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Seconda lezione don Marcello Crotti
L’INIZIO DELL’ISTITUTO CONCILIARE
In Oriente, a parteire dalla fine del II secolo, cominciano a riunirsi in sinodi i vescovi viciniori o i
vescovi di determinate regioni. Sono i sinodi regionali del III secolo. Questi sinodi segnano l’inizio
dell’istituto conciliare. Questi sinodi erano determinati dalla necessità di affrtontare problemi di
natura più complessa, che non era più possibile risolvere mediante un rinvio alla tradizione,
risalente agli apostoli, oi problemi cui il songolo vescovo non era in grado di rispondere.
Naturalmente bisogna ritenere che queste riunioni di vescovi siano state precedute in caso diu
questioni discusse da relazioni episcopali più informali, sotto forma di visite o scambio di lettere m
e che sia stato questo il modo abituale di chiarire e uniformare la comune tradizione. Il primo caso
sicuramente attestato di assemblee conciliari è la controversia sulla Pasqua, scoppiata verso il
195, che determinò, probabilmente su iniziativa di Vittore, vescovo di Roma, la celevrazione dei
concili a Roma, nelle Gallie (Lione), in Asiam nel Ponto e in Palestina. Oltre alla data della Pasqua
(se dovesse essere celebrata in concomitanza con la pasqua ebraica o la domenica successiva), fra
le questioni di natura più complessiva vi erano, ad esempio, la questione della validità o meno del
battesimo degli aderenti a gruppi eretici quando si convertivano alla chiesa maggioritaria, il
trattamento dei “lapsi”, o la questione della penitenza per chi aveva commesso gravi delitti.
A volte questi concili partecipavano anche presbiteri o diaconi in qualità di consiglieri,
accusatori o parte lesa; in alcuni concili nell’Asia è attestata anche la presenza di laici, se non altro
come uditori. Ovviamente solo i vesovi potevano votare.
In Nord Africa a partire dal III secolo i concili che si celebravano a Carftagine assunsero una
cadenza annuale e riunirono fino a 87 vescovi. In segno di comunione le decisioni di questi concili
venivano regolarmente comunicate alle altre chiese più importanti. In genere ci si aspettava che le
altre chiese esprimessero il loro accordo per iscritto, soprattutto nel caso ci fossero condannati
eretici che avevano seguaci anche altrove o si fosse daa risposta a questioni discusse anche
altrove. In particolare per quanto riguarda le questini di fede questi concili sono già consapevoli di
parlare a nome di tutta la chiesa. Il loro verdetto ènon p soggetto a condizioni: sono certi di essere
nell’autentica tradiozione apostolica e di parlare nella forza dello Spirito Santo.
Se scrivono alle altre chiese non è per chiedere la loro conferma, ma lo fanno con la naturale
certezza che le altre chiese non possono non essere d’accordo con loro, e perché grazie alla loro
adesione risulti ancor più chiaramente che in quei concili ha veramente parlato tutta la chiesa,
cioè la chiesa cattolica.
Un esempio a tal riguardo è la condanna da parte del Concilio di Antiochia (268) di Paolo di
Samosatra, vescovo di Antiochia, procedendo poi alla deposizione e sostituzione con un altrop
vescovo. Il concilio ordina ai fedeli di evitarte ogni rapporto con lui e di considerarlo un uomo
rigettato dalla “chiesa cattolica fin dove giunge il cielo”. Questa sentenza di condanna ha delle
conseguenze anche a livello della chiesa universale: a tale scopo si spediscono lettere ai vescovi di
Roma e di Alessandria, rpegandoli di associarsi a questo giudizio di condanna. (Roma e Alessandria
qui sono già considerati quegli snodi ecclesiastici principali che si delineeranno poi ufficialmente
nel IV secolo).
Risulta chiaro che il concilio parla per tutta lachiesa, il suo verdetto non è sogggetto a
condizioni, e tuttavia è importante che altre due sedi principali si associno, lo confermino in senso
giuridico, affinchè emerga che dietro tale verdetto vi è tutta la chiesa, appunto la chiesa cattolica.
Naturalmente poteva anche succedere che questo processo recettivo fallisse: come per la
questione sulla data della Pasqua e sul battesimo degli eretici, questione che resta aperto fiuno
alla fine del III secolo a livello di tutta la chiesa.
L’istituto conciliare tuttavia risultò estremamente importante quale contrappeso al potere
eccessivamente autocratico del singolo vescovo. Si sentiva la necessità di un correttivo del genere
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dopo che nel cosrso del II secolo si era universalmente imposta l’autorità del singolo vescovo. Ora
in caso di conflitti, e ce n’erano!, anche i presbiteri, i diaconi e gli stessi laici potevano appellarso ai
concili. In fattinei concili i vescovi potevano essere chiamati a render conto, e in casi estremi,
potevano essere addirittura deposti.
Ma qual era il fondamento dell’autorità di questi concili?
Anzitutto bisogna dire che siamo in un’età in cui l’epoca degli apostoli si allontanava sempre di
più. In questo contesto, ai fini della continuità con l’ufficio apostolico e la tradizione, un posto
particolare lo occupano le chiese apostoliche, dove sono vissuti apostoli o dove si trovano le loro
tombe (Antiochia, Efeso, Tessalonica, Corinto, Roma). Si ritiene che in queste chiese il legame con
le origini sia particolarmente forte; si è convinti che in esse regna il buon spirito delle origini e che
esse rischiano meno di altre di cadere vittime delle innovazioni.
Ma accanto a questo aspetto di continuità in senso verticale con il passato, vi è anche il piano
orizzontale della communio o koinonia, della comunione delle diverse chiesed fra di loro. La
singola chiesa è nell’ortodossia della fede e della vita quando non è isolata, ma si trova in sintonia
e in comunione con tutte le chiese del mondo. A partire dalla fine del II secolo i concili episcopali
servono proprio ad accertare questa sintoniadi tutte le chiese. In esse l’elemento verticale della
tradizione si salda con quello orizzontale della comunione. Importane inoltre è il fatto che qui si
forma la coscienza di un’autorità che da un lato parla a nome di tutta la chiesa e dall’altro cerca
proprio per questo anche il rapporto con le altre chiese. Così si crea quella dinamica interna che
condurrà al concilio ecumenico.
L’impero diventato cristiano con Costantino (313), ha trovato quest’istituto conciliare; lo ha
posto al servizio della propria unità e lo ha reso ancher concretamente poissibile quale realtà
ecumenica sul piano organizzativo. Il primo stadio preliminare è stato il Concilio di Arles (314), un
concilio della chiesa d’Occidente celebrato quanto Costantino era già signore dell’Occidente. Era
una controversia legata ai “donatisti”, i quali predicavano la linea dura contro coloro che avevano
tradito durante le persecuzioni o si erano rivelati deboli, e legavano la validità del sacramento alla
dignità di colui che lo celebra. Il concilio di Arles e il ruolo giocato dall’imperatore (che di fatto
viene tirato dentro dalle parti in causa), nella sua riuscita costituiscono un importante preludio per
i successivi concili ecumenici “imperiali”. Arlesè il primo concilio al quale i vescovi vengono
convocati attraverso la posta imperiale (cosa di prassi nei successivi concili); tuttavia l’imperatore
lascia ad essi totale libertà di esprimersi e di decidere. Il concilio, al quale parteciparono una
quarantina di vescovi provenienti da Gallie, Britannia, Italia, Spagna e Nord Africa condannò i
donatisti e emanò una serie di canoni sulla vita della chiesa.
Questi primi concili furono comnunque rari; la forma normale della vita conciliare continuava
a svolgersi ad un livello inferiore, soprattuto a livello delle province ecclesiastiche. Esse divennero
il normale principio di aggregazione ecclesiale. Il loro organo principale era il concilio provinciale,
l’assemblea dei vescovi di una provincia ecclesiastica. Questi concili si riunivano sotto la
presidenza del metropolita, il vescovo della capitale della provincia; erano la forma normale di ciò
che noi oggi chiamiamo “collegialità episcopale” (le odierne conferenze episcopali); i concili
ecumenici ne costituivano il raro caso limite.
Nel IV e V secolo i concili provinciali avevano soprattutto le funzioni seguenti:
 Decisioni di fede contro le eresie. Le decisioni di tali concili poi, ovunque rpese, erano
vincolanti anche altrove.
 Legislazione ecclesiastica.
 Controllo gerarchico delle nomine dei vescovi. (ed eventualmente anche la deposizione)
Oltre a questi infine, vi erano altre due istituzioni sovra provinciali: il concilio Nord Africano e i
sinodi romani.
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Il cristianesimo nascente di fronte
alle culture dominanti
Allorchè l’annuncio cristiano cominciò a diffondersi, non tarfdò a suscitare una forte
perplessità per i tanti elementi di constrasto e di rottura con le culture dominanti del tempo. In
Palestina le autorità ufficiali dell’ebraismo non potevano non guardare con sospetto e diffidenza
l’atteggiamento dei cristiani che, mentre accusavano il Sinerdio di aver mandato a morte il Cristo,
ridimensionavano l’importanza del tempioe dei cerimoniali legati alla tradizione e interpretavano
in modo autonomo e singolare le Scritture d’Israele, da essi definite Antico Testamento, cui
andavano aggiungendo altri scritti chiamati globalmente Nuovo Testamento, con la pretesa che ne
fossero il completamento.
Di fronte al mondo greco romano invece, già la categorica conferma del monoteismo
riproponeva un vecchio motivo polemico; a ciò si aggiungevano altre manifestazioni della condotta
cristiana recanti la parvenza di insubordinazione verso il potere politico costituito, quali la scelta
antimilitaista e la tenace avversità per la concezione sacra dell’istituto imperiale.
Tuttavia, sul pianto dottrinale, ciò che maggiormente scandalizzava e che scatenò nei diversi
ambienti il fermo rifiuto, erano proprio gli assunti centrali che la rivelazione cristiana presentava:
1. Gesù, fondatore della nuova religione, era Figlio di Dio e Dio stesso fattosi uomo nella
pienezza dei tempi per redimere l’umanità, come Dio stesso era lo Spirito Santo inviato,
podo l’ascensione del Risorto a Dio Padre, per sostenere gli apostoli nella diffusione del
messaggio salvifico.
2. Dio, pur assolutamente Uno, aveva una sussistenza trinitaria, in nome della quale doveva
essere annunciato il vangelo, e dovevano essere incorporati nella chiesa i nuovi fedeli,
secondo quanto aveva esplicitamente enunciato Gesù: “Andate, e fate discepoli tutti i
popoli battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro
a osservare tutto ciò che vi ho comandato”. (Mt 28,19-20)
Contrasti con il mondo giudaico – Cristianesimo e ambiente semitico ebraico.
Il cristianesimo ebbe la sua iniziale propagazione nel mondo semitico. Il suo primo incontro
avvenne, pertanto, con la cultura di questo ambiente comprendente le reghioni che si
affacciavano sul bacino orientale del Mar Mediterraneo, dove cioè abitavano i popoli di stirpe
semitica: ebrei, fenici, siri, assiri, babilonesi, arabi. Popoli che, pur nella loro peculiare identità,
poggiavano su una comune base culturale, di cui le affinità linguistiche erano l’espressione più
evidente.
Vi erano concezioni teologiche, cosmologiche e antropologiche con le quali il messaggio
evangelico era chiamato a misurarsi, come per esempio l’assoluto monoteismo che si trova
statuito nel solenne postulato del Deuteronomio: “Ascolta Israele, il Signore è l’unico Dio” (Dt 6,4).
Il Dio d’Israele è l’unico, poiché solo lui può dare la salvezza. La sua unicità è testimoniata dal suo
dominio universale sugli uomini e sulle cose, che egli fa servire alla realizzazione del suo piano
salvifico. In questi termini, il Dio d’Israele annuncia la liberazione del suo popolo dal giogo degli
oppressori per mezzo dei profeti, dispone degli elementi naturali per aiutare gli ebrei a sconfiggere
gli amorrei al rientro nella Terra Promessa, crea e ordina l’universo intero, che sussiste nei secoli
per mezzo dello Spirito di Dio. Il cosmo, il mondo, creato da Dio, era “cosa buona”, una realtà
positiva perché creata da Dio attraverso un atto d’amore gratuito. E l’uomo,parte del creato,
godeva di questa bontà.
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Fin qui tutto bene. I problemi iniziano già nel momento in cui si comincia a parlare di
resurrezione. Già Gesù ne fa esperienza nei suoi interventi con i sadducei. La cosa si complica con
l’accettazione della divinità di Gesù, ma la difficoltà maggiore si ha nel momento in cui la
concezione della trinità delle persone, pur nell’unità della sostanza divina, và a scardinare dal di
dentro quella rigida concezione monoteista che aveva fatto del popolo d’Israele il primo, e fino ad
allora unico, popolo della terra ad aver maturato in sé, non senza una rivelazione da parte di Dio
stesso, la concezione di un Dio unico, creatore e sommo essere di tutto l’universo.
Il Cristianesimo ed il mondo greco-romano
L’influenza di questo ambiente, unificato politicamente dall’impero romano e culturalmente
dall’ellenismo si era ormai saldamente radicata su tutte le regioni occidentali e centrali del bacino
mediterraneo; inoltre si era estesa in vario modo anche in quelle orientali, tradizionalmente
imbevute di cultura semitica.
Sul piano religioso i ceti più colti e aperti al progresso del pensiero greco avevano in qualche
modo superato il politeismo tradizionale e avevano maturato la credenza in un Essere Supremo
variamente chiamato e tratteggiato. Un interessante esempio delle conquiste greche raggiunte in
materia religiosa ci è offerto dall’Inno a Zeus dello stoico Cleante del IV secolo: O il più glòorioso
degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente, Zeus signore della natura, che con la legge
governi l’universo, salve; te, infatti i mortali tutti hanno diritto d’invocare, poiché da te siamo nati,
provvisti dell’imitatrice parola … a te tutto il nostro universo, rotondo intorno alla terra, obbedisce
dove tu lo guidi e volentieri soggiace alla tua forza; … Senza di te, o dio, nulla si compie sulla
terra,o nell’etere divino del cielo, o nel mare, tranne quel che ordiscono i tristi nella loro demenza.
Ma tu sai ricondurre gli estremi alla misura, ordinare ciò che è senz’ordine …”
Il dio cosmico di questo inno ha già qui la sua chiara personalità di Sommo Dio, personaloità
che non è più semplicemente simbolica o allegorica come quella dello Zeus dell’età classica
confinato nell’Olimpo, al di sopra del quale vigevano le leggi del Fato.
In questa cultura una grandissima rilevanza la ottiene la filosofia neo platonica, basata sui due
assunti principali dell’emanazionismo e del dualismo tra il mondo reale negatico ed il mondo di
Dio positivo e perfetto. In questa concezione la divinità è intesa come un processo graduale di
autoriduzione fino all’avvicinamento con il mondo visibile. Il mondo materiale viene visto come
un’alterazione del mondo divino. L’uomo è un’entità a metà strada tra il mondo divino e quello
terreno, un soggetto in cui ambedue avessero un punto di convergenza. L’uomo inoltre vivevsa in
continuo contrasto interiore tra gli aneliti dell’anima e le passioni della carna, contrasto ch esul
piano etico si traduceva in una lotta permanente tra il bene e il male.
La sua salvezza consistevam pertanto, nella liberazione dell’anima dai legami della carne e la
morte era spesso inesa come il raggiungimento di tale traguardo: il corpo si sarebbe dissolto e lo
spirito avrebbe potuto così fare ritorno a quel mondo divino cui apparteneva. Alcuni illuminati poi,
nascevano con la parte spirituale dominante su quella materiale e, quindi, erano già ordinati a
ritornare nel mondo divino mentre altri nascevano con la parte materiale prevalente su quell
aspirituale e pertanto erano determinati alla corruzione eterna. (Predestinazione delle anime).
Per una rapida ma esauriente presentazione del mondo greco romano non si può non far
menzione del grande successo ivi riscosso, proprio nel momento in cui il cristianesimo veniva alla
luce, dalle religioni di provenienza orientale. Tra queste meritano di essere ricordate, sia per la
consistente affermazione avuta sia peri motivi teologici in esse presenti, il culto indo iranico di
Mithra, divinità della giustizia e della verità protettrice dei popoli fedeli ai patti stipulati; il culto
egiziano di Osiride, divinità solare che con la sua morte e resurrezione infonde speranza
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ultraterrena alla sorte dei defunti; e il culto anatolico di Attis, figlio della “Gran Madre” frigia,
talora conosciuta sotto il nome di Cibele, il quale con il suo sacrificio cruento rinnova annualmente
il ciclo della vegetazione. Le religioni orientali potevano offrire qualcosa di nuovo e di diverso agli
spiriti desiderosi di una fede religiosa piuttosto che di sistemi filosofici continuamente soggetti a
verifica e contraddetti da ulteriori speculazioni. Questi culti assumevano spesso la forma di
misteri, di celebrazioni rituali riservate a una cerchia ristretta di iniziati, di individui abilitati a
partecipare a tali riti e impegnati a mantenere il segreto sul contenuto di essi nei riguardi dei
profani.
Sebbene la Chiesa nascente abbia trovato in taliculti un altro difficile baluardo da superare,
non va però trascurato il loro richiamo a interiorizzare il messaggio religioso, stimolando uno
stretto connubio tra fede e vita, e interpretando la liturgia non come mero cerimoniale ma come
esperienza spirituale, rappresentò in qualche maniera un contributo di cui il cristianesimo si giovò
nel presentarsi al mondo pagano.
Primi tentativi di manipolazione
della dottrina cristiana
Abbiamo fin qui visto le concezioni filosofiche e religiose vigenti nel mondo semitico-ebraico e
nel mondo greco-romano, al fine di mostrare le categorie con cui il cristianesimo venne accolto e
interpretato dagli ambienti culturali dominanti al momento della sua primitiva diffusione. Gli sforzi
di recezione che i suddetti ambienti condussero erano evidentemente destinati a non riuscire
pienamente, proponendo la nuova religione concezioni dell’uomo, del mondo, della divinità stessa
tanto originali e profondamente diverse.
In effetti la ricerca di una soluzione conciliante finì spesso per alterare la genuina dottrina
cristiana, dando luogo alle “eresie”, le quali investirono soprattutto i misteri basilari, ovvero
l’assunto di Dio Uno e Trino e l’assunto di Gesù Cristo Dio fatto uomo. (Eresia: parola greca che
significa scelta. Diventa sinonimo di eterodossia, cioè “fede diversa [da quella giusta]”, ovvero
contrario di ortodossia, cioè retta fede).
Nonostante tutto, però, le eresie ebbero indirettamente anche una finzione positiva nella
storia del cristianesimo, perché stimolarono la Chiesa ad approfondire le verità di fede e atraverso
l’impegno teso a confutare l’errore.
In ambito semitico ebraico: le prime manipolazioni del pensiero cristiano.
Le prime manipolazioni della dottrina crisdtiana si verificarono ovviamente i quei circoli ebraici
che furono raggiunti e convertiti dalla predicazione iniziale degli apostoli. Qui, l’innesto del nuovo
messaggio sulla fede tradizionale diede luogo alla sintesi teologica espressa da quel fenomeno
etnico religioso noto come giudeo cristianesimo.
Anzitutto troviamo subito due contrapposte correnti, l’una eretica, espressa dagli Ebioniti, la
cui linea di pensiero si coglie bene nelle Pseudo clementine; l’altra, ortodossa, derivante dalla
comunità di Gerusalemme, guidata da Giacomo, legata ai constumi ebraici tradizionali senza
peraltro imporli ai neofiti pagani, è rappresentata dai gruppi noti talvolta come i Nazirei, autori del
Vangelo secondo gli Ebrei, scritto in aramaico. La differenza sostanziale consisterebbe nella
concezione messianica che implica nella prima il rifiuto e nella seconda l’accettazione della divinità
di Gesù Cristo.
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Accanto a questa diatriba fondamentale sull’identità di Gesù di Nazareth, vi sono altre
proposte eterodosse che maturarono intorno alle verità principali della fede cristiana tra i membri
della Chiesa nascente più condizionati dalle concezioni ebraiche su Dio, il mondo e l’uomo.
Si è già notato come, in merito all’essenza di Dio, fosse per gli Ebrei postulato incontestabile il
rigido monoteismo di Dt 6,4. In realtà essi parlavano di una “parola” (dabar) e di uno “spirito”
(ruah) di Dio: la stessa opera della creazione era stata realizzata tramite la forza onnipotente della
parola, mentre “sulle acque aleggiava lo spirito di Dio” (Gn1,2). Parola e spirito, tuttavia, erano
concepiti come mere attribuzioni del Dio unico: nella sstoria della salvezza la parola era la
manifestazione della volontà di Dio all’uomo e il profeta era lo strumento privilegiato tramite cui
avveniva la comunicazione; lo spirito indicava l’onnipresenza di Dio ed era la stessa forza che egli
infondeva nel profeta perché a suo nome manifestasse agli uomini la sua volontà.
Di fronte al dilemma che la realtà di un Dio “Uno e Trino” veniva a porre, nei circoli giudeo
cristiani più preoccupati di salvaguardare l’assunto monoteista si fece strada un prospetto
risolutivo di radicale impianto antitrinitario, che utilizzava categorie fondate sul vocabolario
dell’angelologia ebraica, quale era maturata nei secoli più vicini all’avvento del cristianesimo e
secondo la quale gli angeli constituivano un mondo intermedio tra Dio e l’uomo. Un esempio:
“Quanto il Signore ha creato gli angeli di fuoco, nel numero di sette, stabilì di fare di uno di essi il
proprio Figlio. È lui che Isaia dice di essere il Signore Sabaoth. Vediamo quindi che rimanevano sei
angeli creati col Figlio …” (De Centesima sexagesima tricesima, Pseudo-ciprianista).
L’anonimo autore riduce il Figlio di Dio al rando di un semplice angelo e la figliolanza, in
quanto tale, non ha derivazioni ontologiche compromettenti per l’unità di Dio, bensì è il frutto di
una scelta.
Nel complesso, comunque, in quell’ambiente che si premurava di scongiurare interpretazioni
triteiste, la speculazione trinitaria, sino al IV secolo, verrà accompagnata da una tendenzas
“monarchiana” volta a spiegare il mistero dell’Unità e Trinità di Dio, insistendo più sul concetto
dell’Unità che su quello della Trinità, ovvero cercando di mettere in risalto il primo aspetto e di
dare minore importanza al secondo.
Tale tendenza ebbe la sua manifestazione più evidente in quella concezione trinitaria che gli
studiosi chiamano modalismo, perché riteneva che Padre, Figlio e Spirito Santo fossero semplici
modi di essere e di manifestarsi dell’unica divinità; sicchè i Tre, pur nell’Uno, non risultano distinti,
bensì nella storia dells salvezza è il solo e unico Dio che agisce a volte come Padre, altre come
Figlio, infine come Spirito Santo. Esso si affermò alla fine del II secolo con Noeto di Smirne, l acui
dottrina venne definite anche come patripassianismo, in quanto propugnava che, essendo Dio uno
solo, Cristo, che è Dio, andava identificato con il Padre e, pertanto, era sempre questi che,
presentandosi come Figlio, dopo essersi incarnato, aveva patito sulla croce, per resuscitare infine,
non altri che se stesso.
Ramificatesi ben presto in tutto l’Oriente, tali idee vennero diffuse in Occidente soprattutto da
quel Prassea a noi noto attraverso il violento trattato scritto contro di lui da Tertulliano, il quale ne
riassume il pensiero trinitario in questi termini: “E’ stato il Padre stesso a discendere nella Vergine,
a nascere da essa, a patire, ad essere, infine, Gesù Cristo”.
La teologia modalista rivcevette la sua elaborazione più matura ad opera di Sabellio, per il
quale un solo Dio si sarebbe manifestato come Padre nell’Antico Testamento, come Figlio
nell’Incarnazione, come Spirito Santo nella Pentecoste, assolvendo così la triplice funzione di
creatore – redentore – santificatore. Costui superava l’orientamento patripasssiano, ma solo
formalmente; per questo Epifanio non risparmiava i sabelliani dalle sue critiche, inveendo contro i
loro assunti in questi crudi termini: “Questi figli spuri, razza bastarda … tali i sabelliani che,
negando la sussistenza del Figlio e dello Spirito Santo, affermano che lo stesso Padre è anche Figlio
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e Spirito Santo. Dicendo non sussistenti il Figlio e Spirito Santo, sono deicidi come i giudei, come
questi da condannare” (Ancoratus 116).
Se nel mondo semitico ebraico lo statico preconcet5to di un monoteismo integrale condizionò
pesantemente la riflessione sul mistero trinitario, parimenti il medesimo preconcetto finì spesso
per ostacolare la serena speculazione sul problema cristologico che, ancor prima e più di quello
trinitario, fu sentito dalla Chiesa nascente, essendo del resto naturale che i primi cristiani
focalizzassero la loro attenzione innanzitutto sull’evento centrale della fede, cioè l’esperienza
storico salvifica di Gesù Cristo Dio fatto uomo.
Certamente le correnti giudeo cristiane, che espressero quella forma di antitrinitarismo
radicale più sopra esposta, furono le più tentate a intendere l’Incarnazione come l’inumanazione
di un angelo. Tuttavia l’orientamento cristologico dominante, che divenne l’emblema del
cristianesimo più inficiato di ebraismo, corrispende a quella soluzione nota come adozionismo,
appunto perché riteneva il Cristo figlio di Dio per adozione e non Figlio di Dio per natura. Una
soluzione che riduceva Gesù di Nazareth a semplice uomo, sia pure di straordinarie virtù, del quale
Dio si era servito per proclamare al mondo la Buona Novella. Si tratta, in realtà, di una linea
teologica che interpreta la relazione Cristo Dio secondo la concezione ebraica dcel profetismo:
come tutti i profeti d’Israele, benchè in un ruolo d’eccezione metastorica, Gesù è uomo di Dio, cioè
ispirato e posseduto da Dio, da cui ha ricevuto direttamente il mandato missionario e in nome del
quale parla e agisce.
In ogni caso, la presenza di Dio in Gesù ha avuto pur sempre un carattere morale e
accidentale, ovvero non ha dato luogo a una connessione intima della componente umana e di
quella divina in un unico individuo. Sicchè i prodigi compiuti da Cristo, ivi compresa la
resurrezione, non sono manifestazioni dirette della sua divinità, bensì un espediente pedagogico,
con cui Dio lo accredita come Messia. Tra i paladini dell’adozionismo, al di là degli Ebioniti
identificati con questa dottrina, gli eresiologi ricordano in particolare Cerinto (fine I inizio II
secolo), la cui cristologia è esposta in questi termini da Ireneo: “Gesù non è nato dalla Vergine ma
era figlio di Giuseppe e Maria, come tutti gli altri uomini, e valeva più di tutti in giustizia, prudenza
e sapienza.dopo il battesimo discese su di dlui, dal Principato che è al di sopra di tutte le cose,
Cristo in fomra di colomba, e allora annunziò il Padre ignoto e compì miracoli; alla fine Cristo volò
via ancora da Gesù e Gesù patì e rescuscitò, mentre Cristo rimase impassibile essendo spirituale.
Tale dottrina, che guadra l’adozione di Gesù nel battesimo come ricompensa del Padre per
i meriti umani acquisiti, venne perfezionata e introdotta a Roma da un cuoiaio i Bisanzio chiamato
Teodoto, nel II secolo: il Padre eleva a Figlio l’uomo Gesù, agendo attraverso la potenza del suo
Spirito espressa dalla discesa della colomba. Tra i discepoli di Teodoto qualcuno si spinse a parlare
di deificazione del Cristo dopo la sua resurrezione, ma rimase saldo il principio che questi era
stato, durante al sua esistenza terrena, un semplice uomo.
Al di là di tutto comunque, la tendenza ad accentuare l’umanità di Gesù, con il rischio di
escludere in lui la presenza ontologica di Dio, riducendo il legame umano-divino ad un fatto
puramente etico, rimase una costante cristologica della tradizione cristiana d’area semitico
ebraica.
In ambito greco romano: lo gnosticismo.
Se monarchianismo e adozionismo furono gli orientamenti maturati dalla speculazione
trinitaria e cristologica delle comunità giudaizzate presenti nell’area ebraico semitica, in direzione
completamente opposta si avviò la riflessione teologica delle comunità ellenizzate presenti
nell’area greco romana.
Qui, in effetti, non era assillante la preoccupazione di salvaguardare il monoteismo d’Israele;
viceversa, il neoplatonismo aveva diffuso una concezione emanazionista della divinità, secondo cui
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dall’Essere Supremo derivavano, attraverso un processo di riproduzione, altri esseri divini
dipendenti l’uno dall’altro e sempre meno partecipi dei connotati ontologici goduti dal Dio Primo.
Fra questi essere poi, i primi e più importanti venivano in genere designati come Logos (parola) e
pneuma (spirito). Pertanto l’assunto trinitario della rivelazione cristiana non veniva a porre,
almeno in linea di principio, problemi particolari, benchè implicasse l forte tentazione di essere
sviluppato in senso triteista, facendo cioè di Padre, Figlio e Spirito Santo tre diverse entità divine.
Più immediata difficoltà di recezione teorica presentava, invece, l’assunto dell’Incarnazione,
giacchè nella logica dell’impianto dualista, fondato sulla netta contrapposizione spirito-materia,
espressione più alta e completa della sfera intellegibile, fosse realmente penetrato nella sfera
visibile assumendo un autentico corpo umano.
Il primo tentativo di manipolazione del cristianesimo in ambito greco-romano si riscontra nello
gnosticismo, un eterogeneo movimento filosofico-religioso definito come “ellenizzazione acuta”
del messaggio evangelico.
Innanzitutto va rilevato che lo gnosticismo stravolgeva completamente la natura del Dio
rivelato da Gesù di Nazareth. In qualche caso lo gnosticismo risolse in maniera radicale i problemi
concernenti la relazione divinità-mondo, l’opposizione spirito-materia e l’origine del male,
insegnando un rigoroso dualismo metafisico, per cui Bene e Male, entrambi i principi assoluti e
paritari, autori l’uno della sfera intellegibile l’altro quella visibile, erano in continua lotta tra di
loro; un dualismo che, nella polemica antigiudaica, non di rado finì per riflettersi
sull’interpretazione delle Sacre Scritture, contrapponendo l’Antico Testamento, espressione del
Dio Malvagio, al Nuovo Testamento, espressione del Dio buono.
Quanto al problema cristologico, lo gnosticismo rigorosamente fedele al dualismo platonico,
risolse alla radice il dilemma che l’assunto inerente all’Incarnazione di Dio poneva.
Ritenendo impossibile, sia sul piano ontologico sia su quello etico, che convivessero
simultaneamente in un unico esserre, Gesù, tanto il Bene assoluto che la carne, espressione
delmale, esso propose ciò che venne definito come docetismo (dal greco dokein: apparire).
Secondo tale dottrina il Cristo avrebbe assunto un corpo non reale bensì apparente, ovvero che
cadeva sotto la percezione dei sensi altrui ma era un fenomeno puramente illusorio. Un esempio si
dà nell scritto gnostico Secondo discorso del grande Seth, ove il Cristo dà in questi termini
testimonianza della sua passione: “Io non provai alcuna sofferenza. Quelli che erano là mi
condannarono (a morte), mas in realtà io non sono mortom bensì soltanto in apparenza … è
soltanto secondo la loro vista e il loro pensiero che io ho sofferto … questa mia morte che essi
pensano fosse avvenuta, avvene su di loro. Nel loro errore e nella loro cecità, inchiodarono sulla
croce il loro uomo.”
La prospettiva è quella di ingannare le forze malvage, illudendole di aver annientato il Cristo,
perché egli in tutta segretezza possa meglio rivelare ai prescelti come raggiungere la salvezza
finale.
Questo impianto cristologico si comprende meglio se inserito nella concezione dell’uomo del
pensiero gnostico: le anime umane hanno avuto una preesistenza ultraterrena; scintille della sfera
spirituale, queste avevano originariamente inabitato nel pleroma, finchè il caos, verificatosi con
l’esaurimento dell’emanazione dal Dio Supremo, prova la comparsa del mondo terreno,
confinando in esso l’uomo in un corpo materiale. L’anima così rinchiusa in un corpo come in un
carcere, anelava a far ritorno nel mondo di provenienza. Con la morte essa avrebbe ottenuto la
propria liberazione; tuttavia solo le anime di quanti avevano avuto la grazia di ricevere la gnosi
avrebbero raggiunto il loro obiettivo, mentre le altre sventurate sarebbero state annientate con il
corpo. Detto ciò, non fa meraviglia se gruppi gnostici illusi di aber raggiunto la conoscenza della
verità, accelleravano la fine della loro esistenza, se non direttamente con il suicidio, andando però
avventatamente incontro al martirio. Altre correnti più bizzarre invece fissarono la legittimità del
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liberinaggio sessuale, essendo la carne, in quanto male, ordinata a commetterlo (per esempio tra i
più spinti ci furono i nicolaiti, che facevano risalire la loro origine al diacono Niccolò di
Gerusalemme, e avevano come parola d’ordine l’abuso dei piaceri sessuali per uccidere il
desiderio della carne).
Tuttavia alcune correnti dello gnosticismo ammettevano l’esistenza di Gesù come un corpo
reale, concreto, anche se diverso da quello degli essere umani normali; un esempio è quello di
Valentino: “Gesù sopportava tutto ed era padrone di sé: operava per divina essenza; mangiava e
beveva in modo particolare, senza evacuare escrementi. Tanta era la forza del dominio di sé, che il
cibo non era soggetto a corruzione in lui: egli non aveva corruzione …” (Stromata III, 7).
Altre eresie: marcionismo, montanismo, millenarismo.
Benchè derivi direttamente dall’alveo della dottrina gnostica, a parte va considerato il
marcionismo, per il suo carattere tipologicamente più autentico di eresia cristiana. Molto spesso si
è incluso il marcionismo tra le sette gnostiche; vi si ritrovano in effetti diversi elementi gnostici, ma
se si esamina più a fondo la dottrina di Marcione, si scopre che essa poggi asu una base
autenticamente cristiana. Marcione si dichiarava e proclamava cristiano e voleva elaborare una
dottrina autenticamente cristiana. Anche se per raggiungere il suo scopo egli utilizzò un certo
numero di elementi gnostici, è giusto accordargli un posto originale nella crisi del pensiero
cristiano del II secolo.
Marcione si servì infatti delle Scritture canoniche, benchè ne abbia fornito un’esegesi
singolare, accogliendo solo le parti in linea con il proprio messaggio. Tale dottrina deve appunto il
suo nome a Marcione (85-160 d.c.), un personaggio le cui vicende e idee ci sono note soprattutto
grazie ad un’opera polemica dedicatagli da Tertuliano. Nato a Sinope, sul mar Nero, da un
vescovo, dopo aver vanamente cercato di imporre il suo pensiero nel Ponto, venne e predicò a
Roma al tempo del papa Igino (136-140). Accolto in un primo tempo dalla comunità cristiana, ne fu
espulso nel 144, allorchè ci si rese conto del pericolo che rappresentava.
Biblista più che teologo speculativo, fiero avversario del mondo igudaico ed esasperato
interprete della lezione paolina, vedeva una rigida contrapposizione tra prescrizioni mosaiche e lo
spirito cristiano, tra Antico e Nuovo Testamento. E sulla base di questi assunti, concludeva che tra
le due parti della Sacra Scrittura vi fosse una drastica rottura e, pertanto, il Dio di Abramo non
poteva essere il Dio di Gesù.
Esisteva, in tal modo, un Dio creatore, giustiziere spietato con Adamo disobbediente, autore
dell’antica alleanza, il cui popolo eletto erano gli Ebrei; e un Dio buono, misericordioso verso
l’uomo, autore della nuova alleanza e redentore, che nella pienezza dei tempi aveva inviato Gesù
per liberare gli uomini dal fardello della legge, inaugurando un nuovo rapporto basato sull’amore.
Anche dal punto di vista dell’essere il Dio degli Ebrei è inferiore al Dio dei cristiani, e per invidia
il Dio creatore fa perire Gesù, benchè, così facendo, permetta il riscatto del debito di Adamo, in
forza del quale l’uomo gli era suddito. In ogni modo solo alla fine dei tempi cesserà la dominazione
del Dio creatore: in quel momento il Dio redentore separerà i buoni dai malvagi, chiamando a sé i
primi e condanndando glia ltri alla distruzione eterna insieme al Dio creatore e a tutto l’universo
materiale. Infine Gesù, puro spirito, non nato da donna, sarebbe apparso in sembianze umane già
adulto attraverso un processo graduale di autoabbassamento dalla suprema sfera celeste a quella
terrestre.
Come si può notare, è un complesso dottrinale veramente arduo da sostenere sulla base di
tutto il Nuovo Testamento. Per questo Marcione, eleggendo Paolo a unico testimone genuino
della Buona Novellas e respingendo gli altri scritti perché inficiati da elementi giudaici, accolse
come ispirati da Dio soltanto i testi del corpus paolino (tranne le lettere pastorali) e il vangelo di
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Luca, fedele discepolo di Paolo. Ovviamente anche su queste opere condusse una lavoro di
“recensione”, eliminando o adattando i passi nocivi alle sue dottrine.
L’eredità marcionita si tradusse in una Chiesa separata avente gerarchia e organizzazione
modellate su quella ufficiale. Di sicuro essa, rispetto alle sette gnostiche, proprio perché simile alla
Chiesa ufficiale, fu anche più convincente e minacciosa; tuttavia, pure di fronte al fenomeno del
marcionismo, la Chiesa ufficiale ebbe modo di trarre i suoi vantaggi: in un mondo che continuaba
spesso ancora a guardare al cristianesimo come semplice eresia dell’ebraismo, potè rimarcare la
peculiarità assoluta del primo, pur nella continuità con la tradizione religiosa dell’altro; inoltre
Marcione stimolò la Chiesa ufficiale a difendere e rimarcare come canonica e ispirata quella Sacra
Scrittura che ormai si era delineata nel canone ufficiale dei quattro vangeli, degli Atti degli
apostoli, delle lettere paoline e dell’Apocalisse.
Proprio mentre Marcione usciva di scena, si faceva strada un nuovo predicatore: Montano.
Oriundo di Ardabau, al confine tra la Frigia e la Misia, costui, abiurato il culto di Cibele e
convertitosi al cristianesimo, ne accentuava le implicazioni apocalittiche ed escatologiche,
accusando la Chiesa di aver frenato l’attesa dell’imminente ritorno di Cristo (parusia) e di essersi
secolarizzata. Sostenendo di essere caduto in numerose crsisi estatiche, annunciava prossima la
fine del mondo, affermando che presto la Gerusalemme celeste si sarebbe calata dalla città frigia
di Pepuzia, donde il nome di pepuziani dato in seguito ai suoi discepoli. Secondo il suo
insegnamento egli avrebbe ricevuto dal Padre la missione di preparare l’avvento del regno
escatologico del Cristo; sicchè, proprio lui era lo trumento del Paraclito promesso in Gv 14,16-22.
Il montanismo dunque, sin dal suo sorgere si caratterizzò come un movimento profetico teso a
rinnovare quel compito che la cristianità primitiva andava ormai esaurendo. Essi insistevano infatti
su un duro ascetismo comprendente una vita di digiuni e penitenze, l’offerta spontanea al
martirio, la castità assoluta anche nel matrimonio, la condanna delle seconde nozze, l’inflessibilità
verso chi commetteva peccati gravi (apostasia, omicidio, adulterio).
Anch’essi diedero inizio ad una Chiesa autonoma, avente il suo quartier generale in Frigia,
chiesa che ebbe il suo maggior splendore con l’adesione di Tertulliano, fino ad allora strenue
accusatore di qualsiasi eresia difforme alla Chiesa ufficiale. Essa seppe riscuotere un grande
successo fino al IV secolo, quando la svolta costantiniana determinerà la pace della Chiesa e lo
svilimento di esigenze escatologiche immediate e liberatorie da un quotidiano mortificante di
nascondimento e persecuzione. Per dire però quanto questa eresia fosse diffusa e importante,
essa sopravvisse almeno fino alla prima metà dell’VIII secolo; ciò è provato dal fatto che ancora nel
722 l’imperatore Leone III adottava ancora censure e leggi contro di essi.
Infine, sia il montanismo che altre eresie minori avevano in sé un pensiero che in quei primi
anni del cristianesimo era largamente diffuso, anche nella Chiesa cosiddetta ufficiale: il
millenarismo.
Tale dottrina scaturisce dalla rigida interpretazione lettetale di Ap 20-21, in base a cui fu
opinione diffusissima nella cristianità primitiva che, prima del giudizio universale e della fine del
mondo, Cristo sarebbe tornato sulla terra e avrebbe resuscitato i soli giusti, i quali per mille anni
avrebbero regnato insieme alui. L’anticristo sarebbe stato incatenato e la Gerusalemme celeste
sarebbe discesa, inaugurando un’era di pace e felicità. Alla fine del millenio ci sarebbe stata la
sconfitta definitiva del diavolo, avrebbe avuto luogo la seconda resurrezione generale, i buoni e gli
empi sarebbero stati separati per l’eternità, cieli nuovi e terra nuova si sarebbero formati,
esaurendo cosìil corso del mondo.
Tale dottrina si sviluppa in un contesto dove i cristiani, come già gli Ebrei prima, sono vittime
delle angherie roman e cresce forte il desiderio di un riscatto anche politico e materiale; l’avvento
del regno messianico nella storia umana è la fine delle tribolazioni presenti. Il clima di angoscia
collettiva, dovuto all’incalzare delle persecuzioni, spiega dunque perché si rifugiarono nelle
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credenze millenariste anche molti cristiani illustri. I primi attacchi, che segnarono il regresso del
millenarismo, iniziarono già nel III secolo, allorchè i grandi maestri alessandrini diffusero l’esegesi
allegorica di Ap 20-21, imponendo riflessioni escatologiche più spirituali. I mutamenti politici del IV
secolo poi ne determinarono il tracollo. Tuttavia l’attrattiva millenarista non morirà mai del tutto
e riemergerà sempre nelle spinte settarie durante i momenti più tormentati della storia fino ai
nostri giorni dell’era atomica. (Anno mille – la grande angoscia del novecento – il “millennium
bug”)
Inizi e maturazione
della dottrina cristiana
Ortodossia, eresia e ruolo di Roma nei primi tre secoli
Mentre si verificavano le prime manipolazioni della dottrina cristiana, la Chiesa nascente
determinava le linee teologiche per l’esposizione, la difesa e l’interpretazione autentiche del
kerigma apostolico. Prima l’ortodossia o prima l’eresia? Prima l’uovo o la gallina? Due realtà in
connubio, inscindibili tra di loro.
La proclamazione del dogma non segna altro che il passaggio da un implicito vissuto a un
esplicito conosciuto e il traguardo di una lenta maturazione,durante la quale la Chiesa scarta le
interpretazioni erronee, mentre acquisisce sempre maggiore chiarezza. Sicchè la comunità
cristiana giunge più immediatamente a comprendere ciò che è eresia che non a ottenere
conoscenza piena di ciò in cui crede. È giusto però tenere sempre in considerazione la funzione di
stimolo che le eresie hanno avuto nel favorire l’approdo alla formulazione del dogma.
Inoltre, non si può ridurre l’affermazione dell’ortodossia alla semplice vittoria di un particolare
credo, magari quello romano, sugli altri, quasi a indicare la prevalenza contingente di una
istituzione ecclesiastica sulle altre. Ciò si coglie bene proprio nell’atteggiamento avuto da Roma
nel cammino ecclesiale verso al formulazione de dogmi inerenti all’essenza di Dio e alla sua
incarnazione in Gesù Cristo. Tale formulazione avverrà nel corso dei secoli IV-V secolo, ma nel
periodo precedente furono fondamentali gli interventi di Roma, volti a censurare le posizioni che
offuscavano la direzione corretta della riflessione e a incoraggiare invece le proposte che quella
direzione seguivano. E questo intervento di Roma era da tutti, pur non ufficialmente o
normativamente, naturalmente accettato e considerato come autorevole.
Un esempio fu il peso avuto dai papi dei primi tre secoli nella tutela dell’ortodossia. Il primo fu
Clemente (88-97), che nella sua Lettera ai Corinti difende la legittima autorità ecclesiastica afflitta
dalle continue ribellioni. In questa lettera si afferma un papato fermamente vigile sulla dottrina
cristiana: innanzitutto si conferma la fede nell’unico Dio, al tempo stesso Padre e Creatore,
ricomponendo un binomio diffuso dallo gnosticismo e dagli orientamenti teologici più ellenizzati
come antitetico e competente a principi diversi; anche l’aspetto trinitario è saldamente
testimoniato, benchè il problema della reciproca relazione dei Tre nell’Uno non sia ancora
minimamente sentito. Manca anche l’attenzione per le implicazioni sulla vera identità di Gesù, Dio
e uomo, anche se si dà per scontata la preesistenza divina di Gesù rispetto all’incarnazione.
Nel secondo secolo furono due papi a esporsi chiaramente contro le eresie, seguiti poi da tutti
gli altri vescovi; in particolare fu energica la condanna di Pio (140-155) che scomunicò Marcione,
ed Eleuerio (175-189) che condannò il montanismo.
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Il merito invece di aver tracciato una prima e più precisa dottrina circa la trinità e quindi la
figura di Gesù è del papa Dionigi (259-268), delineando anche i solche entro i quali si sarebbe
mossa tutta la riflessione successiva a lui. In una lettera al vescovo di Alessandria (Dionigi pure lui),
scrive: “Ho sentito dire che certi tra di voi … si fanno promotori di … un partito diametralmente
opposto a quello di Sabellio. Questi tiene quel blasfemo proposito di dire che il Figlio è il Padre, e il
Padre è il Figlio. Essi invece predicano in qualche modo tre dèi, dividendo la sacra Monade in tre
sussistenze estranee l’una all’altra e assolutamente separate. Ora, bisogna necessariamente che …
in un unico essere come in un punto culminante, volgio dire nel Dio dell’universo, la Triade divina
deve ricapitolarsi e adunarsi … Vanno del pari censurati coloro che dicono che il Figlio è una
creatura. Essi pensano che il Signore è arrivato all’esistenza come una delle cose che sono
veramente venute all’essere … Se è divenuto Figlio, ciò significa dunque che a un dato momento
non era … il che è la più grande assurdità ..” (De decretis Niccenae synodi, 26).
Sul piano cristologico è, infine, il suo successore, papa Felice (269-274) che scrivendo al
vescovo Massimo si Alessandria, manifesta l’acquisizione più completa dei termini genuini del
dibattito: “crediamo nel nostro Signore Gesù Cristo, nato dalla Vergine Maria, crediamo che egli
stesso è il Figlio eterno e il Verbo di Dio, e non un uomo adottato da Dio, che fornì un altro essere al
di fuori di lui. Né il Figlio di Dio adottò un uomo che formasse un altro essere al di fuori di lui, ma
essendo perfettamente Dio, è divenuto nello stesso tempo perfettamente uomo, incarnato dalla
Vergine”.
Tale lettera indica che la riflessione su Gesù non poteva ormai più prescindere da questo dato
di partenza: la duplice realtà umano-divina di Cristo Gesù, Dio stesso fatto uomo, Figlio di Dio per
essenza e non per adozione, nato dalla Vergine secondo carne reale e non apparente.
I Padri apostolici.
Essi sono quegli autori cristiani del I e II secolo i quali scrivono in base al ricordo diretto della
predicazione degli apostoli, avendola ascoltata personalmente o tramite la mediazione dei
discepoli di costoro. Tra questi troviamo Clemente, vescovo di Roma, Ignazio, vescovo di
Antiochia, Papia, vescovo di Gerapoli, Policarpo, vescovo di Smirne. Tre sono i punti sui quali il loro
insegnamento insiste e su cui matura il pensiero cristiano dei primi due secoli:
1. L’assoluta unicità di Dio, creatore del cielo e dell aterra, proprio nel momento in cui
sembrava prevalere l’idea della netta contrapposizione tra l’Essere Supremo e il mondo
visibile sotto la proèaganda delle teologie emanazioniste e del marcionismo. Il cosmo non è
espressione del male né l’opera di un Dio cattivo; è invece creatura dello stesso e unico
redentore che costituisce il fondamento della bellezza e dell’ordine che vi regnano.
Neanche l’uomo è risultato di uno sbaglio divino o di un prodotto del male. È immagine di
Dio.
2. La Trinità è il nome nel quale battezzare ogni persona che diventa cristiana. Ignazio di
Antiochia scrive: “Voi siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio
Padre, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito
Santo”.
3. La riflessione cristologica: si sottolinea il realismo dell’incarnazione. Così Policarpo scrive:
“Chi non confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne è un anticristo. Chi non confessa la
testimonianza della croce è dalla parte del diavolo. Cristo Gesù … portò i nostri peccati sul
suo corpo sul legno della croce”. Contro il docetismo, gnosticismo, marcionismo è
soprasttutto l’umanità del Cristo che viene proclamata con appassionato vigore,
fondamento e garanzia anche dell’efficacia del sacramento dell’eucaristia: “Stanno lontani
dall’eucaristia e dalla preghiera perché non riconoscono che l’eucaristia è la carne del
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nostro Salvatore Gesù Cristo che ha sofferto per i nostri peccati e che il Padre nella sua
bontà ha resuscitato. Costoro che disconoscono il dono di Dio, nella contestazione
muoiono”.
Ireneo di Lione.
Mentre gli apologisti e i padri apostolici erano intenti a difendere il cristianesimo dagli attacchi
del mondo esterno, v’era pure chi, all’interno della Chiesa, votava il proprio impegno a tutelarlo
dalle manipolazioni eterodosse. In questo sforzo troviamo Ireneo, il più importante tra i teologi del
II secolo.
Nato in Asia Minore, probsabilmente a Smirne, fu dapprima discepolo del vescovo Policarpo,
poi trasferitosi a Lione, fu successore del vescovo Fotino alla cattedra episcopale di quella città.
Spese tutta la sua vita e la sua riflessione per il fine ultimo della pace all’interno della Chiesa (un
nome un destino!), cecando di appianare con il suo pensiero e la sua azione diplomatica (si recò
due volte a Roma) le divergenze e i contrasti che nascevano all’interno della riflessione teologica
della chiesa nascente. I punti più importanti del suo pensiero permettono una prima formulazione
dogmatica ufficiale:
La perfetta parità ontologica tra il Padre ingenerato e il Figlio generato: “Signore è dunque il
Padre e Signore è il Figlio, e Dio il Padre e Dio il Figlio, giacchè quegli che da Dio è nato è
Dio. E in questa guisa, secondo l’essenza della sua natura e della sua potenza appare un Dio
solo, ed è però in qualità di provveditore dell’amministrazione della nostra salvezza e Figlio
e Padre”.
Una parità che si estende a pieno titolo anche allo Spirito Santo: “… il Verbo, cioè il Figlio
era da sempre con il Padre … anche la Sapienza, la quale è lo Spirito, era presso di lui prima
di ogni creazione …”. La creazione non è il momento della generazione del Figlio e dello
Spirito (emanazionismo, marcionismo, docetismo), ma semplicemente il momento nella
storia in cui Dio se rivela e si manifesta come Uno e Trino.
La prima teologia dell’Incarnazione della storia della cristianità: “il Verbo, che esisteva in
principio presso Dio, mediante il quale sono state create tutte le cose, che da sempre era
presente al genere umano, egli stesso negli ultimi tempi, nel tempo stabilito dal Padre, si
unì alla sua creatura e divenne uomo passibile … il Figlio di Dio non cominciò ad esistere
allora perché esisteva da sempre presso il Padre; ma quando si incarnò e divenne uomo,
ricapitolò in se stesso la lunga storia degli uomini, procurandosi in compendio la salvezza,
affinchè ricuperassimo in Cristo Gesù ciò che avevamo perduto in Adamo, cioè l’essere a
immagine e somiglianza di Dio”. Il Figlio dunque s’incarna per restaurare nello splendore
originario l’umanità decaduta per il peccato di Adamo. Secondo Ireneo questa è la
definitiva prova antignostica: il Padre non avrebbe mai permesso che il Figlio ricapitolasse
in sé la sorte dell’uomo, se la creazione fosse stata opera di un demiurgo e non sua.
Contro il docetismo poi Ireneo determina in maniere perentoria e assoluta la parità
ontologica tra la carne nostra e quella assunta dal Figlio: se così non fosse stasto la
ricapitolazione non avrebbe avuto luogo. L’azione efficace del Redentore attinge
dall’unione intima in lui tra la divinità e un’umanità reale e completa. Altrimenti Gesù
sarebbe rimasto il primo risorto, ma anche l’unico e ultimo. Ma in lui noi risorgiamo, perché
in lui nopi muoriamo, perché stirpe di lui noi siamo.
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