Dialogo per una memoria condivisa. Perché questo titolo. Questo è uno dei moltissimi punti di vista con i quali si può raccontare il lavoro sugli archivi delle donne. In realtà, nel Novecento abbiamo avuto moltissimi esempi di memoria divisa. Il lavoro della memoria e sulla memoria viene sempre sottovalutato. Allora ci si stupisce se ci si accorge, magari a distanza di molti anni, e avendo in comune genere e generazione, di avere ricordi e opinioni diametralmente opposte sugli stessi fatti. Questo lavoro è un processo conoscitivo continuamente riattualizzato. Il passato esiste perché esiste il presente, perché oggi noi qui lo ri-presentiamo. Ma noi non lo “estraiamo” da un deposito, bello intatto così come un file da una directory. In questo atto succede qualcosa che è oggetto di molte discipline, dalla neurofisiologia che studia la memoria come attività della mente, alla psicologia, ai saperi dell’inconscio, alla filosofia della conoscenza, all’informatica, e poi la storia e infine l’archivistica. E’ stato l’oggetto di un bellissimo Convegno, organizzato qui a Torino nel 2004, dal titolo: Il futuro della memoria, la trasmissione del patrimonio culturale nell’era digitale. Posso dire questo: l’emozione e il grande piacere intellettuale che dà il lavoro sulla memoria è dovuto proprio a questo: 1) è un processo conoscitivo, che è intersoggettivo perché chi conosce e chi è conosciuto, persona vivente o scomparsa, sono sempre in un rapporto biunivoco. In questo caso io ho conosciuto un po’ Alessandra, prima attraverso le sue carte e il modo in cui le aveva conservate. Lei ha conosciuto un po’ me, attraverso le domande che le ho posto sui documenti stessi, sulla forma che prendeva il suo archivio, sulle presenze e le assenze – la memoria, l’oblio, il silenzio, la perdita. (il risultato di questa discussione è nell’inventario all’Archivio) 2) perché mentre conosci, cioè studi, scopri, riordini ecc. (faccio l’esempio delle attività che si svolgono trattando un archivio) mobiliti anche le risorse conoscitive di altre e altri, perché cerchi e scopri quanto qualcun altro ha già detto sull’argomento, perché stai dentro un gruppo, sei in relazione con qualcun altro (e questo perché la conoscenza è sempre un processo sociale, per quanto piccola sia la società che si mobilita). In questo essere sociale e intersoggettiva può permetterti di uscire dal soggettivismo e cogliere un’oggettività. Ma qui si potrebbe specificare meglio, e il discorso si allungherebbe: rimando a Nicla Vassallo e al suo libro, che per me sta diventando un libro di culto: Filosofia delle donne. 3) Il lavoro sulla memoria mobilita inoltre le proprie conoscenze “competenziali”, il “saper fare” – dall’utilizzare un database al confezionare pacchi di documenti, un lavoro che traduce le scelte teoricoconoscitive in decisioni pratiche che producono oggetti concreti, che vedi e tocchi, e mobilita anche la soddisfazione di uno specifico senso estetico. Io per esempio ho una debolezza, adoro le etichette dei falconi fatte a mano: sono sempre un po’ disuguali, mai perfette ecc. Ma li si vede il ductus, c’è la traccia della scrittura personale di chi ha lavorato sull’archivio. Questo vale per le scritture antiche- e anche per me. 4) Nel lavoro sulla memoria tu contestualizzi i documenti, devi riconoscere e preservare i legami tra loro, che spesso non sono evidenti. Nel farlo, contestualizzi te stessa, se così si può dire: ti interroghi sui presupposti, talvolta non consapevoli, del tuo fare. Ti chiedi il perché fai una certa scelta, perché hai una certa preferenza. Sarà forse che non hai tanta familiarità con quel particolare argomento? E rischi di sottovalutarlo? E trascrivere titoli in lingua straniera ti stanca? E sarà che non conosci il francese e i suoi accenti, e quindi ti stufi prima che a trascrivere in inglese? Ecc.. Entro certi limiti, ti metti in gioco, in discussione. 5) Nella tensione alla conoscenza, e qui in particolare della memoria delle donne e delle forme e oggetti in cui si è concretizzata, nel passato remoto o recente, ci si confronta sempre con i valori e pregiudizi della società. Mi ricordo quando i nostri archivi non esistevano: non erano archivi, per i/le custodi di una ortodossia archivistica che negava la realtà per perseguire una sterilissima fedeltà ai testi (che come minimo avevano cento anni). Oggi invece ci sono varie iniziative che confortano sul cambiamento di punto di vista. Sono in corso censimenti e valorizzazioni non solo in Piemonte, ma in Toscana, nel Lazio, a Bologna ecc. E’ emerso nel lavoro di questi anni e di molte, archiviste e storiche, che la memoria femminile va sollecitata, non emerge spontaneamente. Questo comporta determinati rischi perché gli archivi contemporanei delle donne hanno quasi tutti l’impronta della “volontarietà” con cui sono state conservati e consegnati i documenti, alcuni e non altri. C’è la selezione e l’indisponibilità a consegnare tutto, specie le carte private e personali. Ma mentre si affrontano questi nodi, e quindi si devono “tarare” le procedure di valutazione e archiviazione su queste caratteristiche, emerge un dubbio, che il carattere di “spontaneità” degli archivi personali con cui si fa il confronto, quelli di personalità illustri del passato e del presente, al 99 per cento di uomini, siano anche essi segnati dalla stessa volontarietà – che la selezione ci sia stata sempre, almeno nei casi di documenti organizzati dal loro autore. Magari con caratteristiche diverse – meno pudori per le carte personali? A cui forse davano meno importanza? Argomento da approfondire. Lo stesso dicasi per gli archivi degli Enti. Già Claudio Pavone, e la Zanni Rosiello hanno detto cose interessanti da questo punto di vista. Ma questo argomento comunque fa emergere quanto la conoscenza della memoria femminile (e si potrebbe dire lo stesso per la biologia, la medicina, la scrittura ecc. ) faccia fare passi avanti alla conoscenza in generale. Il nostro dialogo è un piccolo contributo in questa direzione.