Massimiliano Mazzini

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Massimiliano Mazzini
La fenomenologia delle rioccupazioni nella filosofia
del mito e della storia di Hans Blumenberg
1.1. La domanda di Blumenberg
Vi è una domanda essenziale che il filosofo tedesco Hans Blumenberg si pone e che sembrerebbe
segnare un tema costante attorno al quale ruotano le sue opere fondamentali: possono i teoremi di
secolarizzazione spiegare sufficientemente la nascita e l'origine dell'età moderna, facendo in modo
che essa si ritrovi autenticamente legittimata come epoca attraverso queste categorie
d'interpretazione dei processi storici?
La risposta che il filosofo tedesco ha voluto dare a questo interrogativo si disegna
complessivamente in modo esplicito nell'opera che ha accompagnato con successive rielaborazioni
e pubblicazioni la sua vita, «La legittimità dell'età moderna»,1 il cui titolo evidenzia l'atteggiamento
di critica verso i teoremi di secolarizzazione; critica ripresa in modo implicito in un'altra opera di
Blumenberg, «Elaborazione del mito»2 che, segnando la maturità filosofica dell'Autore, può
considerarsi una germinazione della «Legittimità dell'età moderna».
Come spiegare la nascita della modernità?
Tra i protagonisti della risposta, l'attenzione di Blumenberg si volge alla riflessione del filosofo Karl
Löwith3 che utilizzando, come base per le proprie riflessioni su teologia e storia, l'interpretazione
teologica di Oscar Cullmann, vede nella sostituzione della temporalità ciclica dei Greci con l'idea
unilineare di un progresso senza fine (quest'ultimo è la secolarizzazione dell'idea cristiana della
storia della salvezza) una frattura epocale che decide tanto per il medioevo quanto per l'età
moderna: l'idea di progresso delle moderne filosofie della storia è una trascrizione immanentizzata
dell'escatologia trascendentale del Cristianesimo primitivo. Tutto ciò nasconderebbe per
Blumenberg una visione «sostanzialistica della storia»4 che, rendendo ermeneuticamente
luminoso un fenomeno come la modernità, ne occulterebbe la novità e la discontinuità storica.
Blumenberg afferma che attraverso una categoria di spiegazione di fenomeni storici quali il
teorema di secolarizzazione andrebbe perduta proprio la caratteristica radicale dell'età moderna, il
suo bisogno di contrapporsi -- attraverso una risposta storica -- all'epoca precedente, il medioevo:
la sua legittima «autoaffermazione umana» nei confronti di quello che il filosofo definisce come
«l'assolutismo teologico» della tarda scolastica medioevale, caratterizzato dalla concezione
nominalistica di un Dio incomprensibile e arbitrario nei confronti dell'uomo.5
1.2. La logica ermeneutica di domanda e risposta nelle svolte epocali
Blumenberg vuole salvaguardare la novità e la differenza della svolta epocale moderna, ma dissolve
immediatamente ogni dubbio che si trovi in atto nella propria riflessione una lettura della
modernità come discontinuità storica totalmente assoluta:
Che il nuovo nella storia non possa essere di volta in volta qualcosa di arbitrario, ma sia soggetto a
un rigore di aspettative e di bisogni precostituiti rappresenta la condizione grazie alla quale
possiamo avere qualcosa come una conoscenza della storia. [...]; il programma dell'età moderna
non va assunto come generazione spontanea contingente. Il dispiegarsi delle sue premesse
concettuali riflette già la struttura singolare dei bisogni che si erano sviluppati obbligatoriamente
nell'autocatalisi del sistema medievale.6
Bisogna rilevare che per Blumenberg esiste una sorta di «continuità» storica tra le successive svolte
epocali fondata su aspettative e su bisogni precostituiti lasciati in eredità all'epoca seguente.
Le aspettative e i bisogni precostituiti -- di un senso e di una spiegazione del mondo che ogni epoca
si trova a dover affrontare -- si possono considerare le basi dell'ermeneutica della svolta epocale.
Nel passaggio da un'epoca ad un'altra si evidenziano questi elementi basilari, i quali, però, non
consistono in contenuti (concetti, teorie o convinzioni) ma piuttosto in fondamentali esigenze di
sapere che stanno in corrispondenza dei contenuti. Quando, in una data epoca, l'uomo afferma un
particolare sistema d'interpretazione di sé e del mondo, questo comporterebbe l'introduzione di
nuove questioni e dei relativi contenuti come risposte. Le quali hanno l'importante funzione di aver
delineato un'aspettativa di significato generale che si orienta per l'appunto grazie al loro contenuto
inerente all'idea teorica o pragmatica di concepire il mondo e l'uomo, abbracciando e costituendo
l'orizzonte storico di senso di una particolare epoca. Una volta caduto quel sistema di
interpretazione, i contenuti che in esso si erano generati entrano in crisi, lasciando scoperte quelle
domande di cui erano la risposta. Le epoche lasciano in eredità delle domande indicando una sorta
di sentiero obbligato nelle aspettative di senso pre-orientato e al bisogno di risposte. L'età
moderna per Blumenberg ricomincia da spazi questionativi lasciati vuoti dalla crisi della teologia
tardo medioevale:
Ciò che è accaduto prevalentemente, o comunque finora con poche eccezioni specifiche e
riconoscibili, nel processo interpretato come secolarizzazione può essere descritto non come
trasposizione [Umsetzung] di contenuti autenticamente teologici nella loro autoalienazione
secolare, ma come nuova occupazione [Umbesetzung] di posizioni divenute vacanti da parte di
risposte le cui relative domande non poterono essere eliminare.7
Qui Blumenberg evidenzia in corsivo il concetto cardine delle svolte epocali: nuova occupazione o
«rioccupazione» (Umbesetzung). Le risposte dell'epoca del nuovo storico ri-occupano lo spazio
questionativo lasciato libero dal tramonto delle risposte dell'epoca precedente:
Il concetto di rioccupazione designa come implicazione il minimo d'identità che deve poter essere
reperito, o per lo meno presupposto, e ricercato anche nel movimento più movimentato della
storia. [...], rioccupazione significa che asserzioni diverse possono essere intese come risposte a
domande identiche. [...]Anche la svolta epocale, in quanto cesura nettissima, ha ancora una
funzione di conservazione dell'identità, poiché il mutamento che deve ammettere è solo il correlato
della costanza delle esigenze che deve soddisfare. Allora, al di qua del grande concetto degli abbozzi
epocali, il processo storico produce le proprie rioccupazioni come risanamenti della propria
continuità[...]. Naturalmente, secondo la tesi qui sostenuta, quest'identità non è un'identità dei
contenuti, ma delle funzioni. In determinati luoghi del sistema di interpretazione del mondo e di sé
da parte dell'uomo, contenuti del tutto eterogenei possono assumere funzioni identiche.8
Si fa chiaro come per Blumenberg, critico della secolarizzazione, esista una continuità ben precisa
tra le epoche che egli illumina con il concetto di ri-occupazione: il bisogno necessario che il nuovo
storico epocale occupi con una propria interpretazione del mondo -- derivante per Blumenberg da
luoghi eterogenei rispetto alla tradizione -- lo spazio lasciato vuoto da una crisi del senso e del
significato dell'epoca che lo precede.
Il modello ermeneutico di questa sorta di logica di domanda e risposta orienta dunque in modo
generale la svolta tra le epoche come bene lo definisce l'ermeneuta della scuola di Costanza Hans
Robert Jauss:
La logica ermeneutica della domanda e risposta [...] era stata già delineata precedentemente da
Hans Blumenberg, [...]. In questa prospettiva il nuovo epocale non può diventare da sé
direttamente un evento gravido di conseguenze, semplicemente subentrando in successione
diacronica all'antico finora vigente. Piuttosto, esso può affermarsi e accrescere gradualmente il
proprio significato solo a misura che sa o promette di risolvere un problema che nel sistema
sincronico delle domande e risposte canonizzate di un mondo della vita veniva avvertito come
un'esigenza pressante, o anche che per la prima volta veniva destato come problema. 9
1.3. La radice del presente è la risposta stessa che ri-occupa il senso del passato
La presenza dell'eredità delle domande che reclamano all'epoca che segue delle risposte, non è da
considerarsi tuttavia una sorta di desiderio di sapere che occuperebbe con urgenza lungo la storia
una costante volontà di interpretazione di sé e del mondo, Blumenberg ci indica, grazie al suo
modello di spiegazione delle svolte epocali, che «la problematica dell'eccedenza delle questioni è
tale soprattutto per le soglie epocali, nelle fasi di principii in trasformazione più o meno rapida per
l'acquisizione di spiegazioni molto generali»10 sul senso del mondo. Si fa dunque più chiaro a
questo punto oppure suppongo che sia tale, quale sia la concezione blumenberghiana della storia -anche se dovrà essere illuminata nel corso della ricerca dalla filosofia del mito e dalla conseguente
ermeneutica della ricezione -- e cioè l'importanza che il filosofo dà alla dimensione temporale del
presente nella dinamica delle svolte epocali.
Il nuovo non può essere semplicemente dedotto o spiegato dal passato grazie ad analogie di
contenuti. La novità appartiene al presente: è la sua risposta al passato, questo perché la radice del
presente è nella risposta stessa che deve superare ad ogni costo -- sembrerebbe indicarci
Blumenberg -- la crisi epocale. Le svolte tra le epoche producono le proprie ri-occupazioni, riorientando con la propria bussola il senso e proiettandolo sull'insieme della storia.11 Il «continuo»
della storia sembra non più muovere dal passato al futuro, ma da una determinata ri-occupazione
del presente verso il passato; come il filosofo evidenzia -- grazie all'ermeneutica di domanda e
risposta -- nel passaggio epocale dalla filosofia greca alla teologia dogmatica patristica del primo
medioevo:
Nella formazione patristica del Cristianesimo si presentò per la prima volta un sistema di
asserzioni come ultima figura della filosofia. Il Cristianesimo creò questa pretesa particolare in
quanto si dogmatizzò nella lingua della metafisica antica e pretese di risolvere i suoi enigmi
cosmici. Una formula corrente in autori patristici è l'affermazione che il fondatore della loro
religione avrebbe risolto tutte le questioni degli antichi filosofi. Cristo avrebbe portato non solo
un'esigenza e un'annunciazione da un altro mondo e di un altro mondo, ma anche la vera e
definitiva conoscenza di questo mondo, fin nella massa dei problemi de rerum natura.12
La rioccupazione patristica nei confronti della filosofia greca è una specie di ridistribuzione del
senso, una manipolazione di significati generali del sistema di interpretazione del mondo sino ad
allora in vigore: «Così il Cristianesimo trasformò in domanda tutti i punti della vecchia tradizione
dei quali pensava di poter essere la risposta. Tutto ciò che è nuovo deve presentarsi come
«risposta»; esso perciò deve poter esibire come suoi contenuti tutte le presupponibili «domande»
del patrimonio dell'antico, deve poterle rendere attuali e urgenti.»13
Il modello di rioccupazione consente di ricostruire i processi storici secondo relazioni di domanda
e risposta, in questa prospettiva il «nuovo epocale» -- sia esso la filosofia che succede al mito o la
teologia che segue alla filosofia greca -- può emergere solo dal momento che può risolvere con un
senso proprio coincidente con una «nuova risposta» un problema che nel sistema di
interpretazione generale del mondo veniva avvertito in modo pressante in seguito alla crisi del
significato della «vecchia risposta».
Sono infatti le risposte delle nuove rioccupazioni che reggono le domande o meglio le domande
cadono se non vi sono risposte: «nel nuovo assestamento [nuova rioccupazione] certe domande
non vengono più poste, le risposte che una volta si davano ad esse appaiono come puro
dogmatismo, come ridondanza fantastica.»14 Blumenberg a questo riguardo mostra come «non
sempre ci si è interrogati e, manifestamente, non sempre ci s'interroga intorno all'immortalità».
Essa, dai testi biblici dopo l'esilio babilonese sino al postulato kantiano dell'immortalità, «rimase
un luogo di occupazione variamente mutevole, ma obbligato per ogni sistema [un sistema generale
d'interpretazione del mondo]». L'aumento reale della vita, precisa Blumenberg, ed i conseguenti
passatempi meno fastidiosi che riempivano questo guadagno di tempo «hanno provocato la
scomparsa della sua [dell'immortalità] posizione nel sistema. Sembra perfino che neanche il
cristianesimo attuale vi faccia quasi più cenno nella sua retorica a livello mondiale, e che in tal
modo rinunci improvvisamente ad uno dei cardini della sua identità».15
«L'immortalità», dunque, è una risposta che assume una valenza contenutistica diversa a seconda
del «sistema di spiegazione del mondo» che la occupa ri-orientandone i significati. La domanda a
cui essa risponde in generale può essere, ad esempio, quale sia il senso della vita che emerge dalla
finitezza della morte.
Ogni sistema di interpretazione generale del mondo, sia esso costituito da «miti», «filosofie» e
«teologie» come ci indica Blumenberg, esperisce domande tramandate a cui deve saper ben
rispondere. Ma il cambiamento di una condizione biologica -- il quale nel caso esemplificato
precedentemente dell'immortalità, era «l'aumento reale della durata della vita» -- provoca la
caduta della domanda e della risposta; in questo caso, dunque, non c'è più il «bisogno» di
soddisfare l'«aspettativa» di senso della domanda pre-orientata dall'epoca precedente.
1.4. La vicenda mai conclusa di familiarizzare lo spaesante
Le «aspettative» e i «bisogni»16 sono -- come avevamo precedentemente evidenziato -- gli
elementi basilari della svolta epocale in quanto corrispondono anche ad una sorta di «bisogno
antropologico» di prender distanza dall'estraneità dell'uomo al mondo. Si ricerca -- nelle svolte
epocali che sono momenti di crisi di significati generali -- la pienezza del senso; ho scritto «si
ricerca» e non si ottiene, poiché se si ottenesse, per Blumenberg, non ci sarebbe movimento della
storia. Le varie svolte epocali -- a cui corrispondono l'entrata in vigore di una nuova epoca e il suo
conseguente sistema di interpretazione del mondo coincidente con le nuove risposte -- sono quella
vicenda mai conclusa di venire a capo dallo spaesante, che Blumenberg definisce
nell'«Elaborazione del mito» con il concetto limite di «Assolutismo della realtà»:
Assolutismo della realtà, significa che l'uomo quasi non controllava le condizioni della propria
esistenza e, ancora più importante, semplicemente credeva di non controllarle.17
Il concetto di «Assolutismo della realtà» fa riferimento ad un senso di spaesamento specifico
provato dall'uomo in un contesto epocale che è quello in cui egli svilupperà un particolare sistema
difensivo da esso, il «mito».
In seguito al «lavoro del mito» sull'«Assolutismo della realtà», quest'ultimo consiste anche in una
sorta di «angoscia» primordiale, il mondo è reso miticamente familiare, noto. I sistemi generali di
spiegazione del mondo che seguono a quello del mito, si edificano sul «lavoro» basilare già fatto dal
mito che consiste nell'avere preso una certa distanza dallo spaesante; ma quest'ultimo rimane
sempre latente nelle forti crisi del senso e dei significati generali che si verificano nei periodi delle
svolte epocali:
L'uomo è sempre al di qua dell'assolutismo della realtà, ma non acquista mai completamente la
certezza di aver raggiunto il punto critico della propria storia oltre il quale la relativa predominanza
della realtà sulla coscienza e sul destino si è capovolta nella supremazia del soggetto.18
Blumenberg, cerca di dissolvere il dubbio che al di sotto delle svolte epocali si annidi una sorta di
sostanzialismo e cioè che il senso di estraneità al mondo sia concepito -- assieme all'«aspettativa» e
al «bisogno» di risposta che emergono da esso -- come un'unica grande domanda sempre uguale
che si dirige dal «mito» alla «filosofia» e da quest'ultima alla «teologia» sino alle filosofie dell'età
moderna. Il senso di estraneità dell'uomo al mondo è sempre specifico poiché dipende anch'esso
dal contesto della svolta epocale in cui si cerca di familiarizzarlo o dal contesto epocale precedente.
Grazie alla logica ermeneutica di domanda e risposta, il senso dell'estraneo viene come dire precompreso e occupato dalle risposte epocali. Una volta cadute quelle risposte con i relativi contenuti
difensivi dall'estraneità, quest'ultima rimane comunque orientata dalla domanda e risposta
precedenti che sono rimaste prive di contenuti specifici, perché questi sono caduti, ma che
continuano a reclamare una soluzione dalle possibili nuove svolte epocali che dovranno rioccuparle. Insomma, come dire, è la logica di domanda e risposta che pre-comprende19 e riorienta il senso dell'estraneità, quasi a sottolineare che è l'uomo stesso che lo produce
costantemente pur difendendosene con il sistema «pre-comprensivo» della logica ermeneutica di
domanda e risposta.
1.5. Oltre la soglia epocale: la pre-comprensione dei fenomeni storici
Blumenberg, per «dimostrare il motivo dell'apparenza di secolarizzazione nella struttura della
rioccupazione» attraverso il tematizzato problema dell'identità dei contenuti storici, utilizza un
sistema categoriale, per leggere ed interpretare le svolte epocali, concepito sulla differenza di
«funzione» e di «contenuto», ciò apre la via alla particolare filosofia della storia di Blumenberg che
si può definire come funzionalismo storico e che consente di mettere in evidenza la dinamica degli
«orizzonti di senso» che si creano all'interno delle svolte epocali, ermeneuticamente spiegate
attraverso il processo della ri-occupazione.
Precedentemente ho verificato come nella riflessione di Blumenberg, concernente la modalità del
passaggio da un'epoca a un'altra, sia in effetti possibile riscontrare il perdurare di alcuni elementi
che non consistono in «contenuti» di pensiero (concetti o teorie) ma piuttosto in «funzioni» ossia
in fondamentali esigenze di orientamento e di senso che stanno al di sotto dei «contenuti» di
pensiero. Blumenberg coglie oltre la soglia epocale del nuovo storico alcuni elementi funzionali che
derivano dal contesto epocale precedente: le aspettative e i bisogni precostituiti che orientano la
possibilità di una conoscenza dei fenomeni storici e che si possono considerare come gli elementi
della pre-comprensione ermeneutica della coscienza del nuovo epocale:
Infatti il problema dell'epoca deve essere sollevato a partire dalla questione della sua esperibilità.
Ogni modificazione, ogni cambiamento dal vecchio al nuovo ci sono accessibili solo per il fatto che
essi si lasciano riferire non alla sostanza, di cui parla Kant, ma a un quadro costante di riferimento,
attraverso il quale possono essere definite le esigenze che devono essere soddisfatte in un luogo
identico. Che il nuovo nella storia non possa essere di volta in volta qualcosa di arbitrario, ma sia
soggetto a un rigore di aspettative e di bisogni precostituiti rappresenta la condizione grazie alla
quale possiamo avere qualcosa come una conoscenza della storia. [...]20
La «conoscenza della storia» si dà grazie al passaggio al di là della soglia epocale di aspettative di
senso e di bisogni precostituiti che Blumenberg tematizza attraverso la metafora spaziale di un
insieme di luoghi-funzioni correlati in un sistema d'interpretazione del mondo e di sé da parte
dell'uomo.
In questa struttura ermeneutica del passaggio epocale si stabiliscono luoghi determinati nei quali
operano equivalenti funzionali: «contenuti del tutto eterogenei possono assumere funzioni
identiche». Ed è solo in questo modo che per Blumenberg può essere concepita la «continuità
storica» coincidente con una trasposizione dei contenuti tra le diverse svolte epocali tematizzata
dal teorema della secolarizzazione: il cristianesimo ha lasciato in eredità alla modernità delle
domande, dei bisogni e delle aspettative di senso, come ne ha a sua volta assunte dal mondo antico,
le risposte del nuovo storico, assumendo contenuti di pensiero diversi da quelli che avevano
precedentemente, dovranno riempire i luoghi del senso pre-orientato dalle aspettative e dalle
domande. L'uomo moderno è medievale per quanto riguarda le proprie aspettative di senso sul
mondo ed è moderno nei propri contenuti di pensiero.
La «continuità storica» dei contenuti di pensiero tra le diverse svolte epocali può essere spiegata
diversamente grazie al processo ri-occupazionale delle risposte del nuovo storico che proiettando a
posteriori dal loro presente nuovi contenuti per risolvere una crisi del senso dell'epoca precedente
finiscono per orientare il significato di tutto il passato alla loro immagine del mondo: questo
costituirebbe l'imbarazzo dell'identità dei contenuti di pensiero che si costituiscono tra le diverse
svolte epocali della storia. Il processo dinamico dei contenuti storici dal passato verso il presente
individuato dal «teorema della secolarizzazione» è per Blumenberg, infatti, apparente, poiché
nasconderebbe un processo di ri-occupazione.
1.6. L'assolutismo della realtà e la prima occupazione del mito
La filosofia della storia di Blumenberg, come funzionalismo storico, «parte dall'idea che nella
storia spirituale dell'occidente tutte le immagini del mondo e i sistemi interpretativi siano connessi,
nel senso che ogni immagine del mondo rappresenta una risposta alla sfida lanciata da quella che
l'ha preceduta», e che l'importante «funzione di tutti i grandi schemi di senso [le immagini del
mondo] consista nel fatto di portare e mantenere a distanza l'insopportabile assolutismo della
realtà».21
«I diversi schemi di senso del pensiero occidentale» -che corrispondono all'entrata nel processo
storico di diverse epoche e diverse interpretazioni del mondo- «possono essere resi plausibili come
forme del distanziamento e del dominio», di uno spaesamento che corrisponde alla percezione da
parte dell'uomo di una perdita generale di senso e di ordine coincidente con l'autocatalisi di un
sistema epocale, di un'«immagine del mondo».22
Il motore del processo storico, che conduce il movimento ed il passaggio tra le diverse svolte
epocali è sostenuto da un'interna dialettica tra un termine negativo, e cioè la crisi del senso epocale
in cui emerge lo spaesante specifico, ed un termine positivo funzionale, e cioè la risposta del nuovo
storico che cercherà di risolvere la crisi del senso: una crisi che è sempre orientata dalle aspettative
e dai bisogni precostituiti del vecchio epocale e reclamanti una necessaria risposta dal nuovo
epocale.
Di rilevante importanza è evidenziare come lo spaesamento, che si crea all'interno della crisi
dell'immagine del mondo epocale, è sempre specifico: l'assolutismo della realtà si configura come il
primo -in ordine temporale- degli spaesamenti. I racconti dei miti saranno i primi reagenti a questa
primitiva mancanza di senso del mondo. Il mito, infatti, ha una funzione apotropaica di
denominazione nei confronti dell'assolutismo della realtà.
La successiva crisi del mito, causata da una autocatalisi del suo sistema di significazione non farà
emergere nuovamente l'assolutismo della realtà primordiale, ma provocherà uno spaesamento
specifico pre-compreso e orientato da quelle aspettative e dai quei bisogni di significazione delle
cose, che il mito aveva per la prima volta destato nella coscienza dell'uomo, attraverso il suo
processo di significazione e occupazione primaria.
Blumenberg concepisce in «Elaborazione del mito» il concetto limite iniziale di «Assolutismo della
realtà» in coincidenza di quella «situazione iniziale», che assolveva le caratteristiche del «vecchio
status naturalis delle teorie filosofiche della cultura e dello stato».
Il concetto limite di «Assolutismo della realtà» individua una situazione vitale e iniziale in cui
«l'uomo quasi non controllava le condizioni della propria esistenza e, ancor più importante,
semplicemente credeva di non controllarle»: Blumenberg evidenzia come questo concetto limite sia
il nucleo comune delle teorie sull'antropogenesi.
L'essere preumano, a causa di un' improvvisa rottura dell'equilibrio adattativo in cui viveva nella
foresta pluviale, fu costretto ad un insediamento in un territorio aperto, dall'orizzonte della
percepibilità allargato, la savana. Questo passaggio a condizioni vitali diverse -- rispetto al biotopo
all'intero della foresta pluviale -- corrisponde per Blumenberg ad un «salto situazionale» che può
essere considerato come la prima e decisiva svolta epocale in direzione dell'umanizzazione, la zona
di passaggio dal pre-umano all'umano:
Fu un salto situazionale, che trasformo l'orizzonte lontano, non occupato, nel permanente stare-inattesa di cose fino a quel momento sconosciute.23
Il passaggio da una zona vitale all'altra in questa sorta di svolta epocale primordiale corrisponde ad
un cambiamento dell'adattamento della percetibilità, in quanto «l'essere preumano» all'interno
della foresta pluviale è un essere nascosto e protetto dalla densità della vegetazione che gli
garantisce l'impossibilità di accedere alla visione di un'apertura indefinita dell'orizzonte.
L'improvvisa rottura dell'equilibrio adattativo corrisponde alla capacità umana di poter
compensare la perdita di protezione primaria della foresta pluviale attraverso «la capacità di
prevenire, l'anticipazione di ciò che non si è ancora verificato, il tenersi pronti per ciò che è assente
dietro l'orizzonte» allargato della savana.
Si fa chiaro come la situazione iniziale di passaggio dal preumano all'umano sia determinata, per
Blumenberg, dalla capacità di trasformare «l'orizzonte lontano, non occupato», nella possibilità di
poterlo occupare con una primitiva anticipazione dei fenomeni, che potrebbero verificarsi in esso:
questo per poter recuperare, nel nuovo adattamento della savana, il biotopo abbandonato
coincidente con la protezione della foresta pluviale.
Blumenberg evidenzia come prima dell'anticipazione primitiva dei fenomeni vi sia una
«prevenzione indeterminata» degli stessi da considerarsi come «angoscia»:
L'angoscia si riferisce all'orizzonte non occupato delle possibilità di ciò che può sopraggiungere. 24
Seguendo Kierkegaard e Heidegger, spiega Wetz, Blumenberg definisce l'angoscia come
un'«intenzionalità della coscienza senza oggetto. Essa rende equivalente l'intero orizzonte, come
totalità delle direzioni dalle quali qualcosa può sopraggiungere».25
In altre parole, spiega Wetz:
L'angoscia produce una minaccia da un orizzonte indeterminatamente aperto. L'oggetto della
minaccia non è né concepibile, né determinabile, l'unica cosa certa è che esso è di una enormità
minacciosa. L'assolutismo della realtà possiede secondo Blumenberg una qualità angosciante di tal
genere, in quanto per noi il mondo è veramente qualcosa d'informemente disordinato, di
anonimamente sregolato e di selvaggiamente sovrapotente, Ciò suscita angoscia, la quale in seguito
motiva l'uomo a strutturare e articolare il suo sregolato e indeterminato orizzonte d'esperienza e
con ciò ad aprire un orizzonte di questo senso orientativo, il quale si colloca davanti all'assolutismo
della realtà portandolo così a distanza. L'angoscia paralizzante cede di fronte al rapporto attivo col
mondo, il quale viene caricato di determinazioni di senso. Una delle prime invenzioni umane
contro la paurosa realtà e il suo tormento angoscioso è il mito.26
Si sviluppa, dunque, nell'umanità primordiale, una sorta di atteggiamento di attesa, di
anticipazione che si riferisce all'intero orizzonte, «l'angoscia deve essere continuamente
razionalizzata in paura» attraverso espedienti quali la «supposizione del familiare per il non
familiare», «dei nomi per il non non nominabile»:
Qualcosa viene «messo avanti» [nell'orizzonte aperto e non occupato] per fare di ciò che non è
presente l'oggetto dell'azione diretta ad allontanare, a scongiurare, a mitigare o a depotenziare27
L'imposizione dei nomi ai fenomeni è il presupposto per rendere familiare l'estraneità del mondo.
Attraverso una metaforizzazione di racconti e storie, il panico e la paralisi d'angoscia vengono
dissolti grazie a grandezze calcolabili e forme regolate, con le quali trattare il rapporto dell'uomo
con l'orizzonte allargato del mondo: in altre parole l'angosciante assolutismo della realtà viene
sublimato e addomesticato attraverso una forma regolata consistente in racconti mitici, con cui
trattare il primordiale rapporto dell'uomo con i fenomeni.
L'orizzonte allargato da cui possono giungere cose indeterminate è anche la totalità delle direzioni
verso le quali sono orientate le anticipazioni di possibilità e avvicinamenti ad esse. L'anticipazione
«riempie l'orizzonte facendosi guidare dall'immaginazione e dal desiderio».28 Per far ciò, spiega
Blumenberg:
devono essersi affermate nel corso dei millenni delle storie che non potevano venire contraddette
dalla realtà.29
Queste storie, i racconti dei miti assolvono l'importante funzione di «Riempire l'ultimo orizzonte,
nel senso del mitico "margine del mondo", [e questo] significa semplicemente anticipare le origini e
le degenerazioni di ciò che non è familiare».30
Per cogliere, come i racconti dei miti familiarizzino l'assolutismo della realtà -- proiettando
sull'orizzonte non occupato dal senso la loro immaginazione e significazione dei fenomeni -Blumenberg crea un'analogia tra questi e l'operare magico dell'homo pictor:
L'homo pictor non è soltanto il creatore di pitture rupestri per pratiche magiche relative alla caccia,
ma l'essere che nasconde la mancanza di affidabilità del proprio mondo proiettando immagini. [...]
Nella caccia magica delle sue pitture rupestri il cacciatore dalla sua dimora raggiunge e occupa il
mondo.31
All'assolutismo della realtà che coincide con una mancanza di senso del mondo che provoca
angoscia, si oppone l'assolutismo delle immagini e dei desideri dei racconti del mito, che
occupando e proiettando sull'orizzonte aperto del mondo una densità di significazioni primarie,
familiarizza la realtà: ed è in questa capacità apotropaica del mito che è da individuarsi la prima
occupazione di senso del mondo, che darà origine -- come analizzerò in seguito -- alla seconda
occupazione, e cioè alla risposta ri-occupazionale della filosofia greca nei confronti della crisi del
sistema occupazionale mitico dovuta ad un'autocatalisi.
1.7. La primaria rioccupazione della filosofia classica greca nei confronti
dell'occupazione del mito: la logica ermeneutica di domanda e risposta iniziale
I miti, dunque per Blumenberg, sono storie:
la primissima forma -- e non meno solida -- di familiarità col mondo sta nel trovare i nomi per
l'indeterminato. Solo allora e in conseguenza di ciò e possibile raccontare su di esso una storia.32
La necessità della pratica apotropaica della denominazione diede la possibilità di creare distanza
dall'assolutismo della realtà ed in seguito si formarono delle storie:
Ogni fiducia del mondo comincia con i nomi in relazione ai quali si possono raccontare delle
storie.33
In conformità dell'espressione greca mýthon mythéistai («raccontare una storia»)34 è nella
funzione del raccontare che dev'essere percepita la dimensione originaria del mito:
Le storie [...] non venivano raccontate per rispondere a domande, ma per scacciare il disagio e
l'insoddisfazione, che sono la prima condizione perché possano sorgere delle domande. Ovviare
alla paura e all'incertezza significa già impedire che sorgano oppure che si concretizzino le
domande relative a ciò che le suscita e le alimenta.35
Blumenberg coglie la dimensione primaria della «funzione del mito, nel superamento di quella
estraneità arcaica del mondo»36 e nella capacità di allontanare con le proprie storie dense di
«significatività» l'inquietudine dell'assolutismo della realtà, che è la causa possibile del sorgere
delle domande sui fenomeni naturali. L'importante, per Blumenberg, è evidenziare come l'attività
funzionale del mito non è da considerarsi una sorta di prestazione arcaica della ragione che pone
domande sul mondo:
Il riconoscimento del mito come prestazione arcaica della ragione deve giustificarsi assumendo che
il mito abbia dato innanzitutto e soprattutto risposte a domande, invece di averle implicitamente
rifiutate raccontando delle storie.37
Il mito familiarizza e dona senso attraverso la propria «significatività», che non coincide con
un'ipotetica risposta arcaica ad una domanda sul perché dei fenomeni del mondo.
Blumenberg rifacendosi all'analisi esistenziale dell'esserci di Heidegger traccia le linee
fondamentali di una sorta di fenomenologia della «significatività» del mito:
Se la significatività è la qualità del mondo come esso originariamente non sarebbe per l'uomo,
allora essa è strappata ad una inquietudine il cui allontanamento nel mascheramento viene
prodotto e confermato proprio attraverso di essa. La significatività e la forma nella quale è stato
messo a distanza lo sfondo del nulla come ciò che angoscia, laddove però, senza questa
«preistoria», la funzione del significato resterebbe incompresa, benché presente. Infatti il bisogno
di significatività ha la sua radice nel fatto che noi siamo consci di non esserci mai liberati
definitivamente dall'inquietudine. Dalla cura come «essere dell'esserci» che troverebbe nelle
situazione emotiva fondamentale dell'angoscia la sua caratteristica «apertura», scaturisce, assieme
alla totalità della struttura dell'esserci, anche la sua privazione di significatività nel mondo, nella
sua esperienza e nella storia. La «nuda verità» non è qualcosa con cui la vita possa vivere.38
La «significatività» del mito è elevata al rango di una categoria antropologica fondamentale.
Blumenberg definisce la «significatività» del mito come fondamentale qualità apotropaica
«rispetto allo stordimento consegnato all'assolutismo della realtà». Per Blumenberg il fatto della
«significatività» del mito rimanda ad un dato antropologico primario: la possibilità di estorcere
dalla realtà, in cui il senso è improbabile, un senso dalla medesima e ciò si direziona nella capacità
di porre «a distanza lo sfondo del nulla».
La riflessione di Blumenberg, coglie come il nulla angosciante e cioè l'assolutismo della realtà sia il
termine dialetticamente affettivo e negativo rispetto al termine positivo della «significatività» che
dona un senso al mondo, assolvendo perciò la funzione di superamento del «rischio implicito nella
forma umana dell'esistere».
La «significatività» del mito permette all'uomo di vivere nel mondo: la qualità apotropaica del mito
pone a distanza la «nuda verità» dell'angoscia, quest'ultima è provocata dall'assolutismo della
realtà che è la primordiale mancanza di senso del mondo.
Nella «Legittimità dell'età moderna», Blumenberg ha tematizzato la svolta epocale tra mito greco e
filosofia attraverso la metafora dei luoghi-funzioni da occupare grazie ad una eredità di questioni e
di aspettative di senso, che il sistema mitico lascia in eredità alla filosofia greca e che quest'ultima
dovrà soddisfare:
Anche il mito dei Greci, in via di sparizione ed eliminato sopratutto moralmente, ha prescritto alla
filosofia nascente quali questioni essa doveva assumere e quale quadro sistematico essa doveva
riempire. La filosofia in quanto quintessenza del primo atteggiamento teoretico è segnata, ben al di
là della sua fase iniziale dallo sforzo di soddisfare le esigenze di questa presunta misurazione della
sua efficacia e di differire o mascherare le delusioni che non potevano non prodursi. 39
In questo tematizzato passaggio epocale, Blumenberg non individua come si sia verificata
l'autocatalisi del sistema mitico, e non coglie neanche come il primario sistema di ri-occupazione
della filosofia greca40 proietti la propria «immagine del mondo» sul sistema di «significatività»
mitica rendendolo in questo modo a propria somiglianza. Blumemberg riflette sulla possibilità che
il sistema rioccupazionale della filosofia debba «mascherare le delusioni», a causa della propria
incapacità di soddisfare tutte le aspettative di senso provenienti dal mito. Per far questo la filosofia
greca è necessitata a manipolare a propria immagine il senso del mondo precedente per distanziare
la crisi del senso mitica. Crisi che Blumenberg individua in «Elaborazione del mito» attraverso la
sentenza di Talete «tutto è pieno di dei». Difatti Blumenberg individua nella Teogonia di Esiodo
un'elaborazione poetica e mitica41 del distanziamento dell'assolutismo della realtà consistente nel
distribuire e differenziare, in un conflitto di forze antagoniste, che si limitano l'una con l'altra, (gli
dei, cui corrisponde ad ognuno una determinata potenza che domina su un aspetto del mondo)
l'opaca e primordiale potenza dell'assolutismo della realtà. In questo modo l'assolutismo viene depotenziato attraverso una sua interna divisione dei poteri. La sentenza di Talete coglie l'autocatalisi
del sistema mitico:
Se una delle funzioni del mito è di convertire l'indeterminatezza numinosa nella determinatezza
nominale, e di rendere l'inquietante familiare e accessibile, allora questo processo conduce ad
absurdum, se «tutto è pieno di dèi». Da questa situazione non si può arrivare ad alcuna
conclusione in un procedimento finito, e l'unico risultanto che ci può aspettare è quello del
semplice enumerare e aver denominato. Questo lo si poteva già intravedere nella Teogonia di
Esiodo.42
Si fa chiaro come un'eccessiva nominazione delle divinità, (in cui il sovrapotente assolutismo della
realtà viene diviso) conduca ad un processo infinito ed il mondo venga restituito nuovamente
all'indeterminato e all'infinitezza perturbante.
Non casualmente il protofilosofo Talete -- che è una figura al limite di un passaggio epocale -assume l'ufficio che aveva detenuto in precedenza il mito e cioè di «depotenziare i fenomeni
estranei e inquietanti. La predizione di un'eclisse di sole attribuita a Talete va al di là
dell'imposizione al fenomeno di nomi e di storie».43 Questa predizione mostra per la prima volta,
spiega Blumenberg, «la tanto più efficace capacità apotropaica della teoria, la quale può
dimostrare, pronosticandolo, che lo straordinario è il regolare.»44
È chiaro dunque come la teoria razionale assumi nei confronti del mito una caratteristica
funzionale precisa dello stesso e cioè la capacità di familiarizzare i fenomeni del mondo attraverso
il proprio contenuto di senso. Ciò che la teoria di Talete presuppone comunque, alle proprie spalle,
è l'opera già effettuata dal mito consistente in un distanziamento dall'assolutismo della realtà:
Ciò di cui siamo testimoni, nell'oscura sentenza di Talete, non è il punto zero
dell'autoincoraggiamento della ragione, ma la percezione di una liberazione dell'osservatore del
mondo che era stata conquistata da molto tempo.45
Naturalmente, un presunto osservatore teoretico e arcaico dei fenomeni naturali non si trova nel
mito: «l'ipotesi di Aristotele secondo cui la filosofia ha avuto inizio con la meraviglia, progredendo
poi dagli enigmi più prossimi a quelli concernenti le cose piccole e le cose grandi».46 Quest'ipotesi,
che è stata considerata con favore dalla tradizione filosofica occidentale è da correggere secondo
Blumenberg poiché nel mito -- come ho indicato precedentemente -- non è presente una curiosità
teoretica che pone domande sul mondo per poterlo conoscere:
La naturale destinazione dell'uomo alla conoscenza si sarebbe manifestata nella meraviglia come
consapevolezza del suo non sapere. Mito e filosofia sarebbero venuti allora da un'unica radice. In
analogia al philosophos Arisostele conia il termine philomythos, per poter riferire al mito la
predilezione del filosofo per le cose meravigliose: infatti, afferma Aristotele, anche il mito si
compone di meraviglie. Il filosofo ha un debole per il mito perché questo è fatto della stessa
sostanza che fa l'attrattività della teoria. Ma anche nulla di più.47
Aristotele individua in opera, all'interno della tradizione mitica, una possibile conoscenza dei
fenomeni naturali destata nell'uomo dalla meraviglia e dalla propria curiosità teoretica: ed è in
questa (la tradizione mitica) che egli proietta, a posteriori, dal presente in direzione del passato una
concezione razionale e teorica della conoscenza che appartiene esclusivamente alla propria epoca,
difatti Blumenberg ci indica come la conoscenza mitica per Aristotele sia fatta «della stessa
sostanza che fa l'attrattività della teoria»:
È improbabile che il mito abbia definito gli oggetti del filosofo [Aristotele]; ma senza dubbio aveva
definito lo standard delle prestazioni al di sotto del quale non gli era lecito ricadere. Che avesse
amato o disprezzato il mito, in ogni caso egli doveva soddisfare le pretese che questo aveva fissato
col fatto di averle soddisfatte. Andare oltre di esse era cosa di altre norme, che la teoria avrebbe
prodotto immanentemente estrapolandole dai propri reali o presunti successi, non appena fosse
riuscita a moderare le aspettative. Ma prima di raggiungere questo momento, l'epoca post-mitica è
in obbligo di compiere ciò che l'epoca precedente rivendicava o anche semplicemente faceva
credere di aver compiuto. La teoria vede nel mito un insieme di risposte a domande, proprio come
essa è o vuole essere. Ciò la costringe, mentre rifiuta le risposte, ad accettare le domande. Così
anche le interpretazioni erronee che un'epoca dà dell'epoca che la precede, la indirizzano a
comprendere se stessa come correzione di un tentativo sbagliato nella cosa giusta. «Rioccupando»
posizioni sistematiche identiche.48
La sentenza di Talete aveva annunciato l'esaurimento della mentalità mitica come indice di una
crisi del senso provocata da un'autocatalisi del sistema. L'epoca post-mitica, la filosofia classica
dovrà superare la crisi dell'epoca che la precede, soddisfando le esigenze vitali delle aspettative e
dei bisogni precostituiti dal mito, che si concretizzano in un sistema di domande che la filosofia, in
questo caso Aristotele, dovrà risolvere a partire da nuove risposte rioccupazionali.
Blumenberg individua come nella svolta epocale tra mito e filosofia classica vi sia una necessità
interna di risolvere una crisi del senso. Per far questo la filosofia classica deve possedere una
risposta fondamentalmente risolutiva della crisi a partire da nuove premesse contenutistiche: se la
teoria si considera come un insieme di risposte a domande precise sui fenomeni del mondo, essa
proietterà a posteriori sul sistema del senso mitico questo schema in cui si riflette la propria
autointerpretazione. La teoria della filosofia classica rifiuta le risposte del mito, ma né accetta le
domande, autointerpretandosi come correttivo di un tentativo teoretico sbagliato di conoscenza ad
opera del mito.
Si comprende come la filosofia classica proietti a posteriori sul sistema d'interpretazione del
mondo mitico la propria interpretazione del mondo, riducendo la tradizione ad un'unità di
sostanza a propria immagine e somiglianza: «Il filosofo ha un debole per il mito perché questo è
fatto della stessa sostanza che fa l'attrattività della teoria».
Riguardo il problema della secolarizzazione e della «trasposizione di contenuti» sostanziali
all'interno dei passaggi epocali del processo storico, che il «teorema della secolarizzazione»
individua nell'interpretazione di Blumenberg, si può dunque ipotizzare -- come si è precisato nella
svolta epocale tra mito e filosofia -- che «l'unità sostanziale» sia da attribuire alla probabile
proiezione dei propri contenuti di pensiero che l'epoca del «nuovo» indirizza verso il passato: la
presunta «identità sostanziale» tra le epoche è da considerarsi causata dalla risposta del nuovo
storico, che si proietta a posteriori e non ad un movimento dei «contenuti di pensiero» epocali, che
dal passato si inverano nel presente epocale, come «il teorema della secolarizzazione»
nell'interpretazione di Blumenberg sembrerebbe indicare.
Si fa dunque evidente -- come ho indicato più volte analizzando le svolte epocali, ed anche in
questo caso -- come una possibile e apparente secolarizzazione nascondi per Blumenberg un
processo di rioccupazione del senso del passato ad opera del «nuovo» presente storico.
2. La teoria della ricezione del mito: terminus ad quem e
terminus a quo
2.1. Per una ri-occupazione razionale e moderna del passato: terrore e poesia del
mito:
I due presupposti della crisi del senso dell'epoca medievale
La risposta razionale che provoca la nascita dell'età moderna è per Blumenberg una funzione vitale
poiché consente la possibilità di dare un senso al mondo in modo analogo all'attività funzionale di
significatività del mito che creando distanza dallo spaesante primordiale, rende il mondo familiare,
vivibile. Blumenberg, in una delle pagine iniziali di «Elaborazione del mito», avvicina il significato
dell'assolutismo della realtà primordiale all'assolutismo teologico tardo medioevale occamistico. La
nascita del mito e l'originarsi dell'età moderna corrispondono ad una presa di posizione contro
l'inquietudine di una mancanza d'ordine del mondo in contesti epocali diversi, essi sono una
reazione vitale dell'uomo da cogliersi nella ricerca di nuove condizioni d'esistenza maggiormente
favorevoli.
L'uomo, per Blumenberg, si trova nelle proprie condizioni esistenziali:
sempre al di qua dell'assolutismo della realtà [primordiale], ma non acquista mai completamente
la certezza di aver raggiunto il punto critico della propria storia oltre il quale la relativa
predominanza della realtà [l'assolutismo della realtà e cioè quella situazione iniziale in cui «l'uomo
quasi non controllava le condizioni della propria esistenza»] sulla coscienza e sul destino si è
capovolta nella supremazia del soggetto.49
Blumenberg segue la riflessione:
Non c'è che marchi questa svolta, questo point of no return. A coloro che si consideravano come
beneficiari della scienza e del rischiaramento che avevano già definitivamente sorpassato questo
punto, persino il Medioevo sembrava rientrare nel tipo di un mondo primitivo di forze non
dominate e non dominabili, che non erano nient'altro che nomi e destinatari dell'impotenza. Ciò
che retrospettivamente fece apparire oscuro il Medioevo, dopo l'atto di fondazione dell'età
moderna, era l'assolutismo teologico.50
L'«assolutismo della realtà» è messo, da Blumenberg, in relazione analogica all'«assolutismo
teologico» «l'atto di fondazione dell'età moderna» si configura come risposta razionale di
«rischiaramento» rispetto all'assolutismo teologico medievale che appare come «un mondo
primitivo di forze non dominate e non dominabili» come in un certo senso il primordiale
assolutismo della realtà.
Grazie a questa analogia tra i due assoluti postulata da Blumenberg, Wetz ha potuto individuare,
nella contrapposizione tra inaffidabilità del mondo in balia dell'arbitrio divino e autoaffermazione
dell'uomo attraverso le prestazioni della tecnica e della scienza che pongono a distanza
l'immediatezza di un mondo del tutto noncurante delle esigenze umane, il dispiegarsi della
medesima idea bipartita sottesa nella capacità di distanziamento del mito nei confronti
dell'assolutismo della realtà iniziale.
L'età moderna si origina per Blumenberg attraverso una risposta ri-occupazionale nei confronti
dell'assolutismo teologico del nominalismo occamistico: la nascita della modernità è determinata
da una necessità interna al processo storico e cioè dalla crisi del senso dovuta all'autocatalisi del
sistema di interpretazione del mondo dell'epoca tardo medievale considerata come epoca di «un
mondo primitivo di forze non dominate e non dominabili»:
la formula secondo la quale il Creatore non avrebbe compiuto la sua opera ad altro fine se non a
quello di dimostrare la propria potenza escludeva totalmente l'uomo dalla determinazione del
senso del mondo.51
La riflessione storica di Blumenberg individua come il sistema ri-occupazionale dell'età moderna,
necessitato dalla «perdita di ordine» del mondo e dalla «scomparsa di telos» causati dal dio del
nominalismo tardo medievale, dia una risposta di assoluto contenuto razionale per destabilizzare
l'angoscia provocata da quel senso di spaesamento specifico che corrisponde all'assolutismo del dio
nominalistico di Occam caratterizzato da una volontà totalmente arbitraria nei confronti
dell'uomo.
La crisi del senso provocata dall'interpretazione nominalistica del mondo si realizza per
Blumenberg, essenzialmente attraverso due presupposti:
il primo è che «la preoccupazione per la salvezza venne largamente sottratta alla disposizione di sé
da parte dell'uomo, alla sua libera decidibilità e meritabilità».52
La teoria nominalista della predestinazione, produsse una teologia basata su un'imperscrutabile
volontà divina, che riconduceva la legittimazione e la grazia esclusivamente al decreto di elezione
deciso dalla divinità e non alle opere dell'uomo. Una volta spostata la condizione della salvezza
dalle opere alla trascendenza di una predestinazione assoluta, essa non era più in grado di fornire
all'uomo il suo interesse, di dare al suo agire una direzione;
il secondo presupposto è che «il mondo come Creazione non si poteva più riferire, in quanto
espressione della provvidenza divina, all'uomo[...]era diventato [il mondo] ermeneuticamente
inaccessibile, per così dire muto. In tal modo l'atteggiamento di fronte al mondo non era più
precostituito a partire dall'oggetto.»53
Questo presupposto coinvolge la possibilità conoscitiva dell'uomo, chiaramente Blumenberg indica
che il mondo nel sistema gnoseologico nominalistico era diventato «ermeneuticamente, muto», ciò
vuol dire che gli universali non sono più l'essenza intelligibile all'interno delle cose e l'uomo grazie
a questa perdita di pre-comprensione del reale non può conoscere i concetti astraendoli dalle cose.
Ciò cui si assiste grazie a questi due presupposti indicatori di una crisi è la perdita di un ordine
teleologico in cui l'uomo possa inserirsi:
La perdita di ordine come ragione per dubitare di una struttura della realtà riferibile all'uomo è il
presupposto per una concezione generale dell'agire umano, che nei dati di fatto non riscontra più
nulla della cogenza del cosmo antico e medievale e perciò li considera per principio disponibili. 54
La «perdita di ordine» è caratterizzata da Blumenberg come epoca del dio pragmaticamente morto:
questa produce così l'autoaffermazione umana, le impone la propria svolta epocale:
l'età moderna non cominciò come epoca del dio morto, ma come epoca del dio nascosto, del deus
absconditus -- e un dio nascosto è pragmaticamente pressoché un dio morto. La teologia
nominalista fu allarmata da un rapporto dell'uomo col mondo la cui implicazione avrebbe potuto
essere formulata nel postulato che l'uomo debba comportarsi come se Dio fosse morto.55
Il nominalismo tardo medievale, spiega Wetz, «con il suo Dio arbitrario ha lasciato l'uomo in balia
di una tale indifferenza e mancanza di riguardi da parte della natura e lo ha gettato in una tale
insicurezza metafisica, che egli stesso [l'uomo] deve ora porsi il compito di curarsi della propria
esistenza»:56
Privato dall'insondabilità divina delle sue garanzie metafisiche per quanto riguarda il mondo,
l'uomo si costruisce un contromondo di razionalità e disponibilità elementari. 57
È l'assolutismo teologico che percepito dall'uomo come un sistema d'insicurezze metafisiche, sia
per la salvezza sia per la conoscenza, desta nell'uomo una possibile inquietudine circa le proprie
condizioni di vita.
L'età moderna nasce, per Blumenberg, come sistema interpretativo del mondo in opposizione
dialettica positiva contro il sistema angosciante dell'assolutismo teologico nominalistico: «Il
nominalismo è un sistema di estrema inquietudine per l'uomo di fronte al mondo»:58
l'assolutismo teologico della filosofia del medioevo è caratterizzabile come l'estremo del prendersi,
come l'alienazione di tutte le preesistenti assicurazioni di una posizione privilegiata, fondata nella
Creazione all'interno dell'ordine del reale. Per questa perdita di ordine.59
Blumenberg coglie nell'età moderna il filosofo che ha convertito «l'alienazione di tutte le
preesistenti assicurazioni» in un metodo formulato come riduzione del processo del dubbio
all'acquisizione del nuovo fondamento assoluto nel soggetto e nel suo cogito.
Il procedimento dubitativo di Cartesio converte l'insicurezza come alienazione da tutte le
preesistenti assicurazioni conoscitive del passato in un metodo fondato sull'autoconoscibilità del
soggetto assoluto:
Nel punto della sua estrema radicalizzazione, la provocazione dell'assoluto trascendente si
capovolge nella scoperta dell'assoluto immanente [del cogito].60
Cartesio e l'idea del genius malignus
L'intensificazione estrema (provocata intenzionalmente) dell'alienarsi da tutte le preesistenti
assicurazioni di conoscibilità, ovvero il metodo dubitativo, si svolge nell'idea del genius malignus
all'interno delle Meditationes, dal quale, spiega Blumenberg, Cartesio «deriva la necessità di una
nuova e incondizionata assicurazione della conoscenza».61
L'ipotesi del genius malignus, quello spirito cosmico potente e astuto che inganna la credulità
costitutiva dell'uomo tendendogli trappole, alle quali «l'uomo può almeno opporre lo sforzo,
situato nell'ambito della libertà umana, che è capacità di astenersi dal giudizio»:62
Le Meditationes di Cartesio hanno non solo la funzione di rappresentare un ragionamento
teoretico nel quale determinate difficoltà vengono risolte argomentatamente ed eliminate una volta
per tutte; esse tendono piuttosto a inculcare un atteggiamento, che diviene abituale:
l'atteggiamento della obfirmata mens, del non poter dimenticare i pericoli dello spirito umano
provenienti dalla sua labilità nel giudizio e nel pregiudizio.63
Cartesio crea l'impressione nelle Meditationes di essersi liberato facilmente delle opinioni e dei
pregiudizi della tradizione, e di aver formulato autonomamente un metodo sicuro per la
conoscenza. Ma nell'ipotesi del genius malignus che è da considerarsi un esperimento della ragione
con se stessa, (l'ipotesi stessa del genius malignus è da cogliersi per Blumenberg
com'esasperazione estrema dell'insicurezza conoscitiva provocata dal dio arbitrario del
nominalismo tardo medioevale) Cartesio maschera l'insicurezza della conoscibilità com'esercizio
scelto liberamente dal proprio pensiero.
Nel genius malignus di Cartesio si annida per Blumenberg, il deus absconditus, il dio arbitrario del
nominalismo occamistico:
Trasformando l'assolutismo teologico dell'onnipotenza nell'ipotesi filosofica dell'ingannevole
spirito universale, Cartesio rinnega la situazione storica alla quale è legato il suo approccio e ne fa
la libertà metodica delle condizioni scelte arbitrariamente.64
Gli argomenti del dubbio e del genius malignus non appaiono come elaborazione e reazione della
situazione storica moderna all'inquietudine e alla mancanza di assicurazione conoscitiva causati
dall'assolutismo teologico occamistico, ma come un esperimento che la ragione compie con se
stessa, il dubbio ed il genius malignus sono voluti e intenzionalmente creati da Cartesio e non
imposti dal passato.
L'ipotesi dell'impossibilità generale della conoscenza con le sue inquietudini medievali viene
confutata: Cartesio si oppone alla tradizione medievale sviluppando alle estreme conseguenze il
disagio e la pericolosità dell'assolutismo teologico mascherandolo come esercizio sviluppato
autonomamente dalla ragione teoretica con se stessa, così che il contrappeso poté essere
individuato nell'immanenza assoluta della ragione.
Si fa chiaro come nell'interpretazione di Blumenberg, Cartesio ri-occupi, con propri contenuti di
pensiero autonomi, la posizione dell'inquietudine nominalistica con un esercizio di pensiero volto
alla sicurezza conoscitiva.
In tal modo, spiega Blumenberg, Cartesio ha «rivendicato l'inizio assoluto dell'età moderna» come
indipendente dal risultato del Medioevo, idea che sarà ripresa dall'illuminismo nella sua
autocoscienza:
In tal modo è rivendicato l'inizio assoluto dell'età moderna come tesi della sua indipendenza dal
risultato del Medioevo, tesi che sarà ripresa dall'illuminismo nella sua autocoscienza.65
L'inizio assoluto rivendicato dall'età moderna è una risposta ad una crisi del senso nei confronti di
quel passato che come somma di pregiudizi rappresenta il buio su cui può splendere «la nuova
luce» del processo di rischiaramento della ragione cartesiana ed illuminista:
L'inizio assoluto che inaugura la storia vieta a se stesso di avere una storia -- e ciò significa: non
solo essere tesi primordiale, ma anche risposta ad una crisi. In Cartesio vi è storia solo in quanto
somma dei pregiudizi[...] Le caratteristiche dell'autoaffermazione vengono occultate a favore
dell'evidenza di una generazione spontanea; la crisi scompare nel buio di un passato che può essere
stato lo sfondo per la nuova luce.66
La ri-occupazione razionale nei confronti del mito: Il «terrore» per l'Illuminismo e la
«poesia» per il Romanticismo
Come ho indicato precedentemente il medioevo sembrava rientrare, per «l'atto di fondazione
dell'età moderna», in «un mondo primitivo di forze non dominate e non dominabili».67
L'originarsi dell'età moderna si costituisce nel modo «di aver fatto piazza pulita -- o in ogni caso di
poterlo fare in breve -- dei miti e dei dogmi, dei sistemi concettuali e delle autorità, riuniti tutti
sotto la categoria del "pregiudizio"»:68
Razionale era ritenuto ciò che rimarrebbe quando la ragione, come strumento per scoprire le
illusioni e le contraddizioni, avesse asportato i sedimenti che erano stati accumulati da scuole e
poeti, da maghi e sacerdoti, insomma: da seduttori di ogni genere. «Ragione» erano ritenute
ambedue le cose: lo strumento della distruzione critica e il residuo portato alla luce[...] Questa fu
l'applicazione ritardata agli sforzi dell'illuminismo della metafora della cipolla sbucciata.69
La ragione naturale degli illuministi concepisce, con la categoria cartesiana del «pregiudizio»,
un'epoca che essa si è lasciata definitivamente alle spalle grazie alla capacità del rischiaramento
operato dalla propria razionalità illuminante.
Gli illuministi rilevavano all'interno della categoria del «pregiudizio» sia i «miti» sia i «dogmi». Più
precisamente, ci spiega Blumenberg, gli illuministi consideravano i miti come una sorta di ragione
arcaica:
[la] concezione illuministica secondo cui i miti sono storie dell'infanzia del genere umano, e quindi
sono si anticipazioni del futuro e più solido affare della teoria, ma commisurate alla fragilità di una
ragione non ancora illuminata.70
Gli illuministi, per Blumenberg, concepiscono il mito iniziale in cui vi è la ragione naturale non
illuminata nella prospettiva del terminus ad quem di una razionalità progressivamente
illuminantesi nel tempo: «Il rischiaramento progressivo e inarrestabile su cui essa si fonda [la
ragione] deve avere la sua origine in ciò che le si contrappone, per poter dimostrare come proprio
su di esso, e in virtù di esso, possa esercitarsi la vocazione rischiaratrice e salvifica della ragione».71
Alla luce di ciò gli illuministi consideravano il mito iniziale proprio come la loro stessa ragione
teoretica si autointerpretava:
Gli illuministi supponevano che i miti non fossero nient'altro che risposte inadeguate agli assillanti
interrogativi della curiosità umana di fronte alla natura.72
La teoria degli illuministi, riguardante l'origine del mito, vedeva all'interno di esso un insieme di
risposte a domande, proprio come la ragione si concepiva autointerpretandosi come ragione
teoretica concepita come sistema di domande e risposte.
Ho verificato precedentemente analizzando il sistema ri-occupazionale della filosofia classica, nei
confronti del mito, come la stessa proietti a posteriori la propria immagine teoretica ri-orientando
il sistema della significatività del mito a propria immagine e somiglianza e questo era dovuto come
risposta di rischiaramento rispetto alla crisi del senso mitica. Il sistema d'interpretazione del
mondo illuministico sembrerebbe effettivamente comportarsi come il sistema ri-occupazionale
della filosofia classica, in quanto, come ho indicato precedentemente, Blumenberg non è disposto a
considerare il mito come risposta arcaica di una presunta domanda operata da una ragione
naturale non illuminata. I miti per Blumenberg non rispondono a domande.
Vi sono, nella fenomenologia della storia di Blumenberg, forti probabilità di considerare come i
sistemi ri-occupazionali che si allineano nelle svolte epocali ri-orientino a posteriori il significato
della storia riducendola alla propria «immagine del mondo» in una sorta d'unità sostanziale.
Questa probabilità può essere avvalorata per quanto riguarda la questione dell'origine del mito
concepita dai romantici e dagli illuministi:
Due concetti antitetici consentono di classificare le concezioni relative all'origine e al carattere
originario del mito: poesia e terrore.73
Secondo questi due concetti antitetici, l'uno romantico e l'altro illuminista: «all'inizio si trova o
l'esuberanza immaginativa dell'appropriazione antropomorfa del mondo e dell'accrescimento
teomorfo dell'uomo, oppure la nuda espressione della passività dell'angoscia e del terrore,
dell'ammaliamento demoniaco, dell'impotenza magica, della dipendenza assoluta».74
L'antitesi di poesia e terrore applicati all'origine del mito è il riflesso, per Blumenberg, di una
generale concezione della storia in cui s'individuano due proiezioni a ritroso che dal presente
occupano con i loro significati il senso dell'origine del mito, determinandolo a propria immagine:
Poesia o terrore come realtà originaria del mito -- questa antitesi è fondata su proiezioni a ritroso:
[per i romantici] muse, ninfe e driadi, come accattivanti ed esaltanti animazioni della natura, del
paesaggio dirigono lo sguardo su una situazione iniziale libera e amena; [per gli illuministi] la
gorgonie Medusa, le Arpie e le Erinni fanno arguire una coscienza torturata della realtà e della
posizione dell'uomo in essa.75
Ambedue queste «proiezioni a ritroso» dell'origine del mito fraintendono, secondo Blumenberg, la
possibilità che il mito non abbia un inizio assoluto, in quanto il mito è sempre da considerarsi come
terminus a quo di un'origine che rimane immemoriabile.
Il mito stesso crea la possibilità di una sua dimenticanza nel tempo in quanto come ribadisce più
volte Blumenberg, i mitologemi più antichi a noi pervenuti presuppongono il lavoro di più antichi
miti che, in un'origine che rimane a noi inconoscibile, hanno posto nel «passato remoto» del nostro
passato a distanza l'assolutismo della realtà primordiale. Concepire qualcosa come l'origine del
mito significa non tenere conto che esso giunge a noi attraverso il lavoro della ricezione.
Il mito nella prospettiva della teoria della ricezione significa che non ci si deve più interessare di ciò
che il mito possa essere stato originariamente o in una determinata fase iniziale della storia: «Il
mito è sempre già passato in ricezione»:76
il mito variato e trasformato dalle sue ricezioni, il mito nelle configurazioni in cui si rapporta o che
consentono di rapportarlo alla storia merita di essere tematizzato già per il fatto che questa
tematizzazione include le situazioni e i bisogni storici che erano interessati dal mito e predisposti a
«lavorare» su di esso. [...] il mito fondamentale non è ciò che esiste all'inizio ma ciò che resta alla
fine, ciò che fu in grado di soddisfare le ricezioni e le aspettative.77
La teoria della ricezione del mito c'indica che il mitologema ha subito una sorta di prova selettiva
della sua capacità di conferire senso al mondo: i più antichi mitologemi giungono a noi attraverso
una selezione delle sue forme che resistettero alle aspettative di senso nel tempo.
L'instaurazione del predominio del logos non avviene nel senso di una continuità con il mythos
originario, che va poi progressivamente illuminantesi, ma vi è una interna frattura all'interno della
continuità evolutiva dal mito al logos: «il logos viene al mondo attraverso la rottura col mito»:78
Hans Georg Gadamer ha individuato attraverso una riflessione riguardante «lo screditamento del
pregiudizio ad opera dell'illuminismo» come il romanticismo abbia in comune con l'illuminismo
un'essenziale filosofia della storia fondata nello schema del superamento evolutivo del mito nel
logos:
Ciò che si esprime in modo particolarmente chiaro nello schema di filosofia della storia che il
romanticismo ha in comune con l'illuminismo, e che proprio attraverso la reazione romantica
contro l'illuminismo è assurto alla condizione di una premessa indiscussa: lo schema del
superamento del mito nel logos. Il presupposto nel quale questo schema acquista la sua validità e
quello del progressivo «disincantamento» del mondo. Esso pretende di rappresentare la legge
stessa di sviluppo della storia, e proprio perché[il romanticismo] valuta negativamente questo
processo, il romanticismo lo assume come ovvio.79
In fondamentale contrasto dialettico con l'illuminismo e con il suo «perfezionismo» evolutivo «che
vede tutto in termini di liberazione dalla "superstizione" e da pregiudizi del passato, le epoche
primitive, il mondo mitico»:80 tutto questo per il romanticismo, ci spiega Gadamer, risulterà
l'estremo fascino della «società di natura» originaria.
Naturalmente in termini blumenberghiani il rischiaramento dell'illuminismo nei confronti dei
pregiudizi del passato è da mettersi in relazione al generale problema della nascita dell'età
moderna, che è da considerarsi una fondamentale risposta razionale rispetto all'inquietudine e alla
destabilizzazione della conoscenza e del senso del mondo operati nel tardo medioevo dalla teologia
nominalistica di Occam.
L'età moderna come indica più volte Blumenberg è risposta ad una crisi, che si direziona nella
soluzione di domande inevase e aspettative di senso medievali sul mondo, a partire da propri
contenuti di pensiero secondo una logica ermeneutica di domanda e risposta.
Blumenberg ha rilevato un fondamentale nesso dialettico e razionale tra il romanticismo e
l'illuminismo all'interno dell'età moderna. La consapevolezza illuministica e cartesiana di
rappresentare nelle proprie intenzioni razionali la nuova epoca «in forma pura» contro i preguidizi
della tradizione è stata contraddetta dal romanticismo con il suo ritorno ai secoli oscuri del
passato:
Il Romanticismo e lo storicismo avevano cominciato a ricondurre i secoli che vanno dalla fine di
Roma alla fine di Bisanzio nell'unità di una concezione storica: in fondo essi esaudivano in tal
modo l'ardente desiderio segreto nutrito già dall'umanesimo di ridurre sempre più la distanza tra
l'Antichità e il suo rinnovamento e di dimostrare che Il Medioevo era stato solo un casuale
incidente librario; ma esaudivano anche l'altrettanto inconfessato bisogno di ogni razionalismo di
recuperare la ragione come istanza prevalentemente presente nella storia umana dopo il polemico
abbozzo in bianco e nero datone dall'illuminismo.81
In questo modo, aggiunge Blumenberg, «tutta la storia europea cominciò ad apparire come
inizialmente voleva apparire esclusivamente l'età moderna.»82 In questo movimento antitetico tra
due diversi sistemi di pensiero moderno si coglie implicitamente il movimento ri-occupazionale
dell'età moderna che riconduce il senso storico del passato alla propria immagine del mondo.
Le riflessioni di Blumenberg, sin qui analizzate, indicano come, sia il sistema ri-occupazionale
della filosofia classica sia il sistema ri-occupazionale dell'età moderna si comportino in modo
analogo occupando il senso del passato con la propria immagine del mondo. Tutti i sistemi rioccupazionali analizzati nella blumenberghiana fenomenologia delle ri-occupazioni, (anche il
sistema ri-occupazionale riguardante la svolta della dogmatica patristica nei confronti della gnosi e
della filosofia greca) ri-orientano il senso del passato in una possibile unità di sostanza a partire da
nuovi contenuti di pensiero dovuti alla risposta del nuovo storico. Ed è in questo, come ho indicato
più volte, che una possibile secolarizzazione come teorema ermeneutico che interpreta (secondo
Blumenberg) la continuità dei contenuti di pensiero in un movimento degli stessi che dal passato
s'inverano nel presente epocale, nasconda una ri-occupazione del presente (in vigore nella storia)
con il proprio senso storico epocale verso il passato. L'imbarazzo dell'identità dei contenuti epocali
che si trasmettono da un'epoca all'altra è probabile che sia da attribuirsi, nella riflessione storica e
nell'interpretazione di Blumenberg, alle risposte ri-occupazionali dei presenti storici, tematizzate
nelle diverse svolte epocali della storia a partire dalla prima occupazione ad opera del mito come
presa di distanza e di senso nei confronti dell'assolutismo della realtà iniziale.
2.2. Cassirer ed il terminus ad quem
Cassirer non sfugge, per Blumenberg, ai problemi di quanti hanno inteso formulare una «teoria
dell'origine del mito».
Nell'ambito del neokantismo si sviluppa una filosofia del mito, la teoria delle forme simboliche che
attraverso il suo concetto di simbolo consente di correlare i mezzi espressivi del mito con quelli
della scienza in un rapporto irreversibile in quanto il mito si trova «coll'irrinunciabile presupposto
della scienza come terminus ad quem».83
Il mito si posiziona, nella concezione di Cassirer, in una linea di continuità evolutiva verso la
scienza: «Il mito è reso obsoleto da ciò che viene dopo di esso; la scienza»:
Questa conoscenza anticipata dal punto di vista della presunta conclusione[la scienza] esclude la
possibilità di tematizzare il mito come una forma di elaborazione della realtà dotata di una propria
legittimità. Esso [il mito] è piuttosto il vicario di una ragione che non può accontentarsi di questa
prestazione, e che alla fine la giudica con le categorie con le quali la scienza comprende se stessa
nello sta dio della sua maturità.84
Blumenberg vuole salvaguardare la legittimità del mito per quanto riguarda il proprio contenuto di
pensiero, esso non può essere riconosciuto come una sorta di «prestazione arcaica della ragione».
Il considerarlo in questi termini deriva dalla ragione moderna e dalle sue categorie comprensive
che lo orientano ermeneuticamente a propria somiglianza.
Cassirer «sbaglia», spiega Blumenberg, «quando descrive ciò [il mito] come "una specie di
ipertrofia dell'istinto causale e del bisogno causale di spiegazione"».85
Pensato nella prospettiva cassireriana del terminus ad quem, e che presuppone «il mito[...]già
segretamente in cammino verso la scienza»86 attraverso la propria «prestazione arcaica di
ragione», il mito deve giustificarsi assumendo «che il mito abbia dato innanzitutto e soprattutto
risposte a domande, invece di averle implicitamente rifiutate raccontando delle storie.»87
Il mito, pensato in questo modo, è una forma simbolica che come la scienza e l'arte conferisce un
ordine al mondo empirico e che storicamente tende verso di loro sul cammino del perfetto e
compiuto dispiegamento della ragione, in quanto all'interno della forma simbolica del mito vi è
presente una ragione alla ricerca di una spiegazione arcaica dei fenomeni, fondata su un sistema di
domande e risposte proprio come la ragione cassireriana si concepisce.
Di nuovo, con la filosofia delle forme simboliche di Cassirer, appare il problema già rilevato da
Blumenberg a proposito dell'illuminismo, il mito «è la definizione di un'epoca di cui la filosofia
della storia [illuminata] deve decretarne la provvisorietà» come «l'illuminista si era interrogato su
ciò che non deve più ritornare [il mito], e lo aveva provvisto di tutti gli attributi dell'oscurità e del
terrore».88
Si tratta, per Blumenberg, d'individuare una diversa concezione qualitativa e sostanziale del mito,
rispetto a coloro che interpretano il mito come un'arcaica «spiegazione eziologia» dei fenomeni.
La prestazione originaria del mito deve essere colta come terminus a quo: come un
«allontanamento da» anziché «avvicinamento a»:
io credo che per percepire la qualità originaria della prestazione del mito, esso debba essere
descritto dalla prospettiva del terminus a quo. Il criterio dell'analisi della sua funzione diventa
allora l'allontanamento da, e non l'avvicinamento a.89
Il mito «ci sta di fronte solo nelle forme della sua ricezione, non c'è un privilegio di determinate
versioni in quanto più originarie e definitive».90
Il mito per Blumenberg non è una forma simbolica, ma anzitutto una «"forma in generale" della
determinazione dell'indeterminato. Questa formula dall'apparenza astratta va intesa in senso
antropologico, non gnoseologico».91
La forma del mito non rientra in una problematica di tipo gnoseologico alla quale rimanda il
concetto cassireriano di forma «simbolica», ma la «forma in generale» del mito è da intendersi
come un «mezzo dell'autoconservazione e della stabilità nel mondo».92
Il rifiuto della teoria dell'origine del mito che Blumenberg oppone a Cassirer e agli Illuministi si
concretizza nel presupposto che il mito non è da considerarsi una risposta a domande, ma né è
l'elusione definitiva. Poiché è semplicemente un racconto, il mito, rifiuta le domande «raccontando
delle storie».
L'intendere il mito come risposta arcaica a domande è la tarda prestazione della teoria che vuol
ricavare dal mito la propria autoaffermazione: per ricavare la propria potenzialità «rischiarante» la
ragione teoretica deve contrapporsi dialetticamente contro l'oscuro, il non illuminato. Il rapporto
tra mito e razionalità è da cogliersi attraverso il processo della ri-occupazione.
La razionalità ri-occupa la posizione-luogo precedentemente occupata dal mito. In questo modo la
teoria razionale conquista la propria stabilità, giacché si pone a distanza da ciò che considera come
termine negativo e non illuminato, il mito.
Che il mito e la razionalità siano caratterizzati dalla radice comune della distanza non è da
considerarsi un elemento che consente un passaggio evolutivo dall'uno all'altra:
Ambedue i fenomeni, quello dell'eliminazione dei mostri del mondo e quello delle figure di
transizione verso l'eidos dell'uomo, devono essere in rapporto con la funzione del mito di creare
distanza dallo spaesante. Lo schema mentale della distanza domina ancora il concetto greco della
teoria come posizione e atteggiamento dell'osservatore imperturbato.93
Blumenberg coglie nella «distanza», la radice di quella teoria da cui evolve la razionalità moderna.
Nella sua incarnazione più pura, l'atteggiamento dell'esser spettatore da una distanza, si trova nella
tragedia greca e questo schema, ci spiega Blumenberg, prepara la strada alla storia concettuale
della teoria. Traendo spunto dall'interpretazione della tragedia greca che ne ha dato il filologo
Jacob Bernays, che ricostruendo il teorema aristotelico sull'effetto della tragedia come Katharsi,
attraverso terrore e pietà, libera lo spettatore dalle passioni che lo coinvolgono grazie agli orrori
rappresentati sul palcoscenico, Blumenberg riconosce l'elemento del contemplare da una
«distanza» che passerà nell'ideale greco della teoria greca:
Sotto un altro aspetto lo stesso avvertimento vale anche per il tanto calunniato paragone di
Lucrezio nel proemio al secondo libro del suo poema didascalico, dove il filosofo[il saggio epicureo]
che contempla l'universo del caso atomistico viene raffigurato nell'uomo che, stando al sicuro su
uno scoglio, osserva un naufragio sul mare, e gode, certo non della rovina degli altri ma comunque
della propria distanza da essa.94
Quando Lucrezio descrive nel De rerum natura il sollievo di chi contempla da una distanza la
tragedia di un naufragio, egli descrive l'imperturbabilità del filosofo che contempla l'universo del
caos atomistico come in un certo senso, ma in un diverso contesto, nella tragedia greca lo
spettatore assiste agli orrori sul palcoscenico. Il sistema d'interpretazione del mondo mitico e la
razionalità della teoria hanno un elemento in comune, la possibilità di creare distanza dallo
spaesante:
La fisica [epicuro] ha assunto per il filosofo la funzione distanziante del mito.95
La distanza è l'elemento che la razionalità preleva dal mito, riconoscendolo come un «principio
antitetico» su cui proclamare il proprio rischiaramento: «il logos viene al mondo attraverso la
rottura col mito [...] Ogni cosa è definita dalla sua distanza dall'inizio».96
La sottostruttura comune al mito e al logos è il prendere distanza dallo spaesante, che si traduce in
una fondamentale funzione di rassicurazione, da assolversi attraverso contenuti di pensiero diversi.
Note
1.
Die Legitimitat der Neuzeit, seconda edizione riveduta e ampliata in volume unico, Frankfurt am Main,
Suhrkamp, 1988 (raccoglie i volumi: I. Sakularisierung und Selbstbehauptung. Erweiterne und uberarbeitete
Neuausgabe von »Die Legimität der Neuzeit«, erster und zweiter Teil, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983 (a
sua volta edizione riveduta della prima edizione separata del volumetto, 1974), II. Der Prozess der theoretischen
Neugierde. Erweiterte und uberarbeitete Neuausgabe von «Die Legitimitat der Neuzeit», dritter Teil,
Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980 (a sua volta, seconda edizione della prima edizione separata del volumetto,
1973), III. Aspekte der Epochenschwelle: Cusaner und Nolaner. Erweiterte und uberarbeitete Neuausgabe von
«Die Legitimitat der Neuzeit», vierter Teil, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982 (a sua volta, seconda edizione
della prima edizione separata del volumetto, 1976)), Trad. it. Di Cesare Marelli, La legittimità dell'età moderna,
Genova, Marietti, 1992. Quest'opera di Blumenberg è l'unica che si presenta in seconda edizione riveduta e
ampliata.
2.
Arbeit am Mythos, frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, edizione italiana e traduzione di Bruno Argenton,
Elaborazione del mito, Bologna, Il Mulino, 1991.
3.
La critica di Blumenberg si rivolge al saggio di Löwith, Meaning in History, edizione italiana Significato e fine
della storia, Milano, il Saggiatore, 1989.
4.
Blumenberg considera «il teorema della secolarizzazione come un caso speciale di sostanzialismo storico, in
quanto il successo teoretico si fa dipendere dalla dimostrazione di costanti nella storia», La legittimità dell'età
moderna, cit. 35. Questo tema sarà argomentato nel capitolo dedicato alla critica di Blumenberg verso i teoremi
di secolarizzazione.
5.
«Assolutismo teologico e autoaffermazione umana» è il titolo della seconda parte della Legittimità dell'età
moderna.
6.
Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 502 e 504.
7.
Ibidem, cit. 71.
8.
Ibidem, cit. 502 e 500-502 e 70.
9.
Hans Robert Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, Bologna, Il Mulino, 1988, traduzione italiana
di Bruno Argenton, vol. II. Domanda e risposta, cit. 82-83. Jauss dichiara che è stato Blumenberg il primo ad
introdurre il concetto ermeneutico di ricezione e la logica di domanda e risposta nel 1957-58, prima di Gadamer
e della sua ermeneutica filosofica della «storia degli effetti» (Wirkungsgeschichte).
10. Ibidem, cit. 71.
11. È questa la tesi principale che cercherò di dimostrare. Blumenberg interpreta i teoremi di secolarizzazione come
una sorta di sostanzialismo storico, quest'ultimo sarebbe per il filosofo la struttura concettuale del procedimento
(del teorema di secolarizzazione stesso) che tende sempre a spiegare il fenomeno considerato fondandolo su
quello che lo precede: «B è A secolarizzato», Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 10.
A questo punto la storia si ridimensiona a movimento univoco tra due poli, nel quale ogni mutamento è sempre
e soltanto mutamento all'interno di un'unità di sostanza, «[...] il successivo [B] diventa di volta in volta possibile
e comprensibile solo presupponendo ciò che l'ha preceduto [A]», Hans Blumenberg, La legittimità dell'età
moderna, cit. 10.
Ora se per Blumenberg i modelli di teoremi di secolarizzazione (non a caso Blumenberg interpreta il modello di
Löwith accostandolo alla filosofia della storia di Hegel, difatti quest'ultimo visualizza il processo storico in modo
evolutivo progrediente dal passato verso il futuro) procedono dimostrando che B è A secolarizzato, la storia dei
«contenuti epocali» sembrerebbe muoversi dal passato (A) verso il presente (B) e poi al futuro dando risalto con
ciò ad una specie di «continuità» che provenendo da un passato (teologico ad esempio), poi si secolarizza
nell'epoca moderna. Il concetto di rioccupazione sembrerebbe invece indicare come quella specie di
«continuità» storica che, per Blumenberg emerge dai teoremi di secolarizzazione, sia da attribuire al movimento
di ri-occupazione del senso e del significato delle svolte epocali, i quali vengono proiettati sull'insieme totale
della storia creando «continuità», ma procedente da B (presente) verso A (passato).
Il presente ri-occupa i luoghi del passato de-formandoli a propria immagine e somiglianza selezionando e riorientando quelle idee cadute nella crisi del senso precedente: è la vita stessa esistentiva il banco di prova dei
contenuti spirituali, essi si adattano o scompaiono in una sorta di evoluzione naturale ma non a sviluppo
progressivo verso l'alto che provocherebbe l'esistenza di idee superiori ed altre inferiori (vedi esempio dell'idea
dell'immortalità dell'anima a p. 8). Questo fenomeno si intensificherà per Blumenberg con l'emergere dell'età
moderna; ed è in questo che consiste la legittimità dell'epoca moderna, concepita nella propria ri-occupazione
assoluta nei confronti di tutto il passato. Il modello di rioccupazione mette in luce le rotture del nuovo, le cesure
delle diverse «continuità» che sono proiettate sulla storia. Per Blumenberg vi è dunque secolarizzazione
apparente perché in ciò si nasconde una rioccupazione.
12. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 74.
13. Hans Robert Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, voll II, cit. 83. La citazione si riferisce ad una
riflessione di Jauss su Blumenberg.
14. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 503.
15. Le citazioni tra virgolette sin qui scritte provengono da Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit.
503.
16. Le «aspettative e i bisogni precostituiti» (vedi cit., nota 6) hanno un doppio significato. Essi sono sia
l'aspettativa e il bisogno di risposte dell'epoca del nuovo che vive la crisi dovuta dall'autocatalisi dell'epoca
precedente; sia un senso pre-orientato che l'epoca del nuovo eredita dalle domande provenienti dalla crisi
dell'epoca precedente: un esempio può essere il caso che ho esposto dell'immortalità.
17. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 25.
18. Ibidem, cit. 32.
19. L'espressione «pre-comprende», così come l'ho utilizzata, significa l'orientamento nella ricerca di senso.
20. Hans Blumenberg, La legittimità dell'epoca moderna, cit. 502.
21. Franz-Josef Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, Hamburg, 1993, di prossima publicazione presso la casa
editrice Il Mulino, Bologna, traduzione italiana di Carlo Gentili. Le citazioni provengono dal capitolo
«Illuminismo senza illusioni con una sobria sensibilità per la perdita».
22. Franz-Josef Wetz, Hans Blumemberg zur Einführung, Hamburg 1993, le citazioni provengono dal capitolo
«Illuminismo senza illusioni con una sobria sensibilità per la perdita». Con l'espressione «immagine del
mondo», Blumenberg designa «quella somma della realtà nella quale e per mezzo della quale l'uomo correla se
stesso a questa realtà, orienta le proprie valutazioni e gli scopi delle proprie azioni, coglie le proprie possibilità e
necessità, si comprende nelle proprie relazioni essenziali». Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna,
cit. 437, nota., 310.
23. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 26.
24. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 26.
25. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 26.
26. Franz-Josf Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, le citazioni sono tratte dal capitolo «Elaborazione del
mito».
27. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 28, per le citazioni precedenti pp. 27.
28. Ibidem, cit. 29.
29. Ibidem, cit. 30.
30. Ibidem, cit. 30.
31. Ibidem, cit. 30 e 31.
32. Ibidem, cit. 59.
33. Ibidem, cit. 60.
34. Ibidem, cit. 189.
35. Ibidem, cit. 231.
36. Ibidem, cit. 75.
37. Ibidem, cit. 210.
38. Ibidem, cit. 146.
39 Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 72.
39. Ho definito il sistema rioccupazionale della filosofia greca come primario in quanto la significatività del mito è
da ritenersi la prima occupazione di senso del mondo. La filosofia greca che segue l'epoca del mito è la prima
rioccupazione.
40. Per Blumenberg l'epos greco di Esiodo e Omero presuppone il lavoro di abbattimento di assolutismo della realtà
di un più antico «lavoro del mito» che per donare «significatività» al mondo si distanzia dall'assolutismo della
realtà. L'epos greco e da considerarsi, dunque come «lavoro sul mito» più antico. Questo lavoro dell'epos è da
individuare come «elaborazione del mito».
41. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 50.
42. Ibidem, cit. 50.
43. Ibidem, cit. 50-51.
44. Ibidem, cit. 51. Blumenberg individua come «la funzione del mito di creare distanza dallo spaesante» si
riproponga all'interno della teoria «Lo schema mentale della distanza domina ancora il concetto greco di teoria
come posizione e atteggiamento dell'osservatore imperturbato», Elaborazione del mito, cit. 154.
45. Ibidem, cit. 51.
46. Ibidem, cit. 51.
47. Ibidem, cit. 51.
48. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 32.
49. Ibidem, cit. 32.
50. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 181.
51. Ibidem, cit. 373.
52. Ibidem, cit. 373.
53. Ibidem, cit. 143.
54. Ibidem, cit. 374.
55. Ibidem, cit. 374.
56. Ibidem, cit. 183.
57. Ibidem, cit. 158.
58. Ibidem, cit. 188.
59. Ibidem, cit. 188.
60. Ibidem, cit. 193.
61. Ibidem, cit. 193.
62. Ibidem, cit. 193.
63. Ibidem, cit. 194.
64. Ibidem, cit. 194.
65. Ibidem, cit. 151 e 152.
66. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, per entrambe le cit. 32.
67. Ibidem, cit. 73.
68. Ibidem, cit. 73.
69. Ibidem, cit. 76.
70. Carlo Gentili, A partire da Nietzsche, Marietti, Genova, 1998, cit. 222-223, la citazione proviene dal capitolo
«critica del mito e critica dell'illuminismo in Hans Blumenberg».
71. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 230.
72. Ibidem, cit. 87.
73. Ibidem, cit. 87.
74. Ibidem, cit. 95.
75. Ibidem, cit. 336.
76. Ibidem, cit. 219.
77. Ibidem, cit. 215.
78. Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1997, cit. 321.
79. Ibidem, cit. 321.
80. Hans Blumenberg, La legittimità dell'età moderna, cit. 500.
81. Ibidem, cit. 500.
82. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, cit. 78.
83. Ibidem, cit. 78.
84. Ibidem, cit. 167.
85. Ibidem, cit. 210.
86. Ibidem, cit. 210.
87. Ibidem, cit. 212 e 90.
88. Ibidem, cit 212.
89. Ibidem, cit. 336.
90. Ibidem, cit. 212.
91. Ibidem, cit. 213.
92. Ibidem, cit. 154.
93. Ibidem, cit. 155.
94. Ibidem, cit. 155.
95. Ibidem, cit. 215 e 45.
Walter Fratticci
La modernità come secondo (e definitivo)
superamento della gnosi.
Hans Blumenberg e la legittimità dell'età moderna
1. La querelle sulla secolarizzazione
Il nome di Hans Blumenberg è frequentemente associato, per viam oppositionis, a quello di Karl
Löwith ed alla vivace controversia sulla secolarizzazione sviluppatasi in Germania negli anni '60 del
nostro secolo. Riprendendo e distendendo in un grandioso scenario storico le intuizioni weberiane
sul processo di razionalizzazione dello spirito moderno, Löwith dette forma in un famoso saggio -significativamente sottotitolato I presupposti teologici della filosofia della storia1 -- ad un ampio
affresco dell'età moderna, in virtù del quale la filosofia della storia veniva raffigurata ed
interpretata quale risultato emblematico del processo di secolarizzazione dell'idea cristiana di
storia della salvezza. In opposizione polemica contro lo storicismo ancora ben radicato, che
individuava il luogo di fondazione del pensiero storico nella cultura del Settecento, intento di
Löwith era invece quello di «mostrare che la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede
biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico».2
Sebbene interesse dell'autore fosse non tanto quello di celebrare nuovi trionfi della fede, quanto
piuttosto quello opposto di far risaltare per contrasto, quale unica alternativa ad un eschaton
sempre in via di venire ma incapace di realizzarsi veramente, la necessità di «ritornare alla teoria
classica di un movimento circolare, poiché soltanto presupponendo un movimento che non ha né
principio né fine la continuità [del processo storico] è realmente dimostrabile»,3 nondimeno la
relazione fra fede biblica e pensiero storico moderno reclamata da Löwith non poteva non venire
percepita come obiezione sufficientemente pesante nei confronti delle pretese di autonomia
normativa della ragione moderna; una ragione peraltro che già pareva vacillare sotto i colpi di altri
agguerriti avversari, tutt'altro che disposti ad accettare il suo incontrastato dominio.
La reazione non si fece attendere e trovò in Blumenberg un convinto protagonista. Come
scandalizzato da quello che aveva tutta l'apparenza di uno scippo della maestà della ragione critica,
egli contestò la tesi di Löwith in un libro fortunato -- fortunato almeno per la icasticità simbolica
del titolo, La legittimità dell'età moderna --,4 con cui opponeva un netto rifiuto ed una ferma
censura della plausibilità teoretica e della affidabilità ermeneutica della categoria di
secolarizzazione. Già il titolo della prima parte dell'opera -- Secolarizzazione. Critica di una
categoria dell'ingiustizia storica -- ne fornisce sufficiente anticipazione.
Che la secolarizzazione sia una categoria dell'ingiustizia storica risulta, a parere di Blumenberg,
dalla sostanziale eterogeneità che essa sconta con il suo explicandum. Col sostegno di essa viene
proposto un percorso culturale che intende ricondurre fatti contesti ed esperienze, aventi tutti il
loro luogo di svolgimento nell'orizzonte della mondanità, ad un non meglio precisato fondamento e
scaturigine non mondani; con ciò lasciando anche cadere una pesante ipoteca sulla spontaneità e
genuinità della cultura -- la cultura dell'epoca moderna -- che ha fatto suo e rivendicato come segno
distintivo e vessillo liberante l'appartenenza ed il radicamento in quell'orizzonte. Ma come si può
pensare, si chiede Blumenberg, che una categoria storiografica possa essere rivestita di uso
esplicativo laddove essa supponga una sorta di dialettica trascendentale della ragione ermeneutica,
vale a dire «qualcosa come uno scambio di mondi, una discontinuità radicale delle appartenenze»5
metafisiche? Come fa il mondo con la sua mondanità, in altre parole, ad essere interpretato da un
concetto, quale quello di secolarizzazione, che trae la sua forza semantica dall'appartenenza e dal
riferimento ad orizzonti di senso semplicemente trascendenti quel mondo stesso? Blumenberg non
sembra disposto ad ammettere, nella pratica ermeneutica, qualcosa come la possibilità di una
eterogenesi dei fini ovvero una "storia degli effetti", per la quale un concetto possa avere valenza
esplicativa e produrre risonanze ermeneutiche anche al di là dei circuiti culturali inizialmente
conformi. Il concetto di secolarizzazione rimanda in definitiva ad un contesto semantico che,
proprio per il suo riferimento fontale alla trascendenza, lo rende improponibile quale principio
interpretativo della realtà mondana, ad esso antagonista. Parlare di un mondo che si è allontanato
dalla sua prima origine divina nasconde quindi una mistificazione ideologica, in quanto omette di
dire che un mondo secolarizzato è tale solo rispetto ad un presuntoincipit trascendente, inadatto,
proprio in quanto trascendente e dunque eterogeneo ad ogni tipologia mondana, a fornire le chiavi
per una lettura filosofica del processo evolutivo di quel mondo. L'utilizzo della categoria di
secolarizzazione sviluppa pertanto una sorta di cortocircuito ermeneutico, che ne rende inutile e
decisamente fuorviante il ricorso.
La linea argomentativa di Blumenberg è chiara. Nella ricerca di una purezza analitica totale,
indifferente a vincoli gödeliani perché capace di autonoma fondazione, egli trova intollerabile l'uso
di categorie le quali ricevano invece il loro senso al di fuori dell'orizzonte ermeneutico di
riferimento. Una categoria ermeneutica, infatti, è provvista di una «solida utilità metodologica»
alla condizione che possa essere utilizzata in funzione esplicativa non solo nei riguardi dei risultati
di un processo storico, ma anche in relazione agli inizi del processo stesso. Essa deve essere in
grado di giustificare la sua necessità. Invece «l'illegittimità del risultato della secolarizzazione
consiste nel fatto che esso non può secolarizzare il processo stesso dal quale è sorto».6
Un mondo secolarizzato è pur sempre un mondo portato a pensarsi come instabile e privo di
certezza, orfano dell'origine perduta, dalla quale pure si sente essenzialmente differente. Un vizio
originario, questo, che impedisce vantaggiosi sviluppi nella comprensione di sé. Accettare una
origine eterologa del processo storico di produzione della sindrome culturale moderna, senza
essere poi in grado di riuscire a ricondurre anche siffatto principio all'interno del quadro normativo
della ragione moderna, tutto questo testimonia palesemente della artificiosità della storiografia
löwithiana. Quello che conta è invece «comprendere la costituzione dell'età moderna», senza far
entrare in campo elementi e processi, sia pure analogizzabili, ma chiaramente allotrii, quali ad
esempio la realtà di un Cristianesimo mondanizzato, cui attribuire la responsabilità della genesi
dell'epoca moderna.7 Tra questa e l'altro si dà infatti un contrasto di fondo non componibile.«Lo
schematismo della trascendenza pone un dualismo della decisione tra possibilità, intenzioni,
direzioni che sussistono contemporaneamente» ed in modo alternativo, tra le quali, quindi, non si
dà effettivamente alcuna trasmutazione o passaggio, sia pur di decadenza.8 In Löwith e nella sua
categoria-cardine di secolarizzazione si nasconde così un residuo di «sostanzialismo storico»,
indimostrato ed inaccettabile, che obbliga a pensare il processo storico della modernità secondo lo
schema di una inarrestabile degenerazione concettuale.9 La critica di Blumenberg è pungente.
Essa tuttavia non riesce a nascondere completamente il tratto metafisico in essa latente; un tratto
che piega verso l'opposizione logica assoluta di concetti mutuamente esclusivi una processualità
storica che non si lascia ingabbiare da vincoli preformati. Ciò che, come non mondano, è
trascendente, non può venir utilmente connesso a ciò che, come mondano, trascendente non è -questa verità logica potrebbe anche non essere una verità effettuale. E questo almeno in un senso,
quello cioè per il quale l'abituale confidenza in sé del pensiero, conquistata e pienamente
giustificata dalla cogenza dei suoi ragionamenti, rende questo insensibile a fronte di eventi che
sfuggono, perché originari, alla ferrea necessità, dal pensiero stesso richiesta ed imposta. Accade
così che l'eccedenza di senso del reale, che si svela solo ad uno sguardo meno fuggevole e più
intenso dell'ordinario scambio strumentale con il mondo che abitiamo, si dilegui e rimanga
preclusa alla volontà di potenza conoscitiva del logos.10
Non è perciò sufficiente osservare una contraddizione logica di concetti astrattamente considerati,
per poter concludere alla illegittimità del loro uso coniugato. Argomentare la differenza dei concetti
non dice senz'altro nulla a favore della loro possibile appartenenza ad un comune orizzonte, ma
nemmeno nulla contro. Con più stretto riferimento al pensiero del nostro Autore, occorre dire che
il concreto divenire storico, in cui l'agire libero dell'uomo assume e si innesta nel solco di una
tradizione culturale determinata entro cui soltanto quell'agire è efficace, risulta inaccessibile ai
circuiti teorici di interpretazione costruiti sul pensiero duale della non contraddittorietà. Ora, è
senz'altro fuori discussione che il concetto di trascendenza sia connotato dal rimando ad un
termine atemporale e metastorico, di principio inconciliabile con il concetto temporale e storico di
mondo, o che esso, in alcune varianti teoriche, sia provvisto di una forte carica escatologica
implicante il superamento finale della storia, la quale del mondo costituisce invece il ritmo vitale;
come pure non può essere contestato che l'attesa escatologica sia stata vissuta dal Cristianesimo
delle origini con modalità esistenziali di alternatività all'impegno mondano attivo.
Ma tutto ciò autorizza forse a ritenere prive di senso quelle affermazioni che non accettano siffatta
logica dell'opposizione assoluta? Non ci si dovrebbe lasciar interrogare, senza sovrapporre risposte
preconfezionate, e non si dovrebbe tentare di interpretare, come pure hanno fatto filosofi del rango
di Hegel, affermazioni "impensabili", quali quella dell'incarnazione e umanizzazione di Dio? Non è
assolutamente vero che l'attesa escatologica debba inevitabilmente condurre al disinteresse per la
storia. Si rivela perciò affrettata e semplicistica la conclusione che «l'autoaffermazione [sc. della
ragione] diviene qui la quintessenza dell'assurdità».11
Che l'infinito si opponga semplicemente al finito, osservava Hegel, è solo il segno di una cattiva
comprensione dell'infinito stesso. Quanto di statico permanga in tale posizione non è difficile da
intravedere. Con tali osservazioni, Blumenberg ha di fatto costruito attorno all'affermazione della
legittimità dell'età moderna, per finalità che si sveleranno soltanto più avanti, una impalcatura
metafisica rigida ed impenetrabile, che non lascia più spazi aperti e che è pronta a rimuovere
ulteriori ostacoli imprevisti. Ma non sembra felice operazione di analisi culturale quella che non
sappia anche dar conto di quanto eccede il limite da essa preventivamente tracciato. Né, a
tranquillizzare le intelligenze, è ormai più sufficiente la professione di fede di un'ermeneutica
positivistica, che nega di principio la possibilità dell'eccedenza di senso del dato ermeneutico.
Il fatto è però che, in verità, qui si nasconde altro. Esplicitamente Blumenberg non lo dice, ma lo
lascia chiaramente intuire: la secolarizzazione è il nuovo cavallo di Troia con il quale si reintroduce
entro la cittadella della modernità il pensiero religioso della trascendenza, che la modernità stessa
ha penato ad espellere ed è riuscita finalmente a neutralizzare. Occorre quindi abbandonare questo
«ultimo theologumenon» rappresentato dal teorema della secolarizzazione, che ricondurrebbe
ancora una volta lungo i sentieri del pensiero teologico.12 Si tratta al contrario di riprendere e
riabilitare i moduli teorici dell'illuminismo, i quali conducono alla «secolarizzazione del concetto
stesso di secolarizzazione».13
Troppo facile è annotare che, una volta avviata, la reduplicazione di un concetto diventa poi
inarrestabile e rende impossibile alla fine perfino l'uso minimale del concetto stesso; e che pertanto
quella avanzata ha soltanto l'apparenza di una soluzione. Più interessante è invece sottolineare che
in tal modo il filosofo tedesco si propone quale principale artefice del sotterraneo movimento di
riscossa e di riabilitazione dell'esperienza illuministica, deciso nel rivendicare l'eccellenza della
razionalità umana e convinto nel non riconoscere altri limiti che quelli che quest'ultima sa
riconoscere. Certo, il nostro sa bene che l'illuminismo, come fenomeno storicamente datato e
quindi già realizzato (e non più potenziale ed ancora promettente), non è stato esente da equivoci e
limitazioni che ne hanno frainteso la portata. Il concetto di legittimità non equivale senz'altro a
quello di legittimazione. E però l'uno difficilmente può stare senza l'altro. Occorre pertanto un
rinnovato impianto della modernità«come epoca fondata scientificamente e quindi definitiva»,14
un nuovo inizio capace di una piena«riduzione dei propri presupposti», oltrepassando
l'"insufficiente radicalità del cogito cartesiano» ancora viziata dalla presenza del divino.
Si tratta di riprendere gli assunti teorici di quella stagione culturale, per una più esatta
ridefinizione del contesto, che riporti all'uso mondano della ragione l'onore della fondazione dei
princìpi della modernità; senza di che, la pretesa di legittimità della ragione moderna condurrà
inevitabilmente all'odioso fondamento teologico.
2. La legittimità dell'età moderna
Queste ultime battute invitano all'approfondimento. È evidente, infatti, come dietro la critica della
inefficacia ed illegittimità ermeneutica della categoria di secolarizzazione sia racchiusa una precisa
tesi filosofica.
Benché la polemica sulla secolarizzazione costituisca indubbiamente un leit motif che attraversa
l'intero lavoro di Blumenberg e rappresenti tuttora il cespite maggiore di riferimenti bibliografici
all'opera del filosofo tedesco,15 pure essa non pare definire adeguatamente la intenzionalità
profonda della riflessione storica e teoretica dell'autore. Non è infatti questione della pur non
indifferente valutazione degli esiti di una ricostruzione storiografica né tantomeno del privilegio
accordato ad una diversa prassi ermeneutica. L'opposizione alla categoria löwithiana, in realtà,
contiene tutti i tratti di una funzione paradigmatica; essa si nutre della radicale diffidenza avverso
ogni tentativo intellettuale che osi pretendere di inficiare il diritto della razionalità moderna a
rivendicare l'indipendenza e l'originalità dei suoi assiomi teorici.
Lo sviluppo del ragionamento di Blumenberg introduce così ben presto una seconda sequenza
esplicativa dell'istanza contenuta nella categoria di secolarizzazione; una istanza di cui si riconosce
quindi, sia pure implicitamente, lo spessore ermeneutico. Essa adesso non viene più denegata, ma
solo riscritta in nuovi e più confacenti termini. È sufficiente, a questo fine, richiamare alcuni
percorsi teoretici, contemporanei, se non anche preesistenti, alla diffusione del Cristianesimo, dai
quali sia possibile scavare un più che millenario tunnel, capace di scavalcare i secoli della
occupazione religiosa del mondo umano e condurre direttamente al luogo fontale dell'epoca
moderna. Un fiume carsico percorre secondo Blumenberg la storia; un fiume che non bagna né
feconda altre regioni che non siano quelle cui è destinato.16 Si tratti della concezione stoica di
pronoia o del sorgere dell'idea di progresso, l'approccio è il medesimo. Non di secolarizzazione è
dunque propriamente questione, con il suo improbabile corredo di eterne questioni ed immutabili
proprietà originarie.
"Questo genuino diventar mondo non è una mondanizzazione in quanto trasformazione di
qualcosa di preesistente, ma assomiglia alla cristallizzazione primaria di una realtà sconosciuta in
precedenza».17 E poco più oltre: «Ciò che è accaduto prevalentemente [...] nel processo
interpretato come secolarizzazione può essere descritto non come trasposizione di contenuti
autenticamente teologici nella loro autoalienazione secolare, ma come nuova occupazione di
posizioni divenute vacanti da parte di risposte le cui relative domande non poterono essere
eliminate».18
Una nuova strategia d'attacco sta facendo la sua comparsa. Se la civiltà umana ha saputo sublimare
le proprie energie nel riconoscimento della mondanità del proprio orizzonte culturale, dopo le
incerte e deprimenti vicende dell'intermezzo della sfiducia nelle forze dell'uomo, ciò è dovuto
esclusivamente alla riscoperta, non mediata da alcunché, degli autentici registri antropologici
finora obliterati. Il concetto di «nuova occupazione» deve prendere il posto del processo
erroneamente descritto come secolarizzazione. Come la seconda parte del libro si incaricherà di
mostrare, la «nuova occupazione» o «rioccupazione» di luoghi cosmologici e metafisici ad opera
della modernità dice l'insediamento, nel cuore dell'autocomprensione antropologica, dei nuovi
valori originali al posto degli antichi -- forse un tempo anch'essi autentici, ma comunque ormai
completamente vuoti ed esausti. Esso è un processo irreversibile, in quanto definisce un compito
storico cui la ragione non può sottrarsi.
Si potrebbe osservare che tale processo di sostituzione, per non soffrire di sintomi da indigenza
ermeneutica, dovrebbe dar conto delle motivazioni della sua necessità; dovrebbe far comunque
rimando alle dinamiche dell'esaurimento di precedenti appelli culturali ed al formarsi della
condizione di vacatio nei plessi significativi di dibattito ora nuovamente occupati;19 dovrebbe
insomma rinviare, proprio in quanto processo, al continuum della temporalità, sulla cui base solo
si giustifica quella discontinuità storica rivendicata dalla «nuova occupazione», e non far
semplicemente ricorso ad una supposta e mai tematizzata autenticità delle posizioni, dalla natura
quanto mai controversa, rispetto alla quale impostare ed anche legittimare l'alternanza delle
stesse.20 Ma Blumenberg non pare concedere grande attenzione a siffatte osservazioni.
La difesa della modernità viene anzi affidata proprio ad una rivendicazione di legittimità
dell'atteggiamento moderno, la quale vale tanto più, quanto più decisamente sa richiamarsi ad un
fondo antropologico di autenticità, contrastante ogni ipotesi di derivazione storica e culturale.
Laddove infatti l'interpretazione secolarizzante «deforma l'autenticità dell'età moderna facendone
un relitto, un substrato pagano, un semplice residuo nel ritiro della religione su posizioni
autarchiche di estraneità al mondo»,21 la affermazione della legittimità dell'età moderna consente
precisamente di dichiarare assenti o inconsistenti tutte quelle tradizioni e condizionamenti storici,
che possono in qualche modo ipotecare la libera creatività delle opzioni teoriche e pratiche
sviluppate dalla modernità. Il ragionamento sembra ben costruito. Avendo assunto il compito di
difensore d'ufficio della razionalità moderna da quella che, sotto le mentite spoglie di semplice
descrizione, si è rivelata invece una efficace e plausibile contestazione della sua giustificazione,
Blumenberg ritiene di respingere l'attacco delegittimante mosso dalla tesi della secolarizzazione,
opponendovi l'affermazione della autenticità dei presupposti su cui si è edificata l'epoca moderna.
Tale strategia genera una situazione di asimmetria ermeneutica, per la quale, da un lato, genesi
culturale dei concetti e fondazione teoretica degli stessi vengono a configurarsi quali funzioni
incommensurabili, tali da depotenziare e rendere vano il ricorso a ragionamenti riconducibili alla
tipologia rivendicazionista di presunte proprietà concettuali originarie, quali quelli messi in campo
da Löwith e compagni; e dall'altro, e per conseguenza, obbliga a ricercare il luogo di fondazione dei
concetti stessi all'interno di un ologramma fondamentale, nel quale l'originarietà è il segno
distintivo dell'autenticità. Per tal via, il Cristianesimo si configura come «una religione [che]
rimane, con questo allontanamento dalle proprie premesse [che avevano esaltato le potenzialità
conoscitive dell'umanità], ineluttabilmente debitrice nei confronti dell'uomo di ciò che gli
spetta»;22 una religione, ovvero, che ha smarrito il suo coefficiente originario. Stando così le cose,
il Cristianesimo non ha diritto di avanzare alcuna pretesa di paternità di valori.
Si chiarisce così l'intenzionalità racchiusa nell'impostazione della problematica come di una
questione di legittimità.23 La legittimità come appello autorizzato all'autentico si qualifica come
unica giustificazione possibile della correttezza del processo, che in tale inizio assoluto ha la
propria motivazione. Blumenberg può pertanto affermare: «Come tutti i processi di legittimità
politici e storici, anche quello dell'età moderna sorge per discontinuità».24 Non il processo della
secolarizzazione come tale, dunque, ma il presupposto della continuità culturale tra epoche
storiche, o meglio, la secolarizzazione quale sottoprodotto della continuità storica, questo è quanto
Blumenberg investe del dubbio di illegittimità.
L'asse del discorso si è venuto così lentamente, ma significativamente, piazzando sulla questione
problematica della continuità nella storia. Come sganciato da imbarazzanti eredità esteriori e
protetto da ogni contagio, il mondo reale degli uomini di una data epoca, così come lo pensa
Blumenberg, costituisce una totalità autoreferenziale, finalmente liberata dal bisogno di ricercare i
suoi punti archimedei in un qualsiasi luogo fuori di sé. Se si ha difficoltà ad accogliere tale
situazione e si continua ad andare alla ricerca di attestazioni e conferme giustificanti la correttezza
dell'esperienza culturale della modernità, ciò è dovuto solo ad un malinteso senso storico. «Un
concetto storico sorto dall'apprezzamento della tradizione ci ha vincolati a vedere delle cogenze
soprattutto nella relazione di ogni presente nei confronti del proprio passato e dell'origine dei
valori trasmessigli».25
Ogni verità è completamente ed esclusivamente filia temporis, in un'accezione esclusiva, che però
forse lo stesso Bacone non avrebbe integralmente sottoscritto. Sarebbe sbagliato leggere in tale
posizione un'eco della polemica antistoricistica. A ben vedere, infatti, Blumenberg non nega che
possa venire a formarsi in generale qualcosa come una tradizione storica capace di produrre una
lettura omogeneamente, seppure non deterministicamente, coordinata dell'evoluzione culturale e
temporale di un'epoca -- non si darebbe infatti nessuna epoca; ciò che egli nega è la possibilità della
connessione di queste tradizioni storiche all'interno di un'unica catena culturale, di cui allora
ognuna di essa sarebbe solo un anello, inevitabilmente sorretto dal precedente. Più precisamente, è
il concetto di «debito culturale oggettivo»26 a rivelarsi inadatto. Cerchiamo di capire meglio.
Ciò che è sbagliato, agli occhi di Blumenberg, è la tendenza diffusa a voler ricercare, per ogni
precipitato storico, «il presupposto, necessariamente legato alla pretesa di rivelazione, di un inizio
non motivabile a partire dalla storia, immanentemente privo di premesse».27 È facile così
concludere dalla supposizione di un inizio assoluto alla censura di ogni ulteriore rivendicazione di
novità.
«L'inizio assoluto che inaugura la storia vieta a se stesso di avere una storia».28 Ma come può
accettare siffatta inibizione una «autocoscienza storica che credesse di poter istituire o di aver
istituito ancora una volta, all'interno del decorso storico cominciato con essa, un nuovo inizio che
avrebbe costituito l'età moderna come epoca fondata scientificamente e quindi definitiva»?29
Nuovo inizio si dà solamente nell'esclusione di possibili staffette storiche e culturali. L'ultimo atleta
di una corsa a staffetta, colui che taglia da vincitore il traguardo, conquista non da solo l'ambito
premio. Il testimone che egli porta alla vittoria, lo ha a sua volta ricevuto da altri atleti; non può
dunque escluderli e presentarsi da solo sul podio. Ma se sul podio è con altri, come può ritenersi il
migliore? Come legittimare, in altri termini, la pretesa di definitività, scientificamente motivata,
dell'età moderna senza togliere di mezzo la simile rivendicazione, teologicamente fondata, già
avanzata nella storia dalla religione cristiana? Certo, Blumenberg riconosce che una richiesta «non
è più giusta»30 dell'altra. «Eppure non si tratta di pretese dello stesso tipo», essendo l'una fornita
di una legittimazione solo storica, «gli eventi cristiani dell'anno zero», e l'altra, la moderna, di una
legittimazione filosofica capace di autorizzare più autentici discorsi. Siamo così arrivati al cuore
della ben rotonda verità blumenberghiana.
Come le osservazioni sulla debolezza della lettura illuministica della cultura dell'inganno lasciavano
già bene intravedere, il nostro Autore ha capito che la semplice contestazione di una tesi
storiografica non lascia molti margini di manovra, non essendo risolutiva della questione. L'appello
immediato alla storia insomma è infido e soprattutto equivoco.31 Occorre un più solido supporto. E
questo non potrà essere ricercato che in un aggancio teorico, di natura squisitamente razionale, in
quanto imperniato sulla sola forza di autoaffermazione legittimante della ragione.
3. L'autoaffermazione della ragione
Nel concetto di autoaffermazione si condensano dunque tutte le considerazioni che Blumenberg è
venuto pian piano facendo. Qui conducono i temi della nuova occupazione, della discontinuità,
della legittimità, che Blumenberg sapientemente ha intrecciato: un intreccio che deve ora valere
quale giustificazione piena della razionalità della ragione. Autoaffermazione dice dunque
fondamentalmente autonomia dell'agire razionale, spontaneità della libertà dell'uomo, in cui si
rispecchia la propria illimitata potestà sul mondo. Pur comprendendola al suo interno e
richiamandola costantemente quale suo segreto fondamento, l'autoaffermazione non va
minimamente confusa con la conservazione in vita dell'essere naturale, con la sua mera
sopravvivenza biologica od economica. Ben diversamente, essa viene ad identificarsi con un
progetto d'esistenza che consente all'uomo di determinare la modalità del suo rapportarsi alla
realtà circostante, realizzando le proprie aspirazioni con l'aiuto dell'enorme«potenziale tecnico»
reso disponibile dalla scienza moderna,«il grande strumento dell'autoaffermazione».32
Autodeterminazione assoluta dell'esistenza, sorta di potere surrogato della divinità creatrice -- o
meglio, il potere creatore, rispetto al quale quello attribuito alla divinità dalle religioni è solo
anticipazione illusoria: è quanto si esprime attraverso questa formula. Si comprende allora per
quali motivi l'autoaffermazione possa venire considerata come la vera cellula segreta della
costruzione teoretica blumenberghiana. Non si tratta infatti, semplicemente, di rivendicare per il
soggetto conoscente la rottura del vincolo obbligante dell'universalità della verità,33 in nome della
forza espansiva della ragione individuale; né più solo di passare ad una condizione di potenza
pratica -- sapere è potere -- da ottenere con l'ausilio della tecnica, che mette l'uomo in grado non
soltanto di «mascherare il fattore del bisogno, ma addirittura eliminarlo nell'immanenza del suo
divenire scopo a se stessa»;34 bensì, più radicalmente, si tratta di rintracciare nel codice genetico
della ragione, anzitutto moderna, quei fondamenti che diano consistenza alla pretesa di legittimità
dell'epoca che viviamo, rendendo possibili quei due passaggi prima indicati.
Tali fondamenti consistono, per il versante negativo, come sappiamo, nella dichiarazione di
indifferenza nei riguardi di ogni condizionamento storico, e, per quello positivo, nella dichiarazione
di immanenza alla ragione medesima dei suoi princìpi generativi. La ragione così legittima se
stessa; e fa ciò con un atto di spontaneità assoluta, la cui necessità non è determinata da nessun
inizio, che le imponga di essere, e da nessun fine, che la reclami. «Il suo postulato è quello
dell'autoproprietà della verità tramite l'autogenerazione».35 Un nichilismo leggero, delle sole
matrici infratemporali, circola nel testo di Blumenberg; un nichilismo che non osa guardare
l'abisso che preclude alla vista ogni fondamento alla storicità dell'uomo, ma che si accontenta di
riscrivere i registri dell'anagrafe culturale delle epoche, col disconoscere ogni paternità storica della
creatura partorita dalla ragione moderna. Questa si concepisce allora come «ragion sufficiente»,
sufficiente almeno «a fornire l'autoaffermazione post-medievale», da cui «è sorta l'idea dell'epoca
come autofondazione [...] che inizia dal nulla».36
Ancora una volta l'appello a quella che potremmo definire la sindrome di Munchausen -- che, come
è noto, si alzava da terra tirandosi per i capelli -- viene in aiuto. È così salvaguardato il principio di
autoaffermazione ed imposta la rinuncia alla calma tranquilla della rassicurazione teologica, che il
modello secolarizzato ancora conteneva in sé. Il circolo è chiuso, l'aut-aut ha funzionato di nuovo -non più contro la categoria della secolarizzazione, ma a favore del principio di autoaffermazione. È
pronto, in questo modo, uno schema di pensiero in grado di ripristinare finalmente la maestà della
ragione incrinata dai dubbi löwithiani, mettendola altresì al riparo da indiscrete domande. Alle
quali, però, non si può rinunciare con la stessa facilità.
Sappiamo che l'autoaffermazione della ragione legittima la razionalità dell'epoca moderna. Ma cosa
legittima a sua volta l'autoaffermazione medesima? La ragione che reclama se stessa?37 In altri
termini, dove trova fondamento il ragionamento che affida funzione risolutiva, e quindi
legittimante, alla natura dell'evidenza -- nonostante Blumenberg, cartesiana -- della ragione, con le
sue esigenze di incondizionatezza? Ovvero -- se di fondamento non si vuol parlare, perché si danno
solo fondamenti limitati -- in nome di che cosa si nega alla categoria di secolarizzazione quella
legittimità che poi si attribuisce alla moderna idea di progresso? Forse che basta ritenersi convinto
che a far ciò «siano state esperienze di nuovo tipo di un'ampiezza cronologica tale da rendere ovvio
il salto nella generalizzazione ultima verso l'idea di progresso»?38
Domande indiscrete, le ho sopra definite. O forse meglio, non-domande, domande già da sempre
risolte nell'orizzonte filosofico che Blumenberg mostra implicitamente, ma con grande
convinzione, di abbracciare. Lo ritroviamo nascosto tra le pieghe di un'affermazione tutto sommato
secondaria.
Contestando ad Agostino la responsabilità dello spostamento della questione metafisica del male
sull'asse della fede, Blumenberg osserva che «la giustizia del deus iustus è mantenuta come
premessa, non dimostrata come conseguenza».39 La debolezza della riflessione agostiniana, lascia
intendere Blumenberg, sta tutta nella sua incapacità di dare stabile assetto, in virtù di
un'argomentazione apodittica, dunque rigorosa e rispettosa della legalità del lògos, alle conclusioni
che ne possono derivare. A queste ultime infatti è lecito attribuire validità solamente nella misura
in cui esse vengan fatte risultare attraverso una procedura di pensiero determinata nei suoi moduli;
mediante detta procedura, la dimostrazione diventa funzione veritativa del pensiero. L'attendibilità
e verità dei risultati risulta così garantita dalla cogenza del lògos, che si applica su premesse a loro
volta anch'esse conquistate nel corso di un medesimo processo dimostrativo. È l'approccio
teoretico caratteristico della matura riflessione filosofica greca, che ha condotto la filosofia alla sua
piena identificazione con l'epistème.40 A questa struttura, il pensiero moderno ha aggiunto poi
l'ulteriore rinforzante conferma rappresentata dalla oggettiva forza di penetrazione reale e di
dominio manipolativo della natura, che la razionalità tecnico-scientifica ha saputo produrre. Tale è
dunque la struttura del pensiero epistemico, che ha connotato con tanta forza e successo
l'Occidente.41 Ora, proprio a detta forza e successo Blumenberg si appella per allontanare la
minaccia della problematizzazione della legittimità dell'autoaffermazione della ragione.
Come sempre, dal circolo della petizione di principio si esce solo con un atto di rottura. A render
solido il discorso è allora sufficiente richiamarsi alla pretesa di universalità del logos dell'Occidente,
antico e moderno, che col successo pratico nella dimostrazione teorica dei suoi risultati vede
legittimate le sue presupposizioni. La risposta ai nostri interrogativi viene così a trovarsi nei fatti.
La prova provata della validità del principio di autoaffermazione della ragione sta quindi nel fatto,
storicamente indiscutibile, che la razionalità moderna ha avuto buon successo nel sostituire la fede
religiosa medievale come guida dell'agire teoretico e pratico umano.42
Siffatta argomentazione storiografica, alla cui costruzione Blumenberg dedica i restanti quattro
quinti del volume, non rimane però senza effetti; essa, in realtà, produce una sorta di
sbilanciamento critico dell'impianto complessivo del pensiero. La legittimità dell'età moderna
viene consegnata così, in definitiva, al fatto storico che l'età moderna ha saputo scalzare quella
medievale. L'etica (e la logica) della verità è soppiantata dalla logica (e dall'etica) del successo.
Ecco che, allora, a sostegno del sistema resta solo una variabile indipendente di natura estrinseca,
la cui plausibilità non gode più dei privilegi della rarefatta atmosfera della necessità del puro lògos.
Affidare alla riuscita di un'operazione la giustificazione della validità e necessità dell'operazione
medesima è difatti procedura equivoca e non sempre prova di dubbi. Si può certamente accettare
che il successo sia fattore legittimante; esso però spesso nasconde tra le sue pieghe effetti perversi, i
quali da ultimo costringono a ripensare l'intera vicenda. Non ci si può più nascondere che gli esiti
contemporanei della modernità -- epoca che pure indiscutibilmente ha prodotto un significativo
progresso dell'umanità -- non corrispondono propriamente all'utopia dei suoi padri fondatori.
Sempre più di frequente, l'umanità moderna si trova a paragonarsi all'apprendista stregone che ha
messo in moto un meccanismo che non gli riesce più di controllare; le vicende politiche
novecentesche, che faranno passare alla storia il XX secolo come il secolo dei totalitarismi, o la
questione ecologica stanno lì a dimostrarlo. E l'interrogativo è allora quello di capire se ciò sia solo
un prevedibile errore di guida e di calcolo, o se non sia il delirio dell'impossibile onnipotenza, il
fallimento del sogno prometeico dell'uomo.43
Ma in Blumenberg, come si è detto, non si trova traccia di dubbio; la sua lettura neoepicurea della
vicenda storica non si lascia scalfire da simili incertezze. L'autoaffermazione della ragione
risultante dal moderno rapporto di dominio pragmatico sul mondo legittima l'epoca della ragione
affermante se stessa.
4. La modernità come definitivo superamento della gnosi
Nel quadro teorico sopra ricomposto si inquadra ora, con un'alta valenza dimostrativa, la questione
della gnosi e del suo superamento. Anzi, proprio in questo superamento, che riesce in maniera
definitiva e completa solo alla ragione moderna, Blumenberg vede una delle conferme
maggiormente significative della sua tesi interpretativa. Non fa pertanto meraviglia che in questo
scritto Blumenberg si occupi della gnosi perché guidato da un interesse retorico e fortemente
strumentale. Non lo studio approfondito e dettagliato di essa o la suggestione per il fascino dei suoi
tipici ragionamenti di confine trapelano dalle pagine del volume, ma solo la attenta considerazione
per il ruolo efficacemente giocato dalla gnosi nella ricostruzione dell'avventura della ragione
moderna.
Non per nulla, lo gnosticismo in detta vicenda svolge un'essenziale funzione di cerniera. È infatti
proprio nella battaglia contro la gnosi che il pensiero medievale fu costretto a ricondurre
l'attenzione dell'umanità verso quel mondo, da cui inutilmente aveva tentato di distrarla, e ad
innescare così il circuito del rinnovato interessamento mondano, rinascimentale dapprima e
moderno poi. Allora «la formazione del Medioevo può essere compresa solo come tentativo di
garantirsi definitivamente dalla sindrome gnostica»,44 conclude Blumenberg, riprendendo ed
ampliando una vecchia tesi di Adolf von Harnack. L'affermazione può sembrare sorprendente. Essa
però perde gran parte della sua eccentricità, se la si legge all'interno dello schema brevettato dal
nostro Autore; che resta quello, dalle vaghe risonanze idealistiche, di un processo in definitiva
dialettico che, muovendo dalla naturale adesione alla determinazione teleologicamente
antropocentrica del cosmo, ritorna con la maggiore convinzione possibile all'apprezzamento del
mondo pensato come luogo dell'esercizio della finalità teorico-pratica dell'uomo, dopo aver affidato
la fallace ed estraniata compensazione della dura esistenza mondana all'intervento risolutivo della
divinità onnipotente nella sua trascendenza.
L'orizzonte metafisico greco non poteva essere assunto immediatamente. La fragilità, che lo
gravava, si nascondeva non tanto nel problema della stabilità dell'essere del mondo, quanto
piuttosto in quello dell'insidenza in esso dell'absurdum rationale del male. La radicalità metafisica
della riflessione gnostica fu precisamente quella di evitare il contagio, logicamente improponibile,
della bellezza dell'ordine (kòsmos) con la deformità del male, affidando al «dualismo tra la sfera
della salvezza e il mondo della creazione» il compito della loro necessaria separazione. La
"grandezza" di Marcione si manifesta nella sua volontà di affermare «un dio che non debba
contraddirsi creando l'uomo in modo tale da doverlo poi redimere dalla sua perdizione»; facendo
ciò, al tempo stesso egli «scaricò il suo dio straniero di ogni responsabilità verso il mondo», che
rimase come residuo terrificante, di cui attendere la distruzione finale. La gnosi, dunque, come
demondanizzazione radicale dell'agire e delle aspettative umane. Lottando contro di essa in nome
dell'ortodossia, il pensiero cristiano ha perciò portato con sé, accanto alla difesa dell'unicità e bontà
del Dio creatore e redentore, la correlata riabilitazione del mondo; un mondo, però, che rivendicava
ben altri investimenti e coinvolgimenti, che quelli derivabili dalla sua condizione di natura
creata.45
Da questo «nuovo conservatorismo del cosmo», infatti, la gnosi non venne propriamente superata,
ma solo rimossa. Interiorizzando l'iniquità della creazione con l'imputazione agostiniana del male
alla libertà dell'uomo, il pensiero della cristianità medievale investì infine l'uomo della
responsabilità della eliminazione del male dal mondo. Si rese così necessario il secondo e definitivo
superamento del problema gnostico, che solo il pensiero moderno, mediante l'autoaffermazione
della ragione capace di imprimere il sigillo della propria potenza alla realtà che si oppone ad essa,
sarà in grado di portare a compimento. «Il Medioevo finì quando, all'interno del suo sistema
spirituale, esso non poté più conservare per l'uomo la credibilità della Creazione come provvidenza,
e quindi gli addossò l'onere della sua autoaffermazione».46
Il successo della ragione moderna nel superamento della gnosi, non riuscito al Cristianesimo,
rassicura così la ragione moderna stessa circa la legittimità delle proprie rivendicazioni. Queste
godono di una credibilità assoluta, che la tecnica continuamente rinforza col suo dominio pratico
del reale: l'antico ordine del cosmo, dalla gnosi rovesciato in disordine, viene ora ripristinato,
garantito ed intensificato. Può così essere tranquillamente abbandonata a se stessa la «sindrome
della struttura antropologica della carenza», che a lungo ha inibito le risorse della produttività
umana. Ora «nella crescita della sfera tecnica vive una volontà che affronta consapevolmente la
realtà estraniata, una volontà di conquistare una nuova umanità di questa realtà».47
La gnosi ha veramente lanciato, come da un trampolino, l'autoaffermazione della ragione; una
ragione, come sappiamo, completamente risolta nel pensiero tecnico-calcolante. E la partita
sembra chiusa. In realtà, a ben vedere, qui, come di norma in simili casi, si compie piuttosto la
vendetta della sapienza originaria, che i primi cercatori della verità hanno amato, la vendetta della
filosofia contro i tentativi di snaturarla incatenandola al giogo di comprimenti schematismi. E il
paradosso si ritorce contro lo stesso Blumenberg. Egli riteneva il pensiero della trascendenza
niente più che ingenua e mortificante tranquillizzazione. Non si è accorto però che
l'assolutizzazione della tecnica ha finito per essere un altro tranquillizzante, che induce una
anestetizzazione delle coscienze ancora più potente. Per Blumenberg la tecnica non produce,
perché non lo conosce, il male. Peccato che proprio questo argomento sia improvvisamente balzato
in faccia all'umanità post-moderna.
Note
1.
Karl Löwith Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der
Geschichtsphilosophie, Kohlhammer, Stuttgart, 1953 (tr. it. Significato e fine della storia, Comunità, Milano,
1979). Löwith aveva originariamente pubblicato l'opera negli Stati Uniti con il titolo Meaning in History (The
University of Chicago Press, 1949). Le citazioni del testo sono tratte dall'edizione italiana.
2.
Löwith, 21-22.
3.
Löwith, 236.
4.
Hans Blumenberg, Die Legittimität der Neuzeit, II ed. riveduta e ampliata, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1974,
19661; la traduzione italiana completa è però solo del 1992 (La legittimità dell'età moderna, Marietti, Genova,
1992). In precedenza erano state pubblicate in italiano solo traduzioni parziali di singoli capitoli (cfr. Aut Aut,
222 (1987), pp. 51-58). Alla traduzione integrale sopra citata fanno riferimento, ove non diversamente indicato,
tutti i successivi rimandi al pensiero di Blumenberg.
5.
Blumenberg, 16.
6.
Blumenberg, 24.
7.
Cfr. Blumenberg, pp. 25-32.
8.
Blumenberg, 47-48. Più oltre Blumenberg parla di un «tratto di un dualismo quasi gnostico» per «la rivalità di
istanze, presupposta nel concetto della secolarizzazione» (p. 54).
9.
Blumenberg, 35. E' questo il cuore della critica di Blumenberg alla posizione di Löwith. Il quale «presuppone
come incontestabile un'origine assoluta e trascendente dei contenuti in questione», senza interrogarsi sulle
«differenze che devono aver bloccato ogni trasposizione» dell'escatologia cristiana nell'idea di progresso (cfr.
pp. 36 e 37). La tesi della sostanziale incomunicabilità delle matrici valoriali dei sistemi culturali contrasta
peraltro, in maniera alquanto clamorosa, con la densa intuizione centrale di un altro lavoro di Blumenberg,
Elaborazione del mito, ove l'Autore sostiene precisamente la costanza dei modelli mitici pur nelle loro infinite
trasmutazioni e metamorfosi. (Cfr. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt, 1979. Tr. it.,
Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna, 1991. Si veda anche quanto annota G. Carchia nella sua
"Introduzione all'edizione italiana", ivi, p. 17).
10. Blumenberg non ha dubbi in proposito. «Innanzitutto devo chiedere come possa avvenire l'occultezza del
surplus in ciò che è dato, del senso celato in ciò che è palese.» (Blumenberg, 23-24).
11. Blumenberg, 48. Il riferimento è all'epoca dell'«assolutismo teologico» (come recita il titolo del secondo
capitolo), cui il concetto di «autoaffermazione» (Selbstbehauptung) più avanti si opporrà come deciso
antagonista. Per parte mia al contrario, resto convinto che i tentativi più originali ed interessanti della tradizione
filosofica occidentale siano precisamente quelli che hanno cercato di sondare l'unità originaria in cui hanno
comune dimora le differenze maggiormente polarizzanti, che la necessità dell'epistème impone peraltro di
considerare come radicalmente oppositive ed esclusive. E, per altro verso, non risiede in quest'ultimo fatto una
delle ragioni per cui la filosofia occidentale ha saputo declinare il riferimento alla trascendenza solo negli aridi
termini di una rigida ed astratta teologia, senza lasciarsi interpellare, salvo pochissime eccezioni, dalla
affermazione assolutamente sconvolgente dell'Uomo che si è proclamato Dio?
12. Blumenberg, 126.
13. Blumenberg, 16.
14. Blumenberg, 80. Corsivo mio.
15. Cfr. il recente lavoro di F. D'Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni,
Cortina, 1997, p. 343.
16. «Si deve soprattutto far attenzione al fatto che i materiali ellenistici della prima cristianizzazione sono
nuovamente a disposizione un millennio e mezzo più tardi, per produrre immediatamente e senza passare
attraverso il Cristianesimo ciò che poi appare come secolarizzazione.» (Blumenberg, p. 44. Sottolineatura mia).
17. Blumenberg, p.54.
18. Blumenberg, p. 71.
19. La seconda e la terza parte del volume, rispettivamente intitolate Assolutismo teologico e autoaffermazione
umana e Il processo della curiosità teoretica, si occupano in effetti di ricostruire il tessuto storico e culturale da
cui si origina l'epoca moderna, tanto nei suoi fattori di discontinuità rispetto all'evidenza teologica medievale
quanto nel suo germinare dalla riabilitazione dello stimolo alla curiosità della conoscenza. In queste pagine,
però, il ragionamento muove precisamente dallo schema della surroga per alternatività degli ambienti
assiologici. Un esempio per tutti:«l'autoaffermazione della ragione richiede l'uscita dalla tranquillizzazione
teologica, dall'illusione antropocentrica.» (p.163). Dove ciò che è da notare è che la proposizione non appartiene
ai registri descrittivi dell'analisi storiografica, peraltro difficilmente controvertibile, ma possiede tutti i caratteri
di una dichiarazione metodologica di principio che dispone il materiale storico secondo i filtri della
polarizzazione oppositiva. Blumenberg però, come abbiamo già notato in precedenza, non si perita di discutere
teoreticamente siffatta opposizione, risultando l'inconciliabilità delle posizioni logicamente dedotta dal loro
contenuto sostanziale, e fruttuosamente evidente nella forza dell'autoaffermazione della ragione. Si può allora
notare a margine che con il concetto di «nuova occupazione» Blumenberg non si è di molto allontanato dalla
tesi di Löwith. Molto acutamente ha osservato Odo Marquard che«la loro controversia sulla secolarizzazione
sembra essere stata messa in scena esclusivamente per celare come essi siano concordi nel loro fronte comune
contro la tradizione dogmatica di provenienza biblica, nonché nel loro sospetto contro la filosofia della storia.»
(O. Marquard, Mythos und Dogma, cit. da G. Carchia, "Nota alla controversia sulla secolarizzazione", Aut Aut,
222 (1987), p. 68.
20. Non solo natura, ma anche historia non facit saltus. Come Leibniz e Marx, due pensatori ben presenti nelle
riflessioni blumenberghiane hanno affermato: il presente avanza gravido del futuro.
21. Blumenberg, p. 14.
22. Blumenberg, p. 122. Non è fuori luogo notare che il referente storico del termine Cristianesimo presenta in
Blumenberg tratti oscillanti e anomali. Con tale termine egli infatti intende sempre la civiltà costruita sulla base
di valori cristiani, la civitas christiana. Il suo riferimento preferito è Tertulliano insieme ad Agostino. Talora a
rappresentanti della tradizione cristiana sono eletti«i fanatici chiliastici» del Medioevo. (p. 52) Degli scrittori
biblici conosce solo Paolo e Giovanni (quest'ultimo per i tratti apocalittici). Gli unici rinvii a passi della Sacra
Scrittura sono contenuti in una nota di p. 50. La conoscenza del pensiero biblico -- che pure dovrebbe fornire gli
agganci indispensabili per un rigoroso discorso filosofico o genericamente culturale sul Cristianesimo che, come
anche Blumenberg riconosce, è anzitutto una religione -- sembra alquanto approssimativa. Una frase per tutte:
«La formula stoica secondo la quale il mondo sarebbe stato creato per l'uomo è ampiamente accolta dalla
Patristica [...]. Il concetto della provvidenza, per quanto estraneo al mondo della concezione biblica, viene
assimilato come patrimonio teologico [...].» (p. 138. Corsivo mio) La semplice lettura del Salmo 8 vale più di
ogni articolata confutazione:
... Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?
Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato.
23. Non si dimentichi che così recita il titolo del volume. Si può avere conferma che questo sia il cuore della
posizione di Blumenberg, riportando quanto scrive Löwith nella chiusa della sua replica al lavoro di
Blumenberg: «In senso traslato, applicato alle epoche storiche, non ci può essere alcun discorso vero e proprio
di legittimità o di illegittimità, dal momento che nella storia delle rappresentazioni, delle idee e dei pensieri esso
si estende in forma così ampia come lo è la forza di appropriarsi e di alterare una effettiva consistenza della
tradizione. Gli esiti di volta in volta prodotti da una tale appropriazione alterante non si lasciano calcolare
positivamente o negativamente in ragione di una autentica proprietà.» E poi polemicamente conclude: «I parti
della vita storica sono tutti 'illegittimi'.» (K. Löwith, Besprechung des Buches "Die Legittimität der Neuzeit"
(1968), in Sämtliche Schriften, vol. 2, Metzler, Stuttgart, 1983, pp. 459. Tr. it., Recensione del libro di Hans
Blumenberg 'Die Legittimität der Neuzeit', Aut Aut, 222 (1987), p. 66).
24. Blumenberg, p. 123. La frase termina nel seguente modo: «laddove è indifferente che questa discontinuità sia
fittizia o reale. Essa l'ha pretesa nei confronti del Medioevo.» Blumenberg confonde tra la coscienza della novità
delle posizioni soggettive e l'impossibile -- perché astorica -- interruzione effettiva della tradizione culturale,
entro cui solo tale coscienza riesce a svilupparsi. Dogmatismo della razionalità moderna che non accetta
antagonisti né concorrenti.
25. Blumenberg, p. 122.
26. Blumenberg, p. 122.
27. Blumenberg, p. 80. Corsivo mio.
28. Blumenberg, P. 151. Per questo motivo la fondazione cartesiana dell'epoca moderna non può essere accettata
«L'inizio assoluto nel tempo è atemporale anche nella sua intenzione.» E di tale carattere è rivestita la ragione di
Cartesio. Ma «dove fosse la ragione prima di Cartesio e cosa le facesse preferire questo intermediario e questo
momento -- ecco domande che non possono essere poste nel contesto sistematico dei loro concetti
fondamentali.»(ivi).
29. Blumenberg, p. 80.
30. Blumenberg, P. 80. Corsivo mio. Deve trattarsi di un lapsus sintomatico, se solo si pensi che tale confessione è
contenuta nella sezione del volume dedicata alla «critica di una categoria dell'ingiustizia storica».
31. «Il punto debole della razionalità moderna è che la rivelazione del passato medievale dei suoi protagonisti può
rimettere in causa la mancanza di presupposti che essa mostrava di aver percepito come quintessenza della
propria libertà.» (Blumenberg, 194).
32. Cfr. Blumenberg, pp. 144-146.
33. «L'espressione possesso della verità [...] consente ormai soltanto un uso ironico». L'evoluzione storica ha avuto
in effetti un esito irreversibile. «L'implicazione tecnica inserisce la teoria e l'atteggiamento teoretico nell'ambito
funzionale dell'adeguatezza immanente dell'autoaffermazione e neutralizza la sua pretesa, fino a quel momento
ineliminabile, di verità.» (Blumenberg, p. 252. 271).
34. Blumenberg, p.148. Cfr. anche p. 41. Blumenberg senz'altro non si accoda alla moda della negazione tipologica
della tecnica ed alla sua piena rimozione quale epocale fuorviamento -- cosa che è senza dubbio un merito, in
tempi di conformismo del pensare. In questo elogio della tecnica egli tuttavia si presta a far da grancassa ad
antiche enfatizzazioni della tecnica stessa, ingenuamente illusorie nel presentarla quale panacea dei mali del
mondo. Il che, però, onestamente, è forse troppo.
35. Blumenberg, p. 79.
36. Blumenberg, p. 103 e ss. Corsivo mio.
37. «Il progetto della legittimità dell'età moderna non viene dedotto dalle prestazioni della ragione, ma dalla sua
necessità.» (Blumenberg, p. 105).
38. Blumenberg, p. 37. Sottolineatura mia.
39. Blumenberg, p. 139.
40. Per una più articolata argomentazione della tesi qui appena enunciata, mi sia consentito il rimando al mio
saggio Il silenzio dell'intelligenza che ascolta, in E. Baccarini (cur.), Il pensiero nomade, Cittadella editrice,
Assisi, 1994, pp. 49-75.
41. Forse non è un caso che il fallimento del tentativo di derivazione dei saperi dalla pura formalità logica dell'ars
combinatoria stia alla base dell'esigenza moderna di trovare pratica conferma dei contenuti conoscitivi nella
capacità mostrata da questi nel manipolare la realtà.
42. «La grandezza del tanto screditato Ottocento» sta nell'aver esso fatto sorgere «il processo della tecnicizzazione
nella forma dell'industrializzazione come autoaffermazione di chi si oppone alla disumanità della natura.»
(Blumenberg, p. 239).
43. Per evitare ogni equivoco: non si sta chiedendo l'abdicazione della ragione a favore di non meglio precisati
appelli all'immediatezza del sentire e del volere, o, peggio ancora, della loro potenza. Il ragionamento vuole solo
riflettere sulla questione decisiva dei limiti immanenti della razionalità calcolante umana e della necessità di una
sua relazione a quella forma di sapere sapienziale, da cui pure la ragione dell'epistème filosofica è storicamente
derivata. In quest'ottica, un'ottica pur sempre razionale e non fideistica, Kant scriveva nella Prefazione alla
seconda edizione della Critica della ragion pura: «Io ho dunque dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la
fede» (Tr. it., Laterza, Bari, 1977, vol. I, p. 28).
44. Blumenberg, p. 136.
45. Cfr. Blumenberg, pp. 134-136. Si noti come ciò che, ad avviso di Blumenberg, rese «grande» Marcione fu il
rifiuto della contraddizione logica di un dio creatore, che si lasci limitare nell'esercizio della sua onnipotenza e
che debba perciò redimere la sua creazione; ovvero, in altri termini, la logicizzazione del pensiero biblico in
nome dell'universalità del lògos greco. «Perciò la gnosi deve essere nel vero senso della parola conoscenza.» (p.
135).
46. Blumenberg, p. 144.
47. Blumenberg, pp. 144-145.
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