SE IL CHICCO DI GRANO Omelia nel primo anniversario di Giovanna Gabbi A un anno di distanza dalla morte di Giovanna, siamo qui riuniti per fare memoria nella chiesa di S. Filippo che ha visto nascere, a partire dal Battesimo, la vocazione di Giovanna. “Come albero piantato lungo i corsi d’acqua” (cf. Sal 1,3), Giovanna ha visto qui crescere la sua radice evangelica ed ecclesiale. Radice evangelica Che cosa ci ha detto Gesù nel Vangelo (Gv 12,24-26)? “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Gesù doveva essere un ottimo osservatore della natura. Nei trent’anni di vita a Nazareth, vivendo quella che Charles De Foucauld chiama la vita nascosta, Gesù deve avere imparato il segreto e lo stile del modo con cui Dio opera nel campo della storia. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo…”. Sì, succede (cfr. Mt 13,3ss) quando il chicco di grano cade sulla strada, facile preda dei volatili rapaci quali i sogni di gloria che un giovane coltiva sulla strada della carriera. Ugualmente succede quando il chicco di grano cade in luogo sassoso, dove non c’è molta terra profonda, tutto è vissuto in superficie, e così anche il piccolo germe di vocazione brucia e si secca. La stessa sorte tocca anche al chicco di grano che cade ai bordi della strada tra le spine di un rovo, tra gli alberi il più pungente, ma anche il più sterile. E finalmente, c’è il chicco di grano che, con largo braccio della sua misericordia, Dio seminatore fa cadere su terra buona, dove l’umanità che l’accoglie ha profondità, e lì dà frutto: “chi il cento, chi il sessanta, chi il trenta”. C’è però un particolare che non è secondario nel racconto evangelico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo. Sì, c’è un evidente legame tra il morire e la solitudine del chicco di grano. È certo una legge di natura che il chicco di grano per moltiplicarsi in altri cento, sessanta, trenta piccoli grani, viva un tempo di solitudine, nascosto nella profondità del terreno della sua storia. Una certa solitudine è una componente della storia del chicco di grano. Fuori parabola, Gesù, raccontando la storia del chicco di grano, parla anzitutto di se stesso. Lui è questo chicco di grano piantato sul terreno della storia del mondo, cresciuto negli anni della vita nascosta di Nazareth, con Maria e Giuseppe; pellegrino sulle strade della Palestina seminando a piene mani germi di vocazione, e amando in ciascuno non l’uomo e la donna ideali, ma reali con le loro fragilità e bruciature, fino alla morte solo, sull’albero della croce. Nella cappella del Seminario di Milano, a Venegono, dove ho pregato nei miei anni di teologia, tra i vari affreschi alle pareti che accompagnavano la nostra preghiera comunitaria e solitaria c’era quello di Gesù in croce come la figura centrale di un grande albero con tanti rami carichi di fiori, come a primavera, e con ai piedi le figure, da una parte, di Maria, la madre, e di Giovanni, l’apostolo che Gesù amava, dall’altra. La radice ecclesiale Ho pensato a Gesù solo sull’albero della croce, quando ho saputo che questa pagina di Vangelo è stata scelta da Giovanna per la sua consacrazione l’8 gennaio 1981 per le mani del vescovo Gilberto Baroni. Non conosco le ragioni che, al momento della sua consacrazione, abbiano indotto Giovanna a scegliere questo brano di Vangelo, ma credo che a farcelo risentire come una eredità e un testamento sia la sua stessa vocazione. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto”. Non parlo qui della morte tragica di Giovanna, che ancora ci addolora e ci interpella, ma della sua vocazione così segnata dalla solitudine amante della verginità e dalla comunione feconda della ecclesialità. Sì, Giovanna ha vissuto una profonda solitudine personale come il chicco di grano, ma al tempo stesso una feconda comunione nella comunità ecclesiale. La solitudine di una persona consacrata non è l’estraneità, e nemmeno l’indifferenza che tanto mina la nostra cultura di una società a-patica, senza vere passioni. Bisognerà evitare di considerare la solitudine consacrata una sorta di fuga dalla comunità. Chi cerca la solitudine per fuggire dalla comunità può cadere tra i sassi e le spine della sterilità. Ma anche chi cerca la comunità per fuggire dalla solitudine può ugualmente cadere nella vanità delle parole e dei sentimenti, di cui spesso si riempie la cultura di una società del desiderio, delle esperienze felici, che ignorano l’umana fragilità, su cui D. Bonhoeffer ha scritto pagine estremamente attuali nella sua Vita comune, fino a dire che “la comunità non è tanto un desiderio umano, ma una realtà divina”. Bisognerà allora considerare ‘solitudine’ e ‘comunità’ come le due facce della stessa medaglia, meglio della stessa vocazione cristiana. Ambedue costituiscono la chiamata di Gesù Cristo fatta al discepolo. Nella prospettiva della chiamata, si può essere soli con il Signore, e nello stesso tempo non soli, ma con la comunità. Paradossalmente si può dire che solo restando soli si impara a inserirsi bene nella comunità e, viceversa, solo nella comunità si impara a stare veramente soli. Non è questo il momento per dire le forme e i luoghi, in cui si esprime questa solitudine nella comunità. Bonhoeffer ne richiama quattro: l’amore al silenzio, la meditazione della Parola, la preghiera di intercessione gli uni per gli altri, l’accoglienza di un tempo di prova. Alla radice di tutto questo sta però l’amore preferenziale per Gesù, che ha fatto dire a Pietro: “Signore, tu lo sai che ti amo!” (Gv 21,15ss). L’Eucaristia che celebriamo a memoria e suffragio di Giovanna, tra le prime di voi ad accogliere l’invito di Gesù a seguirlo nella buona e cattiva salute, “pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 21,1), come la nuova Gerusalemme di cui parla Giovanni l’Apostolo, e a vivere questa dedizione al Signore come amore alla Chiesa locale nell’Ordo Virginum, accompagni il vostro e nostro cammino. + Adriano VESCOVO Reggio Emilia – Chiesa di S. Filippo Neri, 13 agosto 2008