N. 1146 SENTENZA 15-29 DICEMBRE 1988 LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI; ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige), promosso con ordinanza emessa il 9 novembre 1987 dalla Corte d'assise di Bolzano nel procedimento penale a carico di Pahl Franz, iscritta al n. 853 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell'anno 1988; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nell'udienza pubblica del 21 giugno 1988 il Giudice relatore Antonio Baldassarre; Udito l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei Ministri; Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un giudizio penale a carico del consigliere provinciale Franz Pahl, imputato del reato previsto dall'art. 292 c.p. per aver pubblicamente vilipeso la bandiera italiana durante la seduta del Consiglio provinciale di Bolzano del 18 giugno 1986, la Corte di assise di Bolzano ha sollevato, con un'ordinanza del 9 novembre 1987, questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige) per violazione dell'art. 3 della Costituzione. Premesso che la garanzia dell'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai parlamentari nell'esercizio delle loro funzioni (art. 68 Cost.) è esteso dall'art. 28 St. T.A.A. ai consiglieri regionali e che l'art. 49 dello stesso Statuto ne prevede l'applicabilità anche ai membri dei Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano, il giudice a quo rileva che le norme statutarie ricordate possono essere interpretate in un duplice modo, uno estensivo e l'altro restrittivo, che sono, a suo avviso, egualmente contrastanti con l'art. 3 della Costituzione. In base a un'interpretazione restrittiva, le predette norme garantiscono ai consiglieri provinciali un'immunità limitata allo svolgimento delle sole funzioni connesse all'esercizio delle competenze legislative previste dagli artt. 8, 9 e 10 Stat. T.A.A. Poiché i membri del Parlamento godono della predetta garanzia per qualsiasi attività svolta nell'esercizio delle varie funzioni parlamentari, per il giudice a quo sussisterebbe una disparità di trattamento tra due categorie omogenee, che induce a sospettare gli artt. 28 e 49 St. T.A.A. di violazione del principio di eguaglianza. Sempre ad avviso del giudice a quo, quest'ultimo principio sarebbe, tuttavia, violato dalle stesse disposizioni anche ove si desse alle norme impugnate un'interpretazione estensiva, sostanzialmente coincidente con quella data all'art. 68 Cost. in relazione ai membri del Parlamento, poiché in tal caso la disparità di trattamento sussisterebbe fra i membri del Consiglio Provinciale, che godono di simile immunità, e i cittadini comuni, privi della medesima prerogativa. Il giudice a quo conclude ricordando che, secondo la più autorevole dottrina costituzionalistica, è pienamente ammissibile un giudizio di legittimità avente ad oggetto disposizioni costituzionali, come quelle statutarie, pur in relazione a eventuali vizi sostanziali. 2. - Intervenuto in giudizio tramite l'Avvocatura Generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha eccepito l'inammissibilità della questione sotto un duplice e distinto profilo: innanzitutto, perché sarebbe stato impugnato un atto avente valore di legge costituzionale, che come tale non può esser giudicato dalla Corte costituzionale per pretesi vizi sostanziali; in secondo luogo, perché la questione, per un verso, è stata prospettata sulla base di due interpretazioni, tra loro alternative, della disposizione impugnata e, per un altro, è stata posta in relazione a un diverso tertium comparationis, una volta di favore e un'altra volta di sfavore, che dovrebbe portare a pronunzie di segno diverso, una volta di tipo demolitorio e un'altra di tipo additivo. Da ultimo, l'Avvocatura dello Stato fa rilevare che il giudice a quo dà per scontata la rilevanza della questione, senza precisare gli esatti termini della vicenda che ha dato luogo all'imputazione ex art. 292 c.p. e malgrado il non risolto problema interpretativo, che, per un profilo del prospettato dilemma, implicherebbe l'estensione della responsabilità penale dell'imputato. 3. - In prossimità dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ha presentato una memoria, con la quale, oltre a sviluppare l'eccezione di inammissibilità attraverso un minuzioso esame della giurisprudenza costituzionale, teso a dimostrare l'insussistenza di precedenti nel senso voluto dal giudice a quo, e attraverso il non riconoscimento nel caso di specie di un principio supremo della Costituzione, ha altresì chiesto che la questione sia dichiarata non fondata, poiché, in ambedue le interpretazioni possibili, si mettono a confronto categorie non omogenee: ora quella dei parlamentari e quella dei consiglieri provinciali, ora quella di questi ultimi e quella della generalità dei cittadini. Considerato in diritto 1. - La Corte di assise di Bolzano, essendo investita di un giudizio contro un membro del Consiglio Provinciale imputato del reato di vilipendio alla bandiera (art. 292 c.p.) ed essendo chiamata ad applicare alla fattispecie dedotta in giudizio l'art. 49 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale del Trentino-Alto Adige), che, richiamando l'art. 28 dello stesso decreto, estende ai membri dei Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano la prerogativa della irresponsabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 dello Statuto per violazione del principio supremo dell'ordinamento costituzionale sancito dall'art. 3 della Costituzione (principio di eguaglianza). In particolare il giudice a quo ritiene che quest'ultimo principio risulti violato tanto ove si dia un'interpretazione restrittiva delle disposizioni impugnate, nel senso che l'anzidetta prerogativa sia applicabile soltanto in relazione alle funzioni svolte dai consiglieri provinciali nell'esercizio delle competenze legislative affidate alle Province autonome, quanto ove se ne dia un'interpretazione estensiva, sostanzialmente diretta ad applicare la ricordata prerogativa a qualsiasi funzione svolta in qualità di consiglieri provinciali, analogamente a quanto avviene per i membri del Parlamento nazionale. Nel primo caso, infatti, il giudice a quo ravvisa una disparità di trattamento tra i membri del Parlamento e quelli dei Consigli delle Province autonome, nel secondo, invece, la diseguaglianza sussisterebbe tra i predetti consiglieri provinciali e la generalità dei cittadini privi della medesima prerogativa. 2. - In relazione alla questione proposta, l'Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, ha presentato tre distinte eccezioni di inammissibilità: una attinente all'idoneità dell'atto impugnato ad essere oggetto del giudizio di legittimità costituzionale previsto dall'art. 134 Cost. e due relative alla sussistenza dei requisiti processuali necessari per la corretta instaurazione del predetto giudizio. Poiché la verifica di questi ultimi - che, nel caso consistono nella valutazione della rilevanza compiuta da parte del giudice a quo e nella possibilità di porre questioni basate su interpretazioni alternative della disposizione impugnata - è logicamente successiva alla verifica dell'idoneità dell'atto in cui è contenuta la norma contestata a fungere da oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, occorre innanzitutto esaminare se le disposizioni previste dagli artt. 28 e 49 St. T.A.A. rivestano il valore di legge necessario perché possano validamente costituire oggetto del sindacato della Corte costituzionale in sede di legittimità. 2.1. - L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce, innanzitutto, l'insindacabilità da parte di questa Corte di disposizioni aventi valore di legge costituzionale, quantomeno quando queste siano impugnate per vizi sostanziali. L'eccezione non può essere accolta. La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell'ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare "copertura costituzionale" fornita dall'art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all'accertamento della loro conformità ai "principi supremi dell'ordinamento costituzionale" (v. sentt. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte "in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana" (v. sentt. nn. 183 del 1973, 170 del 1984). Non si può, pertanto, negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all'assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore. 2.2. - L'Avvocatura generale dello Stato ha sollevato una seconda eccezione di inammissibilità in relazione al fatto che, avendo il giudice a quo prospettata la questione di costituzionalità in termini alternativi, chiede in sostanza a questa Corte di pronunziarsi su un petitum contradittorio, che dovrebbe sfociare in sentenze di segno diverso, se non opposto. L'eccezione va accolta. Non si può non concordare con l'Avvocatura generale dello Stato nel ritenere che le questioni di costituzionalità sollevate dal giudice a quo abbiano un carattere del tutto pretestuoso. Ciò si rivela sia nella sostanziale arbitrarietà delle comparazioni che il giudice a quo propone, sia nel modo stesso in cui le questioni sono sottoposte a questa Corte. In particolare, il giudice a quo ipotizza due interpretazioni della disposizione impugnata aventi significato assai diverso fra loro o addirittura opposto e le prospetta entrambe al giudice di costituzionalità senza precisare quale delle due propone. Ma è giurisprudenza ormai costante di questa Corte (v. sentt. nn. 169 del 1982, 225 del 1983, 30 del 1984, nonché ord. n. 204 del 1983), ritenere inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative a disposizioni che, essendo proposte dal giudice a quo secondo interpretazioni tra loro contrastanti e dando vita, pertanto, a richieste meramente ipotetiche, impediscono di identificare precisamente il thema decidendum e fanno venir meno le possibilità di verificare la rilevanza delle questioni stesse, in quanto proposte "in astratto". Per tali motivi le questioni sollevate dal giudice a quo vanno senz'altro dichiarate inammissibili. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte di assise di Bolzano con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1988. Il Presidente: SAJA Il redattore: BALDASSARRE Il cancelliere: MINELLI Depositata in cancelleria il 29 dicembre 1988. Il direttore della cancelleria: MINELLI N. 252 SENTENZA 5 - 17 luglio 2001. Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 29 del 25 luglio 2001 LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Fernando SANTOSUOSSO; Giudici: Massimo VARI, Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI,Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK; ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza emessa il 4 marzo 2000 dal tribunale di Genova sul ricorso proposto da Dia Saliou contro il Prefetto di Genova, iscritta al n. 367 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, 1ª serie speciale, dell'anno 2000. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 13 dicembre 2000 il giudice relatore Fernanda Contri. Ritenuto in fatto 1. - Il tribunale di Genova, con ordinanza del 4 marzo 2000, ha sollevato - in relazione agli artt. 2 e 32 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero che, entrato clandestinamente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di terminare un trattamento terapeutico essenziale. Il giudice a quo è investito dell'esame di un ricorso presentato da un cittadino del Senegal avverso il decreto prefettizio di espulsione emesso nei suoi confronti per essere entrato in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera; il rimettente rileva che il ricorrente, quale unico motivo di annullamento del provvedimento, assume di aver subito l'amputazione del piede sinistro, di essersi introdotto in Italia, pur essendo privo di regolare passaporto, al solo fine di sostituire la protesi e di non avere la possibilità di ottenere tale prestazione sanitaria nel Paese di origine; secondo il rimettente, le circostanze dedotte a sostegno del ricorso - relative all'insufficienza della protesi applicata, all'essere lo straniero in cura presso una struttura sanitaria pubblica e seguito da un'associazione di volontariato ed alla circostanza che egli è in attesa di un nuovo apparecchio adeguato alle sue condizioni - sono state tutte provate nell'istruttoria svolta. Rileva il giudice a quo che l'art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 - che prevede una serie di interventi sanitari a favore dei cittadini stranieri presenti nel territorio nazionale, anche nel caso in cui essi non siano in regola con le norme relative all'ingresso ed al soggiorno - conterrebbe un elenco esemplificativo e non tassativo di cure ambulatoriali ed ospedaliere "urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio", ma riguarderebbe i casi in cui lo straniero "venga ad ammalarsi nel territorio dello Stato", dal momento che i commi 1 e 2 della stessa disposizione prevedono il diverso caso dello straniero che chiede il permesso di soggiorno allo scopo di venire in Italia a curarsi. Sempre secondo il giudice rimettente, non potendosi porre in dubbio che l'intervento sanitario di cui abbisogna il ricorrente rientri tra quelli che la legge definisce essenziali, "dovendosi recuperare la deambulazione come strettamente attinente ai postulati della dignità umana" ed essendovi una legittima aspettativa dello straniero a terminare la terapia in atto, la circostanza che la norma impugnata non vieti l'espulsione dei soggetti che si trovano nelle sue condizioni violerebbe l'art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo quale valore fondante della democrazia pluralista, e l'art. 32 Cost., che qualifica la salute quale diritto fondamentale dell'individuo e non del solo cittadino. 2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata. L'Avvocatura preliminarmente osserva come l'art. 32 della Costituzione sia una norma programmatica e non immediatamente precettiva, che delimita i "confini esterni" del diritto alla salute attraverso "precetti di ordine negativo", ma non individua il contenuto in positivo di un diritto che è anche interesse primario della collettività. In questo campo, secondo la difesa erariale, l'azione dei pubblici poteri può quindi incidere su situazioni soggettive individuali con modalità rimesse alla discrezionalità del legislatore ordinario secondo scelte che - se effettuate nei limiti della ragionevolezza - possono tener conto di esigenze di carattere finanziario, economico e sociale e di quelle dettate da altri interessi costituzionalmente garantiti. L'Avvocatura osserva quindi come la vigente disciplina sull'immigrazione abbia operato un adeguato bilanciamento di due interessi costituzionalmente protetti, il diritto alla salute dello straniero e la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica connesse al contrasto del fenomeno dell'immigrazione clandestina. In tale contesto, secondo la difesa erariale, il legislatore, da un lato ha stabilito la parità di trattamento tra il cittadino e lo straniero regolarmente soggiornante in Italia che viene iscritto al servizio sanitario nazionale - dall'altro ha previsto uno specifico visto di ingresso per gli stranieri che intendano sottoporsi a terapie necessarie. Allo straniero illegalmente presente nel territorio dello Stato la legge ha assicurato un livello minimo di cure mediche consentendogli, con la garanzia dell'anonimato, di accedere a quelle "essenziali ed urgenti", espressione con la quale il legislatore non avrebbe inteso indicare qualunque terapia relativa a stati patologici di rilievo, ma assicurare esclusivamente quelle cure indispensabili alla salvaguardia della vita umana e della salute pubblica, cure che vengono garantite anche quando la situazione di irregolarità richiederebbe di dare esecuzione ad un provvedimento di espulsione. Ad avviso della difesa erariale il legislatore avrebbe considerato le esigenze di tutela della sicurezza pubblica non estendendo completamente allo straniero irregolare le terapie mediche di lungo periodo, scelta che appare conforme sia alla tutela dei diritti inviolabili della persona sia al canone di ragionevolezza. Secondo l'Avvocatura, infine, l'esecuzione del provvedimento di espulsione non pregiudicherebbe il diritto dello straniero a far ritorno in Italia per sottoporsi a cure mediche, possibilità garantita all'interessato anche prima della scadenza del termine di cinque anni previsto dalla legge, previa autorizzazione da parte del Ministro dell'interno. Considerato in diritto 1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Genova investe l'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero extra-comunitario che, essendo entrato irregolarmente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di terminare un trattamento terapeutico che risulti essenziale in relazione alle sue pregresse condizioni di salute; secondo il giudice rimettente, l'omessa previsione di un tale specifico divieto di espulsione violerebbe gli artt. 2 e 32 della Costituzione perché la possibilità per il cittadino extra-comunitario, non in regola con le norme sull'ingresso ed il soggiorno, di accedere alle "cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti e comunque essenziali" nei presidi sanitari pubblici ed accreditati, prevista dall'art. 35 del d.lgs. n. 286 citato, riguarderebbe le sole ipotesi in cui lo straniero si sia ammalato in Italia e non quelle nelle quali egli abbia, come nel caso del giudizio in corso davanti al giudice a quo una patologia pregressa. 2. - La questione non è fondata. Occorre preliminarmente rilevare che, secondo un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è "costituzionalmente condizionato" dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di "un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto" (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e n. 267 del 1998). Questo "nucleo irriducibile" di tutela della salute quale diritto fondamentale della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso. 3. - Conformemente a tale principio, il legislatore - dopo aver previsto, all'art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998, che "allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti" - ha dettato, per quel che concerne la tutela del diritto alla salute che qui viene in rilievo, alcune specifiche disposizioni, nelle quali i modi di esercizio dello stesso sono differenziati a seconda della posizione del soggetto rispetto agli obblighi relativi all'ingresso e al soggiorno. L'art. 34 infatti prevede che lo straniero regolarmente soggiornante nello Stato ed i suoi familiari siano in linea di principio obbligatoriamente iscritti al servizio sanitario nazionale, con piena eguaglianza di diritti e doveri, anche contributivi, coi cittadini italiani; l'art. 35, commi 1 e 2, disciplina il caso in cui lo straniero sia presente regolarmente nel territorio dello Stato ma non sia iscritto al Servizio sanitario nazionale, mentre l'art. 36 del d.lgs. cit. prevede la possibilità di ottenere uno specifico visto di ingresso ed un permesso di soggiorno a favore dello straniero che intende entrare in Italia allo scopo di ricevere cure mediche. Per gli stranieri presenti sul territorio nazionale ma non in regola con le norme sull'ingresso ed il soggiorno, l'art. 35, comma 3, del decreto cit. dispone che sono "assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva"; agli stessi sono poi, "in particolare", garantiti la tutela sociale della gravidanza e della maternità, la tutela della salute del minore, nonché le vaccinazioni e gli interventi di profilassi con particolare riguardo alle malattie infettive, secondo una elencazione che - contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo - non può ritenersi esaustiva degli interventi sanitari da assicurare "comunque" al soggetto che si trovi, a qualsiasi titolo, nel territorio dello Stato. Va in proposito ancora rilevato che il comma 5 dello stesso art. 35, proprio allo scopo di tutelare il diritto alla salute dello straniero comunque presente nel territorio dello Stato, prevede che "l'accesso alle strutture sanitarie ... non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano", disposizione che conferma il favor per la salute della persona che connota tutta la disciplina in materia. 4. - La legge prevede quindi un sistema articolato di assistenza sanitaria per gli stranieri, nel quale viene in ogni caso assicurato a tutti, quindi anche a coloro che si trovano senza titolo legittimo sul territorio dello Stato, il "nucleo irriducibile" del diritto alla salute garantito dall'art. 32 Cost; stante la lettera e) la ratio delle disposizioni sopra riportate, a tali soggetti sono dunque erogati non solo gli interventi di assoluta urgenza e quelli indicati dall'art. 35, comma 3, secondo periodo, ma tutte le cure necessarie, siano esse ambulatoriali o ospedaliere, comunque essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio. E non è senza significato che, in attuazione della legge, l'art. 43, commi 2 e seguenti, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) abbia previsto particolari modalità per evitare che, dalla situazione di irregolarità nel territorio dello Stato, derivi un ostacolo all'erogazione delle prestazioni terapeutiche di cui all'art. 35, comma 3 citato, anche mediante l'attribuzione a fini amministrativi di un apposito codice identificativo sanitario provvisorio, secondo disposizioni che sono state in seguito precisate con la circolare del Ministero della sanità n. 5 del 24 marzo 2000. 5. - Dall'esame delle sopra indicate disposizioni emerge perciò l'erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo, secondo il quale il diritto inviolabile alla salute dello straniero irregolarmente presente nel territorio nazionale, garantito dagli artt. 2 e 32 Cost., potrebbe essere tutelato solo attraverso la previsione - da inserire nell'art. 19 del decreto legislativo n. 286 del 1998 - di uno specifico divieto di espulsione per il soggetto che si trovi nella necessità di usufruire di una terapia essenziale per la sua salute. Al contrario, lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti, secondo i criteri indicati dall'art. 35, comma 3 citato, trattandosi di un diritto fondamentale della persona che deve essere garantito, così come disposto, in linea generale, dall'art. 2 dello stesso decreto legislativo n. 286 del 1998. La valutazione dello stato di salute del soggetto e della indifferibilità ed urgenza delle cure deve essere effettuata caso per caso, secondo il prudente apprezzamento medico; di fronte ad un ricorso avverso un provvedimento di espulsione si dovrà, qualora vengano invocate esigenze di salute dell'interessato, preventivamente valutare tale profilo - tenuto conto dell'intera disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 286 del 1998 - se del caso ricorrendo ai mezzi istruttori che la legge, pur in un procedimento caratterizzato da concentrazione e da esigenze di rapidità, certamente consente di utilizzare. Qualora risultino fondate le ragioni addotte dal ricorrente in ordine alla tutela del suo diritto costituzionale alla salute, si dovrà provvedere di conseguenza, non potendosi eseguire l'espulsione nei confronti di un soggetto che potrebbe subire, per via dell'immediata esecuzione del provvedimento, un irreparabile pregiudizio a tale diritto. Non sussiste perciò la violazione delle norme costituzionali indicate dal rimettente. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione, dal tribunale di Genova con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001. Il Presidente: Santosuosso Il redattore: Contri Il cancelliere: Di Paola Depositata in cancelleria il 17 luglio 2001. Il direttore della cancelleria: Di Paola N. 252 SENTENZA 5 - 17 luglio 2001. Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 29 del 25 luglio 2001 LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Fernando SANTOSUOSSO; Giudici: Massimo VARI, Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI,Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK; ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza emessa il 4 marzo 2000 dal tribunale di Genova sul ricorso proposto da Dia Saliou contro il Prefetto di Genova, iscritta al n. 367 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, 1ª serie speciale, dell'anno 2000. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 13 dicembre 2000 il giudice relatore Fernanda Contri. Ritenuto in fatto 1. - Il tribunale di Genova, con ordinanza del 4 marzo 2000, ha sollevato - in relazione agli artt. 2 e 32 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero che, entrato clandestinamente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di terminare un trattamento terapeutico essenziale. Il giudice a quo è investito dell'esame di un ricorso presentato da un cittadino del Senegal avverso il decreto prefettizio di espulsione emesso nei suoi confronti per essere entrato in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera; il rimettente rileva che il ricorrente, quale unico motivo di annullamento del provvedimento, assume di aver subito l'amputazione del piede sinistro, di essersi introdotto in Italia, pur essendo privo di regolare passaporto, al solo fine di sostituire la protesi e di non avere la possibilità di ottenere tale prestazione sanitaria nel Paese di origine; secondo il rimettente, le circostanze dedotte a sostegno del ricorso - relative all'insufficienza della protesi applicata, all'essere lo straniero in cura presso una struttura sanitaria pubblica e seguito da un'associazione di volontariato ed alla circostanza che egli è in attesa di un nuovo apparecchio adeguato alle sue condizioni - sono state tutte provate nell'istruttoria svolta. Rileva il giudice a quo che l'art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 - che prevede una serie di interventi sanitari a favore dei cittadini stranieri presenti nel territorio nazionale, anche nel caso in cui essi non siano in regola con le norme relative all'ingresso ed al soggiorno - conterrebbe un elenco esemplificativo e non tassativo di cure ambulatoriali ed ospedaliere "urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio", ma riguarderebbe i casi in cui lo straniero "venga ad ammalarsi nel territorio dello Stato", dal momento che i commi 1 e 2 della stessa disposizione prevedono il diverso caso dello straniero che chiede il permesso di soggiorno allo scopo di venire in Italia a curarsi. Sempre secondo il giudice rimettente, non potendosi porre in dubbio che l'intervento sanitario di cui abbisogna il ricorrente rientri tra quelli che la legge definisce essenziali, "dovendosi recuperare la deambulazione come strettamente attinente ai postulati della dignità umana" ed essendovi una legittima aspettativa dello straniero a terminare la terapia in atto, la circostanza che la norma impugnata non vieti l'espulsione dei soggetti che si trovano nelle sue condizioni violerebbe l'art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo quale valore fondante della democrazia pluralista, e l'art. 32 Cost., che qualifica la salute quale diritto fondamentale dell'individuo e non del solo cittadino. 2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata. L'Avvocatura preliminarmente osserva come l'art. 32 della Costituzione sia una norma programmatica e non immediatamente precettiva, che delimita i "confini esterni" del diritto alla salute attraverso "precetti di ordine negativo", ma non individua il contenuto in positivo di un diritto che è anche interesse primario della collettività. In questo campo, secondo la difesa erariale, l'azione dei pubblici poteri può quindi incidere su situazioni soggettive individuali con modalità rimesse alla discrezionalità del legislatore ordinario secondo scelte che - se effettuate nei limiti della ragionevolezza - possono tener conto di esigenze di carattere finanziario, economico e sociale e di quelle dettate da altri interessi costituzionalmente garantiti. L'Avvocatura osserva quindi come la vigente disciplina sull'immigrazione abbia operato un adeguato bilanciamento di due interessi costituzionalmente protetti, il diritto alla salute dello straniero e la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica connesse al contrasto del fenomeno dell'immigrazione clandestina. In tale contesto, secondo la difesa erariale, il legislatore, da un lato ha stabilito la parità di trattamento tra il cittadino e lo straniero regolarmente soggiornante in Italia che viene iscritto al servizio sanitario nazionale - dall'altro ha previsto uno specifico visto di ingresso per gli stranieri che intendano sottoporsi a terapie necessarie. Allo straniero illegalmente presente nel territorio dello Stato la legge ha assicurato un livello minimo di cure mediche consentendogli, con la garanzia dell'anonimato, di accedere a quelle "essenziali ed urgenti", espressione con la quale il legislatore non avrebbe inteso indicare qualunque terapia relativa a stati patologici di rilievo, ma assicurare esclusivamente quelle cure indispensabili alla salvaguardia della vita umana e della salute pubblica, cure che vengono garantite anche quando la situazione di irregolarità richiederebbe di dare esecuzione ad un provvedimento di espulsione. Ad avviso della difesa erariale il legislatore avrebbe considerato le esigenze di tutela della sicurezza pubblica non estendendo completamente allo straniero irregolare le terapie mediche di lungo periodo, scelta che appare conforme sia alla tutela dei diritti inviolabili della persona sia al canone di ragionevolezza. Secondo l'Avvocatura, infine, l'esecuzione del provvedimento di espulsione non pregiudicherebbe il diritto dello straniero a far ritorno in Italia per sottoporsi a cure mediche, possibilità garantita all'interessato anche prima della scadenza del termine di cinque anni previsto dalla legge, previa autorizzazione da parte del Ministro dell'interno. Considerato in diritto 1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Genova investe l'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero extra-comunitario che, essendo entrato irregolarmente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di terminare un trattamento terapeutico che risulti essenziale in relazione alle sue pregresse condizioni di salute; secondo il giudice rimettente, l'omessa previsione di un tale specifico divieto di espulsione violerebbe gli artt. 2 e 32 della Costituzione perché la possibilità per il cittadino extra-comunitario, non in regola con le norme sull'ingresso ed il soggiorno, di accedere alle "cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti e comunque essenziali" nei presidi sanitari pubblici ed accreditati, prevista dall'art. 35 del d.lgs. n. 286 citato, riguarderebbe le sole ipotesi in cui lo straniero si sia ammalato in Italia e non quelle nelle quali egli abbia, come nel caso del giudizio in corso davanti al giudice a quo una patologia pregressa. 2. - La questione non è fondata. Occorre preliminarmente rilevare che, secondo un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è "costituzionalmente condizionato" dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di "un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto" (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e n. 267 del 1998). Questo "nucleo irriducibile" di tutela della salute quale diritto fondamentale della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso. 3. - Conformemente a tale principio, il legislatore - dopo aver previsto, all'art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998, che "allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti" - ha dettato, per quel che concerne la tutela del diritto alla salute che qui viene in rilievo, alcune specifiche disposizioni, nelle quali i modi di esercizio dello stesso sono differenziati a seconda della posizione del soggetto rispetto agli obblighi relativi all'ingresso e al soggiorno. L'art. 34 infatti prevede che lo straniero regolarmente soggiornante nello Stato ed i suoi familiari siano in linea di principio obbligatoriamente iscritti al servizio sanitario nazionale, con piena eguaglianza di diritti e doveri, anche contributivi, coi cittadini italiani; l'art. 35, commi 1 e 2, disciplina il caso in cui lo straniero sia presente regolarmente nel territorio dello Stato ma non sia iscritto al Servizio sanitario nazionale, mentre l'art. 36 del d.lgs. cit. prevede la possibilità di ottenere uno specifico visto di ingresso ed un permesso di soggiorno a favore dello straniero che intende entrare in Italia allo scopo di ricevere cure mediche. Per gli stranieri presenti sul territorio nazionale ma non in regola con le norme sull'ingresso ed il soggiorno, l'art. 35, comma 3, del decreto cit. dispone che sono "assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva"; agli stessi sono poi, "in particolare", garantiti la tutela sociale della gravidanza e della maternità, la tutela della salute del minore, nonché le vaccinazioni e gli interventi di profilassi con particolare riguardo alle malattie infettive, secondo una elencazione che - contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo - non può ritenersi esaustiva degli interventi sanitari da assicurare "comunque" al soggetto che si trovi, a qualsiasi titolo, nel territorio dello Stato. Va in proposito ancora rilevato che il comma 5 dello stesso art. 35, proprio allo scopo di tutelare il diritto alla salute dello straniero comunque presente nel territorio dello Stato, prevede che "l'accesso alle strutture sanitarie ... non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano", disposizione che conferma il favor per la salute della persona che connota tutta la disciplina in materia. 4. - La legge prevede quindi un sistema articolato di assistenza sanitaria per gli stranieri, nel quale viene in ogni caso assicurato a tutti, quindi anche a coloro che si trovano senza titolo legittimo sul territorio dello Stato, il "nucleo irriducibile" del diritto alla salute garantito dall'art. 32 Cost; stante la lettera e) la ratio delle disposizioni sopra riportate, a tali soggetti sono dunque erogati non solo gli interventi di assoluta urgenza e quelli indicati dall'art. 35, comma 3, secondo periodo, ma tutte le cure necessarie, siano esse ambulatoriali o ospedaliere, comunque essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio. E non è senza significato che, in attuazione della legge, l'art. 43, commi 2 e seguenti, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) abbia previsto particolari modalità per evitare che, dalla situazione di irregolarità nel territorio dello Stato, derivi un ostacolo all'erogazione delle prestazioni terapeutiche di cui all'art. 35, comma 3 citato, anche mediante l'attribuzione a fini amministrativi di un apposito codice identificativo sanitario provvisorio, secondo disposizioni che sono state in seguito precisate con la circolare del Ministero della sanità n. 5 del 24 marzo 2000. 5. - Dall'esame delle sopra indicate disposizioni emerge perciò l'erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo, secondo il quale il diritto inviolabile alla salute dello straniero irregolarmente presente nel territorio nazionale, garantito dagli artt. 2 e 32 Cost., potrebbe essere tutelato solo attraverso la previsione - da inserire nell'art. 19 del decreto legislativo n. 286 del 1998 - di uno specifico divieto di espulsione per il soggetto che si trovi nella necessità di usufruire di una terapia essenziale per la sua salute. Al contrario, lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti, secondo i criteri indicati dall'art. 35, comma 3 citato, trattandosi di un diritto fondamentale della persona che deve essere garantito, così come disposto, in linea generale, dall'art. 2 dello stesso decreto legislativo n. 286 del 1998. La valutazione dello stato di salute del soggetto e della indifferibilità ed urgenza delle cure deve essere effettuata caso per caso, secondo il prudente apprezzamento medico; di fronte ad un ricorso avverso un provvedimento di espulsione si dovrà, qualora vengano invocate esigenze di salute dell'interessato, preventivamente valutare tale profilo - tenuto conto dell'intera disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 286 del 1998 - se del caso ricorrendo ai mezzi istruttori che la legge, pur in un procedimento caratterizzato da concentrazione e da esigenze di rapidità, certamente consente di utilizzare. Qualora risultino fondate le ragioni addotte dal ricorrente in ordine alla tutela del suo diritto costituzionale alla salute, si dovrà provvedere di conseguenza, non potendosi eseguire l'espulsione nei confronti di un soggetto che potrebbe subire, per via dell'immediata esecuzione del provvedimento, un irreparabile pregiudizio a tale diritto. Non sussiste perciò la violazione delle norme costituzionali indicate dal rimettente. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione, dal tribunale di Genova con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001. Il Presidente: Santosuosso Il redattore: Contri Il cancelliere: Di Paola Depositata in cancelleria il 17 luglio 2001. Il direttore della cancelleria: Di Paola Sentenza della Corte dell'8 ottobre 1996. Erich Dillenkofer, Christian Erdmann, Hans-Jürgen Schulte, Anke Heuer, Werner, Ursula e Trosten Knor contro Bundesrepublik Deutschland. Domanda di pronuncia pregiudiziale: Landgericht Bonn - Germania. Direttiva 90/314 concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso" - Mancata attuazione - Responsabilità e obbligo di risarcimento da parte dello Stato membro. Cause riunite C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94 e C-190/94. Parole chiave 1. Diritto comunitario ° Diritti attribuiti ai singoli ° Violazione, da parte di uno Stato membro, dell' obbligo di attuare una direttiva ° Obbligo di risarcire il danno causato ai singoli ° Presupposti ° Violazione grave e manifesta ° Nozione ° Mancata attuazione della direttiva entro il termine prescritto (Trattato CE, art. 189, terzo comma) 2. Ravvicinamento delle legislazioni ° Viaggi, vacanze e circuiti "tutto compreso" ° Direttiva 90/314 ° Art. 7 ° Protezione contro il rischio di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore ° Attribuzione a favore dell' acquirente di viaggi "tutto compreso" di diritti il cui contenuto possa essere sufficientemente individuato (Direttiva del Consiglio 90/314, art. 7) 3. Ravvicinamento delle legislazioni ° Viaggi, vacanze e circuiti "tutto compreso" ° Direttiva 90/314 ° Protezione contro il rischio di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore ° Provvedimenti necessari per garantire una corretta attuazione della direttiva (Direttiva del Consiglio 90/314, artt. 7 e 9) Massima 1. La mancanza di qualsiasi provvedimento d' attuazione di una direttiva per raggiungere il risultato prescritto da quest' ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una violazione grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento a favore dei singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto dalla direttiva implichi l' attribuzione, a favore dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall' altro, esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito. 2. Il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva 90/314, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso", a norma del quale l' organizzatore e/o il venditore parte del contratto danno prove sufficienti di disporre di garanzie per assicurare, in caso di insolvenza o di fallimento, il rimborso dei fondi depositati dal consumatore e il suo rimpatrio, implica l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti il cui contenuto possa essere individuato con precisione sufficiente. 3. Per osservare l' art. 9 della direttiva 90/314, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso", il quale prevede, a carico degli Stati membri, l' obbligo di adottare le misure necessarie per conformarsi alla direttiva al più tardi il 31 dicembre 1992, gli Stati membri dovevano adottare, entro il termine prescritto, tutte le misure necessarie per garantire ai singoli, fin dal 1 gennaio 1993, una protezione effettiva contro i rischi di insolvenza e di fallimento degli organizzatori. Al riguardo, qualora uno Stato membro consenta ad un organizzatore di chiedere ai viaggiatori il versamento di un acconto non superiore al 10% del prezzo del viaggio, fino però ad un determinato importo massimo, l' obiettivo di protezione dei consumatori perseguito dall' art. 7 della direttiva è raggiunto solo purché sia garantito anche il rimborso di tale anticipo in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore. Lo stesso art. 7 va inoltre interpretato nel senso che, in primo luogo, le garanzie di cui gli organizzatori debbono "dar prove" di disporre non sussistono nemmeno qualora i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito, che, se garantiscono loro un diritto diretto nei confronti del prestatore effettivo dei servizi, non obbligano necessariamente quest' ultimo, peraltro esposto anch' esso al rischio di fallimento, a rispettarli, e nel senso che, in secondo luogo, uno Stato membro non può rinunciare a recepire la direttiva eccependo una sentenza della suprema corte nazionale, ai sensi della quale gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" non sono più tenuti a versare oltre il 10% del prezzo del viaggio prima di aver ottenuto siffatti documenti costituenti titolo di credito. D' altro canto, né l' obiettivo della direttiva né sue disposizioni specifiche obbligano gli Stati membri ad adottare provvedimenti specifici nell' ambito dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza e il giudice nazionale può sempre, a seguito della mancata attuazione della direttiva entro il termine prescritto e per determinare il danno risarcibile, verificare se il soggetto leso abbia fatto prova di una ragionevole diligenza per evitare il danno o limitarne l' entità. Tuttavia, un acquirente di viaggi "tutto compreso" che abbia versato l' intero prezzo del viaggio non può essere considerato negligente per il solo fatto di non essersi avvalso, conformemente alla citata sentenza nazionale, della possibilità di non versare più del 10% del prezzo totale del viaggio prima di aver ottenuto documenti costituenti titoli di credito. Parti Nei procedimenti riuniti C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94 e C-190/94, avente ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, a norma dell' art. 177 del Trattato CE, dal Landgericht di Bonn nelle cause dinanzi ad esso pendenti tra Erich Dillenkofer, Christian Erdmann, Hans-Juergen Schulte, Anke Heuer, Werner, Ursula e Torsten Knor, e Repubblica federale di Germania, domanda vertente sull' interpretazione della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, 90/314/CEE, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso" (GU L 158, pag. 59), LA CORTE, composta dai signori G.C. Rodríguez Iglesias, presidente, G.F. Mancini, J.C. Moitinho de Almeida, J.L. Murray e L. Sevón, presidenti di sezione, C.N. Kakouris, P.J.G. Kapteyn, C. Gulmann (relatore), D.A.O. Edward, J.-P. Puissochet, G. Hirsch, P. Jann e H. Ragnemalm, giudici, avvocato generale: G. Tesauro cancelliere: R. Grass viste le osservazioni scritte presentate: ° per la signora Anke Heuer, dall' avv. Gert Meier, del foro di Colonia; ° per la Repubblica federale di Germania, dai signori Karlheinz Stoehr, Ministerialrat presso il ministero federale della Giustizia, Alfred Dittrich, Regierungsdirektor presso lo stesso ministero, Ernst Roeder, Ministerialrat presso il ministero federale dell' Economia, in qualità di agenti, e dall' avv. Dieter Sellner, del foro di Bonn; ° per il governo olandese, dal signor Adriaan Bos, consigliere giuridico presso il ministero degli Affari esteri, in qualità di agente; ° per il governo del Regno Unito, dai signori John Collins, Assistant Treasury Solicitor, in qualità di agente, Stephen Richards e Rhodri Thompson, barrister; ° per la Commissione delle Comunità europee, dal signor Rolf Waegenbaur, consigliere giuridico principale, in qualità di agente, e dall' avv. Barbara Rapp, del foro di Bruxelles, vista la relazione d' udienza, sentite le osservazioni orali del signor Erich Dillenkofer, con l' avv. Roland Gappa, del foro di Dahn, della signora Anke Heuer, con l' avv. Gert Meier, dei signori Werner e Torsten Knor e della signora Ursula Knor, con l' avv. Karin Schumacher-d' Hondt, del foro di Bonn, della Repubblica federale di Germania, rappresentata dal signor Ernst Roeder e dall' avv. Dieter Sellner, del governo olandese, rappresentato dal signor Marc Fierstra, consigliere giuridico aggiunto al ministero degli Affari esteri, in qualità di agente, del governo francese, rappresentato dalla signora Catherine de Salins, vicedirettore presso la direzione degli affari giuridici del ministero degli Affari esteri, in qualità di agente, del governo del Regno Unito, rappresentato dal signor Stephen Richards, barrister, e della Commissione, rappresentata dall' avv. Barbara Rapp, all' udienza del 17 ottobre 1995, sentite le conclusioni dell' avvocato generale, presentate all' udienza del 28 novembre 1995, ha pronunciato la seguente Sentenza Motivazione della sentenza 1 Con ordinanze 6 giugno 1994, pervenute alla Corte il 28 giugno successivo, nei procedimenti C178/94 e C-179/94, e il 1 luglio 1994, nei procedimenti C-188/94, C-189/94 e C-190/94, il Landgericht di Bonn ha sottoposto alla Corte, a norma dell' art. 177 del Trattato CE, dodici questioni pregiudiziali relative all' interpretazione della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, 90/314/CEE, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso" (GU L 158, pag. 59; in prosieguo: la "direttiva"). 2 Tali questioni sono state sollevate nel contesto di azioni di risarcimento danni intentate, rispettivamente, dal signor Erich Dillenkofer, dal signor Christian Erdmann, dal signor HansJuergen Schulte, dalla signora Anke Heuer nonché dai signori Werner e Torsten Knor e dalla signora Ursula Knor (in prosieguo: gli "attori") contro la Repubblica federale di Germania per i danni da essi subiti in seguito alla mancata attuazione della direttiva nel termine prescritto. 3 Ai sensi del suo art. 1, la direttiva ha lo scopo di ravvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti i viaggi, le vacanze e i circuiti turistici "tutto compreso" venduti o offerti in vendita nel territorio della Comunità. 4 L' art. 2 contiene un certo numero di definizioni. E' così previsto che "(...) si intende per: 1) servizio tutto compreso: la prefissata combinazione di almeno due degli elementi in appresso, venduta o offerta in vendita ad un prezzo forfettario, laddove questa prestazione superi le 24 ore o comprenda una notte: a) trasporto; b) alloggio; c) altri servizi turistici non accessori al trasporto o all' alloggio che costituiscono una parte significativa del 'tutto compreso' . (...) 2) organizzatore: la persona che organizza in modo non occasionale servizi tutto compreso e li vende o li offre in vendita direttamente o tramite un venditore; 3) venditore: la persona che vende o offre in vendita servizi tutto compreso proposti dall' organizzatore; 4) consumatore: la persona che acquista o si impegna ad acquistare servizi tutto compreso (' il contraente principale' ) o qualsiasi persona per conto della quale il contraente principale si impegna ad acquistare servizi tutto compreso (' gli altri beneficiari' ) o qualsiasi persona cui il contraente principale o uno degli altri beneficiari cede i servizi tutto compreso (' il cessionario' ); (...)". 5 L' art. 7 dispone che "l' organizzatore e/o il venditore parte del contratto danno prove sufficienti di disporre di garanzie per assicurare, in caso di insolvenza o di fallimento, il rimborso dei fondi depositati e il rimpatrio del consumatore". 6 L' art. 8 precisa che gli Stati membri possono adottare o mantenere in vigore, nel settore disciplinato dalla direttiva, disposizioni più rigorose ai fini della protezione del consumatore. 7 Ai sensi dell' art. 9, gli Stati membri dovevano mettere in vigore i provvedimenti necessari per conformarsi alla direttiva entro e non oltre il 31 dicembre 1992. 8 Il 24 giugno 1994, il legislatore tedesco ha adottato la legge recante applicazione della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990 sui viaggi "tutto compreso" (BGBl I, pag. 1322). Tale legge ha inserito nel Buergerliches Gesetzbuch (codice civile tedesco, in prosieguo: il "BGB") un nuovo art. 651 k ai sensi del quale: "1. L' organizzatore deve garantire che l' acquirente di un viaggio 'tutto compreso' ottenga il rimborso 1) del prezzo pagato se non vengono fornite prestazioni di viaggio a seguito dell' insolvenza o del fallimento dell' organizzatore, e 2) delle spese necessarie effettuate dal viaggiatore per il proprio rimpatrio a seguito dell' insolvenza o del fallimento dell' organizzatore. L' organizzatore può adempiere gli obblighi previsti alla prima frase solo 1) attraverso un' assicurazione sottoscritta presso una compagnia autorizzata ad operare nell' ambito di applicazione della presente legge o 2) attraverso una promessa di pagamento di un istituto di credito autorizzato ad operare nell' ambito di applicazione della presente legge. 2. (...) 3. Per adempiere l' obbligo di cui al n. 1, l' organizzatore deve fornire al viaggiatore un ricorso diretto contro l' assicuratore o l' istituto di credito e darne la prova con il rilascio di un attestato rilasciato dalla detta impresa (buono di garanzia). 4. A parte un acconto non superiore al 10% del prezzo del viaggio, acconto che non può però eccedere i 500 DM, l' organizzatore può esigere o accettare dal viaggiatore, prima della fine del viaggio, pagamenti anticipati solo se gli ha rilasciato un buono di garanzia. (...)". 9 Questa legge è entrata in vigore il 1 luglio 1994. Essa si applica ai contratti conclusi dopo tale data e riguardanti i viaggi che dovevano iniziare dopo il 31 ottobre 1994. 10 Gli attori sono acquirenti di viaggi "tutto compreso" che, a seguito del fallimento, avvenuto nel 1993, dei due operatori presso i quali essi avevano acquistato i loro viaggi, non sono partiti o sono dovuti rientrare dal rispettivo luogo di vacanze a loro spese, senza riuscire ad ottenere il rimborso delle somme da essi versate a tali operatori o delle spese da essi sostenute per il loro ritorno. 11 Nell' ambito delle azioni di risarcimento danni da loro intentate contro la Repubblica federale di Germania, essi hanno sostenuto che, se l' art. 7 della direttiva fosse stato recepito nell' ordinamento tedesco entro il termine prescritto, ossia entro il 31 dicembre 1992, essi sarebbero stati protetti contro il fallimento degli operatori presso i quali avevano acquistato il loro viaggio "tutto compreso". 12 Gli attori si basano in particolare sulla sentenza della Corte 19 novembre 1991 (cause C-6-90 e C-9/90, Francovich e a., Racc. pag. I-5357, punti 39 e 40; in prosieguo: la "sentenza Francovich e a."), secondo la quale, qualora uno Stato membro violi l' obbligo, ad esso incombente in forza dell' art. 189, terzo comma, del Trattato, di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di questa norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto a risarcimento qualora il risultato prescritto dalla direttiva implichi, a favore dei singoli, l' attribuzione di diritti il cui contenuto possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva, ed esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Secondo gli attori, tali condizioni ricorrono nella fattispecie. Essi chiedono pertanto il rimborso delle somme versate per i viaggi non effettuati o delle spese sostenute per il loro ritorno. 13 Il governo tedesco è contrario a tali domande. Esso ritiene che le condizioni della sentenza Francovich e a. non ricorrano nel caso di specie e che, comunque, la mancata attuazione di una direttiva entro il termine possa far sorgere la responsabilità di uno Stato membro solo se allo stesso possa essere imputata una violazione grave e manifesta del diritto comunitario. 14 Ritenendo che il diritto tedesco non fornisca alcuna base per accogliere le domande di risarcimento, ma nutrendo dubbi sulle conseguenze della sentenza Francovich e a., il Landgericht di Bonn ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: "1) Se la direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti 'tutto compreso' (90/314/CEE), abbia come scopo di attribuire all' acquirente di viaggi 'tutto compreso' , tramite le norme nazionali di attuazione, un diritto soggettivo alla garanzia del rimborso degli importi già versati e delle spese di rimpatrio in caso di insolvenza dell' organizzatore (v. punto 40 della sentenza della Corte 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a.). 2) Se il contenuto di tale diritto sia sufficientemente definito in base alla direttiva. 3) Quali siano i requisiti minimi che devono soddisfare le 'misure necessarie' che gli Stati membri sono tenuti ad adottare ai sensi dell' art. 9 della direttiva. 4) Se si sia ottemperato all' art. 9 della direttiva qualora il legislatore nazionale abbia approntato entro il 31 dicembre 1992 il quadro normativo necessario per imporre all' organizzatore e/o al venditore di viaggi di fornire garanzie ai sensi dell' art. 7 della direttiva, ovvero se la modifica legislativa a tal fine necessaria, tenuto conto dei relativi tempi di consultazione dei settori del turismo, delle assicurazioni e del credito, dovesse entrare in vigore con adeguato anticipo rispetto al 31 dicembre 1992, di modo che tale garanzia operasse effettivamente sul mercato dei viaggi 'tutto compreso' a decorrere dal 1 gennaio 1993. 5) Se sia sufficiente a soddisfare l' eventuale obiettivo di tutela della direttiva il fatto che uno Stato membro consenta all' organizzatore dei viaggi di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non superiore al 10% di tale prezzo e fino ad un massimo di 500 DM, anche prima del rilascio di documenti costituenti titolo di credito. 6) In quale misura gli Stati membri siano obbligati, in base alla direttiva, a prendere iniziative (sul piano legislativo) per proteggere gli acquirenti di viaggi 'tutto compreso' contro la loro stessa negligenza. 7 a) Se la Repubblica federale di Germania potesse rinunciare completamente a recepire nell' ordinamento nazionale l' art. 7 della direttiva, tenuto conto della sentenza sui 'pagamenti anticipati' (Vorkasse-Urteil) del Bundesgerichtshof del 12 marzo 1987 (BGHZ 100, 157; NJW 86, 1613). b) Se le 'garanzie' ai sensi dell' art. 7 della direttiva non sussistano nemmeno nel caso in cui i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito che li legittimano a pretendere il beneficio di prestazioni da parte dei diversi fornitori di servizi (compagnia aerea/albergo). 8 a) Se sia sufficiente il semplice superamento del termine indicato nell' art. 9 della direttiva per far riconoscere un diritto al risarcimento ai sensi della sentenza Francovich della Corte di giustizia, in quanto elemento di fatto che fa sorgere la responsabilità, ovvero se lo Stato membro possa eccepire che il termine prescritto per la trasposizione è risultato troppo breve. b) Qualora tale eccezione non sia ammissibile: se ciò valga anche nelle ipotesi in cui il singolo Stato membro non possa realizzare lo scopo di tutela della direttiva con una semplice modifica legislativa (come ad esempio nel caso di insolvenza del datore di lavoro), ma sia a tal fine necessaria la collaborazione di terzi privati (organizzatori di viaggi, assicurazioni, banche). 9) Se la responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto comunitario presupponga un inadempimento manifesto e grave dei propri obblighi. 10) Se sia necessaria una condanna in un procedimento per inadempimento, prima dell' evento dannoso, perché sorga la responsabilità dello Stato membro. 11) Se dalla sentenza della Corte in causa Francovich si possa concludere che una domanda di risarcimento per violazione del diritto comunitario non dipenda da un illecito in generale o comunque dall' illecita omessa emanazione, da parte dello Stato membro, di atti normativi. 12) Qualora detta conclusione fosse erronea: se la sentenza sui 'pagamenti anticipati' del Bundesgerichtshof possa costituire per la Repubblica federale di Germania una esimente o un' attenuante per aver provveduto alla trasposizione della direttiva, ai sensi delle soluzioni fornite dalla Corte di giustizia al quarto e al settimo quesito, solo dopo la scadenza del termine di cui all' art. 9". Sui presupposti della responsabilità dello Stato (ottava, nona, decima, undicesima e dodicesima questione) 15 Occorre innanzi tutto affrontare le questioni ottava, nona, decima, undicesima e dodicesima con le quali il giudice nazionale si pone il problema dei presupposti della responsabilità dello Stato nei confronti dei singoli in caso di mancata attuazione di una direttiva entro il termine prescritto. 16 Con tali questioni, il giudice nazionale chiede in sostanza se la mancata attuazione di una direttiva entro il termine prescritto sia di per sé sufficiente per far sorgere un diritto a risarcimento a favore dei singoli lesi o se si debbano prendere in considerazione anche altri presupposti. 17 Il giudice nazionale si chiede, più in particolare, quale sia l' importanza da accordare all' obiezione, mossa dal governo tedesco, secondo la quale il termine di attuazione della direttiva si è rivelato insufficiente (ottava questione). Esso chiede inoltre se la responsabilità dello Stato membro richieda un inadempimento grave e manifesto degli obblighi comunitari dello Stato stesso (nona questione), se l' inadempimento debba essere stato constatato anteriormente al verificarsi del danno (decima questione), se la responsabilità presupponga l' esistenza di una colpa, a seguito di azione od omissione, al momento dell' adozione dei provvedimenti normativi da parte dello Stato membro (undicesima questione), e, infine, in caso di soluzione in senso affermativo di tale ultima questione, se essa possa essere esclusa in base ad una sentenza come quella sui "pagamenti anticipati" del Bundesgerichtshof, considerata nella settima questione pregiudiziale (dodicesima questione). 18 I governi tedesco, olandese e del Regno Unito hanno in particolare fatto valere che la responsabilità di uno Stato a seguito della tardiva attuazione di una direttiva può sorgere solo se possa essergli imputata una violazione grave e manifesta del diritto comunitario. Secondo gli stessi governi, tale imputazione dipende dalle circostanze che hanno comportato l' inosservanza del termine. 19 Per risolvere tali questioni, occorre preliminarmente ricordare la giurisprudenza della Corte relativa al diritto a risarcimento dei danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad uno Stato membro. 20 La Corte ha dichiarato che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato (sentenze Francovich e a., punto 35; 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame, Racc. pag. I-1029, punto 31; 26 marzo 1996, causa C-392/93, British Telecommunications, Racc. pag. I-1631, punto 38, e 23 maggio 1996, causa C-5/94, Hedley Lomas, Racc. pag. I-2553, punto 24). Inoltre, la Corte ha affermato che le condizioni in cui la responsabilità dello Stato fa sorgere un diritto a risarcimento dipendono dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all' origine del danno provocato (sentenze Francovich e a., punto 38, Brasserie du pêcheur e Factortame, punto 38, e Hedley Lomas, punto 24, già citate). 21 Nelle sue citate sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, punti 50 e 51, British Telecommunications, punti 39 e 40, e Hedley Lomas, punti 25 e 26, la Corte, alla luce delle circostanze del caso di specie, ha affermato che i singoli lesi hanno un diritto a risarcimento qualora siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire che la norma giuridica comunitaria violata sia diretta a conferire loro diritti, che si tratti di una violazione sufficientemente grave e manifesta e che esista un nesso di causalità diretto tra tale violazione e il danno subito dai singoli. 22 D' altro canto, risulta dalla citata sentenza Francovich e a. che, come le presenti cause, riguardava un caso di mancato provvedimento di attuazione di una direttiva entro il termine prescritto, che la piena efficacia dell' art. 189, terzo comma, del Trattato esige che sia riconosciuto un diritto a risarcimento ove il risultato prescritto dalla direttiva implichi l' attribuzione di diritti a favore dei singoli, il cui contenuto possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva, e che esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. 23 In sostanza le condizioni che sono state evidenziate in tali diverse sentenze sono le stesse, poiché la condizione di una violazione sufficientemente grave e manifesta, che pure non è stata menzionata nella citata sentenza Francovich e a., era tuttavia inerente alla fattispecie oggetto della causa. 24 Affermando che le condizioni in cui la responsabilità fa sorgere un diritto a risarcimento dipendono dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all' origine del danno provocato, la Corte ha in effetti considerato che la valutazione di tali condizioni dipendeva da ciascun tipo di situazione. 25 Infatti, anzitutto una violazione è sufficientemente grave e manifesta quando un' istituzione o uno Stato membro, nell' esercizio del suo potere normativo, ha violato in modo grave e manifesto i limiti posti al suo potere discrezionale (v. sentenze 25 maggio 1978, cause riunite 83/76, 94/76, 4/77, 15/77 e 40/77, HNL e a./Consiglio e Commissione, Racc. pag. 1209, punto 6; Brasserie du pêcheur e Factortame, citata, punto 55, e British Telecommunications, citata, punto 42) e, in secondo luogo, nell' ipotesi in cui lo Stato membro di cui trattasi, al momento in cui ha commesso la trasgressione, non si fosse trovato di fronte a scelte normative e disponesse di un margine di discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, la semplice trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l' esistenza di una violazione sufficientemente grave e manifesta (v. sentenza Hedley Lomas, citata, punto 28). 26 Pertanto, qualora, come nella causa Francovich e a., uno Stato membro, in violazione dell' art. 189, terzo comma, del Trattato, non prenda alcuno dei provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da una direttiva, entro il termine fissato da quest' ultima, tale Stato membro viola, in modo grave e manifesto, i limiti posti all' esercizio dei suoi poteri. 27 Di conseguenza, una siffatta violazione fa sorgere, a favore dei singoli, un diritto ad ottenere un risarcimento se il risultato imposto dalla direttiva comporta l' attribuzione, a loro favore, di diritti il cui contenuto possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva e se esiste un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi, senza che debbano essere prese in considerazione altre condizioni. 28 In particolare non si può subordinare il risarcimento del danno al presupposto di una previa constatazione, da parte della Corte, di un inadempimento del diritto comunitario imputabile allo Stato (v. sentenza Brasserie du pêcheur, punti 94-96) né all' esistenza di una condotta dolosa o colposa dell' organo statale al quale è imputabile l' inadempimento (v. punti 75-80 della stessa sentenza). 29 Occorre quindi risolvere l' ottava, la nona, la decima, l' undicesima e la dodicesima questione nel senso che la mancanza di qualsiasi provvedimento d' attuazione di una direttiva per raggiungere il risultato prescritto da quest' ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una violazione grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento a favore dei singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto da una direttiva implichi l' attribuzione, a favore dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall' altro, esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito. Sull' attribuzione, a vantaggio dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere sufficientemente individuato (prima e seconda questione) 30 Con le sue prime due questioni, il giudice nazionale chiede se il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva implichi l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti alla garanzia del rimborso degli importi da lui versati e al suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o del venditore, parte del contratto (in prosieguo: l' "organizzatore"), e se il contenuto di tali diritti possa essere sufficientemente definito. 31 Secondo gli attori e la Commissione, tali due questioni vanno risolte in senso affermativo. L' art. 7 riconoscerebbe infatti, in maniera chiara e inequivocabile, il diritto per l' acquirente di viaggi "tutto compreso", considerato in quanto consumatore, di ottenere il rimborso degli importi versati e il suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore. 32 I governi tedesco, olandese e del Regno Unito contestano tale punto di vista. 33 Occorre anzitutto esaminare se il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva implichi l' attribuzione di diritti a favore dei singoli. 34 Al riguardo, occorre far riferimento alla formulazione stessa dell' art. 7, da cui risulta che tale norma prescrive come risultato della sua messa in vigore l' obbligo, per l' organizzatore, di disporre di garanzie sufficienti per assicurare, in caso di insolvenza o di fallimento, il rimborso degli importi versati e il rimpatrio del consumatore. 35 Poiché lo scopo di tali garanzie è quello di proteggere i consumatori contro i rischi economici derivanti dall' insolvenza o dal fallimento degli organizzatori di viaggi "tutto compreso", il legislatore comunitario ha imposto agli operatori l' obbligo di comprovare tali garanzie per proteggere i consumatori contro detti rischi. 36 Ne consegue che l' obiettivo dell' art. 7 della direttiva è quello di proteggere i consumatori, che beneficiano così del diritto di essere rimborsati o rimpatriati in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore presso il quale essi hanno acquistato il viaggio. Infatti, ogni diversa interpretazione sarebbe priva di senso in quanto le garanzie che gli organizzatori debbono offrire ai sensi dell' art. 7 della direttiva sono destinate a permettere il rimborso degli importi versati dal consumatore o il suo rimpatrio. 37 Tale conclusione è del resto confermata dal penultimo 'considerando' della direttiva, secondo il quale sarebbe opportuno, sia per il consumatore sia per gli operatori di servizi tutto compreso, che l' organizzatore sia tenuto a dare prove di disporre di garanzie sufficienti in caso di insolvenza o di fallimento. 38 Al riguardo, i governi tedesco e del Regno Unito non possono obiettare che la direttiva, che è fondata sull' art. 100 A del Trattato, mira essenzialmente a garantire la libera prestazione dei servizi e, in maniera più generale, la libera concorrenza. 39 Occorre infatti osservare, da un lato, che i 'considerando' della direttiva menzionano ripetutamente lo scopo di protezione dei consumatori e, dall' altro, che il fatto che la direttiva sia destinata a garantire altri obiettivi non è tale da escludere che le sue norme siano dirette anche a proteggere i consumatori. Infatti, ai sensi dell' art. 100 A, n. 3, del Trattato, la Commissione, nelle sue proposte in forza di tale articolo, in particolare in materia di protezione dei consumatori, deve basarsi su un livello di protezione elevato. 40 Allo stesso modo, si deve respingere l' argomento dei governi tedesco e del Regno Unito, secondo cui risulterebbe dalla formulazione stessa dell' art. 7 che quest' ultimo si limita ad imporre agli organizzatori di viaggi "tutto compreso" l' obbligo di dar prove sufficienti di disporre di garanzie e che l' assenza di ogni riferimento a un eventuale diritto dei consumatori di beneficiare di tali garanzie indicherebbe che tale diritto è soltanto indiretto e derivato. 41 Basti a questo proposito ricordare che l' obbligo di dar prova di disporre di garanzie implica necessariamente, per i suoi destinatari, quello di sottoscrivere effettivamente tali garanzie. D' altro canto, l' obbligo prescritto dall' art. 7 ha senso solo nei limiti in cui garanzie che consentono eventualmente il rimborso degli importi versati o il rimpatrio del consumatore esistono effettivamente. 42 Di conseguenza, si deve concludere che il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva comporta l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti che garantiscano il rimborso degli importi versati e il suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore. 43 Si deve poi esaminare se il contenuto dei diritti di cui trattasi possa essere individuato sulla sola base delle norme della direttiva. 44 Al riguardo, occorre constatare che i titolari dei diritti di cui all' art. 7 sono sufficientemente individuati come i consumatori, quali definiti dall' art. 2 della direttiva. Lo stesso vale per il contenuto di tali diritti. Come è già stato rilevato in precedenza, essi consistono in garanzie di rimborso degli importi che gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" hanno versato e di un loro rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore. Di conseguenza, si deve ritenere che l' art. 7 della direttiva abbia lo scopo di attribuire, a favore dei singoli, diritti il cui contenuto può essere determinato con precisione sufficiente. 45 Tale conclusione non può essere rimessa in discussione per il fatto che, come sottolinea il governo tedesco, la direttiva lascia un ampio margine di valutazione agli Stati membri quanto alla scelta dei mezzi che consentono di raggiungere il risultato da essa perseguito. Infatti, il fatto che lo Stato possa scegliere tra una molteplicità di mezzi al fine di raggiungere il risultato prescritto da una direttiva è senza importanza dal momento che tale direttiva ha lo scopo di attribuire, a favore dei singoli, diritti il cui contenuto può essere determinato con precisione sufficiente. 46 Le prime due questioni debbono pertanto essere risolte nel senso che il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva implica l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti alla garanzia degli importi da lui versati e del suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore, diritti il cui contenuto può essere sufficientemente individuato. Sulle misure necessarie per garantire una corretta attuazione della direttiva (terza, quarta, quinta, sesta e settima questione) Sulla terza e sulla quarta questione 47 Con le sue questioni terza e quarta, il giudice nazionale chiede in sostanza alla Corte di precisare le "misure necessarie" che gli Stati membri dovevano adottare per osservare l' art. 9 della direttiva. 48 In via preliminare, si deve rilevare che, secondo una giurisprudenza costante, le disposizioni di una direttiva devono essere attuate con efficacia cogente incontestabile, con la specificità, precisione e chiarezza necessarie per garantire pienamente la certezza del diritto (sentenza 30 maggio 1991, causa C-59/89, Commissione/Germania, Racc. pag. I-2607, punto 24). 49 Si deve poi constatare che, stabilendo che gli Stati membri dovevano porre in vigore le misure necessarie per conformarsi alla direttiva al più tardi il 31 dicembre 1992, l' art. 9 obbligava tali Stati ad adottare tutte le misure necessarie per assicurare la piena efficacia delle norme della direttiva e quindi assicurare la realizzazione del risultato da essa prescritto. 50 Tenuto conto della soluzione data alle prime due questioni pregiudiziali, occorre pertanto constatare che, per provvedere alla piena entrata in vigore dell' art. 7 della direttiva, gli Stati membri dovevano adottare, entro il termine prescritto, tutte le misure necessarie per garantire, fin dal 1 gennaio 1993, agli acquirenti di viaggi "tutto compreso" il rimborso degli importi depositati e il loro rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore. 51 Ne consegue che l' entrata in vigore dell' art. 7 non sarebbe stata piena se, entro il termine prescritto, il legislatore nazionale si fosse limitato ad adottare il quadro normativo necessario per imporre all' organizzatore l' obbligo legale di dar prova delle misure di garanzia. 52 Come risulta dall' ordinanza di rinvio, il governo tedesco ha sostenuto che il termine previsto per l' attuazione della direttiva era troppo breve, in particolare a causa delle notevoli difficoltà che susciterebbe, in Germania, l' introduzione di un sistema di garanzie conforme alla direttiva per il settore economico interessato. Al riguardo, il governo tedesco ha sottolineato che l' applicazione della direttiva non poteva essere realizzata attraverso semplici modifiche legislative, ma che esso doveva avvalersi della collaborazione di terzi privati (organizzatori di viaggi, settori professionali delle assicurazioni e del credito). 53 Occorre rilevare che tale circostanza non può giustificare la mancata attuazione di una direttiva entro il termine prescritto. Infatti, secondo una giurisprudenza consolidata, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l' inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti dalle direttive (v., in particolare, sentenza 21 giugno 1988, causa 283/86, Commissione/Belgio, Racc. pag. 3271, punto 7). 54 D' altro canto si deve ricordare che, qualora il termine stabilito per l' attuazione di una direttiva si riveli troppo breve, l' unico rimedio compatibile col diritto comunitario consiste, per lo Stato membro interessato, nel prendere, sul piano della Comunità, le iniziative idonee allo scopo di ottenere, da parte dell' istituzione comunitaria competente, un' adeguata proroga del termine stesso (v. sentenza 26 febbraio 1976, causa 52/75, Commissione/Italia, Racc. pag. 277, punto 12). 55 La terza e la quarta questione pregiudiziale debbono pertanto essere risolte nel senso che, per osservare l' art. 9 della direttiva, lo Stato membro avrebbe dovuto adottare, entro il termine prescritto, tutte le misure necessarie per garantire ai singoli, fin dal 1 gennaio 1993, una protezione effettiva contro i rischi di insolvenza e di fallimento degli organizzatori. Sulla quinta questione 56 Con la sua quinta questione pregiudiziale, il giudice a quo chiede se l' obiettivo di protezione dei consumatori perseguito dall' art. 7 della direttiva sia soddisfatto qualora uno Stato membro consenta all' organizzatore di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non superiore al 10% di tale prezzo e fino ad un massimo di 500 DM, prima di rilasciare al proprio cliente documenti che il giudice a quo qualifica come "documenti costituenti titoli di credito", ossia documenti che incorporano il diritto del consumatore a fruire di varie prestazioni di servizi rientranti nel viaggio "tutto compreso" (compagnie aeree o alberghi). 57 Risulta dall' ordinanza di rinvio che tale questione fa riferimento all' art. 651 k, n. 4, del BGB, riportato al precedente punto 8, nonché alla sentenza 12 marzo 1987 del Bundesgerichtshof, detta dei "pagamenti anticipati", considerata nell' ambito della settima questione pregiudiziale e che ha annullato le condizioni generali degli organizzatori di viaggi nei limiti in cui obbligavano il viaggiatore a versare un anticipo pari al 10% del prezzo del viaggio senza aver ricevuto un documento costituente titolo di credito. 58 Dall' ordinanza di rinvio risulta inoltre che, attraverso tale questione, il giudice intende stabilire, in sostanza, se il legislatore nazionale osservi l' art. 7 qualora lasci a carico del consumatore il rischio relativo al detto anticipo, di modo che l' interessato non sia coperto dalla garanzia di cui a tale norma. 59 Come è stato constatato nell' ambito della prima e della seconda questione, l' art. 7 della direttiva ha l' obiettivo di proteggere il consumatore contro i rischi definiti da tale norma, che derivano dall' insolvenza o dal fallimento dell' organizzatore. Sarebbe contrario a tale obiettivo limitare tale protezione di modo che l' anticipo eventualmente versato non sia incluso nella garanzia di rimborso o di rimpatrio. Infatti, la direttiva non fornisce alcun fondamento per una tale limitazione dei diritti garantiti dall' art. 7. 60 Ne consegue che una norma nazionale che consenta agli organizzatori di chiedere ai viaggiatori il versamento di un anticipo può essere conforme all' art. 7 della direttiva solo se, in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore, è anche garantito il rimborso dell' anticipo di cui trattasi. 61 Si deve quindi risolvere la quinta questione nel senso che, qualora uno Stato membro consenta all' organizzatore di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non superiore al 10% di tale prezzo e fino ad un massimo di 500 DM, l' obiettivo di protezione perseguito dall' art. 7 della direttiva è raggiunto solo purché sia garantito anche il rimborso di tale anticipo in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore. Sulla settima questione 62 Con la seconda parte della settima questione, il giudice nazionale chiede se le garanzie di cui gli organizzatori debbono "dar prove" di disporre, ai sensi dell' art. 7 della direttiva, non sussistano nemmeno nel caso in cui i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito. 63 Secondo il governo tedesco, la protezione garantita dall' art. 7 non viene meno qualora il viaggiatore sia in possesso di documenti che attribuiscono un diritto diretto nei confronti del prestatore effettivo dei servizi (la compagnia aerea o l' albergo). In una situazione del genere, il viaggiatore sarebbe infatti in grado di chiedere l' esecuzione delle prestazioni, di modo che il rischio che egli non ne fruisca a seguito dell' insolvenza dell' organizzatore sarebbe escluso. 64 Tale tesi non può essere accolta. Infatti la protezione che l' art. 7 riconosce ai consumatori potrebbe essere compromessa se questi ultimi fossero costretti a far valere documenti costituenti titoli di credito nei confronti di terzi che non hanno, in ogni caso, l' obbligo di rispettarli e che, d' altro canto, sono anch' essi esposti al rischio di fallimento. 65 Si deve, di conseguenza, risolvere la seconda parte della settima questione dichiarando che l' art. 7 della direttiva dev' essere interpretato nel senso che le garanzie di cui gli organizzatori debbono "dar prove" di disporre non sussistono nemmeno qualora i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito. 66 Nella prima parte della sua settima questione, il giudice a quo chiede alla Corte se la Repubblica federale di Germania potesse rinunciare a recepire l' art. 7 della direttiva tenuto conto della sentenza sui "pagamenti anticipati" del Bundesgerichtshof. 67 Indipendentemente dalla questione se una giurisprudenza sia idonea a dare corretta attuazione alla direttiva, si deve constatare che la soluzione di tale questione discende comunque da quelle fornite alla quinta questione nonché alla seconda parte della settima questione. Dato che l' art. 7 è diretto a proteggere il consumatore contro i rischi definiti da tale norma che derivano dall' insolvenza o dal fallimento dell' organizzatore, una sentenza come quella sui "pagamenti anticipati" del Bundesgerichtshof non può soddisfare gli obblighi della direttiva, nei limiti in cui lascia a carico del consumatore, da un lato, il rischio dell' insolvenza e del fallimento dell' organizzatore quanto all' anticipo consentito e, dall' altro, il rischio che, qualora il consumatore abbia ricevuto titoli di credito, il prestatore effettivo dei servizi non li rispetti o diventi insolvente. 68 Si deve pertanto risolvere la settima questione dichiarando che l' art. 7 della direttiva va interpretato nel senso che, da un lato, le garanzie di cui gli organizzatori debbono "dar prove" di disporre non sussistono nemmeno nel caso in cui i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito e che, dall' altro, la Repubblica federale di Germania non poteva rinunciare a recepire la direttiva in considerazione della sentenza del Bundesgerichtshof sui "pagamenti anticipati". Sulla sesta questione 69 Con la sua sesta questione, il giudice nazionale chiede se la direttiva imponga agli Stati membri di prendere provvedimenti specifici per proteggere gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza. 70 Così formulata, la questione rende necessarie le tre osservazioni seguenti. 71 Anzitutto, né l' obiettivo della direttiva né sue disposizioni specifiche obbligano gli Stati membri ad adottare provvedimenti specifici nell' ambito dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza. 72 Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte, per determinare il danno risarcibile il giudice nazionale può sempre verificare se il soggetto leso abbia dato prova di una ragionevole diligenza per evitare il danno o limitarne l' entità (v., in particolare, la citata sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, punto 84). 73 Infine, se tale principio si applica anche nel contesto di azioni di risarcimento danni fondate sulla mancata attuazione di una direttiva come quella di cui trattasi nel caso di specie, discende, d' altro canto, dalla soluzione fornita alla quinta e alla settima questione che un acquirente di viaggi "tutto compreso" che abbia versato l' intero prezzo del viaggio non può essere considerato negligente per il solo fatto di non essersi avvalso, conformemente alla sentenza sui "pagamenti anticipati", della possibilità di non versare più del 10% del prezzo totale del viaggio prima di aver ottenuto documenti costituenti titoli di credito. 74 Si deve pertanto risolvere la sesta questione nel senso che la direttiva non impone agli Stati membri di adottare provvedimenti specifici nell' ambito dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza. Decisione relativa alle spese Sulle spese 75 Le spese sostenute dai governi tedesco, olandese, francese e del Regno Unito, nonché dalla Commissione delle Comunità europee, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Dispositivo Per questi motivi, LA CORTE, pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Landgericht di Bonn con ordinanze 6 giugno 1994, dichiara: 1) La mancanza di qualsiasi provvedimento d' attuazione di una direttiva per raggiungere il risultato prescritto da quest' ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una violazione grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento a favore dei singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto dalla direttiva implichi l' attribuzione, a favore dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall' altro, esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito. 2) Il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, 90/314/CEE, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso", implica l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti alla garanzia degli importi da lui versati e del suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o del venditore parte del contratto, diritti il cui contenuto possa essere sufficientemente individuato. 3) Per osservare l' art. 9 della direttiva 90/314, lo Stato membro avrebbe dovuto adottare, entro il termine prescritto, tutte le misure necessarie per garantire ai singoli, fin dal 1 gennaio 1993, una protezione effettiva contro i rischi di insolvenza e di fallimento degli organizzatori di viaggi "tutto compreso" e/o dei venditori parti del contratto. 4) Qualora uno Stato membro consenta all' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o al dettagliante parte del contratto di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non superiore al 10% di tale prezzo e fino ad un massimo di 500 DM, l' obiettivo di protezione perseguito dall' art. 7 della direttiva 90/314 è raggiunto solo purché sia garantito anche il rimborso di tale anticipo in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o del venditore parte del contratto. 5) L' art. 7 della direttiva 90/314 va interpretato nel senso che, da un lato, le garanzie di cui gli organizzatori di viaggi "tutto compreso" o i venditori parti del contratto debbono "dar prove" di disporre non sussistono nemmeno qualora i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito e che, dall' altro, la Repubblica federale di Germania non poteva rinunciare a recepire la direttiva in considerazione della sentenza 12 marzo 1987 del Bundesgerichtshof sui "pagamenti anticipati". 6) La direttiva 90/314 non impone agli Stati membri di adottare provvedimenti specifici nell' ambito dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza. SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) 22 novembre 2005 «Direttiva 1999/70/CE – Clausole 2, 5 e 8 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato – Direttiva 2000/78/CE – Art. 6 – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Discriminazione legata all’età» Nel procedimento C-144/04, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Arbeitsgericht München (Germania) con decisione 26 febbraio 2004, pervenuta in cancelleria il 17 marzo 2004, nel procedimento Werner Mangold contro Rüdiger Helm, LA CORTE (Grande Sezione), composta dal sig. P. Jann, presidente della Prima Sezione, facente funzione di presidente, dai sigg. C.W.A. Timmermans, A. Rosas e K. Schiemann, presidenti di sezione, dai sigg. R. Schintgen (relatore), S. von Bahr, J. N. Cunha Rodrigues, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. K. Lenaerts, E. Juhász, G. Arestis, A. Borg Barthet e M. Ilešič, giudici, avvocato generale: sig. A. Tizzano cancelliere: sig.ra K. Sztranc, amministratore vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 26 aprile 2005, viste le osservazioni presentate: – per il sig. Mangold, dagli avv.ti D. Hummel e B. Karthaus, Rechtsanwälte; – per il sig. Helm, da lui stesso, Rechtsanwalt; – per il governo tedesco, dal sig. M. Lumma, in qualità di agente; – per la Commissione delle Comunità europee, dalle sig.re N. Yerrell e S. Grünheid nonché dai sigg. D. Martin e H. Kreppel, in qualità di agenti, sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 30 giugno 2005, ha pronunciato la seguente Sentenza 1 La demanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione delle clausole 2, 5 e 8 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro»), applicato con direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43), nonché dell’art. 6 della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che contrappone il sig. Mangold al sig. Helm in merito al contratto di lavoro a tempo determinato che lo vincola a quest’ultimo (in prosieguo: il «contratto»). Contesto normativo La normativa comunitaria L’accordo quadro 3 «L’accordo quadro, a tenore della sua clausola 1, ha come oggetto: a) migliorare la qualità di lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione, b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato». 4 La clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro prevede: «Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore in ciascuno Stato membro». 5 A tenore della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro: «Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi, e in un modo che tenga conto delle esigenze di settore o categorie specifiche di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti». 6 La clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro dispone: «L’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso». La direttiva 2000/78 7 La direttiva 2000/78 è stata adottata sulla base dell’art. 13 CE. I ‘considerando’ 1, 4, 8 e 25 di tale direttiva sono così formulati: «(1) Conformemente all’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea, l’Unione europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali[,] e dello Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. (…) (4) Il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari. La Convenzione n. 111 dell’Organizzazione internazionale del lavoro proibisce la discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro. (…) (8) Gli orientamenti in materia di occupazione per il 2000, approvati dal Consiglio europeo a Helsinki il 10 e 11 dicembre 1999, ribadiscono la necessità di promuovere un mercato del lavoro che agevoli l’inserimento sociale formulando un insieme coerente di politiche volte a combattere la discriminazione nei confronti di gruppi quali i disabili. Esse rilevano la necessità di aiutare in particolar modo i lavoratori anziani, onde accrescere la loro partecipazione alla vita professionale. (…) (25) Il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione e la promozione della diversità nell’occupazione. Tuttavia in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate e richiedono pertanto disposizioni specifiche che possono variare secondo la situazione degli Stati membri. È quindi essenziale distinguere tra le disparità di trattamento che sono giustificate, in particolare, da obiettivi legittimi di politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale, e le discriminazioni che devono essere vietate». 8 La direttiva 2000/78, a tenore del suo art. 1, «mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento». 9 L’art. 2 della direttiva 2000/78, intitolato «Nozione di discriminazione», nn. 1 e 2, lett. a), enuncia: «1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1. 2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga». 10 L’art. 3 della direttiva 2000/78, intitolato «Campo di applicazione», al n. 1 prevede quanto segue: «1. Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione; (…) c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; (…)». 11 La direttiva 2000/78, all’art. 6, n. 1, è così formulata: «Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione; c) la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento. 12 Conformemente all’art. 18, n. 1, della direttiva 2000/78, gli Stati membri dovevano adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla detta direttiva entro il 2 dicembre 2003. Tuttavia, secondo il secondo capoverso del detto articolo: «Per tener conto di condizioni particolari gli Stati membri possono disporre se necessario di tre anni supplementari, a partire dal 2 dicembre 2003 ovvero complessivamente di sei anni al massimo, per attuare le disposizioni relative alle discriminazioni basate sull’età o sull’handicap. In tal caso essi informano immediatamente la Commissione. Gli Stati membri che decidono di avvalersi di tale periodo supplementare presentano ogni anno una relazione alla Commissione sulle misure adottate per combattere le discriminazioni basate sull’età e sull’handicap e sui progressi realizzati in vista dell’attuazione della direttiva. La Commissione presenta ogni anno una relazione al Consiglio». 13 Poiché la Repubblica federale di Germania ha chiesto di beneficiare di un siffatto termine supplementare per la trasposizione della detta direttiva, tale termine, per quanto riguarda tale Stato membro, scadrà il 2 dicembre 2006. La normativa nazionale 14 L’art. 1 della legge per l’incremento dell’occupazione (Beschäftigungsförderungsgesetz), come modificata con legge 25 settembre 1996 (BGBl. 1996 I, pag. 1476; in prosieguo: la «BeschFG 1996»), prevedeva: «(1) I contratti di lavoro a tempo determinato sono ammessi per la durata massima di due anni. Entro tale limite massimo totale di due anni, un contratto a tempo determinato può essere rinnovato al massimo tre volte. (2) I contratto di lavoro a tempo determinato sono ammessi senza la condizione di cui al n. 1 se il lavoratore ha raggiunto l’età di 60 anni al momento in cui inizia il rapporto di lavoro a tempo determinato. (3) I contratti di lavoro ai sensi dei nn. 1 e 2 non sono consentiti qualora esista uno stretto legame con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato o con un precedente contratto di lavoro a tempo determinato ai sensi del n. 1 con lo stesso datore di lavoro. Si presume un siffatto stretto legame in particolare quando l’intervallo tra i due contratti di lavoro è inferiore ai quattro mesi. (4) La possibilità di limitare la durata dei contratti di lavoro per altri motivi resta immutata. (…)». 15 Ai sensi dell’art. 1, n. 6, del BeschFG 1996, tale normativa era applicabile sino al 31 dicembre 2000. 16 La direttiva 1999/70 che dà attuazione all’accordo quadro è stata trasposta nell’ordinamento giuridico tedesco dalla legge sul lavoro a tempo parziale e sui contratti a tempo determinato, che modifica o abroga altre disposizioni in materia di lavoro (Gesetz über Teilzeitarbeit und befristete Arbeitsverträge und zur Änderung und Aufhebung arbeitsrechtlicher Bestimmungen), del 21 dicembre 2000 (BGBl. 2000 I, pag. 1966; in prosieguo: la «TzBfG»). Tale legge è entrata in vigore il 1° gennaio 2001. 17 A tenore dell’art. 1 della TzBfG, intitolato «Obiettivo»: «La legge mira ad incentivare il lavoro a tempo parziale, a stabilire le condizioni sulla possibilità di concludere contratti di lavoro a tempo determinato e a impedire la discriminazione dei lavoratori occupati a tempo parziale e dei lavoratori aventi un contratto a durata determinata». 18 L’art. 14 del TzBfG, che disciplina i contratti a tempo determinato, dispone: «(1) L’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro è consentita quando sia giustificata da una ragione obiettiva. In particolare, una ragione obiettiva sussiste qualora: 1. l’azienda necessiti della prestazione di lavoro in questione solo in via temporanea; 2. la durata a tempo determinato del contratto sia connessa ad attività di formazione o di studio al fine di agevolare il passaggio del lavoratore ad un’occupazione connessa; 3. il lavoratore venga assunto per sostituire un altro lavoratore; 4. le caratteristiche della prestazione lavorativa giustifichino la durata a tempo determinato; 5. la durata a tempo determinato sia in funzione di un periodo di prova; 6. ragioni inerenti alla persona del lavoratore giustifichino la durata a tempo determinato; 7. il lavoratore venga remunerato con risorse di bilancio finanziariamente destinate per un’occupazione a tempo determinato ed assunto in conformità a tale destinazione, oppure 8. la durata a tempo determinato sia dovuta ad una transazione giudiziale. (2) La durata massima consentita dei contratti di lavoro a tempo determinato in assenza di una ragione obiettiva è di due anni. Entro tale limite, il contratto di lavoro a tempo determinato può essere rinnovato al massimo per tre volte. Non è consentito stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato ai sensi della prima frase con un lavoratore che ha già avuto un rapporto di lavoro a tempo determinato o indeterminato con lo stesso datore di lavoro. Un contratto collettivo può derogare alla prima frase fissando il numero dei rinnovi o la durata massima. Il datore di lavoro o lavoratori del settore interessato da una contrattazione collettiva ma a questa non soggetti, possono concordare l’applicazione della normativa collettiva. (3) Non è richiesta una ragione obiettiva per stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore all’inizio del rapporto abbia già compiuto 58 anni. Non è consentita la fissazione di una durata determinata qualora vi sia una stretta connessione con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato con il medesimo datore di lavoro. Una tale stretta connessione deve in particolare presumersi qualora tra i due contratti di lavoro vi sia un intervallo di tempo inferiore ai sei mesi. (4) L’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro necessita della forma scritta». 19 L’art. 14, n. 3 del TzBfG è stato modificato dalla prima legge per prestazioni di servizi moderni sul mercato del lavoro 23 dicembre 2002 (BGBl. 2002 I, pag. 14607; in prosieguo: la «legge del 2002»). La nuova versione della detta disposizione, in vigore dal 1° gennaio 2003, è così formulata: «Non è richiesta una ragione obiettiva per stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore all’inizio dell’accordo abbia già compiuto 58 anni. Non è consentito stipulare un contratto a tempo determinato qualora vi sia una stretta connessione obiettiva con un precedente contratto a tempo indeterminato con il medesimo datore di lavoro. Una tale stretta connessione obiettiva deve ritenersi in particolare sussistente qualora tra i due contratti di lavoro vi sia un intervallo di tempo inferiore ai 6 mesi. Fino al 31 dicembre 2006 l’età di 58 anni indicata nella prima frase è sostituita con quella di 52 anni». La controversia di cui alla causa principale e le questioni pregiudiziali 20 Il 26 giugno 2003 il sig. Mangold, che aveva all’epoca 56 anni, stipulava con il sig. Helm, che esercita la professione di avvocato, il contratto qui in esame con effetto dal 1° luglio 2003. 21 A tenore dell’art. 5 del contratto: «1. Il rapporto di lavoro inizia il 1° luglio 2003 e scade il 28 febbraio 2004. 2. La limitazione nel tempo del presente contratto si fonda sulla disposizione relativa alla facilitata conclusione di contratti a tempo determinato con lavoratori anziani di cui all’art. 14, n. 3, quarta frase, in combinato disposto con la prima frase, del TzBfG (…), in quanto il lavoratore ha più di 52 anni. 3. Le parti concordano che quella sopraindicata è la sola ragione di limitazione nel tempo sulla quale si basa il patto di durata a tempo determinato del presente contratto. Altre ragioni che consentono la conclusione di contratti a tempo determinato, in via di principio ritenute ammissibili dalla legge e dalla giurisprudenza, vengono espressamente escluse e non costituiscono oggetto del presente patto di durata a tempo determinato». 22 Secondo il sig. Mangold, il detto art. 5, laddove limita la durata del suo contratto sebbene siffatta limitazione sia conforme all’art. 14, n. 3 del TzBfG, è in contrasto con l’accordo quadro e la direttiva 2000/78. 23 Il sig. Helm sostiene che la clausola 5 dell’accordo quadro prescrive agli Stati membri di adottare misure per evitare abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato, in particolare esigendo ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti, o fissando una durata massima complessiva dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, o ancora limitando il numero dei rinnovi di tali contratti o rapporti di lavoro. 24 Orbene, a suo avviso, anche se l’art. 14, n. 3, quarta frase, del TzBfG non prevede espressamente siffatte condizioni restrittive nel caso di lavoratori anziani, esiste senz’altro una ragione obiettiva, ai sensi della clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro, che giustifica la stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato, che è data dalla difficoltà, per tali lavoratori, di trovare un impiego in considerazione delle caratteristiche del mercato del lavoro. 25 L’Arbeitsgericht München nutre dubbi circa la compatibilità dell’art. 14, n. 3, prima frase, del TzBfG con il diritto comunitario. 26 In primo luogo, il detto giudice considera che tale disposizione è in contrasto con il divieto di «reformatio in peius» sancito dalla clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro, in quanto, in occasione della trasposizione della direttiva 1999/70, ha abbassato da 60 a 58 anni l’età delle persone escluse dalla protezione contro il ricorso non giustificato da ragioni obiettive ai contratti di lavoro a tempo determinato e, di conseguenza, il livello generale di tutela di cui tale categoria di lavoratori fruisce. Una siffatta disposizione sarebbe altresì in contrasto con la clausola 5 dell’accordo quadro che è inteso a prevenire il ricorso abusivo a siffatti contratti, laddove non prevede alcuna restrizione alla stipula di tali contratti da parte di numerosi lavoratori rientranti in una categoria contraddistinta unicamente dall’età. 27 In secondo luogo, il giudice a quo si interroga sulla compatibilità di una normativa quale quella di cui all’art. 14, n. 3, del TzBfG con l’art. 6 della direttiva 2000/78, in quanto l’abbassamento, operato dalla legge del 2002, da 58 a 52 dell’età alla quale è consentito concludere contratti di lavoro a tempo determinato, senza ragioni obiettive, non garantirebbe la protezione delle persone anziane sul lavoro. Anche il principio di proporzionalità non sarebbe rispettato. 28 È vero che il detto giudice constata che, alla data della stipula del contratto, cioè il 26 giugno 2003, il termine di trasposizione nella normativa nazionale della direttiva 2000/78 non era ancora scaduto. Tuttavia, ricorda che, secondo il punto 45 della sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie (Racc. pag. I-7411), lo Stato membro destinatario della direttiva non può adottare in pendenza del termine di trasposizione disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva stessa. 29 Orbene, nella causa principale, la modifica apportata all’art. 14, n. 3, del TzBfG mediante la legge del 2002 è entrata in vigore il 1° gennaio 2003, cioè dopo la pubblicazione della direttiva 2000/78 nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, ma prima della scadenza del termine di trasposizione previsto dall’art. 18 di tale direttiva. 30 In terzo luogo, il giudice a quo solleva la questione se il giudice nazionale sia tenuto, in una causa tra privati, a disapplicare norme di diritto nazionale incompatibili con il diritto comunitario. Considera a tal riguardo che il primato di quest’ultimo dovrebbe indurlo a concludere che l’art. 14, n. 3, del TzBfG è totalmente inapplicabile e che, pertanto, deve trovare applicazione la regola fondamentale sancita nel n. 1 del medesimo articolo, secondo la quale deve esistere una ragione obiettiva per stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato. 31 Ciò considerato, l’Arbeisgericht München ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) a) Se la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro (…) debba essere interpretata nel senso che nell’ambito della sua attuazione nell’ordinamento interno vieta una “reformatio in peius” attraverso un abbassamento dell’età da 60 a 58 anni. b) Se la clausola 5, n. 1, dell’accordo quadro (…) debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale la quale – come quella controversa nel caso di specie – non contenga alcuna limitazione ai sensi delle tre alternative previste al n. 1. 2) Se l’art. 6 della direttiva (…) 2000/78/CE, debba essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale la quale – come quella controversa nel caso di specie – consenta di concludere contratti a tempo determinato con lavoratori che abbiano compiuto i 52 anni in assenza di una ragione obiettiva, così derogando al principio della necessaria presenza di una ragione obiettiva. 3) Se, nel caso in cui una delle tre precedenti questioni venga risolta affermativamente, il giudice nazionale debba disapplicare la normativa nazionale contrastante con il diritto comunitario e se trovi quindi applicazione il principio generale di diritto interno secondo cui un contratto di lavoro a tempo determinato è ammissibile solo in presenza di una ragione obiettiva». Sulla ricevibilità del rinvio pregiudiziale 32 Nel corso dell’udienza, la Repubblica federale di Germania ha messo in dubbio la ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale sostenendo che la controversia di cui alla causa principale avrebbe carattere fittizio o artificiale. Infatti, il sig. Helm avrebbe già in passato pubblicamente difeso una tesi identica a quella del sig. Mangold circa l’illegittimità dell’art. 14, n. 3, del TzBfG. 33 A questo proposito va ricordato che, ai sensi dell’art. 234 CE, quando una questione sull’interpretazione del Trattato o degli atti derivati adottati dalle istituzioni della Comunità è sollevata dinanzi ad un giudice di uno Stato membro, tale giudice, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, può domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione (v., tra l’altro, sentenza 21 marzo 2002, causa C-451/99, Cura Anlagen, Racc. pag. I-3193, punto 22). 34 Nell’ambito di questo procedimento di rinvio, il giudice nazionale, che è l’unico ad avere conoscenza diretta dei fatti della causa, è nella situazione più idonea per valutare, tenuto conto della peculiarità di questa, la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza (v. sentenze 16 luglio 1992, causa C-83/91, Meilicke, Racc. pag. I-4871, punto 23; 7 luglio 1994, causa C-146/93, McLachlan, Racc. pag. I-3229, punto 20; 9 febbraio 1995, causa C-412/93, Leclerc-Siplec, Racc. pag. I-179, e 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, Racc. pag. I-10155, punto 43). 35 Di conseguenza, se la questione sollevata dal giudice a quo verte sull’interpretazione di una disposizione di diritto comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (v. sentenze 8 novembre 1990, causa C-231/89, Gmurzynska-Bscher, Racc. pag. I-4003, punto 20; Leclerc-Siplec, cit., punto 11; 23 febbraio 1995, cause riunite C-358/93 e C-416/93, Bordessa e a., punto 10, e Inspire Art, cit., punto 44). 36 Tuttavia, la Corte considera che le spetta esaminare le condizioni in cui è stata adita dal giudice nazionale al fine di verificare la propria competenza. Infatti, lo spirito di collaborazione che deve presiedere al funzionamento del rinvio pregiudiziale implica che, dal canto suo, il giudice nazionale tenga presente la funzione assegnata alla Corte, che è quella di contribuire all’amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri consultivi su questioni generali o ipotetiche (sentenze 3 febbraio 1983, causa 149/82, Robards, Racc. pag. 171, punto 19; Meilicke, cit., punto 25, e Inspire Art, cit., punto 45). 37 In considerazione di questo compito la Corte ha ritenuto di non poter statuire su una questione pregiudiziale sollevata dinanzi ad un giudice nazionale, quando risulti manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario non ha alcun rapporto con la realtà o con l’oggetto della causa principale. 38 Tuttavia, nella causa principale non risulta assolutamente contestabile che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta dal giudice a quo risponde effettivamente ad una esigenza obiettiva inerente alla soluzione di una controversia dinanzi ad esso pendente. Infatti, non è contestato che il contratto è stato effettivamente eseguito e che la sua applicazione solleva una questione di interpretazione del diritto comunitario. La circostanza che le parti di cui alla causa principale concorderebbero sull’interpretazione dell’art. 14, n. 3, del TzBfG non è tale da inficiare l’effettività di tale controversia. 39 Si deve di conseguenza considerare la domanda di pronuncia pregiudiziale ricevibile. Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione, lett. b) 40 Con la prima questione, lett. b), che va esaminata per prima, il giudice a quo vuole sapere se la clausola 5 dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, quale quella di cui alla causa principale, che non contiene nessuna delle restrizioni previste dalla detta clausola per il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato. 41 Si deve a questo proposito ricordare che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro mira a «prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato». 42 Orbene, come confermato dalle parti nella causa principale nel corso dell’udienza, il contratto è il primo e unico contratto di lavoro tra esse stipulato. 43 Ciò considerato, l’interpretazione della clausola 5, punto 1, è chiaramente priva di pertinenza ai fini della soluzione della controversia per la quale è stato adito il giudice a quo e, di conseguenza, la prima questione, lett. b), non va risolta. Sulla prima questione, lett. a) 44 Con la prima questione, lett. a), il giudice a quo vuole sapere se la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale quale quella di cui alla causa principale, la quale, in occasione della trasposizione della direttiva 1999/70, ha abbassato l’età oltre la quale i contratti di lavoro a tempo determinato possono essere conclusi senza restrizioni da 60 a 58 anni. 45 In limine, è giocoforza constatare che, nella causa principale, il contratto è stato concluso il 26 giugno 2003, cioè sotto la vigenza del TzBfG, come modificato dalla legge del 2002, la quale ha abbassato da 58 a 52 anni l’età oltre la quale è senz’altro possibile concludere contratti di lavoro a tempo determinato. Nella specie, è pacifico che il sig. Mangold è stato assunto dal sig. Helm all’età di 56 anni. 46 Il giudice a quo considera tuttavia che l’interpretazione della detta clausola 8, punto 3, potrebbe essergli utile per valutare la legittimità dell’art. 14, n. 3, del TzBfG nella versione iniziale, in quanto, se quest’ultima non fosse conforme al diritto comunitario, ciò avrebbe l’effetto di rendere caduca la modifica operata dalla legge 2002. 47 Ad ogni modo, si deve constatare che il legislatore tedesco, già in occasione della trasposizione nel diritto interno della direttiva 1999/70, aveva abbassato l’età oltre la quale potevano essere conclusi contratti di lavoro a tempo determinato da 60 a 58 anni. 48 Secondo il sig. Mangold, una siffatta «reformatio in peius», al pari di quella operata dalla legge del 2002, è in contrasto con la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro. 49 Il governo tedesco, al contrario, ritiene che il detto abbassamento di età sia stato compensato dal riconoscimento ai lavoratori vincolati da un contratto di lavoro a tempo determinato di nuove garanzie sociali, come l’emanazione di un divieto generale di discriminazione e l’estensione alle piccole imprese, come pure ai rapporti di lavoro di breve durata, delle restrizioni previste per il ricorso a siffatto tipo di contratti. 50 A questo proposito, dalla formulazione stessa della clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro risulta che l’applicazione di questo non costituisce per gli Stati membri un motivo valido per ridurre il livello generale di protezione offerta ai lavoratori nell’ordinamento giuridico nazionale nel settore rientrante sotto il detto accordo. 51 L’espressione «applicazione», utilizzata senza ulteriori precisazioni nella clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro non riguarda la sola iniziale trasposizione della direttiva 1999/70 e, in particolare, del suo allegato contenente l’accordo quadro, ma copre ogni misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente alla trasposizione propriamente detta, completano o modificano le norme nazionali già adottate. 52 Per contro, una «reformatio in peius» della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall’accordo quadro quando non è in alcun modo collegata con l’applicazione di questo. 53 Orbene, sia dalla decisione di rinvio sia dalle osservazioni presentate dal governo tedesco nel corso dell’udienza, risulta come rilevato dall’avvocato generale nei paragrafi 75-77 delle sue conclusioni, che i successivi abbassamenti dell’età oltre la quale è consentita la stipula di contratti a tempo determinato senza restrizioni sono giustificati non già dalla necessità di applicare l’accordo quadro, ma da quella di incentivare l’occupazione delle persone anziane in Germania. 54 Ciò considerato, la prima questione, lett. a), va risolta dichiarando che la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che non osta ad una normativa quale quella controversa nella causa principale, la quale, per motivi connessi con la necessità di promuovere l’occupazione e indipendentemente dall’applicazione del detto accordo, ha abbassato l’età oltre la quale possono essere stipulati senza restrizioni contratti di lavoro a tempo determinato. Sulla seconda e sulla terza questione 55 Con la seconda e la terza questione, che vanno esaminate congiuntamente, il giudice a quo vuole in sostanza sapere se l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale quale quella di cui alla causa principale che autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l’età di 52 anni. In caso affermativo, il giudice a quo si interroga sulle conseguenze che al giudice nazionale spetta trarre da siffatta interpretazione. 56 Si deve a questo proposito ricordare che, conformemente all’art. 1, la direttiva 2000/78 mira a fissare un quadro generale per la lotta, in materia di occupazione e di lavoro, alle discriminazioni fondate su uno dei motivi previsti da tale articolo, tra i quali, in particolare, figura l’età. 57 Orbene, l’art. 14, n. 3, del TzBfG, nel prevedere la possibilità per i datori di lavoro di concludere senza restrizioni contratti a tempo determinato con lavoratori che abbiano raggiunto l’età di 52 anni, istituisce una disparità di trattamento fondata direttamente sull’età. 58 Dal momento che si tratta esattamente di disparità di trattamento fondate sull’età, l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 dispone che gli Stati membri possono prevedere che siffatte disparità di trattamento «non costituiscano discriminazioni laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari». Siffatte disparità possono in particolare riguardare, secondo lo stesso paragrafo, secondo capoverso, lett. a), «la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione di lavoro (…) per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi», nonché, alle lett. b) e c), la fissazione di condizioni minime di età in talune specifiche situazioni. 59 Come risulta dagli atti trasmessi alla Corte dal giudice a quo, tale normativa ha chiaramente lo scopo di favorire l’inserimento professionale dei lavoratori anziani disoccupati se e in quanto questi ultimi si trovano di fronte a difficoltà gravi nella ricerca di una nuova occupazione. 60 La legittimità di un siffatto obiettivo di interesse generale non può essere ragionevolmente messa in discussione, come del resto Commissione ha essa stessa riconosciuto. 61 Pertanto, un obiettivo di tale natura deve, in linea di principio, ritenersi giustificare «obiettivamente e ragionevolmente», come previsto dall’art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78, una disparità di trattamento in ragione dell’età decretata dagli Stati membri. 62 Si deve ancora verificare, secondo la formulazione stessa della detta disposizione, se gli strumenti attuati per realizzare tale legittimo obiettivo siano «appropriati e necessari» a tal fine. 63 A questo proposito, gli Stati membri dispongono incontestabilmente di un ampio margine di valutazione discrezionale nella scelta delle misure atte a realizzare i loro obiettivi in materia di politica sociale e di occupazione. 64 Tuttavia, come rilevato dal giudice a quo, l’applicazione di una normativa nazionale come quella di cui alla causa principale approda ad una situazione nella quale indistintamente a tutti i lavoratori che hanno raggiunto l’età di 52 anni, siano essi stati in disoccupazione o no prima della conclusione del contratto e quale sia stata la durata del periodo dell’eventuale disoccupazione, possono essere validamente proposti, fino all’età alla quale essi potranno far valere il loro diritto alla pensione di vecchiaia, contratti di lavoro a tempo determinato rinnovabili per un numero indefinito di volte. Questa importante categoria di lavoratori, determinata esclusivamente in funzione dell’età, rischia pertanto, per una parte sostanziale della carriera professionale dei detti lavoratori, di essere esclusa dal beneficio della stabilità dell’occupazione, la quale costituisce pertanto, come risulta dall’accordo quadro, un elemento portante della tutela dei lavoratori. 65 Una siffatta normativa, nella misura in cui considera l’età del lavoratore di cui trattasi come unico criterio di applicazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, senza che sia stato dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale dell’interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell’obiettivo dell’inserimento professionale dei lavoratori anziani in disoccupazione, deve considerarsi eccedente quanto è appropriato e necessario per raggiungere la finalità perseguita. Il rispetto del principio di proporzionalità richiede infatti che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con l’esigenza del fine perseguito (v., in questo senso, sentenza 19 marzo 2002, causa C-476/99, Lommers, Racc. pag. I-2891, punto 39). Una siffatta normativa nazionale non può pertanto giustificarsi ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78. 66 La circostanza che, alla data della stipula del contratto, il termine di trasposizione della direttiva 2000/78 non era ancora scaduto non è tale da rimettere in discussione tale constatazione. 67 Infatti, in primo luogo, la Corte ha già giudicato che, in pendenza del termine per la trasposizione di una direttiva, gli Stati membri devono astenersi dall’adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva stessa (sentenza Inter-Environnement Wallonie, cit., punto 45). 68 A questo proposito poco rileva il fatto che la norma di diritto nazionale controversa, adottata dopo l’entrata in vigore della direttiva di cui trattasi, riguardi o no la trasposizione di tale direttiva (v., in questo senso, sentenza 8 maggio 2003, causa C-14/02, ATRAL, Racc. pag. I-4431, punti 58 e 59). 69 Orbene, nella causa principale, l’abbassamento da 58 a 52 anni dell’età oltre la quale è possibile stipulare contratti di lavoro a tempo determinato, previsto dall’art. 14, n. 3, del TzBfG, è intervenuto nel dicembre 2002 e tale misura dovrebbe essere applicata fino al 31 dicembre 2006. 70 Il solo fatto che, nella specie, tale disposizione scada il 31 dicembre 2006, cioè solo alcune settimane dopo la scadenza della data di trasposizione che lo Stato membro interessato deve rispettare, non è di per sé decisivo. 71 Infatti, da un lato, dalla formulazione stessa del secondo capoverso dell’art. 18 della direttiva 2000/78 risulta che, qualora uno Stato membro, come nella specie la Repubblica federale di Germania, decida di avvalersi di un periodo supplementare di tre anni a partire dal 2 dicembre 2003 per trasporre tale direttiva, tale Stato presenta «ogni anno una relazione alla Commissione sulle misure adottate per combattere le discriminazioni basate sull’età (…) e sui progressi realizzati in vista dell’attuazione della direttiva». 72 Tale disposizione implica pertanto che lo Stato membro, che beneficia così eccezionalmente di un termine di trasposizione più lungo, adotti progressivamente misure concrete al fine di riavvicinare fin da tal momento la sua normativa al risultato prescritto da tale direttiva. Orbene, tale obbligo sarebbe privato di ogni effetto utile se fosse consentito al detto Stato membro di adottare, durante il termine di attuazione della stessa direttiva, misure incompatibili con gli obiettivi di quest’ultima. 73 D’altro lato, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 96 delle sue conclusioni, al 31 dicembre 2006 una gran parte dei lavoratori soggetti alla normativa controversa nella causa principale – tra cui il sig. Mangold – avrà compiuto il 58esimo anno di età e ricadrà quindi ancora nel regime speciale istituito dall’art. 14, n. 3, del TzBfG, di modo che, per tale categoria di persone, l’esclusione dalla garanzia della stabilità dell’occupazione per mezzo di un contratto di lavoro a tempo indeterminato è già definitiva, a prescindere dalla scadenza, alla fine dell’anno 2006, dell’applicabilità della condizione di età fissata in 52 anni. 74 In secondo luogo, e soprattutto, la direttiva 2000/78 non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro. Infatti, tale direttiva, ai sensi del suo art. 1, ha il solo obiettivo di «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali», dal momento che il principio stesso del divieto di siffatte forme di discriminazione, come risulta dai ‘considerando’ 1 e 4 della detta direttiva, trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. 75 Il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve pertanto essere considerato un principio generale del diritto comunitario. Quando una normativa nazionale rientra nella sfera di applicazione di quest’ultimo, come è il caso dell’art. 14, n. 3, del TzBfG, modificato dalla legge del 2002, in quanto misura di attuazione della direttiva 1999/70 (v., a questo proposito, i punti 51 e 64 della presente sentenza), la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari alla valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità della detta normativa con tale principio (v., in questo senso, sentenza 12 dicembre 2002, causa C-442/00, Rodríguez Caballero, Racc. pag. I-11915, punti 30-32). 76 Di conseguenza, il rispetto del principio generale della parità di trattamento, in particolare in ragione dell’età, non dipende, come tale, dalla scadenza del termine concesso agli Stati membri per trasporre una direttiva intesa a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sull’età, in particolare per quanto riguarda l’organizzazione degli opportuni strumenti di ricorso, l’onere della prova, la protezione contro le ritorsioni, il dialogo sociale, le azioni positive e altre misure specifiche di attuazione di una siffatta direttiva. 77 Ciò considerato, è compito del giudice nazionale, adito con una controversia che mette in discussione il principio di non discriminazione in ragione dell’età, assicurare, nell’ambito della sua competenza, la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, garantendone la piena efficacia e disapplicando le disposizioni eventualmente configgenti della legge nazionale (v., in questo senso, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc., pag. 629, punto 21, e 5 marzo 1998, causa C-347/96, Solred, Racc. pag. I-937, punto 30). 78 Considerato tutto quanto sopra, la seconda e la terza questione vanno risolte dichiarando che il diritto comunitario e, in particolare, l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale quale quella controversa nella causa principale, la quale autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l’età di 52 anni. È compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del principio generale di non discriminazione in ragione dell’età disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale, anche quando il termine di trasposizione della detta direttiva non è ancora scaduto. Sulle spese 79 Nei confronti delle parti della causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) La clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e attuato con la direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretata nel senso che non osta ad una normativa quale quella controversa nella causa principale, la quale, per motivi connessi con la necessità di promuovere l’occupazione e indipendentemente dall’applicazione del detto accordo, ha abbassato l’età oltre la quale possono essere stipulati senza restrizioni contratti di lavoro a tempo determinato. 2) Il diritto comunitario e, in particolare, l’art. 6, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazioni e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale, quale quella controversa nella causa principale, la quale autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l’età di 52 anni. È compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del principio generale di non discriminazione in ragione dell’età disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale, anche quando il termine di trasposizione della detta direttiva non è ancora scaduto. Cassazione Civile, Sez. Lavoro, 12 marzo 2004, n. 5159 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Stefano CICIRETTI - Presidente Dott. Pietro CUOCO - Consigliere Dott. Luciano VIGOLO - Rel.Consigliere Dott. Attilio CELENTANO - Consigliere Dott. Paolo STILE - Consigliereha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: F.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIA S. COSTANZA 27, presso lo studio dell'avvocato ARMANDO MONTEMARANO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato ANDREA SOLFANELLI, giusta delega in atti; - ricorrente contro BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE Il 326, presso lo studio dell'avvocato RENATO SCOGNAMIGLIO, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale atto notar MARIO LIGUORI di ROMA DEL 5/11/2001, rep. 126774; - resistente con procura avverso la sentenza n. 37753/00 del Tribunale di ROMA, depositata il 28/11/00 R.G.N. 54855/95; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/03 dal Consigliere Dott. Luciano VIGOLO; udito l'Avvocato FERDINANDO MENETTI per delega ARMANDO MONTEMARANO; udito l'Avvocato CLAUDIO SCOGNAMIGLIO per delega RENATO SCOGNAMIGLIO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giuseppe NAPOLETANO che ha concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione. Inizio documento Fatto Con atto 14 novembre 1994, il sig. F.P. ricorreva al Pretore di Roma nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. chiedendo che fosse dichiarata l'inefficacia delle dimissioni rassegnate alla stessa il 6 aprile 1990 e accettate dalla Banca il 28 maggio 1990 (v. anche atto di appello), in condizioni di assoluta incapacità di intendere e di volere e che fosse ordinata la propria reintegrazione nel posto dl lavoro con attribuzione di un equo indennizzo per le mancate retribuzioni nel periodo intermedio. Con sentenza in data 27 marzo 1995, il Pretore rigettava la domanda e il Tribunale dl Roma, con sentenza 17 novembre 1999 /28 novembre 2000, rigettava l'appello del lavoratore. Per la cassazione di questa sentenza ricorre F.P. con tre motivi. Resiste la Banca Nazionale del Lavoro con controricorso, memoria e osservazioni scritte, rispettivamente, ex artt. 378 e 379 c.p.c.. Inizio documento Diritto Col primo motivo, il ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione, laddove il Tribunale ha, da un lato, dato credito alle conclusioni del consulente tecnico di ufficio, che aveva ritenuto probabile la presenza dei disturbi sopra indicati anche al tempo della sottoscrizione delle dimissioni, talché 'la capacità di intendere e di volere era scemata, essa era agita sotto l'influenza della fase prevalente del momento, che in ogni caso impediva una valutazione critica obiettiva della realtà e delle eventuali conseguenze'; e, d'altro lato, il giudice di appello aveva poi ritenuto non sussistente l'incapacità all'atto delle dimissioni. Col secondo motivo, deducendo la violazione dell'art. 428 c.civ., il lavoratore si duole che il Tribunale abbia rigettato l'appello non essendovi certezza che all'atto delle dimissioni egli versasse in stato di incapacità naturale totale. Per contro, la giurisprudenza è costante nel ritenere sufficiente, ai fini dell'annullamento dell'atto, una menomazione, anche non totale, delle facoltà intellettive, tale da impedire una seria valutazione dei propri atti. Col terzo motivo, il ricorrente deduce errore di fatto quanto alla ritenuta insussistenza dell'incapacità di intendere e di volere e omessa motivazione sul punto, per non avere il giudice di appello motivato il dissenso dalle conclusioni del consulente di ufficio in punto di sussIstenza dell'incapacità naturale al momento delle dimissioni (incapacità correttamente intesa dal consulente nel senso accettato dalla giurisprudenza sopra richiamata). I tre motivi, che per la stretta connessione delle censure meritano trattazione congiunta, sono fondati. Il giudice di appello ha rilevato che il consulente tecnico d'ufficio aveva accertato che nel 1991 il lavoratore presentava i sintomi di un disturbo bipolare, trattato con terapia farmacologica, con sintomi di un disturbo schizoaffettivo, caratterizzato da fasi di eccitamento alternate a fasi depressive, onde, secondo il consulente, era probabile la sussistenza di tali disturbi anche all'epoca delle dimissioni: essi scemavano, ma non annullavano la capacità dl intendere e di volere, impedendo al soggetto una valutazione critica della realtà e delle eventuali conseguenze del proprio operato. Siffatta conclusione era, secondo il Tribunale, adeguatamente motivata e si estendeva, seppure in termini probabilistici, alle condizioni del lavoratore al tempo delle dimissioni. Peraltro, ha ulteriormente argomentato il giudice di appello, l'oggettività riscontrata, in termini probabilistici, dal consulente di ufficio, non consentiva di ritenere l'incapacità di intendere e di volere (al momento delle dimissioni), perché gli intervalli tra le crisi depressive e maniacali non consentivano di accertare il grado di intensità della perdita della capacità di intendere e di volere nel corso di ciascuna. Se, dunque, era 'fortemente probabile' la riduzione di detta capacità, non poteva ritenersi con certezza che l'incapacità naturale fosse stata totale all'atto delle dimissioni. Per contro, costituivano sintomi della conservazione di essa a quel momento, l'incidenza della sintomatologia discontinua sul piano dell'affettività, anziché su quello della cognizione, l'attuale stato di remissione e la circostanza che, all'epoca, vi fu la negoziazione di un non indifferente premio finale, caratterizzata da una oggettiva 'normalità formale ed economica dell'atto di dimissioni', tale da escludere che esse siano state sottoscritte in stato di incapacità naturale. Siffatte argomentazioni del giudice dl appello non resistono alle critiche del ricorrente sopra riportate. In realtà, il Tribunale dopo avere ritenuto, secondo il canone corretto di una probabilità molto elevata, la ricorrenza di una riduzione della capacità dl intendere o di volere all'epoca delle dimissioni, ha poi ritenuto non provata tale l'incapacità nel momento stesso in cui le dimissioni vennero sottoscritte. Deve essere, a tale proposito, ricordata la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 14 maggio 2003, n. 7485; 15 giugno 1995, n. 6756) secondo cui, "ai fini della sussistenza dell'incapacità di intendere o di volere, costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, dimissioni) non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente, secondo un giudizio che è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato". Questa Corte suprema (v. Cass. 29 luglio 1968, n. 2725) ha altresì affermato che quando esista una situazione di malattia mentale di carattere permanente (e sul punto, l'indagine del Tribunale non ha indugiato nel considerare se il 'disturbo bipolare' dal quale era affetto il F.P. nel 1991 e, verosimilmente, secondo il consulente di ufficio, anche nell'aprile - maggio 1990, avesse le caratteristiche di una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente, seppure caratterizzata da fasi alterne) è onere del soggetto che sostiene la validità dell'atto dar prova che esso fu posto in essere durante un lucido intervallo', tanto più che la malattia bipolare, come posto in evidenza anche dai giudice di merito, alla luce della consulenza di ufficio, presenta la caratteristica di alternanza di fasi depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo, di talché (contrariamente a quanto giudicato dal Tribunale) potrebbe non essere di per sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto in essere nell'una o nell'altra fase, considerato che in entrambi i casi potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure di volere, seppure non totale. Anche per la incapacità di intendere o di volere non totale può essere richiamato il principio, generalmente enunciato per l'incapacità totale (Cass. 28 marzo 2002, n. 4539), secondo cui, accertata la incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell'incapacità è assistita da presunzione 'iuns tantum', sicché, in concreto, si verifica l'inversione dell'onere della prova, nel senso che, in siffatti ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo. Vero è che, secondo la giurisprudenza di questa Corte la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata, ma è proprio l'adeguatezza della motivazione, a tale riguardo, che difetta nella sentenza impugnata la quale è incorsa altresì nella violazione dell'art. 428 c.p.c., nel pretendere che l'incapacità di intendere e di volere dovesse essere totale ai fini dell'annullamento dell'atto. Del pari incongrua è l'ulteriore sottolineatura, da parte del Tribunale, della incidenza della sintomatologia sul piano dell'affettività, anziché su quello della cognizione, senza alcun approfondimento sul punto se vi fosse stata, tuttavia, una incidenza sulla 'volizione' delle dimissioni e, a tal proposito, non sono affatto pertinenti, né comunque decisive, le considerazioni del Tribunale circa la complessità della valutazione sulla convenienza di addivenire ad una forma di dimissioni incentivate dalla corresponsione di un 'premio finale' (oltretutto, dopo avere posto in luce che, anche in tale ipotesi, permaneva la caratteristica di atto unilaterale del recesso del lavoratore), non essendosi accertato, sul piano della capacità di intendere, che per il solo fatto della ritenuta complessità delle valutazioni che il lavoratore avrebbe dovuto operare, il soggetto sia stato in grado, malgrado la patologia accertata, di determinarsi consapevolmente con valutazioni adeguate e, sul piano della capacità di volere, che la volontà del soggetto non fosse pregiudicata da una delle fasi caratteristiche del 'disturbo bipolare' Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, la sentenza impugnata deve essere annullata e la causa deve essere rinviata ad altro giudice di eguale grado, designato in dispositivo, il quale, tenuto conto dei rilievi che precedono in punto di vizi di motivazione, dovrà riesaminare la controversia adeguandosi ai seguenti principi di diritto: "1) Ai fini della sussistenza dell'incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, dimissioni), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente. 2) Quando esista una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente, o protraentesi per un rilevante periodo, è onere del soggetto che sostiene la validità dell'atto dar prova che esso fu posto in essere, in quel periodo, durante un momento di remissione della patologia. 3) In presenza di 'malattia bipolare', caratterizzata dalla alternanza di fasi depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo, può non essere di per sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto in essere nell'una o nell'altra fase, considerato che in entrambe le ipotesi potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure di volere". Allo stesso giudice è opportuno demandare anche il regolamento delle spese del giudizio dì cassazione. Inizio documento P.Q.M La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa anche per le spese alla Corte di appello di L'Aquila. Così deciso in Roma, addì 26 novembre 2003. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 MAR. 2004 Cassazione civile, SEZIONE III, 25 novembre 2003, n. 17915 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Ernesto LUPO - Presidente Dott. Ennio MALZONE - Consigliere Dott. Antonio SEGRETO - Consigliere Dott. Alberto TALEVI - Consigliere Dott. Gianfranco MANZO - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: BENUCCI ANACLETO quale erede beneficiario di CAVAGNA GIUSEPPA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G.FERRARI 11, presso lo studia dell'avvocato DINO VALENZA, che lo difende unitamente all'avvocato ERNESTO VITIELLO, giusta delega in atti; - ricorrente contro POLENGHI GIANCARLO, POLENGHI MAURIZIO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA MANGILI 3, presso lo studio dell'avvocato OTTAVIO MAROTTA, che li difende anche disgiuntamente all'avvocato ISETTA PINTO, giusta delega in atti; - controricorrenti avverso la sentenza n. 2447-99 della Corte d'Appello di MILANO, Sezione II Civile, emessa il 22-09-99 e depositata il 05-10-99 (R.G. 3145-96); udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04-07-03 dal Consigliere Dott. Gianfranco MANZO; udito l'Avvocato Paolo PACIFICI (per delega Avv. Dino VALENZA); udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pietro ABBRITTI che ha concluso per il rigetto del ricorso. Inizio documento Fatto Il Presidente del Tribunale di Milano, su ricorso di Luigi Polenghi, autorizzava il sequestro conservativo sui beni di Giuseppa Cavagna. Il Polenghi affermava di essere creditore della somma di lire 110.000.000 per vari finanziamenti fatti in favore della Cavagna quale esercente un'attività commerciale, poi ceduta a Renato Viganò. Il Polenghi citava quindi in giudizio la Cavagna per la convalida del sequestro e per la condanna della stessa al pagamento della somma di lire 95.000.000. Si costituiva la convenuta, che contestava l'autorizzazione del sequestro e chiedeva il rigetto della domanda, previa declaratoria di invalidità della scrittura dell'11 febbraio 1986, perché effetto di circonvenzione d'incapace. Il Tribunale annullava la scrittura in data 11 febbraio 1986, ai sensi dell'art. 428 c.c., e respingeva la domanda. Giancarlo Polenghi e Maurizio Polenghi, quali eredi di Luigi Polenghi, proponevano appello. Si costituiva Anacleto Benucci, quale erede di Giuseppa Cavagna, contestando il fondamento dell'impugnazione. La Corte d'appello accoglieva l'appello, convalidava il sequestro e condannava Anacleto Benucci, quale erede della Cavagna al risarcimento del danno nella misura di lire 95.000.000, con la rivalutazione e gli interessi. Avverso questa sentenza Anacleto Benucci, quale erede beneficiato di Giuseppa Cavagna propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Resistono con controricorso Giancarlo e Maurizio Polenghi. Il Benucci ha presentato memoria. Inizio documento Diritto Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 680 e 345 c.p.c. e 1988 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti. Il Polenghi nel giudizio di convalida del sequestro aveva azionato solo una scrittura del 1985, ritenuta dai giudici di primo grado priva di ogni valenza giuridica non implicando un riconoscimento di debito. Solo in appello era stata azionata anche la scrittura del 1986, ma trattavasi evidentemente di domanda nuova che doveva essere dichiarata inammissibile d'ufficio ex art. 345 c.p.c. La Corte d'appello aveva invece ritenuto valido l'atto di ricognizione di debito dell'11 Febbraio 1986, così violando l'art. 345 c.p.c. Il motivo è infondato. Il ricorrente muove dall'assunto che il Polenghi "nel giudizio di merito di convalida del sequestro...aveva azionato solo la scrittura del 1985". Di qui la violazione delle norme indicate, per avere la Corte d'appello considerato l'atto di ricognizione del debito dell'11 febbraio 1986. Questa premessa è tuttavia errata, poiché come risulta dalla sentenza impugnata già in primo grado era stata considerata la scrittura del 1986, tanto che era stata annullata a norma dell'art. 428 c.c. Non si riscontra dunque la violazione di legge lamentata, mentre non è dato comprendere in cosa consisterebbe il vizio di motivazione, essendo la sentenza adeguatamente motivata e fondata su una ratio decidendi di chiara e immediata comprensione. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 428 c.c. nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la sentenza impugnata, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di primo grado e disattendendo la perizia medico legale, aveva ritenuto la Cavagna capace d'intendere e di volere nel febbraio 1986. Più specificamente, considerate talune deposizioni rese sia in sede civile che penale e la consulenza tecnica, il ricorrente rileva che la Corte d'appello, pur riconoscendo che la Cavagna era affetta da una forma di Alzheimer di grado medio nel maggio 1987, non aveva tenuto conto che, come evidenziato dalla consulenza in atti e dalle deposizioni dei medici, già qualche anno prima erano venute meno le capacità mentali e decisionali della stessa. In conclusione, la Corte territoriale non aveva preso in esame tutti gli elementi di causa, motivando in maniera insufficiente il proprio giudizio. Anche questo motivo è privo di fondamento. L'indagine circa l'esistenza dell'incapacità di intendere e di volere del soggetto nel momento in cui ha posto in essere l'atto del quale è chiesto l'annullamento a norma dell'art. 428 cod. civ. costituisce un apprezzamento di fatto sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata ed esente da vizi (Cass. 28 marzo 1993, 2002, n. 4539; Cass. 25 ottobre 1997, n. 10505; Cass. 15 giugno 1995, n. 6756). Ciò premesso, non si rileva alcuna violazione di legge essendo i giudici d'appello pervenuti alla conclusione, con valutazione come si è detto insindacabile in questa sede, che non ricorrevano le condizioni per l'annullamento della scrittura in questione. Peraltro, dallo stesso svolgimento del motivo risulta evidente che sotto la rubrica della violazione di legge si censura inammissibilmente il convincimento espresso dai giudici di merito circa l'insussistenza dell'incapacità d'intendere e di volere. Non sussiste neppure il lamentato vizio di motivazione. La sentenza impugnata ha proceduto all'esame della consulenza tecnica d'ufficio, pervenendo alla conclusione che da questa non si evinceva con certezza che la Cavagna fosse incapace d'intendere e di volere al momento della sottoscrizione della scrittura, non solo perché il giudizio medico - legale era espresso in termini di probabilità, ma anche perché si basava su una documentazione concernente indagini eseguite un anno dopo la formazione della scrittura e sul colloquio con la perizianda avvenuto nel novembre 1991. Ha inoltre considerato la relazione tecnica del reparto di neurologia dell'Ospedale Niguarda, la deposizione del teste Montagnolo e il parere medico legale del prof. Rossella pervenendo alla conclusione che una menomazione, anche solo transitoria, delle facoltà intellettive e volitive della Cavagna al momento di sottoscrizione della scrittura, seppure ipotizzabile, non era affatto provata; mentre non era sostenibile che l'atto fosse stato firmato in una situazione di sopraffazione nei confronti della stessa. Da quanto esposto e considerato il contenuto del motivo di ricorso, emerge chiaro che il ricorrente non porta all'attenzione di questa Corte una carenza di effettiva logica nella motivazione della sentenza impugnata o di contraddittorietà all'interno della stessa, ma contesta direttamente le valutazioni espresse dalla Corte di merito in ordine alla ritenuta insussistenza dell'incapacità d'intendere e di volere. La sentenza impugnata appare comunque adeguatamente e logicamente motivata e non si rileva la pretermissione di elementi decisivi, tali non potendo essere considerati gli stralci di deposizione riportati nel ricorso dei testi escussi in sede penale e in sede civile. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 1988 c.c. nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Il ricorrente muove dall'assunto che il riconoscimento di debito non spiega effetto se chi lo ha compiuto dimostra l'insussistenza del rapporto fondamentale. Rileva quindi l'incongruenza tra il totale presuntivamente dovuto dalla Cavagna in base ai documenti prodotti in appello, pari a lire 16.553.472, e l'importo di cui i Polenghi si vantavano creditori e lamenta che la sentenza impugnata non spiegava perché la Cavagna era tenuta al pagamento della somma di lire 95.000.000. Il motivo è infondato. La ricognizione di debito, al pari della promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell' art. 1988 c.c. un'astrazione meramente processuale della causa debendi, comportante una semplice relevatio ab onere probandi per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (v. per es. Cass. 11 dicembre 2000, n. 15575; Cass. 9 febbraio 2001, n. 1831; Cass. 10 agosto 2002, n. 11426). La Corte d'appello di Milano ha fatto applicazione del principio sopra enunciato, ritenendo, con valutazione non sindacabile in questa sede in quanto esaurientemente motivata, che la parte obbligata non aveva fornito la prova dell'inesistenza o dell'invalidità del rapporto oggetto di riconoscimento. Anzi, la Corte di merito si è spinta a rilevare che la pretesa creditoria era suffragata dalla prova orale e da quella documentale. Non si ravvisa dunque alcuna violazione di legge nè vizio di motivazione. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1224 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, deducendo che, trattandosi di un debito di valuta, doveva essere fornita la prova del maggior danno per poter liquidare la rivalutazione monetaria. E nel caso di specie la prova non era stata data. Il motivo è fondato. Benché nella sentenza impugnata la condanna alla somma di lire 95.000.000 sia considerata "risarcimento danni conseguenti all'inadempimento", si versa in effetti in ipotesi di debito di valuta, in quanto la pretesa è fondata su un riconoscimento del debito ex art. 1988 c.c., mentre i rapporti sottostanti ai quali si fa riferimento nella sentenza sono quelli relativi, a canoni di locazione, a finanziamenti e ad attività di collaborazione. Come costantemente affermato da questa Corte, la natura di debito di valuta, soggetto al principio nominalistico, comporta che la rivalutazione monetaria non può essere automaticamente riconosciuta, dovendo essere, a norma dell'art. 1224 secondo comma c.c., provato il maggior danno, sia pure a mezzo di presunzioni (v. per es. Cass. 26 febbraio 2002, n. 2823; Cass. 30 dicembre 2002, n. 122; Cass. 27 novembre 2001, n. 15033). Erroneamente dunque la sentenza impugnata ha liquidato la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat senza alcun riferimento al maggior danno subito. Con il quinto motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 490 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti. Lamenta che egli aveva accettato l'eredità con beneficio d'inventario, come dedotto nella comparsa d'appello, per cui la condanna doveva essere limitata al valore dei beni a lui pervenuti. Il motivo è inammissibile. Nella causa non si discute degli effetti dell'accettazione con beneficio d'inventario che il ricorrente, succeduto nel processo a norma dell'art. 110 c.p.c. assume di aver fatto, ma dell'obbligazione della Cavagna nei confronti degli attori. È dunque estranea al thema decidendum la questione dei limiti del pagamento del debiti ereditari, con conseguente inammissibilità del motivo. Per quanto detto, vanno rigettati i primi tre motivi e va dichiarato inammissibile il quinto, mentre va accolto il quarto motivo. Alla cassazione della sentenza in relazione al motivo accolto non deve seguire il rinvio, ma una pronuncia nel merito, che dichiari che non è dovuta la rivalutazione monetaria sul debito della Cavagna e, quindi, del suo erede Benucci, fermi ovviamente restando gli interessi. La pronuncia è autorizzata dall'art. 384 c.p.c., perché non sono necessari accertamenti di merito per applicare alla domanda il principio di diritto sopra indicato sulla base del quale il motivo è stato accolto. Sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese del giudizio per cassazione, mentre si conferma la condanna alle spese così come contenuta nella sentenza impugnata. Inizio documento P.Q.M La Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso, accoglie il quarto e dichiara inammissibile il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, pronunziando nel merito, esclude la rivalutazione monetaria sul debito del Benucci. Conferma la pronunzia delle spese in appello. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma il 4 luglio 2003. Cassazione civile, SEZIONE LAVORO, 14 maggio 2003, n. 7485 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Composta dai Magistrati: Dott. Guglielmo SCIARELLI - Presidente Dott. Alberto SPANÒ - Consigliere Dott. Giovanni MAZZARELLA - Consigliere Dott. Guido VIDIRI - Consigliere Prof. Bruno BALLETTI - Cons. relatore ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso r. g. 16598-2000 proposto da: BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Renato Scognamiglio, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma al Corso Vittorio Emanuele II n. 326, giusta procura per notar Vieri Grillo in data 13 luglio 2000 n. rep. 133027; - ricorrente principale contro D'AGNONE RAFFAELE, rappresentato e difeso dall'avv. Mauro Rufini, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma al viale Vaticano n. 46, giusta procura in calce al "controricorso e ricorso incidentale"; - controricorrente NONCHÈ sul ricorso r. g. 16944-2000 proposto da: D'AGNONE RAFFAELE, rappresentato, difeso ed elettivamente domiciliato come dinanzi indicato; - ricorrente principale contro BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata, difesa ed elettivamente domiciliata come dinanzi indicato; - controricorrente NONCHÈ sul ricorso incidentale r. g. 17528-2000 proposto da: D'AGNONE RAFFAELE, rappresentato, difeso ed elettivamente domiciliato come dinanzi indicato; - ricorrente incidentale contro BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata, difesa ed elettivamente domiciliata come dinanzi indicato; - controricorrente avverso la sentenza del Tribunale di Foggia - Sezione Lavoro n. 785-2000 del 5 giugno 2000 (resa nel giudizio di appello avente il n. di r. g. 2045-1998), notificata in data 27 giugno 2000. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3 dicembre 2002 dal consigliere Bruno Balletti; Uditi gli avv.ti Claudio Scognamiglio (per delega dell'avv. Renato Scognamiglio) e Mauro Rufini; Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Giuseppe Napoletano, che ha così concluso: "previa riunione, rigetto ricorso principale, inammissibili il ricorso incidentale ed il ricorso autonomo del D'Agnone". Inizio documento Fatto Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. al Pretore - Giudice del Lavoro di Foggia Raffaele D'Agnone conveniva in giudizio la s.p.a. "Banca Monte dei Paschi di Siena" (in acronimo: BMPS) esponendo: *) di essere stato assunto dalla cennata Banca in data 7 gennaio 1980; *) di avere inviato alla datrice di lavoro in data 20 dicembre 1992 un certificato medico comprovante una grave forma di esaurimento nervoso; *) di avere richiesto alla BMPS in data 28 dicembre 1992 e reiterato la richiesta in data 30 gennaio 1993 di essere autorizzato a svolgere l'attività lavorativa part - time e di avere avuto respinte entrambe tali richieste dalla Banca; *) di avere richiesto un periodo di congedo retribuito con decorrenza dal mese di febbraio 1993 e di avere avuto respinta dalla Banca anche tale richiesta; *) di avere presentato (a partire dal mese di aprile 1993) domande di trasferimento, di aspettativa per malattia e di congedo per motivi di salute e che pure tale richieste erano state respinte dalla Banca; *) di essere stato sottoposto su disposizione della BMPS a visita medica ex art. 5 della legge n. 300-1970 e, all'esito di tale visita, di avere ricevuto la comunicazione di riprendere immediatamente servizio; *) di avere richiesto di usufruire dell'intero periodo di ferie spettantegli, al termine del quale - per effetto dell'accoglimento della richiesta di dimissioni rassegnate in data 7 settembre 1993 - era stato estinto il proprio rapporto di lavoro con la Banca; *) "che, al momento in cui aveva presentato richiesta di dimissioni, le sue capacità di valutazione dei dati della realtà erano falsate, a motivo della grave crisi depressiva nella quale era caduto a far data dal 1992". Il ricorrente richiedeva, quindi, all'adito Giudice del Lavoro "di ripristinare il suo rapporto di lavoro, previo annullamento delle dimissioni rassegnate ex art. 428, primo comma, cod. proc. civ., nonché la condanna della Banca al risarcimento dei danni corrispondendogli le retribuzioni medio tempore maturate ed alla ricostruzione della sua posizione assicurativa e contributiva, il tutto con condanna al pagamento delle spese legali". Si costituiva in giudizio la s.p.a. BMPS che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto. Il Pretore - Giudice del Lavoro accoglieva parzialmente la domanda attorea e su appello principale della BMPS e appello incidentale del D'Agnone - il Tribunale di Foggia (quale Giudice del Lavoro di secondo grado) "rigetta (va) l'appello principale e quello incidentale e per l'effetto conferma (va) la sentenza pretorile, compensa (va) le spese". Per quello che rileva in questa sede il Giudice di appello ha rimarcato che: a) "il c. t.u. dott. Ciampone, chiamato a stabilire se al momento delle dimissioni richieste dal D'Agnone alla BMPS, l'originario ricorrente versasse in uno stato di incapacità di intendere e di volere, ha ritenuto, sulla base dell'esame della documentazione medica relativa al periodo immediatamente antecedente a quello in cui il D'Agnone rassegnava le dimissioni, che nel momento e quindi sulla base della quantità e qualità dei sintomi espressi (astenia, depressione del tono dell'umore, sentimenti di incapacità, ricerca di protezione, idee persecutorie allargate ai contesti familiari e lavorativo, compromissione della capacità di giudizio, di critica ed incapacità di valutare le conseguenze degli altrui comportamenti) che il D'Agnone al momento in cui rassegnava le dimissioni fosse affetto da un disturbo depressivo maggiore"; b) "le conclusioni dell'espletata c. t. u. inducono a ritenere che al momento in cui il D'Agnone presentava le dimissioni, si trovava in uno stato di incapacità di intendere e di volere tale da impedirgli di percepire con esattezza il significato delle sue azioni e rendersi conto delle conseguenze pregiudizievoli che dalle stesse sarebbero potute derivare"; c) "ai fini della prova dello stato di incapacità di intendere e di volere, non si ritiene sia necessario dimostrare che al momento del compimento dell'atto il soggetto fosse in uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo piuttosto sufficiente fornire la prova che le stesse fossero scemate in modo tale da ostacolare il normale processo di valutazione dei propri atti"; d) "le valutazioni effettuate dal dottor Ciamponi, nonché quelle svolte dai medici che hanno visitato il D'Agnone in epoca anteriore, appaiono sufficienti ai fini della dimostrazione che l'originario ricorrente al momento del compimento dell'atto si fosse trovato in uno stato di menomazione delle capacità valutative, dato che le stesse appaiono complete ed accurate"; e) "circa la prova del grave pregiudizio, la circostanza che un soggetto rimanga privo del posto di lavoro costituisce di per sè sola prova del fatto che al soggetto sia derivato un pregiudizio grave avendo egli perso la propria fonte di reddito". Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. "Banca Monte dei Paschi di Siena" propone ricorso affidato ad un unico motivo. Resiste con controricorso l'intimato Raffaele D'Agnone il quale ha proposto sia un proprio autonomo ricorso (notificato il 28-29 agosto 2000), sia ricorso incidentale (notificato il 16 settembre 2000) e, successivamente, ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.. Anche la s.p.a. "Banca Monte dei Paschi di Siena" ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. limitandosi a contrastare la cennata impugnativa del D'Agnone. Inizio documento Diritto I -. Deve essere disposta la riunione dei ricorsi summenzionati in quanto proposti contro la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.). II -. Con l'unico motivo del ricorso "principale" (r. g. 16598-2000) la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. - denunziando "violazione dell'art. 428 cod. civ. anche in relazione agli artt. 2697 cod. civ. e 116 cod. proc. civ. e vizi di motivazione" - addebita, sotto un primo profilo, al Giudice di appello "di essersi limitato a recepire in maniera assolutamente apodittica e tautologica le risultanze della consulenza tecnica di ufficio e d'avere completamente omesso di considerare circostanze fattuali o elementi documentali - ritualmente acquisiti agli atti di causa ed evidenziati dalla Banca in sede di gravame - che avrebbero imposto una conclusione radicalmente difforme da quella in effetti recepita dal Tribunale di Foggia in ordine alla sussistenza dello stato di incapacità naturale... non tenendo conto delle deduzioni e circostanze evidenziate nella consulenza tecnica di parte del dott. Salvatore Ruggiero" e, sotto un secondo profilo, censura la sentenza impugnata per non avere il Giudice di appello considerato che "le dimissioni volontarie del lavoratore, in quanto atto espressamente previsto e disciplinato dalla legge, non possono ritenersi per loro intrinseca natura pregiudizievoli per il dipendente, ai fini dell'annullabilità per incapacità naturale, [atteso che] la valutazione del grave pregiudizio non deve contemplare le sole ricadute patrimoniali dell'atto, ma anche quelle psicologiche, familiari e sociali, abbracciando tutta la sfera degli interessi del soggetto". Con l'unico motivo del ricorso "principale" (r. g. 16944-2000) Raffaele D'Agnone chiede "la cassazione e l'annullamento della ricorsa sentenza del Tribunale di Foggia, nella parte in cui non gli ha concesso di poter ottenere il recupero delle somme medio tempore maturate, ovvero pure di quelle relative al periodo intercorso tra le dimissioni prestate, senza averne consapevolezza e coscienza, e la data dell'effettivo reintegro. Si chiede ulteriormente che si voglia ordinare la ricostruzione ed il recupero di tutto quanto nello stesso periodo maturato al proposito delle percezioni e dei versamenti assicurativi, contributivi e previdenziali propri del rapporto di lavoro in essere tra lo stesso Raffaele D'Agnone e l'Istituto di Credito Monte dei Paschi di Siena S.p.a., come pure di tutto quanto abbia ad incidere nel decorso della carriera, nel curriculum lavorativo, nelle anzianità convenzionali, negli automatismi economici, negli eventuali scatti di anzianità con rivalutazione economica ed interessi, anche ai fini delle pure lamentate omissioni contributive e previdenziali". Con il ricorso "incidentale" (r. g. 17528-2000) il D'Agnone indica solo nell'intestazione dell'atto contenente il "controricorso avverso il ricorso principale r. g. 16598-2000" che lo stesso debba intendersi anche quale "ricorso incidentale", ma in realtà, nel corpo dell'atto e nelle conclusioni dello stesso, non deduce alcuna autonoma censura alla sentenza del Tribunale di Foggia, nè alcuna doglianza o richiesta comunque assumibile come impugnativa di detta sentenza. III -. Prima della disamina del ricorso principale della società BMPS deve essere valutata l'eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dal D'Agnone per nullità della notifica di detto atto perché avvenuta nei confronti dell'avv. Carmine Battiante "che non è più difensore del controricorrente come potrà facilmente evincersi dalla allegata documentazione già presente e nel fascicolo di causa". La cennata eccezione è da respingere attesa la sua evidente inammissibilità in quanto - per il principio di autosufficienza che regola il contenuto degli atti di questa sede al fine di consentirne il controllo al giudice di legittimità che non può sopperire alle lacune dell'atto con indagini integrative - il D'Agnone ha omesso di indicare da quale specifica documentazione si sarebbe potuto evincere che l'avv. Battiante non fosse più stato il suo difensore nel giudizio di appello. In ogni caso - a conferma, comunque, dell'infondatezza dell'eccezione de qua dalla copia della sentenza impugnata risulta che era stato proprio l'avv. Battiante a richiedere la notifica di detta sentenza nei confronti della controparte al fine di provocare il decorso del termine dell'impugnativa ex art. 326 c. p. c. e, pertanto, in quel momento - valido agli effetti processuali collegati al successivo ricorso per cassazione - lo stesso avv. Battiante aveva sicuramente titolo per richiedere tale notifica in quanto, appunto, difensore del D'Agnone. IV-a -. Passando ora alla valutazione dell'unico motivo di ricorso sviluppato dalla società BMPS - nei due profili dinanzi precisati ed esaminabili conseguentemente poiché intrinsecamente connessi -, lo stesso si appalesa infondato e deve, quindi, essere respinto. Al riguardo è da rilevarsi - in linea generale sulla consistenza dello stato di incapacità di intendere e di volere quale causa di annullamento delle dimissioni del lavoratore - che l'incapacità ex art. 428 cod. civ. non presuppone la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, in quanto ai fini della configurabilità dell'incapacità naturale è sufficiente che le facoltà intellettive o volitive risultino diminuite in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente (cfr. Cass. n. 6756-1995, Cass. n. 7784-1991, Cass. n. 4955-1985). Si tratta, al riguardo, di un perturbamento psichico (anche transitorio) tale da menomare gravemente, pur senza escluderle totalmente, le facoltà intellettive del soggetto in modo da impedire una seria valutazione dei propri atti e la formazione di una volontà cosciente (Cass. n. 7344-1997, Cass. n. 418-1977). In sostanza, non occorre la totale esclusione della capacità psichica e volitiva del soggetto, purché l'incapacità sussista al momento dell'atto "dimissionario" (Cass. n. 10505-1997, Cass. n. 3569-1991) e sia comunque tale da arrecare al soggetto un notevole stato di turbamento psichico, idoneo a far venire meno la sua capacita di autodeterminazione e la consapevolezza dell'atto che sta per compiere (Cass. n. 6199-2000, Cass. n. 6756-1995 cit., Cass. n. 2364-1977). IV-b -. Appare, quindi, corretto il decisum del Tribunale di Foggia che ha ritenuto, ai fini della configurabilità dello stato di incapacità invalidante l'atto di dimissioni giudizialmente annullato, non necessario uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e volitive posto che era sufficiente che fosse accertato che le stesse erano state tali da ostacolare il normale processo di valutazione dei propri atti. Il relativo giudizio, come più volte ribadito da questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. n. 6756-1995), è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato e, proprio sotto tale profilo, la ricorrente denunzia che nella specie la sentenza impugnata non sarebbe stata adeguatamente motivata in quanto il Tribunale di Foggia non avrebbe tenuto conto della consulenza di parte e dei documenti sanitari prodotti in atti. Siffatte censure si rivelano infondate atteso che il Tribunale ha espresso il proprio giudizio sulla base di una seconda consulenza tecnica ammessa nel giudizio di appello (conforme alle conclusioni della prima consulenza svoltasi nel giudizio di primo grado) di cui ha controllato la correttezza metodologica. In ogni caso, a conferma dell'infondatezza delle censure formulate dall'odierna ricorrente, si rimarca che: a) il giudice, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico, assolve al proprio obbligo di motivazione limitandosi ad indicare le fonti del suo convincimento, senza dover esaminare specificatamente le contrarie deduzioni di parte, che debbono così intendersi per implicitamente disattese (Cass. n. 3711-1989, Cass. n. 4817-1987, Cass. n. 322-1986); b) in particolare, il giudice che abbia disposto nuova consulenza tecnica, qualora ne condivida i risultati non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento e può limitarsi a riportare il relativo parere, quando questo per la sua analiticità costituisca idonea risposta ai rilievi critici mossi dalla parte alla consulenza precedente, posto che la decisione di rinnovare la consulenza implica valutazione ed esame dei detti rilievi, mentre la formale trascrizione e l'argomentata accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituiscono motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità (Cass. n. 334-1998, Cass. n. 271-1995); c) il vizio di omessa o errata motivazione deducibile in sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulti dalla sentenza, sia riscontrabile il deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento in senso difforme da quello preteso dalla parte perché l'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. non conferisce alla Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico - formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, valutare le risultanze processuali, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le stesse, quelle ritenute più idonee per la decisione (Cass. n. 685-1995, Cass. n. 8653-1994, Cass. n. 10503-1993); d) quando il Giudice di merito ponga a base della propria decisione le considerazioni svolte dal consulente d'ufficio, o a queste faccia riferimento anche implicitamente, non è tenuto a motivare il proprio dissenso dalle osservazioni svolte dalla consulenza di parte, la quale costituisce una semplice allegazione difensiva a contenuto tecnico (Cass. n. 15028-2001). IV-c -. Quanto all'ulteriore censura della ricorrente sul vizio di insufficiente motivazione che avrebbe inficiato la sentenza impugnata in merito alla prova del grave pregiudizio subito dal lavoratore per l'annullamento delle dimissioni rese in stato di incapacità di intendere e di volere, si rimarca che il cennato grave pregiudizio non è soltanto di natura patrimoniale, ma può incidere sull'intera sfera di interessi del lavoratore, per cui i fattori da considerare sono molteplici (cfr. Cass. n. 10577-1990). Alla luce di questo rilievo non merita alcuna critica la statuizione del Tribunale di Foggia che, su tale punto, ha ritenuto che la circostanza che un soggetto rimanga privo del posto di lavoro costituisce, di per sè sola, prova del fatto che al soggetto sia derivato un pregiudizio grave avendo egli perso la propria fonte di reddito (scilicet, essendo venuto improvvisamente meno un flusso reddituale che per la sua natura alimentare rappresenta di per sè grave pregiudizio patrimoniale) e, inoltre, avendo la perdita del lavoro indubbiamente inciso in maniera determinante sull'intera sfera di interessi del lavoratore. Comunque, giusta quanto affermato da questa Corte con orientamento consolidato e che nella specie deve trovare ulteriore conferma, ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario - per giungere alla cassazione della pronunzia - non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia avuto esito positivo nella sua interezza con l'accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso dell'impugnazione. Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza nella sua interezza, o in un suo singolo capo, idest di tutte le ragioni che autonomamente l'una o l'altro sorreggano. È sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere respinto integralmente, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (così, di recente, Cass. n. 5149-2001). IV-d -. In conclusione non si evince, nella disamina della sentenza impugnata, l'esistenza di una errata disamina e valutazione o di una insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia dato che il Giudice di appello, con completa e congrua motivazione in relazione alle risultanze processuali, è correttamente pervenuto alla decisione a mente della quale ha ritenuto che il D'Agnone, nel momento in cui ha presentato le dimissioni, si trovava in uno stato di incapacità di intendere e di volere tale da determinare l'annullamento delle cennate dimissioni considerato il grave pregiudizio provocato dalle stesse. V -. Per quanto concerne il ricorso "principale" (r. g. 16944-2000) proposto dal D'Agnone con atto notificato il 28-29 agosto 2000 e il ricorso "incidentale" (r. g. 17528-2000) proposto dallo stesso D'Agnone con atto notificato il 16 settembre 2000, gli stessi - da esaminarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi si appalesano inammissibili. Al riguardo deve, anzitutto, rigettarsi l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla società BMPS per essere stati entrambi i cennati ricorsi sottoscritti dal D'Agnone e non dall'avv. Mauro Rufini - nominato difensore del predetto D'Agnone con procura in calce ai summenzionati atti autenticata dallo stesso avv. Rufini -, atteso che la firma apposta dal difensore per l'autenticazione della procura speciale (mandato ad litem) scritta in calce o a margine del ricorso per cassazione vale anche quale sottoscrizione del ricorso perché consente di riferire al difensore che ha autenticato la sottoscrizione della procura speciale anche la paternità del ricorso medesimo (Cass. n. 1083-1995). In ordine, poi, al ricorso (r. g. 16944-2000) - che, se pure proposto tardivamente oltre la scadenza del termine perentorio ex art. 325 capoverso c. p. c. [ricorso notificato il 28-29 agosto 2000 rispetto alla sentenza impugnata notificata il 27 giugno 2000], resta valido come ricorso incidentale (Cass. n. 10284-1994) -, lo stesso è comunque inammissibile per l'omessa indicazione dei motivi di ricorso che debbono essere completi e riferibili alla sentenza impugnata (Cass. n. 3805-1999, Cass. n. 7851-1997), mancando totalmente nel cennato ricorso la specifica individuazione di pretesi errori di attività o di giudizio attribuibili alla sentenza impugnata e la relativa motivazione delle censure proposte (cfr. Cass. n. 2924-1971, Cass. n. 2572-1970). Anche il ricorso "propriamente" incidentale (r. g. 17528-2000) notificato il 16 settembre 2000 è inammissibile per avvenuta consumazione del potere di impugnazione perché successivamente proposto dal D'Agnone che, avendo ricevuto ex adverso la notifica del ricorso in data 12 agosto 2000 avverso la stessa sentenza, aveva in precedenza notificato (ripetesi, il 28-29 agosto 2000) l'autonomo ricorso per cassazione r. g. 16944-2000. IV -. In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.p.a. "Banca Monte dei Paschi di Siena" deve essere rigettato, mentre vanno dichiarati inammissibili i ricorsi r. g. 16944-2000 e r. g. 17528-2000 proposti da Raffaele D'Agnone. Ricorrono giusti motivi (idest: "reciproca soccombenza") per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Inizio documento P.Q.M riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso r. g. 16598-2000 proposto dalla s.p.a. Banca Monte dei Paschi di Siena; dichiara inammissibili i ricorsi incidentali r. g. 16944-2000 e r. g. 17528-2000 proposti da Raffaele D'Agnone; compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio. Così deciso, in Roma, il giorno 3 dicembre 2002.