Massimiliano Mazzini La fenomenologia delle rioccupazioni nella filosofia del mito e della storia di Hans Blumenberg 1.1. La domanda di Blumenberg Vi è una domanda essenziale che il filosofo tedesco Hans Blumenberg si pone e che sembrerebbe segnare un tema costante attorno al quale ruotano le sue opere fondamentali: possono i teoremi di secolarizzazione spiegare sufficientemente la nascita e l'origine dell'età moderna, facendo in modo che essa si ritrovi autenticamente legittimata come epoca attraverso queste categorie d'interpretazione dei processi storici? La risposta che il filosofo tedesco ha voluto dare a questo interrogativo si disegna complessivamente in modo esplicito nell'opera che ha accompagnato con successive rielaborazioni e pubblicazioni la sua vita, «La legittimità dell'età moderna»,1 il cui titolo evidenzia l'atteggiamento di critica verso i teoremi di secolarizzazione; critica ripresa in modo implicito in un'altra opera di Blumenberg, «Elaborazione del mito»2 che, segnando la maturità filosofica dell'Autore, può considerarsi una germinazione della «Legittimità dell'età moderna». Come spiegare la nascita della modernità? Tra i protagonisti della risposta, l'attenzione di Blumenberg si volge alla riflessione del filosofo Karl Löwith3 che utilizzando, come base per le proprie riflessioni su teologia e storia, l'interpretazione teologica di Oscar Cullmann, vede nella sostituzione della temporalità ciclica dei Greci con l'idea unilineare di un progresso senza fine (quest'ultimo è la secolarizzazione dell'idea cristiana della storia della salvezza) una frattura epocale che decide tanto per il medioevo quanto per l'età moderna: l'idea di progresso delle moderne filosofie della storia è una trascrizione immanentizzata dell'escatologia trascendentale del Cristianesimo primitivo. Tutto ciò nasconderebbe per Blumenberg una visione «sostanzialistica della storia»4 che, rendendo ermeneuticamente luminoso un fenomeno come la modernità, ne occulterebbe la novità e la discontinuità storica. Blumenberg afferma che attraverso una categoria di spiegazione di fenomeni storici quali il teorema di secolarizzazione andrebbe perduta proprio la caratteristica radicale dell'età moderna, il suo bisogno di contrapporsi -- attraverso una risposta storica -- all'epoca precedente, il medioevo: la sua legittima «autoaffermazione umana» nei confronti di quello che il filosofo definisce come «l'assolutismo teologico» della tarda scolastica medioevale, caratterizzato dalla concezione nominalistica di un Dio incomprensibile e arbitrario nei confronti dell'uomo.5 1.2. La logica ermeneutica di domanda e risposta nelle svolte epocali Blumenberg vuole salvaguardare la novità e la differenza della svolta epocale moderna, ma dissolve immediatamente ogni dubbio che si trovi in atto nella propria riflessione una lettura della modernità come discontinuità storica totalmente assoluta: Che il nuovo nella storia non possa essere di volta in volta qualcosa di arbitrario, ma sia soggetto a un rigore di aspettative e di bisogni precostituiti rappresenta la condizione grazie alla quale possiamo avere qualcosa come una conoscenza della storia. [...]; il programma dell'età moderna non va assunto come generazione spontanea contingente. Il dispiegarsi delle sue premesse concettuali riflette già la struttura singolare dei bisogni che si erano sviluppati obbligatoriamente nell'autocatalisi del sistema medievale.6 Bisogna rilevare che per Blumenberg esiste una sorta di «continuità» storica tra le successive svolte epocali fondata su aspettative e su bisogni precostituiti lasciati in eredità all'epoca seguente. Le aspettative e i bisogni precostituiti -- di un senso e di una spiegazione del mondo che ogni epoca si trova a dover affrontare -- si possono considerare le basi dell'ermeneutica della svolta epocale. Nel passaggio da un'epoca ad un'altra si evidenziano questi elementi basilari, i quali, però, non consistono in contenuti (concetti, teorie o convinzioni) ma piuttosto in fondamentali esigenze di sapere che stanno in corrispondenza dei contenuti. Quando, in una data epoca, l'uomo afferma un particolare sistema d'interpretazione di sé e del mondo, questo comporterebbe l'introduzione di nuove questioni e dei relativi contenuti come risposte. Le quali hanno l'importante funzione di aver delineato un'aspettativa di significato generale che si orienta per l'appunto grazie al loro contenuto inerente all'idea teorica o pragmatica di concepire il mondo e l'uomo, abbracciando e costituendo l'orizzonte storico di senso di una particolare epoca. Una volta caduto quel sistema di interpretazione, i contenuti che in esso si erano generati entrano in crisi, lasciando scoperte quelle domande di cui erano la risposta. Le epoche lasciano in eredità delle domande indicando una sorta di sentiero obbligato nelle aspettative di senso pre-orientato e al bisogno di risposte. L'età moderna per Blumenberg ricomincia da spazi questionativi lasciati vuoti dalla crisi della teologia tardo medioevale: Ciò che è accaduto prevalentemente, o comunque finora con poche eccezioni specifiche e riconoscibili, nel processo interpretato come secolarizzazione può essere descritto non come trasposizione [Umsetzung] di contenuti autenticamente teologici nella loro autoalienazione secolare, ma come nuova occupazione [Umbesetzung] di posizioni divenute vacanti da parte di risposte le cui relative domande non poterono essere eliminare.7 Qui Blumenberg evidenzia in corsivo il concetto cardine delle svolte epocali: nuova occupazione o «rioccupazione» (Umbesetzung). Le risposte dell'epoca del nuovo storico ri-occupano lo spazio questionativo lasciato libero dal tramonto delle risposte dell'epoca precedente: Il concetto di rioccupazione designa come implicazione il minimo d'identità che deve poter essere reperito, o per lo meno presupposto, e ricercato anche nel movimento più movimentato della storia. [...], rioccupazione significa che asserzioni diverse possono essere intese come risposte a domande identiche. [...]Anche la svolta epocale, in quanto cesura nettissima, ha ancora una funzione di conservazione dell'identità, poiché il mutamento che deve ammettere è solo il correlato della costanza delle esigenze che deve soddisfare. Allora, al di qua del grande concetto degli abbozzi epocali, il processo storico produce le proprie rioccupazioni come risanamenti della propria continuità[...]. Naturalmente, secondo la tesi qui sostenuta, quest'identità non è un'identità dei contenuti, ma delle funzioni. In determinati luoghi del sistema di interpretazione del mondo e di sé da parte dell'uomo, contenuti del tutto eterogenei possono assumere funzioni identiche.8 Si fa chiaro come per Blumenberg, critico della secolarizzazione, esista una continuità ben precisa tra le epoche che egli illumina con il concetto di ri-occupazione: il bisogno necessario che il nuovo storico epocale occupi con una propria interpretazione del mondo -- derivante per Blumenberg da luoghi eterogenei rispetto alla tradizione -- lo spazio lasciato vuoto da una crisi del senso e del significato dell'epoca che lo precede. Il modello ermeneutico di questa sorta di logica di domanda e risposta orienta dunque in modo generale la svolta tra le epoche come bene lo definisce l'ermeneuta della scuola di Costanza Hans Robert Jauss: La logica ermeneutica della domanda e risposta [...] era stata già delineata precedentemente da Hans Blumenberg, [...]. In questa prospettiva il nuovo epocale non può diventare da sé direttamente un evento gravido di conseguenze, semplicemente subentrando in successione diacronica all'antico finora vigente. Piuttosto, esso può affermarsi e accrescere gradualmente il proprio significato solo a misura che sa o promette di risolvere un problema che nel sistema sincronico delle domande e risposte canonizzate di un mondo della vita veniva avvertito come un'esigenza pressante, o anche che per la prima volta veniva destato come problema. 9 1.3. La radice del presente è la risposta stessa che ri-occupa il senso del passato La presenza dell'eredità delle domande che reclamano all'epoca che segue delle risposte, non è da considerarsi tuttavia una sorta di desiderio di sapere che occuperebbe con urgenza lungo la storia una costante volontà di interpretazione di sé e del mondo, Blumenberg ci indica, grazie al suo modello di spiegazione delle svolte epocali, che «la problematica dell'eccedenza delle questioni è tale soprattutto per le soglie epocali, nelle fasi di principii in trasformazione più o meno rapida per l'acquisizione di spiegazioni molto generali»10 sul senso del mondo. Si fa dunque più chiaro a questo punto oppure suppongo che sia tale, quale sia la concezione blumenberghiana della storia -anche se dovrà essere illuminata nel corso della ricerca dalla filosofia del mito e dalla conseguente ermeneutica della ricezione -- e cioè l'importanza che il filosofo dà alla dimensione temporale del presente nella dinamica delle svolte epocali. Il nuovo non può essere semplicemente dedotto o spiegato dal passato grazie ad analogie di contenuti. La novità appartiene al presente: è la sua risposta al passato, questo perché la radice del presente è nella risposta stessa che deve superare ad ogni costo -- sembrerebbe indicarci Blumenberg -- la crisi epocale. Le svolte tra le epoche producono le proprie ri-occupazioni, riorientando con la propria bussola il senso e proiettandolo sull'insieme della storia.11 Il «continuo» della storia sembra non più muovere dal passato al futuro, ma da una determinata ri-occupazione del presente verso il passato; come il filosofo evidenzia -- grazie all'ermeneutica di domanda e risposta -- nel passaggio epocale dalla filosofia greca alla teologia dogmatica patristica del primo medioevo: Nella formazione patristica del Cristianesimo si presentò per la prima volta un sistema di asserzioni come ultima figura della filosofia. Il Cristianesimo creò questa pretesa particolare in quanto si dogmatizzò nella lingua della metafisica antica e pretese di risolvere i suoi enigmi cosmici. Una formula corrente in autori patristici è l'affermazione che il fondatore della loro religione avrebbe risolto tutte le questioni degli antichi filosofi. Cristo avrebbe portato non solo un'esigenza e un'annunciazione da un altro mondo e di un altro mondo, ma anche la vera e definitiva conoscenza di questo mondo, fin nella massa dei problemi de rerum natura.12 La rioccupazione patristica nei confronti della filosofia greca è una specie di ridistribuzione del senso, una manipolazione di significati generali del sistema di interpretazione del mondo sino ad allora in vigore: «Così il Cristianesimo trasformò in domanda tutti i punti della vecchia tradizione dei quali pensava di poter essere la risposta. Tutto ciò che è nuovo deve presentarsi come «risposta»; esso perciò deve poter esibire come suoi contenuti tutte le presupponibili «domande» del patrimonio dell'antico, deve poterle rendere attuali e urgenti.»13 Il modello di rioccupazione consente di ricostruire i processi storici secondo relazioni di domanda e risposta, in questa prospettiva il «nuovo epocale» -- sia esso la filosofia che succede al mito o la teologia che segue alla filosofia greca -- può emergere solo dal momento che può risolvere con un senso proprio coincidente con una «nuova risposta» un problema che nel sistema di interpretazione generale del mondo veniva avvertito in modo pressante in seguito alla crisi del significato della «vecchia risposta». Sono infatti le risposte delle nuove rioccupazioni che reggono le domande o meglio le domande cadono se non vi sono risposte: «nel nuovo assestamento [nuova rioccupazione] certe domande non vengono più poste, le risposte che una volta si davano ad esse appaiono come puro dogmatismo, come ridondanza fantastica.»14 Blumenberg a questo riguardo mostra come «non sempre ci si è interrogati e, manifestamente, non sempre ci s'interroga intorno all'immortalità». Essa, dai testi biblici dopo l'esilio babilonese sino al postulato kantiano dell'immortalità, «rimase un luogo di occupazione variamente mutevole, ma obbligato per ogni sistema [un sistema generale d'interpretazione del mondo]». L'aumento reale della vita, precisa Blumenberg, ed i conseguenti passatempi meno fastidiosi che riempivano questo guadagno di tempo «hanno provocato la scomparsa della sua [dell'immortalità] posizione nel sistema. Sembra perfino che neanche il cristianesimo attuale vi faccia quasi più cenno nella sua retorica a livello mondiale, e che in tal modo rinunci improvvisamente ad uno dei cardini della sua identità».15 «L'immortalità», dunque, è una risposta che assume una valenza contenutistica diversa a seconda del «sistema di spiegazione del mondo» che la occupa ri-orientandone i significati. La domanda a cui essa risponde in generale può essere, ad esempio, quale sia il senso della vita che emerge dalla finitezza della morte. Ogni sistema di interpretazione generale del mondo, sia esso costituito da «miti», «filosofie» e «teologie» come ci indica Blumenberg, esperisce domande tramandate a cui deve saper ben rispondere. Ma il cambiamento di una condizione biologica -- il quale nel caso esemplificato precedentemente dell'immortalità, era «l'aumento reale della durata della vita» -- provoca la caduta della domanda e della risposta; in questo caso, dunque, non c'è più il «bisogno» di soddisfare l'«aspettativa» di senso della domanda pre-orientata dall'epoca precedente. 1.4. La vicenda mai conclusa di familiarizzare lo spaesante Le «aspettative» e i «bisogni»16 sono -- come avevamo precedentemente evidenziato -- gli elementi basilari della svolta epocale in quanto corrispondono anche ad una sorta di «bisogno antropologico» di prender distanza dall'estraneità dell'uomo al mondo. Si ricerca -- nelle svolte epocali che sono momenti di crisi di significati generali -- la pienezza del senso; ho scritto «si ricerca» e non si ottiene, poiché se si ottenesse, per Blumenberg, non ci sarebbe movimento della storia. Le varie svolte epocali -- a cui corrispondono l'entrata in vigore di una nuova epoca e il suo conseguente sistema di interpretazione del mondo coincidente con le nuove risposte -- sono quella vicenda mai conclusa di venire a capo dallo spaesante, che Blumenberg definisce nell'«Elaborazione del mito» con il concetto limite di «Assolutismo della realtà»: Assolutismo della realtà, significa che l'uomo quasi non controllava le condizioni della propria esistenza e, ancora più importante, semplicemente credeva di non controllarle.17 Il concetto di «Assolutismo della realtà» fa riferimento ad un senso di spaesamento specifico provato dall'uomo in un contesto epocale che è quello in cui egli svilupperà un particolare sistema difensivo da esso, il «mito». In seguito al «lavoro del mito» sull'«Assolutismo della realtà», quest'ultimo consiste anche in una sorta di «angoscia» primordiale, il mondo è reso miticamente familiare, noto. I sistemi generali di spiegazione del mondo che seguono a quello del mito, si edificano sul «lavoro» basilare già fatto dal mito che consiste nell'avere preso una certa distanza dallo spaesante; ma quest'ultimo rimane sempre latente nelle forti crisi del senso e dei significati generali che si verificano nei periodi delle svolte epocali: L'uomo è sempre al di qua dell'assolutismo della realtà, ma non acquista mai completamente la certezza di aver raggiunto il punto critico della propria storia oltre il quale la relativa predominanza della realtà sulla coscienza e sul destino si è capovolta nella supremazia del soggetto.18 Blumenberg, cerca di dissolvere il dubbio che al di sotto delle svolte epocali si annidi una sorta di sostanzialismo e cioè che il senso di estraneità al mondo sia concepito -- assieme all'«aspettativa» e al «bisogno» di risposta che emergono da esso -- come un'unica grande domanda sempre uguale che si dirige dal «mito» alla «filosofia» e da quest'ultima alla «teologia» sino alle filosofie dell'età moderna. Il senso di estraneità dell'uomo al mondo è sempre specifico poiché dipende anch'esso dal contesto della svolta epocale in cui si cerca di familiarizzarlo o dal contesto epocale precedente. Grazie alla logica ermeneutica di domanda e risposta, il senso dell'estraneo viene come dire precompreso e occupato dalle risposte epocali. Una volta cadute quelle risposte con i relativi contenuti difensivi dall'estraneità, quest'ultima rimane comunque orientata dalla domanda e risposta precedenti che sono rimaste prive di contenuti specifici, perché questi sono caduti, ma che continuano a reclamare una soluzione dalle possibili nuove svolte epocali che dovranno rioccuparle. Insomma, come dire, è la logica di domanda e risposta che pre-comprende19 e riorienta il senso dell'estraneità, quasi a sottolineare che è l'uomo stesso che lo produce costantemente pur difendendosene con il sistema «pre-comprensivo» della logica ermeneutica di domanda e risposta. 1.5. Oltre la soglia epocale: la pre-comprensione dei fenomeni storici Blumenberg, per «dimostrare il motivo dell'apparenza di secolarizzazione nella struttura della rioccupazione» attraverso il tematizzato problema dell'identità dei contenuti storici, utilizza un sistema categoriale, per leggere ed interpretare le svolte epocali, concepito sulla differenza di «funzione» e di «contenuto», ciò apre la via alla particolare filosofia della storia di Blumenberg che si può definire come funzionalismo storico e che consente di mettere in evidenza la dinamica degli «orizzonti di senso» che si creano all'interno delle svolte epocali, ermeneuticamente spiegate attraverso il processo della ri-occupazione. Precedentemente ho verificato come nella riflessione di Blumenberg, concernente la modalità del passaggio da un'epoca a un'altra, sia in effetti possibile riscontrare il perdurare di alcuni elementi che non consistono in «contenuti» di pensiero (concetti o teorie) ma piuttosto in «funzioni» ossia in fondamentali esigenze di orientamento e di senso che stanno al di sotto dei «contenuti» di pensiero. Blumenberg coglie oltre la soglia epocale del nuovo storico alcuni elementi funzionali che derivano dal contesto epocale precedente: le aspettative e i bisogni precostituiti che orientano la possibilità di una conoscenza dei fenomeni storici e che si possono considerare come gli elementi della pre-comprensione ermeneutica della coscienza del nuovo epocale: Infatti il problema dell'epoca deve essere sollevato a partire dalla questione della sua esperibilità. Ogni modificazione, ogni cambiamento dal vecchio al nuovo ci sono accessibili solo per il fatto che essi si lasciano riferire non alla sostanza, di cui parla Kant, ma a un quadro costante di riferimento, attraverso il quale possono essere definite le esigenze che devono essere soddisfatte in un luogo identico. Che il nuovo nella storia non possa essere di volta in volta qualcosa di arbitrario, ma sia soggetto a un rigore di aspettative e di bisogni precostituiti rappresenta la condizione grazie alla quale possiamo avere qualcosa come una conoscenza della storia. [...]20 La «conoscenza della storia» si dà grazie al passaggio al di là della soglia epocale di aspettative di senso e di bisogni precostituiti che Blumenberg tematizza attraverso la metafora spaziale di un insieme di luoghi-funzioni correlati in un sistema d'interpretazione del mondo e di sé da parte dell'uomo. In questa struttura ermeneutica del passaggio epocale si stabiliscono luoghi determinati nei quali operano equivalenti funzionali: «contenuti del tutto eterogenei possono assumere funzioni identiche». Ed è solo in questo modo che per Blumenberg può essere concepita la «continuità storica» coincidente con una trasposizione dei contenuti tra le diverse svolte epocali tematizzata dal teorema della secolarizzazione: il cristianesimo ha lasciato in eredità alla modernità delle domande, dei bisogni e delle aspettative di senso, come ne ha a sua volta assunte dal mondo antico, le risposte del nuovo storico, assumendo contenuti di pensiero diversi da quelli che avevano precedentemente, dovranno riempire i luoghi del senso pre-orientato dalle aspettative e dalle domande. L'uomo moderno è medievale per quanto riguarda le proprie aspettative di senso sul mondo ed è moderno nei propri contenuti di pensiero. La «continuità storica» dei contenuti di pensiero tra le diverse svolte epocali può essere spiegata diversamente grazie al processo ri-occupazionale delle risposte del nuovo storico che proiettando a posteriori dal loro presente nuovi contenuti per risolvere una crisi del senso dell'epoca precedente finiscono per orientare il significato di tutto il passato alla loro immagine del mondo: questo costituirebbe l'imbarazzo dell'identità dei contenuti di pensiero che si costituiscono tra le diverse svolte epocali della storia. Il processo dinamico dei contenuti storici dal passato verso il presente individuato dal «teorema della secolarizzazione» è per Blumenberg, infatti, apparente, poiché nasconderebbe un processo di ri-occupazione. 1.6. L'assolutismo della realtà e la prima occupazione del mito La filosofia della storia di Blumenberg, come funzionalismo storico, «parte dall'idea che nella storia spirituale dell'occidente tutte le immagini del mondo e i sistemi interpretativi siano connessi, nel senso che ogni immagine del mondo rappresenta una risposta alla sfida lanciata da quella che l'ha preceduta», e che l'importante «funzione di tutti i grandi schemi di senso [le immagini del mondo] consista nel fatto di portare e mantenere a distanza l'insopportabile assolutismo della realtà».21 «I diversi schemi di senso del pensiero occidentale» -che corrispondono all'entrata nel processo storico di diverse epoche e diverse interpretazioni del mondo- «possono essere resi plausibili come forme del distanziamento e del dominio», di uno spaesamento che corrisponde alla percezione da parte dell'uomo di una perdita generale di senso e di ordine coincidente con l'autocatalisi di un sistema epocale, di un'«immagine del mondo».22 Il motore del processo storico, che conduce il movimento ed il passaggio tra le diverse svolte epocali è sostenuto da un'interna dialettica tra un termine negativo, e cioè la crisi del senso epocale in cui emerge lo spaesante specifico, ed un termine positivo funzionale, e cioè la risposta del nuovo storico che cercherà di risolvere la crisi del senso: una crisi che è sempre orientata dalle aspettative e dai bisogni precostituiti del vecchio epocale e reclamanti una necessaria risposta dal nuovo epocale. Di rilevante importanza è evidenziare come lo spaesamento, che si crea all'interno della crisi dell'immagine del mondo epocale, è sempre specifico: l'assolutismo della realtà si configura come il primo -in ordine temporale- degli spaesamenti. I racconti dei miti saranno i primi reagenti a questa primitiva mancanza di senso del mondo. Il mito, infatti, ha una funzione apotropaica di denominazione nei confronti dell'assolutismo della realtà. La successiva crisi del mito, causata da una autocatalisi del suo sistema di significazione non farà emergere nuovamente l'assolutismo della realtà primordiale, ma provocherà uno spaesamento specifico pre-compreso e orientato da quelle aspettative e dai quei bisogni di significazione delle cose, che il mito aveva per la prima volta destato nella coscienza dell'uomo, attraverso il suo processo di significazione e occupazione primaria. Blumenberg concepisce in «Elaborazione del mito» il concetto limite iniziale di «Assolutismo della realtà» in coincidenza di quella «situazione iniziale», che assolveva le caratteristiche del «vecchio status naturalis delle teorie filosofiche della cultura e dello stato». Il concetto limite di «Assolutismo della realtà» individua una situazione vitale e iniziale in cui «l'uomo quasi non controllava le condizioni della propria esistenza e, ancor più importante, semplicemente credeva di non controllarle»: Blumenberg evidenzia come questo concetto limite sia il nucleo comune delle teorie sull'antropogenesi. L'essere preumano, a causa di un' improvvisa rottura dell'equilibrio adattativo in cui viveva nella foresta pluviale, fu costretto ad un insediamento in un territorio aperto, dall'orizzonte della percepibilità allargato, la savana. Questo passaggio a condizioni vitali diverse -- rispetto al biotopo all'intero della foresta pluviale -- corrisponde per Blumenberg ad un «salto situazionale» che può essere considerato come la prima e decisiva svolta epocale in direzione dell'umanizzazione, la zona di passaggio dal pre-umano all'umano: Fu un salto situazionale, che trasformo l'orizzonte lontano, non occupato, nel permanente stare-inattesa di cose fino a quel momento sconosciute.23 Il passaggio da una zona vitale all'altra in questa sorta di svolta epocale primordiale corrisponde ad un cambiamento dell'adattamento della percetibilità, in quanto «l'essere preumano» all'interno della foresta pluviale è un essere nascosto e protetto dalla densità della vegetazione che gli garantisce l'impossibilità di accedere alla visione di un'apertura indefinita dell'orizzonte. L'improvvisa rottura dell'equilibrio adattativo corrisponde alla capacità umana di poter compensare la perdita di protezione primaria della foresta pluviale attraverso «la capacità di prevenire, l'anticipazione di ciò che non si è ancora verificato, il tenersi pronti per ciò che è assente dietro l'orizzonte» allargato della savana. Si fa chiaro come la situazione iniziale di passaggio dal preumano all'umano sia determinata, per Blumenberg, dalla capacità di trasformare «l'orizzonte lontano, non occupato», nella possibilità di poterlo occupare con una primitiva anticipazione dei fenomeni, che potrebbero verificarsi in esso: questo per poter recuperare, nel nuovo adattamento della savana, il biotopo abbandonato coincidente con la protezione della foresta pluviale. Blumenberg evidenzia come prima dell'anticipazione primitiva dei fenomeni vi sia una «prevenzione indeterminata» degli stessi da considerarsi come «angoscia»: L'angoscia si riferisce all'orizzonte non occupato delle possibilità di ciò che può sopraggiungere. 24 Seguendo Kierkegaard e Heidegger, spiega Wetz, Blumenberg definisce l'angoscia come un'«intenzionalità della coscienza senza oggetto. Essa rende equivalente l'intero orizzonte, come totalità delle direzioni dalle quali qualcosa può sopraggiungere».25 In altre parole, spiega Wetz: L'angoscia produce una minaccia da un orizzonte indeterminatamente aperto. L'oggetto della minaccia non è né concepibile, né determinabile, l'unica cosa certa è che esso è di una enormità minacciosa. L'assolutismo della realtà possiede secondo Blumenberg una qualità angosciante di tal genere, in quanto per noi il mondo è veramente qualcosa d'informemente disordinato, di anonimamente sregolato e di selvaggiamente sovrapotente, Ciò suscita angoscia, la quale in seguito motiva l'uomo a strutturare e articolare il suo sregolato e indeterminato orizzonte d'esperienza e con ciò ad aprire un orizzonte di questo senso orientativo, il quale si colloca davanti all'assolutismo della realtà portandolo così a distanza. L'angoscia paralizzante cede di fronte al rapporto attivo col mondo, il quale viene caricato di determinazioni di senso. Una delle prime invenzioni umane contro la paurosa realtà e il suo tormento angoscioso è il mito.26 Si sviluppa, dunque, nell'umanità primordiale, una sorta di atteggiamento di attesa, di anticipazione che si riferisce all'intero orizzonte, «l'angoscia deve essere continuamente razionalizzata in paura» attraverso espedienti quali la «supposizione del familiare per il non familiare», «dei nomi per il non non nominabile»: Qualcosa viene «messo avanti» [nell'orizzonte aperto e non occupato] per fare di ciò che non è presente l'oggetto dell'azione diretta ad allontanare, a scongiurare, a mitigare o a depotenziare27 L'imposizione dei nomi ai fenomeni è il presupposto per rendere familiare l'estraneità del mondo. Attraverso una metaforizzazione di racconti e storie, il panico e la paralisi d'angoscia vengono dissolti grazie a grandezze calcolabili e forme regolate, con le quali trattare il rapporto dell'uomo con l'orizzonte allargato del mondo: in altre parole l'angosciante assolutismo della realtà viene sublimato e addomesticato attraverso una forma regolata consistente in racconti mitici, con cui trattare il primordiale rapporto dell'uomo con i fenomeni. L'orizzonte allargato da cui possono giungere cose indeterminate è anche la totalità delle direzioni verso le quali sono orientate le anticipazioni di possibilità e avvicinamenti ad esse. L'anticipazione «riempie l'orizzonte facendosi guidare dall'immaginazione e dal desiderio».28 Per far ciò, spiega Blumenberg: devono essersi affermate nel corso dei millenni delle storie che non potevano venire contraddette dalla realtà.29 Queste storie, i racconti dei miti assolvono l'importante funzione di «Riempire l'ultimo orizzonte, nel senso del mitico "margine del mondo", [e questo] significa semplicemente anticipare le origini e le degenerazioni di ciò che non è familiare».30 Per cogliere, come i racconti dei miti familiarizzino l'assolutismo della realtà -- proiettando sull'orizzonte non occupato dal senso la loro immaginazione e significazione dei fenomeni -Blumenberg crea un'analogia tra questi e l'operare magico dell'homo pictor: L'homo pictor non è soltanto il creatore di pitture rupestri per pratiche magiche relative alla caccia, ma l'essere che nasconde la mancanza di affidabilità del proprio mondo proiettando immagini. [...] Nella caccia magica delle sue pitture rupestri il cacciatore dalla sua dimora raggiunge e occupa il mondo.31 All'assolutismo della realtà che coincide con una mancanza di senso del mondo che provoca angoscia, si oppone l'assolutismo delle immagini e dei desideri dei racconti del mito, che occupando e proiettando sull'orizzonte aperto del mondo una densità di significazioni primarie, familiarizza la realtà: ed è in questa capacità apotropaica del mito che è da individuarsi la prima occupazione di senso del mondo, che darà origine -- come analizzerò in seguito -- alla seconda occupazione, e cioè alla risposta ri-occupazionale della filosofia greca nei confronti della crisi del sistema occupazionale mitico dovuta ad un'autocatalisi. 1.7. La primaria rioccupazione della filosofia classica greca nei confronti dell'occupazione del mito: la logica ermeneutica di domanda e risposta iniziale I miti, dunque per Blumenberg, sono storie: la primissima forma -- e non meno solida -- di familiarità col mondo sta nel trovare i nomi per l'indeterminato. Solo allora e in conseguenza di ciò e possibile raccontare su di esso una storia.32 La necessità della pratica apotropaica della denominazione diede la possibilità di creare distanza dall'assolutismo della realtà ed in seguito si formarono delle storie: Ogni fiducia del mondo comincia con i nomi in relazione ai quali si possono raccontare delle storie.33 In conformità dell'espressione greca mýthon mythéistai («raccontare una storia»)34 è nella funzione del raccontare che dev'essere percepita la dimensione originaria del mito: Le storie [...] non venivano raccontate per rispondere a domande, ma per scacciare il disagio e l'insoddisfazione, che sono la prima condizione perché possano sorgere delle domande. Ovviare alla paura e all'incertezza significa già impedire che sorgano oppure che si concretizzino le domande relative a ciò che le suscita e le alimenta.35 Blumenberg coglie la dimensione primaria della «funzione del mito, nel superamento di quella estraneità arcaica del mondo»36 e nella capacità di allontanare con le proprie storie dense di «significatività» l'inquietudine dell'assolutismo della realtà, che è la causa possibile del sorgere delle domande sui fenomeni naturali. L'importante, per Blumenberg, è evidenziare come l'attività funzionale del mito non è da considerarsi una sorta di prestazione arcaica della ragione che pone domande sul mondo: Il riconoscimento del mito come prestazione arcaica della ragione deve giustificarsi assumendo che il mito abbia dato innanzitutto e soprattutto risposte a domande, invece di averle implicitamente rifiutate raccontando delle storie.37 Il mito familiarizza e dona senso attraverso la propria «significatività», che non coincide con un'ipotetica risposta arcaica ad una domanda sul perché dei fenomeni del mondo. Blumenberg rifacendosi all'analisi esistenziale dell'esserci di Heidegger traccia le linee fondamentali di una sorta di fenomenologia della «significatività» del mito: Se la significatività è la qualità del mondo come esso originariamente non sarebbe per l'uomo, allora essa è strappata ad una inquietudine il cui allontanamento nel mascheramento viene prodotto e confermato proprio attraverso di essa. La significatività e la forma nella quale è stato messo a distanza lo sfondo del nulla come ciò che angoscia, laddove però, senza questa «preistoria», la funzione del significato resterebbe incompresa, benché presente. Infatti il bisogno di significatività ha la sua radice nel fatto che noi siamo consci di non esserci mai liberati definitivamente dall'inquietudine. Dalla cura come «essere dell'esserci» che troverebbe nelle situazione emotiva fondamentale dell'angoscia la sua caratteristica «apertura», scaturisce, assieme alla totalità della struttura dell'esserci, anche la sua privazione di significatività nel mondo, nella sua esperienza e nella storia. La «nuda verità» non è qualcosa con cui la vita possa vivere.38 La «significatività» del mito è elevata al rango di una categoria antropologica fondamentale. Blumenberg definisce la «significatività» del mito come fondamentale qualità apotropaica «rispetto allo stordimento consegnato all'assolutismo della realtà». Per Blumenberg il fatto della «significatività» del mito rimanda ad un dato antropologico primario: la possibilità di estorcere dalla realtà, in cui il senso è improbabile, un senso dalla medesima e ciò si direziona nella capacità di porre «a distanza lo sfondo del nulla». La riflessione di Blumenberg, coglie come il nulla angosciante e cioè l'assolutismo della realtà sia il termine dialetticamente affettivo e negativo rispetto al termine positivo della «significatività» che dona un senso al mondo, assolvendo perciò la funzione di superamento del «rischio implicito nella forma umana dell'esistere». La «significatività» del mito permette all'uomo di vivere nel mondo: la qualità apotropaica del mito pone a distanza la «nuda verità» dell'angoscia, quest'ultima è provocata dall'assolutismo della realtà che è la primordiale mancanza di senso del mondo. Nella «Legittimità dell'età moderna», Blumenberg ha tematizzato la svolta epocale tra mito greco e filosofia attraverso la metafora dei luoghi-funzioni da occupare grazie ad una eredità di questioni e di aspettative di senso, che il sistema mitico lascia in eredità alla filosofia greca e che quest'ultima dovrà soddisfare: Anche il mito dei Greci, in via di sparizione ed eliminato sopratutto moralmente, ha prescritto alla filosofia nascente quali questioni essa doveva assumere e quale quadro sistematico essa doveva riempire. La filosofia in quanto quintessenza del primo atteggiamento teoretico è segnata, ben al di là della sua fase iniziale dallo sforzo di soddisfare le esigenze di questa presunta misurazione della sua efficacia e di differire o mascherare le delusioni che non potevano non prodursi. 39 In questo tematizzato passaggio epocale, Blumenberg non individua come si sia verificata l'autocatalisi del sistema mitico, e non coglie neanche come il primario sistema di ri-occupazione della filosofia greca40 proietti la propria «immagine del mondo» sul sistema di «significatività» mitica rendendolo in questo modo a propria somiglianza. Blumemberg riflette sulla possibilità che il sistema rioccupazionale della filosofia debba «mascherare le delusioni», a causa della propria incapacità di soddisfare tutte le aspettative di senso provenienti dal mito. Per far questo la filosofia greca è necessitata a manipolare a propria immagine il senso del mondo precedente per distanziare la crisi del senso mitica. Crisi che Blumenberg individua in «Elaborazione del mito» attraverso la sentenza di Talete «tutto è pieno di dei». Difatti Blumenberg individua nella Teogonia di Esiodo un'elaborazione poetica e mitica41 del distanziamento dell'assolutismo della realtà consistente nel distribuire e differenziare, in un conflitto di forze antagoniste, che si limitano l'una con l'altra, (gli dei, cui corrisponde ad ognuno una determinata potenza che domina su un aspetto del mondo) l'opaca e primordiale potenza dell'assolutismo della realtà. In questo modo l'assolutismo viene depotenziato attraverso una sua interna divisione dei poteri. La sentenza di Talete coglie l'autocatalisi del sistema mitico: Se una delle funzioni del mito è di convertire l'indeterminatezza numinosa nella determinatezza nominale, e di rendere l'inquietante familiare e accessibile, allora questo processo conduce ad absurdum, se «tutto è pieno di dèi». Da questa situazione non si può arrivare ad alcuna conclusione in un procedimento finito, e l'unico risultanto che ci può aspettare è quello del semplice enumerare e aver denominato. Questo lo si poteva già intravedere nella Teogonia di Esiodo.42 Si fa chiaro come un'eccessiva nominazione delle divinità, (in cui il sovrapotente assolutismo della realtà viene diviso) conduca ad un processo infinito ed il mondo venga restituito nuovamente all'indeterminato e all'infinitezza perturbante. Non casualmente il protofilosofo Talete -- che è una figura al limite di un passaggio epocale -assume l'ufficio che aveva detenuto in precedenza il mito e cioè di «depotenziare i fenomeni estranei e inquietanti. La predizione di un'eclisse di sole attribuita a Talete va al di là dell'imposizione al fenomeno di nomi e di storie».43 Questa predizione mostra per la prima volta, spiega Blumenberg, «la tanto più efficace capacità apotropaica della teoria, la quale può dimostrare, pronosticandolo, che lo straordinario è il regolare.»44 È chiaro dunque come la teoria razionale assumi nei confronti del mito una caratteristica funzionale precisa dello stesso e cioè la capacità di familiarizzare i fenomeni del mondo attraverso il proprio contenuto di senso. Ciò che la teoria di Talete presuppone comunque, alle proprie spalle, è l'opera già effettuata dal mito consistente in un distanziamento dall'assolutismo della realtà: Ciò di cui siamo testimoni, nell'oscura sentenza di Talete, non è il punto zero dell'autoincoraggiamento della ragione, ma la percezione di una liberazione dell'osservatore del mondo che era stata conquistata da molto tempo.45 Naturalmente, un presunto osservatore teoretico e arcaico dei fenomeni naturali non si trova nel mito: «l'ipotesi di Aristotele secondo cui la filosofia ha avuto inizio con la meraviglia, progredendo poi dagli enigmi più prossimi a quelli concernenti le cose piccole e le cose grandi».46 Quest'ipotesi, che è stata considerata con favore dalla tradizione filosofica occidentale è da correggere secondo Blumenberg poiché nel mito -- come ho indicato precedentemente -- non è presente una curiosità teoretica che pone domande sul mondo per poterlo conoscere: La naturale destinazione dell'uomo alla conoscenza si sarebbe manifestata nella meraviglia come consapevolezza del suo non sapere. Mito e filosofia sarebbero venuti allora da un'unica radice. In analogia al philosophos Arisostele conia il termine philomythos, per poter riferire al mito la predilezione del filosofo per le cose meravigliose: infatti, afferma Aristotele, anche il mito si compone di meraviglie. Il filosofo ha un debole per il mito perché questo è fatto della stessa sostanza che fa l'attrattività della teoria. Ma anche nulla di più.47 Aristotele individua in opera, all'interno della tradizione mitica, una possibile conoscenza dei fenomeni naturali destata nell'uomo dalla meraviglia e dalla propria curiosità teoretica: ed è in questa (la tradizione mitica) che egli proietta, a posteriori, dal presente in direzione del passato una concezione razionale e teorica della conoscenza che appartiene esclusivamente alla propria epoca, difatti Blumenberg ci indica come la conoscenza mitica per Aristotele sia fatta «della stessa sostanza che fa l'attrattività della teoria»: È improbabile che il mito abbia definito gli oggetti del filosofo [Aristotele]; ma senza dubbio aveva definito lo standard delle prestazioni al di sotto del quale non gli era lecito ricadere. Che avesse amato o disprezzato il mito, in ogni caso egli doveva soddisfare le pretese che questo aveva fissato col fatto di averle soddisfatte. Andare oltre di esse era cosa di altre norme, che la teoria avrebbe prodotto immanentemente estrapolandole dai propri reali o presunti successi, non appena fosse riuscita a moderare le aspettative. Ma prima di raggiungere questo momento, l'epoca post-mitica è in obbligo di compiere ciò che l'epoca precedente rivendicava o anche semplicemente faceva credere di aver compiuto. La teoria vede nel mito un insieme di risposte a domande, proprio come essa è o vuole essere. Ciò la costringe, mentre rifiuta le risposte, ad accettare le domande. Così anche le interpretazioni erronee che un'epoca dà dell'epoca che la precede, la indirizzano a comprendere se stessa come correzione di un tentativo sbagliato nella cosa giusta. «Rioccupando» posizioni sistematiche identiche.48 La sentenza di Talete aveva annunciato l'esaurimento della mentalità mitica come indice di una crisi del senso provocata da un'autocatalisi del sistema. L'epoca post-mitica, la filosofia classica dovrà superare la crisi dell'epoca che la precede, soddisfando le esigenze vitali delle aspettative e dei bisogni precostituiti dal mito, che si concretizzano in un sistema di domande che la filosofia, in questo caso Aristotele, dovrà risolvere a partire da nuove risposte rioccupazionali. Blumenberg individua come nella svolta epocale tra mito e filosofia classica vi sia una necessità interna di risolvere una crisi del senso. Per far questo la filosofia classica deve possedere una risposta fondamentalmente risolutiva della crisi a partire da nuove premesse contenutistiche: se la teoria si considera come un insieme di risposte a domande precise sui fenomeni del mondo, essa proietterà a posteriori sul sistema del senso mitico questo schema in cui si riflette la propria autointerpretazione. La teoria della filosofia classica rifiuta le risposte del mito, ma né accetta le domande, autointerpretandosi come correttivo di un tentativo teoretico sbagliato di conoscenza ad opera del mito. Si comprende come la filosofia classica proietti a posteriori sul sistema d'interpretazione del mondo mitico la propria interpretazione del mondo, riducendo la tradizione ad un'unità di sostanza a propria immagine e somiglianza: «Il filosofo ha un debole per il mito perché questo è fatto della stessa sostanza che fa l'attrattività della teoria». Riguardo il problema della secolarizzazione e della «trasposizione di contenuti» sostanziali all'interno dei passaggi epocali del processo storico, che il «teorema della secolarizzazione» individua nell'interpretazione di Blumenberg, si può dunque ipotizzare -- come si è precisato nella svolta epocale tra mito e filosofia -- che «l'unità sostanziale» sia da attribuire alla probabile proiezione dei propri contenuti di pensiero che l'epoca del «nuovo» indirizza verso il passato: la presunta «identità sostanziale» tra le epoche è da considerarsi causata dalla risposta del nuovo storico, che si proietta a posteriori e non ad un movimento dei «contenuti di pensiero» epocali, che dal passato si inverano nel presente epocale, come «il teorema della secolarizzazione» nell'interpretazione di Blumenberg sembrerebbe indicare. Si fa dunque evidente -- come ho indicato più volte analizzando le svolte epocali, ed anche in questo caso -- come una possibile e apparente secolarizzazione nascondi per Blumenberg un processo di rioccupazione del senso del passato ad opera del «nuovo» presente storico. 2. La teoria della ricezione del mito: terminus ad quem e terminus a quo 2.1. Per una ri-occupazione razionale e moderna del passato: terrore e poesia del mito: I due presupposti della crisi del senso dell'epoca medievale La risposta razionale che provoca la nascita dell'età moderna è per Blumenberg una funzione vitale poiché consente la possibilità di dare un senso al mondo in modo analogo all'attività funzionale di significatività del mito che creando distanza dallo spaesante primordiale, rende il mondo familiare, vivibile. Blumenberg, in una delle pagine iniziali di «Elaborazione del mito», avvicina il significato dell'assolutismo della realtà primordiale all'assolutismo teologico tardo medioevale occamistico. La nascita del mito e l'originarsi dell'età moderna corrispondono ad una presa di posizione contro l'inquietudine di una mancanza d'ordine del mondo in contesti epocali diversi, essi sono una reazione vitale dell'uomo da cogliersi nella ricerca di nuove condizioni d'esistenza maggiormente favorevoli. L'uomo, per Blumenberg, si trova nelle proprie condizioni esistenziali: sempre al di qua dell'assolutismo della realtà [primordiale], ma non acquista mai completamente la certezza di aver raggiunto il punto critico della propria storia oltre il quale la relativa predominanza della realtà [l'assolutismo della realtà e cioè quella situazione iniziale in cui «l'uomo quasi non controllava le condizioni della propria esistenza»] sulla coscienza e sul destino si è capovolta nella supremazia del soggetto.49 Blumenberg segue la riflessione: Non c'è che marchi questa svolta, questo point of no return. A coloro che si consideravano come beneficiari della scienza e del rischiaramento che avevano già definitivamente sorpassato questo punto, persino il Medioevo sembrava rientrare nel tipo di un mondo primitivo di forze non dominate e non dominabili, che non erano nient'altro che nomi e destinatari dell'impotenza. Ciò che retrospettivamente fece apparire oscuro il Medioevo, dopo l'atto di fondazione dell'età moderna, era l'assolutismo teologico.50 L'«assolutismo della realtà» è messo, da Blumenberg, in relazione analogica all'«assolutismo teologico» «l'atto di fondazione dell'età moderna» si configura come risposta razionale di «rischiaramento» rispetto all'assolutismo teologico medievale che appare come «un mondo primitivo di forze non dominate e non dominabili» come in un certo senso il primordiale assolutismo della realtà. Grazie a questa analogia tra i due assoluti postulata da Blumenberg, Wetz ha potuto individuare, nella contrapposizione tra inaffidabilità del mondo in balia dell'arbitrio divino e autoaffermazione dell'uomo attraverso le prestazioni della tecnica e della scienza che pongono a distanza l'immediatezza di un mondo del tutto noncurante delle esigenze umane, il dispiegarsi della medesima idea bipartita sottesa nella capacità di distanziamento del mito nei confronti dell'assolutismo della realtà iniziale. L'età moderna si origina per Blumenberg attraverso una risposta ri-occupazionale nei confronti dell'assolutismo teologico del nominalismo occamistico: la nascita della modernità è determinata da una necessità interna al processo storico e cioè dalla crisi del senso dovuta all'autocatalisi del sistema di interpretazione del mondo dell'epoca tardo medievale considerata come epoca di «un mondo primitivo di forze non dominate e non dominabili»: la formula secondo la quale il Creatore non avrebbe compiuto la sua opera ad altro fine se non a quello di dimostrare la propria potenza escludeva totalmente l'uomo dalla determinazione del senso del mondo.51 La riflessione storica di Blumenberg individua come il sistema ri-occupazionale dell'età moderna, necessitato dalla «perdita di ordine» del mondo e dalla «scomparsa di telos» causati dal dio del nominalismo tardo medievale, dia una risposta di assoluto contenuto razionale per destabilizzare l'angoscia provocata da quel senso di spaesamento specifico che corrisponde all'assolutismo del dio nominalistico di Occam caratterizzato da una volontà totalmente arbitraria nei confronti dell'uomo. La crisi del senso provocata dall'interpretazione nominalistica del mondo si realizza per Blumenberg, essenzialmente attraverso due presupposti: il primo è che «la preoccupazione per la salvezza venne largamente sottratta alla disposizione di sé da parte dell'uomo, alla sua libera decidibilità e meritabilità».52 La teoria nominalista della predestinazione, produsse una teologia basata su un'imperscrutabile volontà divina, che riconduceva la legittimazione e la grazia esclusivamente al decreto di elezione deciso dalla divinità e non alle opere dell'uomo. Una volta spostata la condizione della salvezza dalle opere alla trascendenza di una predestinazione assoluta, essa non era più in grado di fornire all'uomo il suo interesse, di dare al suo agire una direzione; il secondo presupposto è che «il mondo come Creazione non si poteva più riferire, in quanto espressione della provvidenza divina, all'uomo[...]era diventato [il mondo] ermeneuticamente inaccessibile, per così dire muto. In tal modo l'atteggiamento di fronte al mondo non era più precostituito a partire dall'oggetto.»53 Questo presupposto coinvolge la possibilità conoscitiva dell'uomo, chiaramente Blumenberg indica che il mondo nel sistema gnoseologico nominalistico era diventato «ermeneuticamente, muto», ciò vuol dire che gli universali non sono più l'essenza intelligibile all'interno delle cose e l'uomo grazie a questa perdita di pre-comprensione del reale non può conoscere i concetti astraendoli dalle cose. Ciò cui si assiste grazie a questi due presupposti indicatori di una crisi è la perdita di un ordine teleologico in cui l'uomo possa inserirsi: La perdita di ordine come ragione per dubitare di una struttura della realtà riferibile all'uomo è il presupposto per una concezione generale dell'agire umano, che nei dati di fatto non riscontra più nulla della cogenza del cosmo antico e medievale e perciò li considera per principio disponibili. 54 La «perdita di ordine» è caratterizzata da Blumenberg come epoca del dio pragmaticamente morto: questa produce così l'autoaffermazione umana, le impone la propria svolta epocale: l'età moderna non cominciò come epoca del dio morto, ma come epoca del dio nascosto, del deus absconditus -- e un dio nascosto è pragmaticamente pressoché un dio morto. La teologia nominalista fu allarmata da un rapporto dell'uomo col mondo la cui implicazione avrebbe potuto essere formulata nel postulato che l'uomo debba comportarsi come se Dio fosse morto.55 Il nominalismo tardo medievale, spiega Wetz, «con il suo Dio arbitrario ha lasciato l'uomo in balia di una tale indifferenza e mancanza di riguardi da parte della natura e lo ha gettato in una tale insicurezza metafisica, che egli stesso [l'uomo] deve ora porsi il compito di curarsi della propria esistenza»:56 Privato dall'insondabilità divina delle sue garanzie metafisiche per quanto riguarda il mondo, l'uomo si costruisce un contromondo di razionalità e disponibilità elementari. 57 È l'assolutismo teologico che percepito dall'uomo come un sistema d'insicurezze metafisiche, sia per la salvezza sia per la conoscenza, desta nell'uomo una possibile inquietudine circa le proprie condizioni di vita. L'età moderna nasce, per Blumenberg, come sistema interpretativo del mondo in opposizione dialettica positiva contro il sistema angosciante dell'assolutismo teologico nominalistico: «Il nominalismo è un sistema di estrema inquietudine per l'uomo di fronte al mondo»:58 l'assolutismo teologico della filosofia del medioevo è caratterizzabile come l'estremo del prendersi, come l'alienazione di tutte le preesistenti assicurazioni di una posizione privilegiata, fondata nella Creazione all'interno dell'ordine del reale. Per questa perdita di ordine.59 Blumenberg coglie nell'età moderna il filosofo che ha convertito «l'alienazione di tutte le preesistenti assicurazioni» in un metodo formulato come riduzione del processo del dubbio all'acquisizione del nuovo fondamento assoluto nel soggetto e nel suo cogito. Il procedimento dubitativo di Cartesio converte l'insicurezza come alienazione da tutte le preesistenti assicurazioni conoscitive del passato in un metodo fondato sull'autoconoscibilità del soggetto assoluto: Nel punto della sua estrema radicalizzazione, la provocazione dell'assoluto trascendente si capovolge nella scoperta dell'assoluto immanente [del cogito].60 Cartesio e l'idea del genius malignus L'intensificazione estrema (provocata intenzionalmente) dell'alienarsi da tutte le preesistenti assicurazioni di conoscibilità, ovvero il metodo dubitativo, si svolge nell'idea del genius malignus all'interno delle Meditationes, dal quale, spiega Blumenberg, Cartesio «deriva la necessità di una nuova e incondizionata assicurazione della conoscenza».61 L'ipotesi del genius malignus, quello spirito cosmico potente e astuto che inganna la credulità costitutiva dell'uomo tendendogli trappole, alle quali «l'uomo può almeno opporre lo sforzo, situato nell'ambito della libertà umana, che è capacità di astenersi dal giudizio»:62 Le Meditationes di Cartesio hanno non solo la funzione di rappresentare un ragionamento teoretico nel quale determinate difficoltà vengono risolte argomentatamente ed eliminate una volta per tutte; esse tendono piuttosto a inculcare un atteggiamento, che diviene abituale: l'atteggiamento della obfirmata mens, del non poter dimenticare i pericoli dello spirito umano provenienti dalla sua labilità nel giudizio e nel pregiudizio.63 Cartesio crea l'impressione nelle Meditationes di essersi liberato facilmente delle opinioni e dei pregiudizi della tradizione, e di aver formulato autonomamente un metodo sicuro per la conoscenza. Ma nell'ipotesi del genius malignus che è da considerarsi un esperimento della ragione con se stessa, (l'ipotesi stessa del genius malignus è da cogliersi per Blumenberg com'esasperazione estrema dell'insicurezza conoscitiva provocata dal dio arbitrario del nominalismo tardo medioevale) Cartesio maschera l'insicurezza della conoscibilità com'esercizio scelto liberamente dal proprio pensiero. Nel genius malignus di Cartesio si annida per Blumenberg, il deus absconditus, il dio arbitrario del nominalismo occamistico: Trasformando l'assolutismo teologico dell'onnipotenza nell'ipotesi filosofica dell'ingannevole spirito universale, Cartesio rinnega la situazione storica alla quale è legato il suo approccio e ne fa la libertà metodica delle condizioni scelte arbitrariamente.64 Gli argomenti del dubbio e del genius malignus non appaiono come elaborazione e reazione della situazione storica moderna all'inquietudine e alla mancanza di assicurazione conoscitiva causati dall'assolutismo teologico occamistico, ma come un esperimento che la ragione compie con se stessa, il dubbio ed il genius malignus sono voluti e intenzionalmente creati da Cartesio e non imposti dal passato. L'ipotesi dell'impossibilità generale della conoscenza con le sue inquietudini medievali viene confutata: Cartesio si oppone alla tradizione medievale sviluppando alle estreme conseguenze il disagio e la pericolosità dell'assolutismo teologico mascherandolo come esercizio sviluppato autonomamente dalla ragione teoretica con se stessa, così che il contrappeso poté essere individuato nell'immanenza assoluta della ragione. Si fa chiaro come nell'interpretazione di Blumenberg, Cartesio ri-occupi, con propri contenuti di pensiero autonomi, la posizione dell'inquietudine nominalistica con un esercizio di pensiero volto alla sicurezza conoscitiva. In tal modo, spiega Blumenberg, Cartesio ha «rivendicato l'inizio assoluto dell'età moderna» come indipendente dal risultato del Medioevo, idea che sarà ripresa dall'illuminismo nella sua autocoscienza: In tal modo è rivendicato l'inizio assoluto dell'età moderna come tesi della sua indipendenza dal risultato del Medioevo, tesi che sarà ripresa dall'illuminismo nella sua autocoscienza.65 L'inizio assoluto rivendicato dall'età moderna è una risposta ad una crisi del senso nei confronti di quel passato che come somma di pregiudizi rappresenta il buio su cui può splendere «la nuova luce» del processo di rischiaramento della ragione cartesiana ed illuminista: L'inizio assoluto che inaugura la storia vieta a se stesso di avere una storia -- e ciò significa: non solo essere tesi primordiale, ma anche risposta ad una crisi. In Cartesio vi è storia solo in quanto somma dei pregiudizi[...] Le caratteristiche dell'autoaffermazione vengono occultate a favore dell'evidenza di una generazione spontanea; la crisi scompare nel buio di un passato che può essere stato lo sfondo per la nuova luce.66 La ri-occupazione razionale nei confronti del mito: Il «terrore» per l'Illuminismo e la «poesia» per il Romanticismo Come ho indicato precedentemente il medioevo sembrava rientrare, per «l'atto di fondazione dell'età moderna», in «un mondo primitivo di forze non dominate e non dominabili».67 L'originarsi dell'età moderna si costituisce nel modo «di aver fatto piazza pulita -- o in ogni caso di poterlo fare in breve -- dei miti e dei dogmi, dei sistemi concettuali e delle autorità, riuniti tutti sotto la categoria del "pregiudizio"»:68 Razionale era ritenuto ciò che rimarrebbe quando la ragione, come strumento per scoprire le illusioni e le contraddizioni, avesse asportato i sedimenti che erano stati accumulati da scuole e poeti, da maghi e sacerdoti, insomma: da seduttori di ogni genere. «Ragione» erano ritenute ambedue le cose: lo strumento della distruzione critica e il residuo portato alla luce[...] Questa fu l'applicazione ritardata agli sforzi dell'illuminismo della metafora della cipolla sbucciata.69 La ragione naturale degli illuministi concepisce, con la categoria cartesiana del «pregiudizio», un'epoca che essa si è lasciata definitivamente alle spalle grazie alla capacità del rischiaramento operato dalla propria razionalità illuminante. Gli illuministi rilevavano all'interno della categoria del «pregiudizio» sia i «miti» sia i «dogmi». Più precisamente, ci spiega Blumenberg, gli illuministi consideravano i miti come una sorta di ragione arcaica: [la] concezione illuministica secondo cui i miti sono storie dell'infanzia del genere umano, e quindi sono si anticipazioni del futuro e più solido affare della teoria, ma commisurate alla fragilità di una ragione non ancora illuminata.70 Gli illuministi, per Blumenberg, concepiscono il mito iniziale in cui vi è la ragione naturale non illuminata nella prospettiva del terminus ad quem di una razionalità progressivamente illuminantesi nel tempo: «Il rischiaramento progressivo e inarrestabile su cui essa si fonda [la ragione] deve avere la sua origine in ciò che le si contrappone, per poter dimostrare come proprio su di esso, e in virtù di esso, possa esercitarsi la vocazione rischiaratrice e salvifica della ragione».71 Alla luce di ciò gli illuministi consideravano il mito iniziale proprio come la loro stessa ragione teoretica si autointerpretava: Gli illuministi supponevano che i miti non fossero nient'altro che risposte inadeguate agli assillanti interrogativi della curiosità umana di fronte alla natura.72 La teoria degli illuministi, riguardante l'origine del mito, vedeva all'interno di esso un insieme di risposte a domande, proprio come la ragione si concepiva autointerpretandosi come ragione teoretica concepita come sistema di domande e risposte. Ho verificato precedentemente analizzando il sistema ri-occupazionale della filosofia classica, nei confronti del mito, come la stessa proietti a posteriori la propria immagine teoretica ri-orientando il sistema della significatività del mito a propria immagine e somiglianza e questo era dovuto come risposta di rischiaramento rispetto alla crisi del senso mitica. Il sistema d'interpretazione del mondo illuministico sembrerebbe effettivamente comportarsi come il sistema ri-occupazionale della filosofia classica, in quanto, come ho indicato precedentemente, Blumenberg non è disposto a considerare il mito come risposta arcaica di una presunta domanda operata da una ragione naturale non illuminata. I miti per Blumenberg non rispondono a domande. Vi sono, nella fenomenologia della storia di Blumenberg, forti probabilità di considerare come i sistemi ri-occupazionali che si allineano nelle svolte epocali ri-orientino a posteriori il significato della storia riducendola alla propria «immagine del mondo» in una sorta d'unità sostanziale. Questa probabilità può essere avvalorata per quanto riguarda la questione dell'origine del mito concepita dai romantici e dagli illuministi: Due concetti antitetici consentono di classificare le concezioni relative all'origine e al carattere originario del mito: poesia e terrore.73 Secondo questi due concetti antitetici, l'uno romantico e l'altro illuminista: «all'inizio si trova o l'esuberanza immaginativa dell'appropriazione antropomorfa del mondo e dell'accrescimento teomorfo dell'uomo, oppure la nuda espressione della passività dell'angoscia e del terrore, dell'ammaliamento demoniaco, dell'impotenza magica, della dipendenza assoluta».74 L'antitesi di poesia e terrore applicati all'origine del mito è il riflesso, per Blumenberg, di una generale concezione della storia in cui s'individuano due proiezioni a ritroso che dal presente occupano con i loro significati il senso dell'origine del mito, determinandolo a propria immagine: Poesia o terrore come realtà originaria del mito -- questa antitesi è fondata su proiezioni a ritroso: [per i romantici] muse, ninfe e driadi, come accattivanti ed esaltanti animazioni della natura, del paesaggio dirigono lo sguardo su una situazione iniziale libera e amena; [per gli illuministi] la gorgonie Medusa, le Arpie e le Erinni fanno arguire una coscienza torturata della realtà e della posizione dell'uomo in essa.75 Ambedue queste «proiezioni a ritroso» dell'origine del mito fraintendono, secondo Blumenberg, la possibilità che il mito non abbia un inizio assoluto, in quanto il mito è sempre da considerarsi come terminus a quo di un'origine che rimane immemoriabile. Il mito stesso crea la possibilità di una sua dimenticanza nel tempo in quanto come ribadisce più volte Blumenberg, i mitologemi più antichi a noi pervenuti presuppongono il lavoro di più antichi miti che, in un'origine che rimane a noi inconoscibile, hanno posto nel «passato remoto» del nostro passato a distanza l'assolutismo della realtà primordiale. Concepire qualcosa come l'origine del mito significa non tenere conto che esso giunge a noi attraverso il lavoro della ricezione. Il mito nella prospettiva della teoria della ricezione significa che non ci si deve più interessare di ciò che il mito possa essere stato originariamente o in una determinata fase iniziale della storia: «Il mito è sempre già passato in ricezione»:76 il mito variato e trasformato dalle sue ricezioni, il mito nelle configurazioni in cui si rapporta o che consentono di rapportarlo alla storia merita di essere tematizzato già per il fatto che questa tematizzazione include le situazioni e i bisogni storici che erano interessati dal mito e predisposti a «lavorare» su di esso. [...] il mito fondamentale non è ciò che esiste all'inizio ma ciò che resta alla fine, ciò che fu in grado di soddisfare le ricezioni e le aspettative.77 La teoria della ricezione del mito c'indica che il mitologema ha subito una sorta di prova selettiva della sua capacità di conferire senso al mondo: i più antichi mitologemi giungono a noi attraverso una selezione delle sue forme che resistettero alle aspettative di senso nel tempo. L'instaurazione del predominio del logos non avviene nel senso di una continuità con il mythos originario, che va poi progressivamente illuminantesi, ma vi è una interna frattura all'interno della continuità evolutiva dal mito al logos: «il logos viene al mondo attraverso la rottura col mito»:78 Hans Georg Gadamer ha individuato attraverso una riflessione riguardante «lo screditamento del pregiudizio ad opera dell'illuminismo» come il romanticismo abbia in comune con l'illuminismo un'essenziale filosofia della storia fondata nello schema del superamento evolutivo del mito nel logos: Ciò che si esprime in modo particolarmente chiaro nello schema di filosofia della storia che il romanticismo ha in comune con l'illuminismo, e che proprio attraverso la reazione romantica contro l'illuminismo è assurto alla condizione di una premessa indiscussa: lo schema del superamento del mito nel logos. Il presupposto nel quale questo schema acquista la sua validità e quello del progressivo «disincantamento» del mondo. Esso pretende di rappresentare la legge stessa di sviluppo della storia, e proprio perché[il romanticismo] valuta negativamente questo processo, il romanticismo lo assume come ovvio.79 In fondamentale contrasto dialettico con l'illuminismo e con il suo «perfezionismo» evolutivo «che vede tutto in termini di liberazione dalla "superstizione" e da pregiudizi del passato, le epoche primitive, il mondo mitico»:80 tutto questo per il romanticismo, ci spiega Gadamer, risulterà l'estremo fascino della «società di natura» originaria. Naturalmente in termini blumenberghiani il rischiaramento dell'illuminismo nei confronti dei pregiudizi del passato è da mettersi in relazione al generale problema della nascita dell'età moderna, che è da considerarsi una fondamentale risposta razionale rispetto all'inquietudine e alla destabilizzazione della conoscenza e del senso del mondo operati nel tardo medioevo dalla teologia nominalistica di Occam. L'età moderna come indica più volte Blumenberg è risposta ad una crisi, che si direziona nella soluzione di domande inevase e aspettative di senso medievali sul mondo, a partire da propri contenuti di pensiero secondo una logica ermeneutica di domanda e risposta. Blumenberg ha rilevato un fondamentale nesso dialettico e razionale tra il romanticismo e l'illuminismo all'interno dell'età moderna. La consapevolezza illuministica e cartesiana di rappresentare nelle proprie intenzioni razionali la nuova epoca «in forma pura» contro i preguidizi della tradizione è stata contraddetta dal romanticismo con il suo ritorno ai secoli oscuri del passato: Il Romanticismo e lo storicismo avevano cominciato a ricondurre i secoli che vanno dalla fine di Roma alla fine di Bisanzio nell'unità di una concezione storica: in fondo essi esaudivano in tal modo l'ardente desiderio segreto nutrito già dall'umanesimo di ridurre sempre più la distanza tra l'Antichità e il suo rinnovamento e di dimostrare che Il Medioevo era stato solo un casuale incidente librario; ma esaudivano anche l'altrettanto inconfessato bisogno di ogni razionalismo di recuperare la ragione come istanza prevalentemente presente nella storia umana dopo il polemico abbozzo in bianco e nero datone dall'illuminismo.81 In questo modo, aggiunge Blumenberg, «tutta la storia europea cominciò ad apparire come inizialmente voleva apparire esclusivamente l'età moderna.»82 In questo movimento antitetico tra due diversi sistemi di pensiero moderno si coglie implicitamente il movimento ri-occupazionale dell'età moderna che riconduce il senso storico del passato alla propria immagine del mondo. Le riflessioni di Blumenberg, sin qui analizzate, indicano come, sia il sistema ri-occupazionale della filosofia classica sia il sistema ri-occupazionale dell'età moderna si comportino in modo analogo occupando il senso del passato con la propria immagine del mondo. Tutti i sistemi rioccupazionali analizzati nella blumenberghiana fenomenologia delle ri-occupazioni, (anche il sistema ri-occupazionale riguardante la svolta della dogmatica patristica nei confronti della gnosi e della filosofia greca) ri-orientano il senso del passato in una possibile unità di sostanza a partire da nuovi contenuti di pensiero dovuti alla risposta del nuovo storico. Ed è in questo, come ho indicato più volte, che una possibile secolarizzazione come teorema ermeneutico che interpreta (secondo Blumenberg) la continuità dei contenuti di pensiero in un movimento degli stessi che dal passato s'inverano nel presente epocale, nasconda una ri-occupazione del presente (in vigore nella storia) con il proprio senso storico epocale verso il passato. L'imbarazzo dell'identità dei contenuti epocali che si trasmettono da un'epoca all'altra è probabile che sia da attribuirsi, nella riflessione storica e nell'interpretazione di Blumenberg, alle risposte ri-occupazionali dei presenti storici, tematizzate nelle diverse svolte epocali della storia a partire dalla prima occupazione ad opera del mito come presa di distanza e di senso nei confronti dell'assolutismo della realtà iniziale. 2.2. Cassirer ed il terminus ad quem Cassirer non sfugge, per Blumenberg, ai problemi di quanti hanno inteso formulare una «teoria dell'origine del mito». Nell'ambito del neokantismo si sviluppa una filosofia del mito, la teoria delle forme simboliche che attraverso il suo concetto di simbolo consente di correlare i mezzi espressivi del mito con quelli della scienza in un rapporto irreversibile in quanto il mito si trova «coll'irrinunciabile presupposto della scienza come terminus ad quem».83 Il mito si posiziona, nella concezione di Cassirer, in una linea di continuità evolutiva verso la scienza: «Il mito è reso obsoleto da ciò che viene dopo di esso; la scienza»: Questa conoscenza anticipata dal punto di vista della presunta conclusione[la scienza] esclude la possibilità di tematizzare il mito come una forma di elaborazione della realtà dotata di una propria legittimità. Esso [il mito] è piuttosto il vicario di una ragione che non può accontentarsi di questa prestazione, e che alla fine la giudica con le categorie con le quali la scienza comprende se stessa nello sta dio della sua maturità.84 Blumenberg vuole salvaguardare la legittimità del mito per quanto riguarda il proprio contenuto di pensiero, esso non può essere riconosciuto come una sorta di «prestazione arcaica della ragione». Il considerarlo in questi termini deriva dalla ragione moderna e dalle sue categorie comprensive che lo orientano ermeneuticamente a propria somiglianza. Cassirer «sbaglia», spiega Blumenberg, «quando descrive ciò [il mito] come "una specie di ipertrofia dell'istinto causale e del bisogno causale di spiegazione"».85 Pensato nella prospettiva cassireriana del terminus ad quem, e che presuppone «il mito[...]già segretamente in cammino verso la scienza»86 attraverso la propria «prestazione arcaica di ragione», il mito deve giustificarsi assumendo «che il mito abbia dato innanzitutto e soprattutto risposte a domande, invece di averle implicitamente rifiutate raccontando delle storie.»87 Il mito, pensato in questo modo, è una forma simbolica che come la scienza e l'arte conferisce un ordine al mondo empirico e che storicamente tende verso di loro sul cammino del perfetto e compiuto dispiegamento della ragione, in quanto all'interno della forma simbolica del mito vi è presente una ragione alla ricerca di una spiegazione arcaica dei fenomeni, fondata su un sistema di domande e risposte proprio come la ragione cassireriana si concepisce. Di nuovo, con la filosofia delle forme simboliche di Cassirer, appare il problema già rilevato da Blumenberg a proposito dell'illuminismo, il mito «è la definizione di un'epoca di cui la filosofia della storia [illuminata] deve decretarne la provvisorietà» come «l'illuminista si era interrogato su ciò che non deve più ritornare [il mito], e lo aveva provvisto di tutti gli attributi dell'oscurità e del terrore».88 Si tratta, per Blumenberg, d'individuare una diversa concezione qualitativa e sostanziale del mito, rispetto a coloro che interpretano il mito come un'arcaica «spiegazione eziologia» dei fenomeni. La prestazione originaria del mito deve essere colta come terminus a quo: come un «allontanamento da» anziché «avvicinamento a»: io credo che per percepire la qualità originaria della prestazione del mito, esso debba essere descritto dalla prospettiva del terminus a quo. Il criterio dell'analisi della sua funzione diventa allora l'allontanamento da, e non l'avvicinamento a.89 Il mito «ci sta di fronte solo nelle forme della sua ricezione, non c'è un privilegio di determinate versioni in quanto più originarie e definitive».90 Il mito per Blumenberg non è una forma simbolica, ma anzitutto una «"forma in generale" della determinazione dell'indeterminato. Questa formula dall'apparenza astratta va intesa in senso antropologico, non gnoseologico».91 La forma del mito non rientra in una problematica di tipo gnoseologico alla quale rimanda il concetto cassireriano di forma «simbolica», ma la «forma in generale» del mito è da intendersi come un «mezzo dell'autoconservazione e della stabilità nel mondo».92 Il rifiuto della teoria dell'origine del mito che Blumenberg oppone a Cassirer e agli Illuministi si concretizza nel presupposto che il mito non è da considerarsi una risposta a domande, ma né è l'elusione definitiva. Poiché è semplicemente un racconto, il mito, rifiuta le domande «raccontando delle storie». L'intendere il mito come risposta arcaica a domande è la tarda prestazione della teoria che vuol ricavare dal mito la propria autoaffermazione: per ricavare la propria potenzialità «rischiarante» la ragione teoretica deve contrapporsi dialetticamente contro l'oscuro, il non illuminato. Il rapporto tra mito e razionalità è da cogliersi attraverso il processo della ri-occupazione. La razionalità ri-occupa la posizione-luogo precedentemente occupata dal mito. In questo modo la teoria razionale conquista la propria stabilità, giacché si pone a distanza da ciò che considera come termine negativo e non illuminato, il mito. Che il mito e la razionalità siano caratterizzati dalla radice comune della distanza non è da considerarsi un elemento che consente un passaggio evolutivo dall'uno all'altra: Ambedue i fenomeni, quello dell'eliminazione dei mostri del mondo e quello delle figure di transizione verso l'eidos dell'uomo, devono essere in rapporto con la funzione del mito di creare distanza dallo spaesante. Lo schema mentale della distanza domina ancora il concetto greco della teoria come posizione e atteggiamento dell'osservatore imperturbato.93 Blumenberg coglie nella «distanza», la radice di quella teoria da cui evolve la razionalità moderna. Nella sua incarnazione più pura, l'atteggiamento dell'esser spettatore da una distanza, si trova nella tragedia greca e questo schema, ci spiega Blumenberg, prepara la strada alla storia concettuale della teoria. Traendo spunto dall'interpretazione della tragedia greca che ne ha dato il filologo Jacob Bernays, che ricostruendo il teorema aristotelico sull'effetto della tragedia come Katharsi, attraverso terrore e pietà, libera lo spettatore dalle passioni che lo coinvolgono grazie agli orrori rappresentati sul palcoscenico, Blumenberg riconosce l'elemento del contemplare da una «distanza» che passerà nell'ideale greco della teoria greca: Sotto un altro aspetto lo stesso avvertimento vale anche per il tanto calunniato paragone di Lucrezio nel proemio al secondo libro del suo poema didascalico, dove il filosofo[il saggio epicureo] che contempla l'universo del caso atomistico viene raffigurato nell'uomo che, stando al sicuro su uno scoglio, osserva un naufragio sul mare, e gode, certo non della rovina degli altri ma comunque della propria distanza da essa.94 Quando Lucrezio descrive nel De rerum natura il sollievo di chi contempla da una distanza la tragedia di un naufragio, egli descrive l'imperturbabilità del filosofo che contempla l'universo del caos atomistico come in un certo senso, ma in un diverso contesto, nella tragedia greca lo spettatore assiste agli orrori sul palcoscenico. Il sistema d'interpretazione del mondo mitico e la razionalità della teoria hanno un elemento in comune, la possibilità di creare distanza dallo spaesante: La fisica [epicuro] ha assunto per il filosofo la funzione distanziante del mito.95 La distanza è l'elemento che la razionalità preleva dal mito, riconoscendolo come un «principio antitetico» su cui proclamare il proprio rischiaramento: «il logos viene al mondo attraverso la rottura col mito [...] Ogni cosa è definita dalla sua distanza dall'inizio».96 La sottostruttura comune al mito e al logos è il prendere distanza dallo spaesante, che si traduce in una fondamentale funzione di rassicurazione, da assolversi attraverso contenuti di pensiero diversi. Note 1. Die Legitimitat der Neuzeit, seconda edizione riveduta e ampliata in volume unico, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1988 (raccoglie i volumi: I. Sakularisierung und Selbstbehauptung. Erweiterne und uberarbeitete Neuausgabe von »Die Legimität der Neuzeit«, erster und zweiter Teil, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983 (a sua volta edizione riveduta della prima edizione separata del volumetto, 1974), II. Der Prozess der theoretischen Neugierde. Erweiterte und uberarbeitete Neuausgabe von «Die Legitimitat der Neuzeit», dritter Teil, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980 (a sua volta, seconda edizione della prima edizione separata del volumetto, 1973), III. Aspekte der Epochenschwelle: Cusaner und Nolaner. Erweiterte und uberarbeitete Neuausgabe von «Die Legitimitat der Neuzeit», vierter Teil, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982 (a sua volta, seconda edizione della prima edizione separata del volumetto, 1976)), Trad. it. Di Cesare Marelli, La legittimità dell'età moderna, Genova, Marietti, 1992. Quest'opera di Blumenberg è l'unica che si presenta in seconda edizione riveduta e ampliata. 2. Arbeit am Mythos, frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, edizione italiana e traduzione di Bruno Argenton, Elaborazione del mito, Bologna, Il Mulino, 1991. 3. La critica di Blumenberg si rivolge al saggio di Löwith, Meaning in History, edizione italiana Significato e fine della storia, Milano, il Saggiatore, 1989. 4. Blumenberg considera «il teorema della secolarizzazione come un caso speciale di sostanzialismo storico, in quanto il successo teoretico si fa dipendere dalla dimostrazione di costanti nella storia», La legittimità dell'età moderna, cit. 35. Questo tema sarà argomentato nel capitolo dedicato alla critica di Blumenberg verso i teoremi di secolarizzazione. 5. «Assolutismo teologico e autoaffermazione umana» è il titolo della seconda parte della Legittimità dell'età moderna. 6. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 502 e 504. 7. Ibidem, cit. 71. 8. Ibidem, cit. 502 e 500-502 e 70. 9. Hans Robert Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, Bologna, Il Mulino, 1988, traduzione italiana di Bruno Argenton, vol. II. Domanda e risposta, cit. 82-83. Jauss dichiara che è stato Blumenberg il primo ad introdurre il concetto ermeneutico di ricezione e la logica di domanda e risposta nel 1957-58, prima di Gadamer e della sua ermeneutica filosofica della «storia degli effetti» (Wirkungsgeschichte). 10. Ibidem, cit. 71. 11. È questa la tesi principale che cercherò di dimostrare. Blumenberg interpreta i teoremi di secolarizzazione come una sorta di sostanzialismo storico, quest'ultimo sarebbe per il filosofo la struttura concettuale del procedimento (del teorema di secolarizzazione stesso) che tende sempre a spiegare il fenomeno considerato fondandolo su quello che lo precede: «B è A secolarizzato», Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 10. A questo punto la storia si ridimensiona a movimento univoco tra due poli, nel quale ogni mutamento è sempre e soltanto mutamento all'interno di un'unità di sostanza, «[...] il successivo [B] diventa di volta in volta possibile e comprensibile solo presupponendo ciò che l'ha preceduto [A]», Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 10. Ora se per Blumenberg i modelli di teoremi di secolarizzazione (non a caso Blumenberg interpreta il modello di Löwith accostandolo alla filosofia della storia di Hegel, difatti quest'ultimo visualizza il processo storico in modo evolutivo progrediente dal passato verso il futuro) procedono dimostrando che B è A secolarizzato, la storia dei «contenuti epocali» sembrerebbe muoversi dal passato (A) verso il presente (B) e poi al futuro dando risalto con ciò ad una specie di «continuità» che provenendo da un passato (teologico ad esempio), poi si secolarizza nell'epoca moderna. Il concetto di rioccupazione sembrerebbe invece indicare come quella specie di «continuità» storica che, per Blumenberg emerge dai teoremi di secolarizzazione, sia da attribuire al movimento di ri-occupazione del senso e del significato delle svolte epocali, i quali vengono proiettati sull'insieme totale della storia creando «continuità», ma procedente da B (presente) verso A (passato). Il presente ri-occupa i luoghi del passato de-formandoli a propria immagine e somiglianza selezionando e riorientando quelle idee cadute nella crisi del senso precedente: è la vita stessa esistentiva il banco di prova dei contenuti spirituali, essi si adattano o scompaiono in una sorta di evoluzione naturale ma non a sviluppo progressivo verso l'alto che provocherebbe l'esistenza di idee superiori ed altre inferiori (vedi esempio dell'idea dell'immortalità dell'anima a p. 8). Questo fenomeno si intensificherà per Blumenberg con l'emergere dell'età moderna; ed è in questo che consiste la legittimità dell'epoca moderna, concepita nella propria ri-occupazione assoluta nei confronti di tutto il passato. Il modello di rioccupazione mette in luce le rotture del nuovo, le cesure delle diverse «continuità» che sono proiettate sulla storia. Per Blumenberg vi è dunque secolarizzazione apparente perché in ciò si nasconde una rioccupazione. 12. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 74. 13. Hans Robert Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, voll II, cit. 83. La citazione si riferisce ad una riflessione di Jauss su Blumenberg. 14. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 503. 15. Le citazioni tra virgolette sin qui scritte provengono da Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 503. 16. Le «aspettative e i bisogni precostituiti» (vedi cit., nota 6) hanno un doppio significato. Essi sono sia l'aspettativa e il bisogno di risposte dell'epoca del nuovo che vive la crisi dovuta dall'autocatalisi dell'epoca precedente; sia un senso pre-orientato che l'epoca del nuovo eredita dalle domande provenienti dalla crisi dell'epoca precedente: un esempio può essere il caso che ho esposto dell'immortalità. 17. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 25. 18. Ibidem, cit. 32. 19. L'espressione «pre-comprende», così come l'ho utilizzata, significa l'orientamento nella ricerca di senso. 20. Hans Blumenberg, La legittimità dell'epoca moderna, cit. 502. 21. Franz-Josef Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, Hamburg, 1993, di prossima publicazione presso la casa editrice Il Mulino, Bologna, traduzione italiana di Carlo Gentili. Le citazioni provengono dal capitolo «Illuminismo senza illusioni con una sobria sensibilità per la perdita». 22. Franz-Josef Wetz, Hans Blumemberg zur Einführung, Hamburg 1993, le citazioni provengono dal capitolo «Illuminismo senza illusioni con una sobria sensibilità per la perdita». Con l'espressione «immagine del mondo», Blumenberg designa «quella somma della realtà nella quale e per mezzo della quale l'uomo correla se stesso a questa realtà, orienta le proprie valutazioni e gli scopi delle proprie azioni, coglie le proprie possibilità e necessità, si comprende nelle proprie relazioni essenziali». Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 437, nota., 310. 23. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 26. 24. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 26. 25. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 26. 26. Franz-Josf Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, le citazioni sono tratte dal capitolo «Elaborazione del mito». 27. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 28, per le citazioni precedenti pp. 27. 28. Ibidem, cit. 29. 29. Ibidem, cit. 30. 30. Ibidem, cit. 30. 31. Ibidem, cit. 30 e 31. 32. Ibidem, cit. 59. 33. Ibidem, cit. 60. 34. Ibidem, cit. 189. 35. Ibidem, cit. 231. 36. Ibidem, cit. 75. 37. Ibidem, cit. 210. 38. Ibidem, cit. 146. 39 Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 72. 39. Ho definito il sistema rioccupazionale della filosofia greca come primario in quanto la significatività del mito è da ritenersi la prima occupazione di senso del mondo. La filosofia greca che segue l'epoca del mito è la prima rioccupazione. 40. Per Blumenberg l'epos greco di Esiodo e Omero presuppone il lavoro di abbattimento di assolutismo della realtà di un più antico «lavoro del mito» che per donare «significatività» al mondo si distanzia dall'assolutismo della realtà. L'epos greco e da considerarsi, dunque come «lavoro sul mito» più antico. Questo lavoro dell'epos è da individuare come «elaborazione del mito». 41. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 50. 42. Ibidem, cit. 50. 43. Ibidem, cit. 50-51. 44. Ibidem, cit. 51. Blumenberg individua come «la funzione del mito di creare distanza dallo spaesante» si riproponga all'interno della teoria «Lo schema mentale della distanza domina ancora il concetto greco di teoria come posizione e atteggiamento dell'osservatore imperturbato», Elaborazione del mito, cit. 154. 45. Ibidem, cit. 51. 46. Ibidem, cit. 51. 47. Ibidem, cit. 51. 48. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 32. 49. Ibidem, cit. 32. 50. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 181. 51. Ibidem, cit. 373. 52. Ibidem, cit. 373. 53. Ibidem, cit. 143. 54. Ibidem, cit. 374. 55. Ibidem, cit. 374. 56. Ibidem, cit. 183. 57. Ibidem, cit. 158. 58. Ibidem, cit. 188. 59. Ibidem, cit. 188. 60. Ibidem, cit. 193. 61. Ibidem, cit. 193. 62. Ibidem, cit. 193. 63. Ibidem, cit. 194. 64. Ibidem, cit. 194. 65. Ibidem, cit. 151 e 152. 66. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, per entrambe le cit. 32. 67. Ibidem, cit. 73. 68. Ibidem, cit. 73. 69. Ibidem, cit. 76. 70. Carlo Gentili, A partire da Nietzsche, Marietti, Genova, 1998, cit. 222-223, la citazione proviene dal capitolo «critica del mito e critica dell'illuminismo in Hans Blumenberg». 71. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 230. 72. Ibidem, cit. 87. 73. Ibidem, cit. 87. 74. Ibidem, cit. 95. 75. Ibidem, cit. 336. 76. Ibidem, cit. 219. 77. Ibidem, cit. 215. 78. Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1997, cit. 321. 79. Ibidem, cit. 321. 80. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 500. 81. Ibidem, cit. 500. 82. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 78. 83. Ibidem, cit. 78. 84. Ibidem, cit. 167. 85. Ibidem, cit. 210. 86. Ibidem, cit. 210. 87. Ibidem, cit. 212 e 90. 88. Ibidem, cit 212. 89. Ibidem, cit. 336. 90. Ibidem, cit. 212. 91. Ibidem, cit. 213. 92. Ibidem, cit. 154. 93. Ibidem, cit. 155. 94. Ibidem, cit. 155. 95. Ibidem, cit. 215 e 45. Walter Fratticci La modernità come secondo (e definitivo) superamento della gnosi. Hans Blumenberg e la legittimità dell'età moderna 1. La querelle sulla secolarizzazione Il nome di Hans Blumenberg è frequentemente associato, per viam oppositionis, a quello di Karl Löwith ed alla vivace controversia sulla secolarizzazione sviluppatasi in Germania negli anni '60 del nostro secolo. Riprendendo e distendendo in un grandioso scenario storico le intuizioni weberiane sul processo di razionalizzazione dello spirito moderno, Löwith dette forma in un famoso saggio -significativamente sottotitolato I presupposti teologici della filosofia della storia1 -- ad un ampio affresco dell'età moderna, in virtù del quale la filosofia della storia veniva raffigurata ed interpretata quale risultato emblematico del processo di secolarizzazione dell'idea cristiana di storia della salvezza. In opposizione polemica contro lo storicismo ancora ben radicato, che individuava il luogo di fondazione del pensiero storico nella cultura del Settecento, intento di Löwith era invece quello di «mostrare che la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico».2 Sebbene interesse dell'autore fosse non tanto quello di celebrare nuovi trionfi della fede, quanto piuttosto quello opposto di far risaltare per contrasto, quale unica alternativa ad un eschaton sempre in via di venire ma incapace di realizzarsi veramente, la necessità di «ritornare alla teoria classica di un movimento circolare, poiché soltanto presupponendo un movimento che non ha né principio né fine la continuità [del processo storico] è realmente dimostrabile»,3 nondimeno la relazione fra fede biblica e pensiero storico moderno reclamata da Löwith non poteva non venire percepita come obiezione sufficientemente pesante nei confronti delle pretese di autonomia normativa della ragione moderna; una ragione peraltro che già pareva vacillare sotto i colpi di altri agguerriti avversari, tutt'altro che disposti ad accettare il suo incontrastato dominio. La reazione non si fece attendere e trovò in Blumenberg un convinto protagonista. Come scandalizzato da quello che aveva tutta l'apparenza di uno scippo della maestà della ragione critica, egli contestò la tesi di Löwith in un libro fortunato -- fortunato almeno per la icasticità simbolica del titolo, La legittimità dell'età moderna --,4 con cui opponeva un netto rifiuto ed una ferma censura della plausibilità teoretica e della affidabilità ermeneutica della categoria di secolarizzazione. Già il titolo della prima parte dell'opera -- Secolarizzazione. Critica di una categoria dell'ingiustizia storica -- ne fornisce sufficiente anticipazione. Che la secolarizzazione sia una categoria dell'ingiustizia storica risulta, a parere di Blumenberg, dalla sostanziale eterogeneità che essa sconta con il suo explicandum. Col sostegno di essa viene proposto un percorso culturale che intende ricondurre fatti contesti ed esperienze, aventi tutti il loro luogo di svolgimento nell'orizzonte della mondanità, ad un non meglio precisato fondamento e scaturigine non mondani; con ciò lasciando anche cadere una pesante ipoteca sulla spontaneità e genuinità della cultura -- la cultura dell'epoca moderna -- che ha fatto suo e rivendicato come segno distintivo e vessillo liberante l'appartenenza ed il radicamento in quell'orizzonte. Ma come si può pensare, si chiede Blumenberg, che una categoria storiografica possa essere rivestita di uso esplicativo laddove essa supponga una sorta di dialettica trascendentale della ragione ermeneutica, vale a dire «qualcosa come uno scambio di mondi, una discontinuità radicale delle appartenenze»5 metafisiche? Come fa il mondo con la sua mondanità, in altre parole, ad essere interpretato da un concetto, quale quello di secolarizzazione, che trae la sua forza semantica dall'appartenenza e dal riferimento ad orizzonti di senso semplicemente trascendenti quel mondo stesso? Blumenberg non sembra disposto ad ammettere, nella pratica ermeneutica, qualcosa come la possibilità di una eterogenesi dei fini ovvero una "storia degli effetti", per la quale un concetto possa avere valenza esplicativa e produrre risonanze ermeneutiche anche al di là dei circuiti culturali inizialmente conformi. Il concetto di secolarizzazione rimanda in definitiva ad un contesto semantico che, proprio per il suo riferimento fontale alla trascendenza, lo rende improponibile quale principio interpretativo della realtà mondana, ad esso antagonista. Parlare di un mondo che si è allontanato dalla sua prima origine divina nasconde quindi una mistificazione ideologica, in quanto omette di dire che un mondo secolarizzato è tale solo rispetto ad un presuntoincipit trascendente, inadatto, proprio in quanto trascendente e dunque eterogeneo ad ogni tipologia mondana, a fornire le chiavi per una lettura filosofica del processo evolutivo di quel mondo. L'utilizzo della categoria di secolarizzazione sviluppa pertanto una sorta di cortocircuito ermeneutico, che ne rende inutile e decisamente fuorviante il ricorso. La linea argomentativa di Blumenberg è chiara. Nella ricerca di una purezza analitica totale, indifferente a vincoli gödeliani perché capace di autonoma fondazione, egli trova intollerabile l'uso di categorie le quali ricevano invece il loro senso al di fuori dell'orizzonte ermeneutico di riferimento. Una categoria ermeneutica, infatti, è provvista di una «solida utilità metodologica» alla condizione che possa essere utilizzata in funzione esplicativa non solo nei riguardi dei risultati di un processo storico, ma anche in relazione agli inizi del processo stesso. Essa deve essere in grado di giustificare la sua necessità. Invece «l'illegittimità del risultato della secolarizzazione consiste nel fatto che esso non può secolarizzare il processo stesso dal quale è sorto».6 Un mondo secolarizzato è pur sempre un mondo portato a pensarsi come instabile e privo di certezza, orfano dell'origine perduta, dalla quale pure si sente essenzialmente differente. Un vizio originario, questo, che impedisce vantaggiosi sviluppi nella comprensione di sé. Accettare una origine eterologa del processo storico di produzione della sindrome culturale moderna, senza essere poi in grado di riuscire a ricondurre anche siffatto principio all'interno del quadro normativo della ragione moderna, tutto questo testimonia palesemente della artificiosità della storiografia löwithiana. Quello che conta è invece «comprendere la costituzione dell'età moderna», senza far entrare in campo elementi e processi, sia pure analogizzabili, ma chiaramente allotrii, quali ad esempio la realtà di un Cristianesimo mondanizzato, cui attribuire la responsabilità della genesi dell'epoca moderna.7 Tra questa e l'altro si dà infatti un contrasto di fondo non componibile.«Lo schematismo della trascendenza pone un dualismo della decisione tra possibilità, intenzioni, direzioni che sussistono contemporaneamente» ed in modo alternativo, tra le quali, quindi, non si dà effettivamente alcuna trasmutazione o passaggio, sia pur di decadenza.8 In Löwith e nella sua categoria-cardine di secolarizzazione si nasconde così un residuo di «sostanzialismo storico», indimostrato ed inaccettabile, che obbliga a pensare il processo storico della modernità secondo lo schema di una inarrestabile degenerazione concettuale.9 La critica di Blumenberg è pungente. Essa tuttavia non riesce a nascondere completamente il tratto metafisico in essa latente; un tratto che piega verso l'opposizione logica assoluta di concetti mutuamente esclusivi una processualità storica che non si lascia ingabbiare da vincoli preformati. Ciò che, come non mondano, è trascendente, non può venir utilmente connesso a ciò che, come mondano, trascendente non è -questa verità logica potrebbe anche non essere una verità effettuale. E questo almeno in un senso, quello cioè per il quale l'abituale confidenza in sé del pensiero, conquistata e pienamente giustificata dalla cogenza dei suoi ragionamenti, rende questo insensibile a fronte di eventi che sfuggono, perché originari, alla ferrea necessità, dal pensiero stesso richiesta ed imposta. Accade così che l'eccedenza di senso del reale, che si svela solo ad uno sguardo meno fuggevole e più intenso dell'ordinario scambio strumentale con il mondo che abitiamo, si dilegui e rimanga preclusa alla volontà di potenza conoscitiva del logos.10 Non è perciò sufficiente osservare una contraddizione logica di concetti astrattamente considerati, per poter concludere alla illegittimità del loro uso coniugato. Argomentare la differenza dei concetti non dice senz'altro nulla a favore della loro possibile appartenenza ad un comune orizzonte, ma nemmeno nulla contro. Con più stretto riferimento al pensiero del nostro Autore, occorre dire che il concreto divenire storico, in cui l'agire libero dell'uomo assume e si innesta nel solco di una tradizione culturale determinata entro cui soltanto quell'agire è efficace, risulta inaccessibile ai circuiti teorici di interpretazione costruiti sul pensiero duale della non contraddittorietà. Ora, è senz'altro fuori discussione che il concetto di trascendenza sia connotato dal rimando ad un termine atemporale e metastorico, di principio inconciliabile con il concetto temporale e storico di mondo, o che esso, in alcune varianti teoriche, sia provvisto di una forte carica escatologica implicante il superamento finale della storia, la quale del mondo costituisce invece il ritmo vitale; come pure non può essere contestato che l'attesa escatologica sia stata vissuta dal Cristianesimo delle origini con modalità esistenziali di alternatività all'impegno mondano attivo. Ma tutto ciò autorizza forse a ritenere prive di senso quelle affermazioni che non accettano siffatta logica dell'opposizione assoluta? Non ci si dovrebbe lasciar interrogare, senza sovrapporre risposte preconfezionate, e non si dovrebbe tentare di interpretare, come pure hanno fatto filosofi del rango di Hegel, affermazioni "impensabili", quali quella dell'incarnazione e umanizzazione di Dio? Non è assolutamente vero che l'attesa escatologica debba inevitabilmente condurre al disinteresse per la storia. Si rivela perciò affrettata e semplicistica la conclusione che «l'autoaffermazione [sc. della ragione] diviene qui la quintessenza dell'assurdità».11 Che l'infinito si opponga semplicemente al finito, osservava Hegel, è solo il segno di una cattiva comprensione dell'infinito stesso. Quanto di statico permanga in tale posizione non è difficile da intravedere. Con tali osservazioni, Blumenberg ha di fatto costruito attorno all'affermazione della legittimità dell'età moderna, per finalità che si sveleranno soltanto più avanti, una impalcatura metafisica rigida ed impenetrabile, che non lascia più spazi aperti e che è pronta a rimuovere ulteriori ostacoli imprevisti. Ma non sembra felice operazione di analisi culturale quella che non sappia anche dar conto di quanto eccede il limite da essa preventivamente tracciato. Né, a tranquillizzare le intelligenze, è ormai più sufficiente la professione di fede di un'ermeneutica positivistica, che nega di principio la possibilità dell'eccedenza di senso del dato ermeneutico. Il fatto è però che, in verità, qui si nasconde altro. Esplicitamente Blumenberg non lo dice, ma lo lascia chiaramente intuire: la secolarizzazione è il nuovo cavallo di Troia con il quale si reintroduce entro la cittadella della modernità il pensiero religioso della trascendenza, che la modernità stessa ha penato ad espellere ed è riuscita finalmente a neutralizzare. Occorre quindi abbandonare questo «ultimo theologumenon» rappresentato dal teorema della secolarizzazione, che ricondurrebbe ancora una volta lungo i sentieri del pensiero teologico.12 Si tratta al contrario di riprendere e riabilitare i moduli teorici dell'illuminismo, i quali conducono alla «secolarizzazione del concetto stesso di secolarizzazione».13 Troppo facile è annotare che, una volta avviata, la reduplicazione di un concetto diventa poi inarrestabile e rende impossibile alla fine perfino l'uso minimale del concetto stesso; e che pertanto quella avanzata ha soltanto l'apparenza di una soluzione. Più interessante è invece sottolineare che in tal modo il filosofo tedesco si propone quale principale artefice del sotterraneo movimento di riscossa e di riabilitazione dell'esperienza illuministica, deciso nel rivendicare l'eccellenza della razionalità umana e convinto nel non riconoscere altri limiti che quelli che quest'ultima sa riconoscere. Certo, il nostro sa bene che l'illuminismo, come fenomeno storicamente datato e quindi già realizzato (e non più potenziale ed ancora promettente), non è stato esente da equivoci e limitazioni che ne hanno frainteso la portata. Il concetto di legittimità non equivale senz'altro a quello di legittimazione. E però l'uno difficilmente può stare senza l'altro. Occorre pertanto un rinnovato impianto della modernità«come epoca fondata scientificamente e quindi definitiva»,14 un nuovo inizio capace di una piena«riduzione dei propri presupposti», oltrepassando l'"insufficiente radicalità del cogito cartesiano» ancora viziata dalla presenza del divino. Si tratta di riprendere gli assunti teorici di quella stagione culturale, per una più esatta ridefinizione del contesto, che riporti all'uso mondano della ragione l'onore della fondazione dei princìpi della modernità; senza di che, la pretesa di legittimità della ragione moderna condurrà inevitabilmente all'odioso fondamento teologico. 2. La legittimità dell'età moderna Queste ultime battute invitano all'approfondimento. È evidente, infatti, come dietro la critica della inefficacia ed illegittimità ermeneutica della categoria di secolarizzazione sia racchiusa una precisa tesi filosofica. Benché la polemica sulla secolarizzazione costituisca indubbiamente un leit motif che attraversa l'intero lavoro di Blumenberg e rappresenti tuttora il cespite maggiore di riferimenti bibliografici all'opera del filosofo tedesco,15 pure essa non pare definire adeguatamente la intenzionalità profonda della riflessione storica e teoretica dell'autore. Non è infatti questione della pur non indifferente valutazione degli esiti di una ricostruzione storiografica né tantomeno del privilegio accordato ad una diversa prassi ermeneutica. L'opposizione alla categoria löwithiana, in realtà, contiene tutti i tratti di una funzione paradigmatica; essa si nutre della radicale diffidenza avverso ogni tentativo intellettuale che osi pretendere di inficiare il diritto della razionalità moderna a rivendicare l'indipendenza e l'originalità dei suoi assiomi teorici. Lo sviluppo del ragionamento di Blumenberg introduce così ben presto una seconda sequenza esplicativa dell'istanza contenuta nella categoria di secolarizzazione; una istanza di cui si riconosce quindi, sia pure implicitamente, lo spessore ermeneutico. Essa adesso non viene più denegata, ma solo riscritta in nuovi e più confacenti termini. È sufficiente, a questo fine, richiamare alcuni percorsi teoretici, contemporanei, se non anche preesistenti, alla diffusione del Cristianesimo, dai quali sia possibile scavare un più che millenario tunnel, capace di scavalcare i secoli della occupazione religiosa del mondo umano e condurre direttamente al luogo fontale dell'epoca moderna. Un fiume carsico percorre secondo Blumenberg la storia; un fiume che non bagna né feconda altre regioni che non siano quelle cui è destinato.16 Si tratti della concezione stoica di pronoia o del sorgere dell'idea di progresso, l'approccio è il medesimo. Non di secolarizzazione è dunque propriamente questione, con il suo improbabile corredo di eterne questioni ed immutabili proprietà originarie. "Questo genuino diventar mondo non è una mondanizzazione in quanto trasformazione di qualcosa di preesistente, ma assomiglia alla cristallizzazione primaria di una realtà sconosciuta in precedenza».17 E poco più oltre: «Ciò che è accaduto prevalentemente [...] nel processo interpretato come secolarizzazione può essere descritto non come trasposizione di contenuti autenticamente teologici nella loro autoalienazione secolare, ma come nuova occupazione di posizioni divenute vacanti da parte di risposte le cui relative domande non poterono essere eliminate».18 Una nuova strategia d'attacco sta facendo la sua comparsa. Se la civiltà umana ha saputo sublimare le proprie energie nel riconoscimento della mondanità del proprio orizzonte culturale, dopo le incerte e deprimenti vicende dell'intermezzo della sfiducia nelle forze dell'uomo, ciò è dovuto esclusivamente alla riscoperta, non mediata da alcunché, degli autentici registri antropologici finora obliterati. Il concetto di «nuova occupazione» deve prendere il posto del processo erroneamente descritto come secolarizzazione. Come la seconda parte del libro si incaricherà di mostrare, la «nuova occupazione» o «rioccupazione» di luoghi cosmologici e metafisici ad opera della modernità dice l'insediamento, nel cuore dell'autocomprensione antropologica, dei nuovi valori originali al posto degli antichi -- forse un tempo anch'essi autentici, ma comunque ormai completamente vuoti ed esausti. Esso è un processo irreversibile, in quanto definisce un compito storico cui la ragione non può sottrarsi. Si potrebbe osservare che tale processo di sostituzione, per non soffrire di sintomi da indigenza ermeneutica, dovrebbe dar conto delle motivazioni della sua necessità; dovrebbe far comunque rimando alle dinamiche dell'esaurimento di precedenti appelli culturali ed al formarsi della condizione di vacatio nei plessi significativi di dibattito ora nuovamente occupati;19 dovrebbe insomma rinviare, proprio in quanto processo, al continuum della temporalità, sulla cui base solo si giustifica quella discontinuità storica rivendicata dalla «nuova occupazione», e non far semplicemente ricorso ad una supposta e mai tematizzata autenticità delle posizioni, dalla natura quanto mai controversa, rispetto alla quale impostare ed anche legittimare l'alternanza delle stesse.20 Ma Blumenberg non pare concedere grande attenzione a siffatte osservazioni. La difesa della modernità viene anzi affidata proprio ad una rivendicazione di legittimità dell'atteggiamento moderno, la quale vale tanto più, quanto più decisamente sa richiamarsi ad un fondo antropologico di autenticità, contrastante ogni ipotesi di derivazione storica e culturale. Laddove infatti l'interpretazione secolarizzante «deforma l'autenticità dell'età moderna facendone un relitto, un substrato pagano, un semplice residuo nel ritiro della religione su posizioni autarchiche di estraneità al mondo»,21 la affermazione della legittimità dell'età moderna consente precisamente di dichiarare assenti o inconsistenti tutte quelle tradizioni e condizionamenti storici, che possono in qualche modo ipotecare la libera creatività delle opzioni teoriche e pratiche sviluppate dalla modernità. Il ragionamento sembra ben costruito. Avendo assunto il compito di difensore d'ufficio della razionalità moderna da quella che, sotto le mentite spoglie di semplice descrizione, si è rivelata invece una efficace e plausibile contestazione della sua giustificazione, Blumenberg ritiene di respingere l'attacco delegittimante mosso dalla tesi della secolarizzazione, opponendovi l'affermazione della autenticità dei presupposti su cui si è edificata l'epoca moderna. Tale strategia genera una situazione di asimmetria ermeneutica, per la quale, da un lato, genesi culturale dei concetti e fondazione teoretica degli stessi vengono a configurarsi quali funzioni incommensurabili, tali da depotenziare e rendere vano il ricorso a ragionamenti riconducibili alla tipologia rivendicazionista di presunte proprietà concettuali originarie, quali quelli messi in campo da Löwith e compagni; e dall'altro, e per conseguenza, obbliga a ricercare il luogo di fondazione dei concetti stessi all'interno di un ologramma fondamentale, nel quale l'originarietà è il segno distintivo dell'autenticità. Per tal via, il Cristianesimo si configura come «una religione [che] rimane, con questo allontanamento dalle proprie premesse [che avevano esaltato le potenzialità conoscitive dell'umanità], ineluttabilmente debitrice nei confronti dell'uomo di ciò che gli spetta»;22 una religione, ovvero, che ha smarrito il suo coefficiente originario. Stando così le cose, il Cristianesimo non ha diritto di avanzare alcuna pretesa di paternità di valori. Si chiarisce così l'intenzionalità racchiusa nell'impostazione della problematica come di una questione di legittimità.23 La legittimità come appello autorizzato all'autentico si qualifica come unica giustificazione possibile della correttezza del processo, che in tale inizio assoluto ha la propria motivazione. Blumenberg può pertanto affermare: «Come tutti i processi di legittimità politici e storici, anche quello dell'età moderna sorge per discontinuità».24 Non il processo della secolarizzazione come tale, dunque, ma il presupposto della continuità culturale tra epoche storiche, o meglio, la secolarizzazione quale sottoprodotto della continuità storica, questo è quanto Blumenberg investe del dubbio di illegittimità. L'asse del discorso si è venuto così lentamente, ma significativamente, piazzando sulla questione problematica della continuità nella storia. Come sganciato da imbarazzanti eredità esteriori e protetto da ogni contagio, il mondo reale degli uomini di una data epoca, così come lo pensa Blumenberg, costituisce una totalità autoreferenziale, finalmente liberata dal bisogno di ricercare i suoi punti archimedei in un qualsiasi luogo fuori di sé. Se si ha difficoltà ad accogliere tale situazione e si continua ad andare alla ricerca di attestazioni e conferme giustificanti la correttezza dell'esperienza culturale della modernità, ciò è dovuto solo ad un malinteso senso storico. «Un concetto storico sorto dall'apprezzamento della tradizione ci ha vincolati a vedere delle cogenze soprattutto nella relazione di ogni presente nei confronti del proprio passato e dell'origine dei valori trasmessigli».25 Ogni verità è completamente ed esclusivamente filia temporis, in un'accezione esclusiva, che però forse lo stesso Bacone non avrebbe integralmente sottoscritto. Sarebbe sbagliato leggere in tale posizione un'eco della polemica antistoricistica. A ben vedere, infatti, Blumenberg non nega che possa venire a formarsi in generale qualcosa come una tradizione storica capace di produrre una lettura omogeneamente, seppure non deterministicamente, coordinata dell'evoluzione culturale e temporale di un'epoca -- non si darebbe infatti nessuna epoca; ciò che egli nega è la possibilità della connessione di queste tradizioni storiche all'interno di un'unica catena culturale, di cui allora ognuna di essa sarebbe solo un anello, inevitabilmente sorretto dal precedente. Più precisamente, è il concetto di «debito culturale oggettivo»26 a rivelarsi inadatto. Cerchiamo di capire meglio. Ciò che è sbagliato, agli occhi di Blumenberg, è la tendenza diffusa a voler ricercare, per ogni precipitato storico, «il presupposto, necessariamente legato alla pretesa di rivelazione, di un inizio non motivabile a partire dalla storia, immanentemente privo di premesse».27 È facile così concludere dalla supposizione di un inizio assoluto alla censura di ogni ulteriore rivendicazione di novità. «L'inizio assoluto che inaugura la storia vieta a se stesso di avere una storia».28 Ma come può accettare siffatta inibizione una «autocoscienza storica che credesse di poter istituire o di aver istituito ancora una volta, all'interno del decorso storico cominciato con essa, un nuovo inizio che avrebbe costituito l'età moderna come epoca fondata scientificamente e quindi definitiva»?29 Nuovo inizio si dà solamente nell'esclusione di possibili staffette storiche e culturali. L'ultimo atleta di una corsa a staffetta, colui che taglia da vincitore il traguardo, conquista non da solo l'ambito premio. Il testimone che egli porta alla vittoria, lo ha a sua volta ricevuto da altri atleti; non può dunque escluderli e presentarsi da solo sul podio. Ma se sul podio è con altri, come può ritenersi il migliore? Come legittimare, in altri termini, la pretesa di definitività, scientificamente motivata, dell'età moderna senza togliere di mezzo la simile rivendicazione, teologicamente fondata, già avanzata nella storia dalla religione cristiana? Certo, Blumenberg riconosce che una richiesta «non è più giusta»30 dell'altra. «Eppure non si tratta di pretese dello stesso tipo», essendo l'una fornita di una legittimazione solo storica, «gli eventi cristiani dell'anno zero», e l'altra, la moderna, di una legittimazione filosofica capace di autorizzare più autentici discorsi. Siamo così arrivati al cuore della ben rotonda verità blumenberghiana. Come le osservazioni sulla debolezza della lettura illuministica della cultura dell'inganno lasciavano già bene intravedere, il nostro Autore ha capito che la semplice contestazione di una tesi storiografica non lascia molti margini di manovra, non essendo risolutiva della questione. L'appello immediato alla storia insomma è infido e soprattutto equivoco.31 Occorre un più solido supporto. E questo non potrà essere ricercato che in un aggancio teorico, di natura squisitamente razionale, in quanto imperniato sulla sola forza di autoaffermazione legittimante della ragione. 3. L'autoaffermazione della ragione Nel concetto di autoaffermazione si condensano dunque tutte le considerazioni che Blumenberg è venuto pian piano facendo. Qui conducono i temi della nuova occupazione, della discontinuità, della legittimità, che Blumenberg sapientemente ha intrecciato: un intreccio che deve ora valere quale giustificazione piena della razionalità della ragione. Autoaffermazione dice dunque fondamentalmente autonomia dell'agire razionale, spontaneità della libertà dell'uomo, in cui si rispecchia la propria illimitata potestà sul mondo. Pur comprendendola al suo interno e richiamandola costantemente quale suo segreto fondamento, l'autoaffermazione non va minimamente confusa con la conservazione in vita dell'essere naturale, con la sua mera sopravvivenza biologica od economica. Ben diversamente, essa viene ad identificarsi con un progetto d'esistenza che consente all'uomo di determinare la modalità del suo rapportarsi alla realtà circostante, realizzando le proprie aspirazioni con l'aiuto dell'enorme«potenziale tecnico» reso disponibile dalla scienza moderna,«il grande strumento dell'autoaffermazione».32 Autodeterminazione assoluta dell'esistenza, sorta di potere surrogato della divinità creatrice -- o meglio, il potere creatore, rispetto al quale quello attribuito alla divinità dalle religioni è solo anticipazione illusoria: è quanto si esprime attraverso questa formula. Si comprende allora per quali motivi l'autoaffermazione possa venire considerata come la vera cellula segreta della costruzione teoretica blumenberghiana. Non si tratta infatti, semplicemente, di rivendicare per il soggetto conoscente la rottura del vincolo obbligante dell'universalità della verità,33 in nome della forza espansiva della ragione individuale; né più solo di passare ad una condizione di potenza pratica -- sapere è potere -- da ottenere con l'ausilio della tecnica, che mette l'uomo in grado non soltanto di «mascherare il fattore del bisogno, ma addirittura eliminarlo nell'immanenza del suo divenire scopo a se stessa»;34 bensì, più radicalmente, si tratta di rintracciare nel codice genetico della ragione, anzitutto moderna, quei fondamenti che diano consistenza alla pretesa di legittimità dell'epoca che viviamo, rendendo possibili quei due passaggi prima indicati. Tali fondamenti consistono, per il versante negativo, come sappiamo, nella dichiarazione di indifferenza nei riguardi di ogni condizionamento storico, e, per quello positivo, nella dichiarazione di immanenza alla ragione medesima dei suoi princìpi generativi. La ragione così legittima se stessa; e fa ciò con un atto di spontaneità assoluta, la cui necessità non è determinata da nessun inizio, che le imponga di essere, e da nessun fine, che la reclami. «Il suo postulato è quello dell'autoproprietà della verità tramite l'autogenerazione».35 Un nichilismo leggero, delle sole matrici infratemporali, circola nel testo di Blumenberg; un nichilismo che non osa guardare l'abisso che preclude alla vista ogni fondamento alla storicità dell'uomo, ma che si accontenta di riscrivere i registri dell'anagrafe culturale delle epoche, col disconoscere ogni paternità storica della creatura partorita dalla ragione moderna. Questa si concepisce allora come «ragion sufficiente», sufficiente almeno «a fornire l'autoaffermazione post-medievale», da cui «è sorta l'idea dell'epoca come autofondazione [...] che inizia dal nulla».36 Ancora una volta l'appello a quella che potremmo definire la sindrome di Munchausen -- che, come è noto, si alzava da terra tirandosi per i capelli -- viene in aiuto. È così salvaguardato il principio di autoaffermazione ed imposta la rinuncia alla calma tranquilla della rassicurazione teologica, che il modello secolarizzato ancora conteneva in sé. Il circolo è chiuso, l'aut-aut ha funzionato di nuovo -non più contro la categoria della secolarizzazione, ma a favore del principio di autoaffermazione. È pronto, in questo modo, uno schema di pensiero in grado di ripristinare finalmente la maestà della ragione incrinata dai dubbi löwithiani, mettendola altresì al riparo da indiscrete domande. Alle quali, però, non si può rinunciare con la stessa facilità. Sappiamo che l'autoaffermazione della ragione legittima la razionalità dell'epoca moderna. Ma cosa legittima a sua volta l'autoaffermazione medesima? La ragione che reclama se stessa?37 In altri termini, dove trova fondamento il ragionamento che affida funzione risolutiva, e quindi legittimante, alla natura dell'evidenza -- nonostante Blumenberg, cartesiana -- della ragione, con le sue esigenze di incondizionatezza? Ovvero -- se di fondamento non si vuol parlare, perché si danno solo fondamenti limitati -- in nome di che cosa si nega alla categoria di secolarizzazione quella legittimità che poi si attribuisce alla moderna idea di progresso? Forse che basta ritenersi convinto che a far ciò «siano state esperienze di nuovo tipo di un'ampiezza cronologica tale da rendere ovvio il salto nella generalizzazione ultima verso l'idea di progresso»?38 Domande indiscrete, le ho sopra definite. O forse meglio, non-domande, domande già da sempre risolte nell'orizzonte filosofico che Blumenberg mostra implicitamente, ma con grande convinzione, di abbracciare. Lo ritroviamo nascosto tra le pieghe di un'affermazione tutto sommato secondaria. Contestando ad Agostino la responsabilità dello spostamento della questione metafisica del male sull'asse della fede, Blumenberg osserva che «la giustizia del deus iustus è mantenuta come premessa, non dimostrata come conseguenza».39 La debolezza della riflessione agostiniana, lascia intendere Blumenberg, sta tutta nella sua incapacità di dare stabile assetto, in virtù di un'argomentazione apodittica, dunque rigorosa e rispettosa della legalità del lògos, alle conclusioni che ne possono derivare. A queste ultime infatti è lecito attribuire validità solamente nella misura in cui esse vengan fatte risultare attraverso una procedura di pensiero determinata nei suoi moduli; mediante detta procedura, la dimostrazione diventa funzione veritativa del pensiero. L'attendibilità e verità dei risultati risulta così garantita dalla cogenza del lògos, che si applica su premesse a loro volta anch'esse conquistate nel corso di un medesimo processo dimostrativo. È l'approccio teoretico caratteristico della matura riflessione filosofica greca, che ha condotto la filosofia alla sua piena identificazione con l'epistème.40 A questa struttura, il pensiero moderno ha aggiunto poi l'ulteriore rinforzante conferma rappresentata dalla oggettiva forza di penetrazione reale e di dominio manipolativo della natura, che la razionalità tecnico-scientifica ha saputo produrre. Tale è dunque la struttura del pensiero epistemico, che ha connotato con tanta forza e successo l'Occidente.41 Ora, proprio a detta forza e successo Blumenberg si appella per allontanare la minaccia della problematizzazione della legittimità dell'autoaffermazione della ragione. Come sempre, dal circolo della petizione di principio si esce solo con un atto di rottura. A render solido il discorso è allora sufficiente richiamarsi alla pretesa di universalità del logos dell'Occidente, antico e moderno, che col successo pratico nella dimostrazione teorica dei suoi risultati vede legittimate le sue presupposizioni. La risposta ai nostri interrogativi viene così a trovarsi nei fatti. La prova provata della validità del principio di autoaffermazione della ragione sta quindi nel fatto, storicamente indiscutibile, che la razionalità moderna ha avuto buon successo nel sostituire la fede religiosa medievale come guida dell'agire teoretico e pratico umano.42 Siffatta argomentazione storiografica, alla cui costruzione Blumenberg dedica i restanti quattro quinti del volume, non rimane però senza effetti; essa, in realtà, produce una sorta di sbilanciamento critico dell'impianto complessivo del pensiero. La legittimità dell'età moderna viene consegnata così, in definitiva, al fatto storico che l'età moderna ha saputo scalzare quella medievale. L'etica (e la logica) della verità è soppiantata dalla logica (e dall'etica) del successo. Ecco che, allora, a sostegno del sistema resta solo una variabile indipendente di natura estrinseca, la cui plausibilità non gode più dei privilegi della rarefatta atmosfera della necessità del puro lògos. Affidare alla riuscita di un'operazione la giustificazione della validità e necessità dell'operazione medesima è difatti procedura equivoca e non sempre prova di dubbi. Si può certamente accettare che il successo sia fattore legittimante; esso però spesso nasconde tra le sue pieghe effetti perversi, i quali da ultimo costringono a ripensare l'intera vicenda. Non ci si può più nascondere che gli esiti contemporanei della modernità -- epoca che pure indiscutibilmente ha prodotto un significativo progresso dell'umanità -- non corrispondono propriamente all'utopia dei suoi padri fondatori. Sempre più di frequente, l'umanità moderna si trova a paragonarsi all'apprendista stregone che ha messo in moto un meccanismo che non gli riesce più di controllare; le vicende politiche novecentesche, che faranno passare alla storia il XX secolo come il secolo dei totalitarismi, o la questione ecologica stanno lì a dimostrarlo. E l'interrogativo è allora quello di capire se ciò sia solo un prevedibile errore di guida e di calcolo, o se non sia il delirio dell'impossibile onnipotenza, il fallimento del sogno prometeico dell'uomo.43 Ma in Blumenberg, come si è detto, non si trova traccia di dubbio; la sua lettura neoepicurea della vicenda storica non si lascia scalfire da simili incertezze. L'autoaffermazione della ragione risultante dal moderno rapporto di dominio pragmatico sul mondo legittima l'epoca della ragione affermante se stessa. 4. La modernità come definitivo superamento della gnosi Nel quadro teorico sopra ricomposto si inquadra ora, con un'alta valenza dimostrativa, la questione della gnosi e del suo superamento. Anzi, proprio in questo superamento, che riesce in maniera definitiva e completa solo alla ragione moderna, Blumenberg vede una delle conferme maggiormente significative della sua tesi interpretativa. Non fa pertanto meraviglia che in questo scritto Blumenberg si occupi della gnosi perché guidato da un interesse retorico e fortemente strumentale. Non lo studio approfondito e dettagliato di essa o la suggestione per il fascino dei suoi tipici ragionamenti di confine trapelano dalle pagine del volume, ma solo la attenta considerazione per il ruolo efficacemente giocato dalla gnosi nella ricostruzione dell'avventura della ragione moderna. Non per nulla, lo gnosticismo in detta vicenda svolge un'essenziale funzione di cerniera. È infatti proprio nella battaglia contro la gnosi che il pensiero medievale fu costretto a ricondurre l'attenzione dell'umanità verso quel mondo, da cui inutilmente aveva tentato di distrarla, e ad innescare così il circuito del rinnovato interessamento mondano, rinascimentale dapprima e moderno poi. Allora «la formazione del Medioevo può essere compresa solo come tentativo di garantirsi definitivamente dalla sindrome gnostica»,44 conclude Blumenberg, riprendendo ed ampliando una vecchia tesi di Adolf von Harnack. L'affermazione può sembrare sorprendente. Essa però perde gran parte della sua eccentricità, se la si legge all'interno dello schema brevettato dal nostro Autore; che resta quello, dalle vaghe risonanze idealistiche, di un processo in definitiva dialettico che, muovendo dalla naturale adesione alla determinazione teleologicamente antropocentrica del cosmo, ritorna con la maggiore convinzione possibile all'apprezzamento del mondo pensato come luogo dell'esercizio della finalità teorico-pratica dell'uomo, dopo aver affidato la fallace ed estraniata compensazione della dura esistenza mondana all'intervento risolutivo della divinità onnipotente nella sua trascendenza. L'orizzonte metafisico greco non poteva essere assunto immediatamente. La fragilità, che lo gravava, si nascondeva non tanto nel problema della stabilità dell'essere del mondo, quanto piuttosto in quello dell'insidenza in esso dell'absurdum rationale del male. La radicalità metafisica della riflessione gnostica fu precisamente quella di evitare il contagio, logicamente improponibile, della bellezza dell'ordine (kòsmos) con la deformità del male, affidando al «dualismo tra la sfera della salvezza e il mondo della creazione» il compito della loro necessaria separazione. La "grandezza" di Marcione si manifesta nella sua volontà di affermare «un dio che non debba contraddirsi creando l'uomo in modo tale da doverlo poi redimere dalla sua perdizione»; facendo ciò, al tempo stesso egli «scaricò il suo dio straniero di ogni responsabilità verso il mondo», che rimase come residuo terrificante, di cui attendere la distruzione finale. La gnosi, dunque, come demondanizzazione radicale dell'agire e delle aspettative umane. Lottando contro di essa in nome dell'ortodossia, il pensiero cristiano ha perciò portato con sé, accanto alla difesa dell'unicità e bontà del Dio creatore e redentore, la correlata riabilitazione del mondo; un mondo, però, che rivendicava ben altri investimenti e coinvolgimenti, che quelli derivabili dalla sua condizione di natura creata.45 Da questo «nuovo conservatorismo del cosmo», infatti, la gnosi non venne propriamente superata, ma solo rimossa. Interiorizzando l'iniquità della creazione con l'imputazione agostiniana del male alla libertà dell'uomo, il pensiero della cristianità medievale investì infine l'uomo della responsabilità della eliminazione del male dal mondo. Si rese così necessario il secondo e definitivo superamento del problema gnostico, che solo il pensiero moderno, mediante l'autoaffermazione della ragione capace di imprimere il sigillo della propria potenza alla realtà che si oppone ad essa, sarà in grado di portare a compimento. «Il Medioevo finì quando, all'interno del suo sistema spirituale, esso non poté più conservare per l'uomo la credibilità della Creazione come provvidenza, e quindi gli addossò l'onere della sua autoaffermazione».46 Il successo della ragione moderna nel superamento della gnosi, non riuscito al Cristianesimo, rassicura così la ragione moderna stessa circa la legittimità delle proprie rivendicazioni. Queste godono di una credibilità assoluta, che la tecnica continuamente rinforza col suo dominio pratico del reale: l'antico ordine del cosmo, dalla gnosi rovesciato in disordine, viene ora ripristinato, garantito ed intensificato. Può così essere tranquillamente abbandonata a se stessa la «sindrome della struttura antropologica della carenza», che a lungo ha inibito le risorse della produttività umana. Ora «nella crescita della sfera tecnica vive una volontà che affronta consapevolmente la realtà estraniata, una volontà di conquistare una nuova umanità di questa realtà».47 La gnosi ha veramente lanciato, come da un trampolino, l'autoaffermazione della ragione; una ragione, come sappiamo, completamente risolta nel pensiero tecnico-calcolante. E la partita sembra chiusa. In realtà, a ben vedere, qui, come di norma in simili casi, si compie piuttosto la vendetta della sapienza originaria, che i primi cercatori della verità hanno amato, la vendetta della filosofia contro i tentativi di snaturarla incatenandola al giogo di comprimenti schematismi. E il paradosso si ritorce contro lo stesso Blumenberg. Egli riteneva il pensiero della trascendenza niente più che ingenua e mortificante tranquillizzazione. Non si è accorto però che l'assolutizzazione della tecnica ha finito per essere un altro tranquillizzante, che induce una anestetizzazione delle coscienze ancora più potente. Per Blumenberg la tecnica non produce, perché non lo conosce, il male. Peccato che proprio questo argomento sia improvvisamente balzato in faccia all'umanità post-moderna. Note 1. Karl Löwith Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie, Kohlhammer, Stuttgart, 1953 (tr. it. Significato e fine della storia, Comunità, Milano, 1979). Löwith aveva originariamente pubblicato l'opera negli Stati Uniti con il titolo Meaning in History (The University of Chicago Press, 1949). Le citazioni del testo sono tratte dall'edizione italiana. 2. Löwith, 21-22. 3. Löwith, 236. 4. Hans Blumenberg, Die Legittimität der Neuzeit, II ed. riveduta e ampliata, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1974, 19661; la traduzione italiana completa è però solo del 1992 (La legittimità dell'età moderna, Marietti, Genova, 1992). In precedenza erano state pubblicate in italiano solo traduzioni parziali di singoli capitoli (cfr. Aut Aut, 222 (1987), pp. 51-58). Alla traduzione integrale sopra citata fanno riferimento, ove non diversamente indicato, tutti i successivi rimandi al pensiero di Blumenberg. 5. Blumenberg, 16. 6. Blumenberg, 24. 7. Cfr. Blumenberg, pp. 25-32. 8. Blumenberg, 47-48. Più oltre Blumenberg parla di un «tratto di un dualismo quasi gnostico» per «la rivalità di istanze, presupposta nel concetto della secolarizzazione» (p. 54). 9. Blumenberg, 35. E' questo il cuore della critica di Blumenberg alla posizione di Löwith. Il quale «presuppone come incontestabile un'origine assoluta e trascendente dei contenuti in questione», senza interrogarsi sulle «differenze che devono aver bloccato ogni trasposizione» dell'escatologia cristiana nell'idea di progresso (cfr. pp. 36 e 37). La tesi della sostanziale incomunicabilità delle matrici valoriali dei sistemi culturali contrasta peraltro, in maniera alquanto clamorosa, con la densa intuizione centrale di un altro lavoro di Blumenberg, Elaborazione del mito, ove l'Autore sostiene precisamente la costanza dei modelli mitici pur nelle loro infinite trasmutazioni e metamorfosi. (Cfr. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt, 1979. Tr. it., Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna, 1991. Si veda anche quanto annota G. Carchia nella sua "Introduzione all'edizione italiana", ivi, p. 17). 10. Blumenberg non ha dubbi in proposito. «Innanzitutto devo chiedere come possa avvenire l'occultezza del surplus in ciò che è dato, del senso celato in ciò che è palese.» (Blumenberg, 23-24). 11. Blumenberg, 48. Il riferimento è all'epoca dell'«assolutismo teologico» (come recita il titolo del secondo capitolo), cui il concetto di «autoaffermazione» (Selbstbehauptung) più avanti si opporrà come deciso antagonista. Per parte mia al contrario, resto convinto che i tentativi più originali ed interessanti della tradizione filosofica occidentale siano precisamente quelli che hanno cercato di sondare l'unità originaria in cui hanno comune dimora le differenze maggiormente polarizzanti, che la necessità dell'epistème impone peraltro di considerare come radicalmente oppositive ed esclusive. E, per altro verso, non risiede in quest'ultimo fatto una delle ragioni per cui la filosofia occidentale ha saputo declinare il riferimento alla trascendenza solo negli aridi termini di una rigida ed astratta teologia, senza lasciarsi interpellare, salvo pochissime eccezioni, dalla affermazione assolutamente sconvolgente dell'Uomo che si è proclamato Dio? 12. Blumenberg, 126. 13. Blumenberg, 16. 14. Blumenberg, 80. Corsivo mio. 15. Cfr. il recente lavoro di F. D'Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, Cortina, 1997, p. 343. 16. «Si deve soprattutto far attenzione al fatto che i materiali ellenistici della prima cristianizzazione sono nuovamente a disposizione un millennio e mezzo più tardi, per produrre immediatamente e senza passare attraverso il Cristianesimo ciò che poi appare come secolarizzazione.» (Blumenberg, p. 44. Sottolineatura mia). 17. Blumenberg, p.54. 18. Blumenberg, p. 71. 19. La seconda e la terza parte del volume, rispettivamente intitolate Assolutismo teologico e autoaffermazione umana e Il processo della curiosità teoretica, si occupano in effetti di ricostruire il tessuto storico e culturale da cui si origina l'epoca moderna, tanto nei suoi fattori di discontinuità rispetto all'evidenza teologica medievale quanto nel suo germinare dalla riabilitazione dello stimolo alla curiosità della conoscenza. In queste pagine, però, il ragionamento muove precisamente dallo schema della surroga per alternatività degli ambienti assiologici. Un esempio per tutti:«l'autoaffermazione della ragione richiede l'uscita dalla tranquillizzazione teologica, dall'illusione antropocentrica.» (p.163). Dove ciò che è da notare è che la proposizione non appartiene ai registri descrittivi dell'analisi storiografica, peraltro difficilmente controvertibile, ma possiede tutti i caratteri di una dichiarazione metodologica di principio che dispone il materiale storico secondo i filtri della polarizzazione oppositiva. Blumenberg però, come abbiamo già notato in precedenza, non si perita di discutere teoreticamente siffatta opposizione, risultando l'inconciliabilità delle posizioni logicamente dedotta dal loro contenuto sostanziale, e fruttuosamente evidente nella forza dell'autoaffermazione della ragione. Si può allora notare a margine che con il concetto di «nuova occupazione» Blumenberg non si è di molto allontanato dalla tesi di Löwith. Molto acutamente ha osservato Odo Marquard che«la loro controversia sulla secolarizzazione sembra essere stata messa in scena esclusivamente per celare come essi siano concordi nel loro fronte comune contro la tradizione dogmatica di provenienza biblica, nonché nel loro sospetto contro la filosofia della storia.» (O. Marquard, Mythos und Dogma, cit. da G. Carchia, "Nota alla controversia sulla secolarizzazione", Aut Aut, 222 (1987), p. 68. 20. Non solo natura, ma anche historia non facit saltus. Come Leibniz e Marx, due pensatori ben presenti nelle riflessioni blumenberghiane hanno affermato: il presente avanza gravido del futuro. 21. Blumenberg, p. 14. 22. Blumenberg, p. 122. Non è fuori luogo notare che il referente storico del termine Cristianesimo presenta in Blumenberg tratti oscillanti e anomali. Con tale termine egli infatti intende sempre la civiltà costruita sulla base di valori cristiani, la civitas christiana. Il suo riferimento preferito è Tertulliano insieme ad Agostino. Talora a rappresentanti della tradizione cristiana sono eletti«i fanatici chiliastici» del Medioevo. (p. 52) Degli scrittori biblici conosce solo Paolo e Giovanni (quest'ultimo per i tratti apocalittici). Gli unici rinvii a passi della Sacra Scrittura sono contenuti in una nota di p. 50. La conoscenza del pensiero biblico -- che pure dovrebbe fornire gli agganci indispensabili per un rigoroso discorso filosofico o genericamente culturale sul Cristianesimo che, come anche Blumenberg riconosce, è anzitutto una religione -- sembra alquanto approssimativa. Una frase per tutte: «La formula stoica secondo la quale il mondo sarebbe stato creato per l'uomo è ampiamente accolta dalla Patristica [...]. Il concetto della provvidenza, per quanto estraneo al mondo della concezione biblica, viene assimilato come patrimonio teologico [...].» (p. 138. Corsivo mio) La semplice lettura del Salmo 8 vale più di ogni articolata confutazione: ... Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato. 23. Non si dimentichi che così recita il titolo del volume. Si può avere conferma che questo sia il cuore della posizione di Blumenberg, riportando quanto scrive Löwith nella chiusa della sua replica al lavoro di Blumenberg: «In senso traslato, applicato alle epoche storiche, non ci può essere alcun discorso vero e proprio di legittimità o di illegittimità, dal momento che nella storia delle rappresentazioni, delle idee e dei pensieri esso si estende in forma così ampia come lo è la forza di appropriarsi e di alterare una effettiva consistenza della tradizione. Gli esiti di volta in volta prodotti da una tale appropriazione alterante non si lasciano calcolare positivamente o negativamente in ragione di una autentica proprietà.» E poi polemicamente conclude: «I parti della vita storica sono tutti 'illegittimi'.» (K. Löwith, Besprechung des Buches "Die Legittimität der Neuzeit" (1968), in Sämtliche Schriften, vol. 2, Metzler, Stuttgart, 1983, pp. 459. Tr. it., Recensione del libro di Hans Blumenberg 'Die Legittimität der Neuzeit', Aut Aut, 222 (1987), p. 66). 24. Blumenberg, p. 123. La frase termina nel seguente modo: «laddove è indifferente che questa discontinuità sia fittizia o reale. Essa l'ha pretesa nei confronti del Medioevo.» Blumenberg confonde tra la coscienza della novità delle posizioni soggettive e l'impossibile -- perché astorica -- interruzione effettiva della tradizione culturale, entro cui solo tale coscienza riesce a svilupparsi. Dogmatismo della razionalità moderna che non accetta antagonisti né concorrenti. 25. Blumenberg, p. 122. 26. Blumenberg, p. 122. 27. Blumenberg, p. 80. Corsivo mio. 28. Blumenberg, P. 151. Per questo motivo la fondazione cartesiana dell'epoca moderna non può essere accettata «L'inizio assoluto nel tempo è atemporale anche nella sua intenzione.» E di tale carattere è rivestita la ragione di Cartesio. Ma «dove fosse la ragione prima di Cartesio e cosa le facesse preferire questo intermediario e questo momento -- ecco domande che non possono essere poste nel contesto sistematico dei loro concetti fondamentali.»(ivi). 29. Blumenberg, p. 80. 30. Blumenberg, P. 80. Corsivo mio. Deve trattarsi di un lapsus sintomatico, se solo si pensi che tale confessione è contenuta nella sezione del volume dedicata alla «critica di una categoria dell'ingiustizia storica». 31. «Il punto debole della razionalità moderna è che la rivelazione del passato medievale dei suoi protagonisti può rimettere in causa la mancanza di presupposti che essa mostrava di aver percepito come quintessenza della propria libertà.» (Blumenberg, 194). 32. Cfr. Blumenberg, pp. 144-146. 33. «L'espressione possesso della verità [...] consente ormai soltanto un uso ironico». L'evoluzione storica ha avuto in effetti un esito irreversibile. «L'implicazione tecnica inserisce la teoria e l'atteggiamento teoretico nell'ambito funzionale dell'adeguatezza immanente dell'autoaffermazione e neutralizza la sua pretesa, fino a quel momento ineliminabile, di verità.» (Blumenberg, p. 252. 271). 34. Blumenberg, p.148. Cfr. anche p. 41. Blumenberg senz'altro non si accoda alla moda della negazione tipologica della tecnica ed alla sua piena rimozione quale epocale fuorviamento -- cosa che è senza dubbio un merito, in tempi di conformismo del pensare. In questo elogio della tecnica egli tuttavia si presta a far da grancassa ad antiche enfatizzazioni della tecnica stessa, ingenuamente illusorie nel presentarla quale panacea dei mali del mondo. Il che, però, onestamente, è forse troppo. 35. Blumenberg, p. 79. 36. Blumenberg, p. 103 e ss. Corsivo mio. 37. «Il progetto della legittimità dell'età moderna non viene dedotto dalle prestazioni della ragione, ma dalla sua necessità.» (Blumenberg, p. 105). 38. Blumenberg, p. 37. Sottolineatura mia. 39. Blumenberg, p. 139. 40. Per una più articolata argomentazione della tesi qui appena enunciata, mi sia consentito il rimando al mio saggio Il silenzio dell'intelligenza che ascolta, in E. Baccarini (cur.), Il pensiero nomade, Cittadella editrice, Assisi, 1994, pp. 49-75. 41. Forse non è un caso che il fallimento del tentativo di derivazione dei saperi dalla pura formalità logica dell'ars combinatoria stia alla base dell'esigenza moderna di trovare pratica conferma dei contenuti conoscitivi nella capacità mostrata da questi nel manipolare la realtà. 42. «La grandezza del tanto screditato Ottocento» sta nell'aver esso fatto sorgere «il processo della tecnicizzazione nella forma dell'industrializzazione come autoaffermazione di chi si oppone alla disumanità della natura.» (Blumenberg, p. 239). 43. Per evitare ogni equivoco: non si sta chiedendo l'abdicazione della ragione a favore di non meglio precisati appelli all'immediatezza del sentire e del volere, o, peggio ancora, della loro potenza. Il ragionamento vuole solo riflettere sulla questione decisiva dei limiti immanenti della razionalità calcolante umana e della necessità di una sua relazione a quella forma di sapere sapienziale, da cui pure la ragione dell'epistème filosofica è storicamente derivata. In quest'ottica, un'ottica pur sempre razionale e non fideistica, Kant scriveva nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura: «Io ho dunque dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede» (Tr. it., Laterza, Bari, 1977, vol. I, p. 28). 44. Blumenberg, p. 136. 45. Cfr. Blumenberg, pp. 134-136. Si noti come ciò che, ad avviso di Blumenberg, rese «grande» Marcione fu il rifiuto della contraddizione logica di un dio creatore, che si lasci limitare nell'esercizio della sua onnipotenza e che debba perciò redimere la sua creazione; ovvero, in altri termini, la logicizzazione del pensiero biblico in nome dell'universalità del lògos greco. «Perciò la gnosi deve essere nel vero senso della parola conoscenza.» (p. 135). 46. Blumenberg, p. 144. 47. Blumenberg, pp. 144-145.