problema generale è anche il seguente: perché c’è l’uomo? Perché io esisto? Come è evidente, si tratta di problemi che l’uomo non può non porsi, o, comunque, sono problemi — — — — 8 che, nella misura in cui vengono rifiutati, menomano colui che li rifiuta. E sono problemi che mantengono il loro senso preciso anche dopo il trionfo delle scienze particolari moderne, perché nessuna di queste è fatta per risolverli. Le scienze rispondono solamente a domande sulla parte e non a domande sul senso del « tutto». Per queste ragioni, dunque, potremmo ripetere, con Aristotele, che, non solo in origine, ma anche ora, e sempre, la vecchia domanda sull’intero ha senso, e avrà senso fino a quando l’uomo proverà «meraviglia» di fronte all’essere delle cose e di fronte al proprio esserci. 3.3. Le fasi e i periodi della storia della filosofia antica La filosofia antica greca e greco-romana ha una storia più che millenaria. Parte dal secolo VI a.C. e giunge fino al 529 d.C., anno in cui l’imperatore Giustiniano fece chiudere le scuole pagane e fece disperdere i loro seguaci. In questo arco di tempo si possono distinguere i seguenti periodi. 1) Il periodo naturalistico, caratterizzato dal problema della physis e del cosmo, e che tra il VI e il V secolo a.C. vede succedersi gli Ionici, i Pitagorici, gli Eleati, i Pluralisti e i Fisici eclettici. 2) Il periodo cosiddetto umanistico, che coincide, in parte, con l’ultima fase della filosofia naturalistica e con la dissoluzione della medesima e che ha come protagonisti i Sofisti e soprattutto Socrate, il quale per la prima volta cerca di determinare l’essenza dell’uomo. 3) Il momento delle grandi sintesi di Platone e di Aristotele, che coincide con il secolo IV a.C., che risulta caratterizzato soprattutto dalla scoperta del soprasensibile e dalla esplicitazione e dalla organica formulazione di vari problemi della filosofia. 4) Segue il periodo caratterizzato dalle Scuole Ellenistiche, che va dalla conquista di Alessandro Magno alla fine dell’era pagana, e che vede, oltre alla fioritura del Cinismo, il sorgere dei grandi movimenti dell’Epicureismo, dello Stoicismo, dello Scetticismo e del successivo diffondersi dell’Eclettismo. 5) Il periodo religioso del pensiero antico-pagano si svolge ormai quasi per intero in epoca cristiana ed è caratterizzato soprattutto da una grandiosa rinascita del Platonismo, che culminerà con il movimento neoplatonico. Il rifiorire delle altre scuole sarà condizionato in vario modo dal Platonismo medesimo. 6) In questo periodo nasce e si sviluppa il pensiero cristiano, che tenta di formulare razionalmente il dogma della nuova religione e di definirlo alla luce della ragione con categorie derivate dai filosofi greci. Un primo tentativo di sintesi fra l’Antico Testamento e il pensiero greco sarà effettuato da Filone Ebreo in Alessandria, ma senza seguito. La vittoria dei Cristiani imporrà soprattutto un ripensamento del messaggio evangelico alla luce delle categorie della ragione. Questo momento del pensiero antico non costituisce, però, un coronamento del pensiero dei Greci, ma segna, piuttosto, la messa in crisi e il superamento del loro modo di pensare, e, così, prepara la civiltà medievale e le basi di quello che sarà il pensiero cristiano «europeo>). Pertanto, questo momento del pensiero, pur tenendo ben presenti i legami che esso ha con l’ultima fase del pensiero pagano che si svolge contemporaneamente, va studiato a sé stante, appunto come pensiero antico-cristiano, e va considerato attentamente, nelle nuove istanze che esso fa valere, come premessa e come fondazione del pensiero e della filosofia medievali. Glossario di alcuni termini-chiave del linguaggio filosoficoiii Prima di intraprendere lo studio della storia della filosofia è bene aver presente il significato di alcuni termini che ricorrono continuamente in questa disciplina. Termini che saranno afferrati in tutta la loro portata solo alla fine del Corso, ma di cui è possibile avere sin d’ora una comprensione preliminare. Storicamente parlando, la filosofia (dal gr. philosophìa, deriv. di philéin «amare» e sophia «sapienza», «amore del sapere») si è configurata come una indagine critica e razionale intorno agli interrogativi di fondo che l’uomo si pone circa se stesso e le realtà che lo circondano. Gli ambiti problematici in cui si è articolato il discorso dei filosofi dell’Occidente, a cominciare da quelli del mondo antico, sono rappresentati soprattutto dalla metafisica (v.), dalla gnoseologia (v.) e dall’etica (v.). 9 Per metafisica (dal gr. metà tà physikà «dopo la fisica») si intende quella parte della filosofia che si interroga sulle strutture ultime e sulle cause supreme delle cose. All’inizio, con i presocraticì, la metafisica ha preso le sembianze della cosmologia (dal gr. k6smos, «universo » e lògos, «discorso»), ossia di un’indagine intorno all’universo naturale e ai princìpi che lo costituiscono. In seguito, soprattutto con Aristotele, si èpresentata nelle vesti dell’antologia (dal gr. òn òntos, part. pres. di éinai «essere» e l6gos «discorso ossia di una trattazione intorno all’essere o alla realtà in generale. Strettamente connessa alla metafisica è la teologia (dal gr. theòs « Dio » e lògos, «discorso »), che si interroga intorno all’esistenza e all’essenza di Dio. In altri termini, la metafisica è quella sezione del pensiero filosofico che si è storicamente canoretizzata in domande del tipo: «quali sono i princìpi o gli elementi di base dell’universo?”, «che cos’è l’essere e quali sono le sue strutture di fondo? », «esiste o meno un Dio? », «l’ordine del cosmo obbedisce ad un piano intelligente o è frutto di una necessità meccanica? » ecc. i’), Per gnoseologia (dal gr. gnòsis, «conoscenza” e lògos, «discorso”) si intende quella parte della filosofia che si occupa dei problemi relativi alla genesi, alla natura e alla validità della conoscenza. Infatti, i filosofi non si sono solo interrogati intorno alla struttura della realtà, ma anche sui mezzi tramite cui la conosciamo. La gnoseologia o teoria della conoscenza sì concretizza in domande del tipo: «da dove provengono le nostre cognizioni?», «in che rapporto stanno la mente e le cose, il pensiero e l’essere? », «quali relazioni sussistono fra i sensi e la ragione? », «che valore hanno i nostri concetti? », «quali sono le garanzie di un sapere vero? » ecc. Connessa in qualche modo alla gnoseologia è la logica (dal gr. lògos «discorso», «ragione», «pensiero»), la quale, almeno nell’accezione greca ed aristotelico-stoica del termine, si occupa di ciò che concerne i nostri discorsi e le modalità attraverso cui formuliamo i nostri ragionamenti. L’etica (dal gr. éthos, «costume”) o morale (dal at. mos «costume”, «modo di vita») è quella parte della filosofia che studia il nostro comportamento e le norme cui esso obbedisce, sia descrivendo come di fatto agiamo, sia prescrivendo come dovremmo agire. In altri termini, l’etica è quella sezione del pensiero filosofico che si è storicamente concretizzata in domande del tipo: « quali sono i motivi che spingono gli individui ad agire?», «che cos’è il bene?», «qual è il fine ultimo di tutte le nostre azioni?», «che cos’è la felicità?», «da dove possiamo ricavare le norme ispiratrici della nostra condotta?» ecc. Strettamente connessa all’etica è la filosofia politica che si occupa (in modo descrittivo o prescrittivo) dei problemi relativi alla vita associata, concretizzandosi in questioni del tipo: «qual è il fine dello Stato?”, «quali sono le forme ottimali di governo?», «chi deve comandare?», «che cos’è la giustizia? », «che cos’è la libertà? ». Come vedremo, parallelamente a queste grandi tematiche, la filosofia ha storicamente affrontato anche altre questioni, sulle quali avremo modo di soffermarci in seguito: dal problema delle leggi (filosofia del diritto) a quello dell’arte e della bellezza (estetica); dal problema del linguaggio (filosofia del linguaggio) a quello della scienza (epistemologia); dal problema dell’uomo e del suo posto nel mondo (antropologia) a quello della civiltà e della storia (filosofia della storia) ecc. Da ciò la vastità e ricchezza del discorso filosofico, il quale appare come un aspetto costitutivo di ciò che denominiamo con il termine «uomo», al punto che Platone affermava che non si può essere uomini senza essere, in qualche modo, filosofi. Ecco taluni passi di Abbagnano che esemplificano la stretta connessione fra esistere e filosofare: «La filosofia non si giustifica come lavoro di indagine o ricerca dottrinale, se non la si riconosce fondata sulla natura stessa dell’uomo in quanto esistenza”, «Trattare oggi della natura della filosofia significa ritenere già fermamente stabilito un punto essenziale: la necessità per l’uomo, per ciò che egli è, per ciò che deve essere, del filosofare”, «Filosofare significa per l’uomo, in primo luogo, affrontare ad occhi aperti il proprio destino e porsi chiaramente i problemi che risultano dal proprio rapporto con se stesso, con gli altri uomini e col mondo” (da Introduzione all’esistenzialismo). i ii Introduzione alla filosofia - di Ernesto Riva Filosofia nel suo sviluppo storico – di Reale e Antiseri Filosofi e filosofie nella storia – di Abbagnano e Fornero iii 10