N - Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza

N. 1146
SENTENZA 15-29 DICEMBRE 1988
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof.
Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco
GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio
BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI,
prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670
(Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige), promosso con ordinanza emessa il 9
novembre 1987 dalla Corte d'assise di Bolzano nel procedimento penale a carico di Pahl Franz,
iscritta al n. 853 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 2, prima serie speciale, dell'anno 1988;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 21 giugno 1988 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;
Udito l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio penale a carico del consigliere provinciale Franz Pahl, imputato del
reato previsto dall'art. 292 c.p. per aver pubblicamente vilipeso la bandiera italiana durante la seduta
del Consiglio provinciale di Bolzano del 18 giugno 1986, la Corte di assise di Bolzano ha sollevato,
con un'ordinanza del 9 novembre 1987, questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 del
d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige) per violazione
dell'art. 3 della Costituzione.
Premesso che la garanzia dell'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai parlamentari
nell'esercizio delle loro funzioni (art. 68 Cost.) è esteso dall'art. 28 St. T.A.A. ai consiglieri
regionali e che l'art. 49 dello stesso Statuto ne prevede l'applicabilità anche ai membri dei Consigli
delle Province autonome di Trento e di Bolzano, il giudice a quo rileva che le norme statutarie
ricordate possono essere interpretate in un duplice modo, uno estensivo e l'altro restrittivo, che
sono, a suo avviso, egualmente contrastanti con l'art. 3 della Costituzione.
In base a un'interpretazione restrittiva, le predette norme garantiscono ai consiglieri provinciali
un'immunità limitata allo svolgimento delle sole funzioni connesse all'esercizio delle competenze
legislative previste dagli artt. 8, 9 e 10 Stat. T.A.A. Poiché i membri del Parlamento godono della
predetta garanzia per qualsiasi attività svolta nell'esercizio delle varie funzioni parlamentari, per il
giudice a quo sussisterebbe una disparità di trattamento tra due categorie omogenee, che induce a
sospettare gli artt. 28 e 49 St. T.A.A. di violazione del principio di eguaglianza. Sempre ad avviso
del giudice a quo, quest'ultimo principio sarebbe, tuttavia, violato dalle stesse disposizioni anche
ove si desse alle norme impugnate un'interpretazione estensiva, sostanzialmente coincidente con
quella data all'art. 68 Cost. in relazione ai membri del Parlamento, poiché in tal caso la disparità di
trattamento sussisterebbe fra i membri del Consiglio Provinciale, che godono di simile immunità, e
i cittadini comuni, privi della medesima prerogativa.
Il giudice a quo conclude ricordando che, secondo la più autorevole dottrina costituzionalistica, è
pienamente ammissibile un giudizio di legittimità avente ad oggetto disposizioni costituzionali,
come quelle statutarie, pur in relazione a eventuali vizi sostanziali.
2. - Intervenuto in giudizio tramite l'Avvocatura Generale dello Stato, il Presidente del Consiglio
dei Ministri ha eccepito l'inammissibilità della questione sotto un duplice e distinto profilo:
innanzitutto, perché sarebbe stato impugnato un atto avente valore di legge costituzionale, che come
tale non può esser giudicato dalla Corte costituzionale per pretesi vizi sostanziali; in secondo luogo,
perché la questione, per un verso, è stata prospettata sulla base di due interpretazioni, tra loro
alternative, della disposizione impugnata e, per un altro, è stata posta in relazione a un diverso
tertium comparationis, una volta di favore e un'altra volta di sfavore, che dovrebbe portare a
pronunzie di segno diverso, una volta di tipo demolitorio e un'altra di tipo additivo.
Da ultimo, l'Avvocatura dello Stato fa rilevare che il giudice a quo dà per scontata la rilevanza della
questione, senza precisare gli esatti termini della vicenda che ha dato luogo all'imputazione ex art.
292 c.p. e malgrado il non risolto problema interpretativo, che, per un profilo del prospettato
dilemma, implicherebbe l'estensione della responsabilità penale dell'imputato.
3. - In prossimità dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ha presentato una memoria, con la quale,
oltre a sviluppare l'eccezione di inammissibilità attraverso un minuzioso esame della giurisprudenza
costituzionale, teso a dimostrare l'insussistenza di precedenti nel senso voluto dal giudice a quo, e
attraverso il non riconoscimento nel caso di specie di un principio supremo della Costituzione, ha
altresì chiesto che la questione sia dichiarata non fondata, poiché, in ambedue le interpretazioni
possibili, si mettono a confronto categorie non omogenee: ora quella dei parlamentari e quella dei
consiglieri provinciali, ora quella di questi ultimi e quella della generalità dei cittadini.
Considerato in diritto
1. - La Corte di assise di Bolzano, essendo investita di un giudizio contro un membro del Consiglio
Provinciale imputato del reato di vilipendio alla bandiera (art. 292 c.p.) ed essendo chiamata ad
applicare alla fattispecie dedotta in giudizio l'art. 49 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Statuto
speciale del Trentino-Alto Adige), che, richiamando l'art. 28 dello stesso decreto, estende ai membri
dei Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano la prerogativa della irresponsabilità
per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 dello Statuto per violazione del principio supremo
dell'ordinamento costituzionale sancito dall'art. 3 della Costituzione (principio di eguaglianza).
In particolare il giudice a quo ritiene che quest'ultimo principio risulti violato tanto ove si dia
un'interpretazione restrittiva delle disposizioni impugnate, nel senso che l'anzidetta prerogativa sia
applicabile soltanto in relazione alle funzioni svolte dai consiglieri provinciali nell'esercizio delle
competenze legislative affidate alle Province autonome, quanto ove se ne dia un'interpretazione
estensiva, sostanzialmente diretta ad applicare la ricordata prerogativa a qualsiasi funzione svolta in
qualità di consiglieri provinciali, analogamente a quanto avviene per i membri del Parlamento
nazionale. Nel primo caso, infatti, il giudice a quo ravvisa una disparità di trattamento tra i membri
del Parlamento e quelli dei Consigli delle Province autonome, nel secondo, invece, la
diseguaglianza sussisterebbe tra i predetti consiglieri provinciali e la generalità dei cittadini privi
della medesima prerogativa.
2. - In relazione alla questione proposta, l'Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del
Presidente del Consiglio dei Ministri, ha presentato tre distinte eccezioni di inammissibilità: una
attinente all'idoneità dell'atto impugnato ad essere oggetto del giudizio di legittimità costituzionale
previsto dall'art. 134 Cost. e due relative alla sussistenza dei requisiti processuali necessari per la
corretta instaurazione del predetto giudizio.
Poiché la verifica di questi ultimi - che, nel caso consistono nella valutazione della rilevanza
compiuta da parte del giudice a quo e nella possibilità di porre questioni basate su interpretazioni
alternative della disposizione impugnata - è logicamente successiva alla verifica dell'idoneità
dell'atto in cui è contenuta la norma contestata a fungere da oggetto del giudizio di legittimità
costituzionale, occorre innanzitutto esaminare se le disposizioni previste dagli artt. 28 e 49 St.
T.A.A. rivestano il valore di legge necessario perché possano validamente costituire oggetto del
sindacato della Corte costituzionale in sede di legittimità.
2.1. - L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce, innanzitutto, l'insindacabilità da parte di questa
Corte di disposizioni aventi valore di legge costituzionale, quantomeno quando queste siano
impugnate per vizi sostanziali.
L'eccezione non può essere accolta.
La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o
modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come
limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.),
quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al
procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si
fonda la Costituzione italiana.
Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi
dell'ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di
rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali
godono della particolare "copertura costituzionale" fornita dall'art. 7, comma secondo, Cost., non si
sottraggono all'accertamento della loro conformità ai "principi supremi dell'ordinamento
costituzionale" (v. sentt. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia
quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al
sindacato di questa Corte "in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana" (v. sentt. nn. 183 del 1973, 170 del
1984).
Non si può, pertanto, negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle
leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi
supremi dell'ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all'assurdo di
considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo
proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore.
2.2. - L'Avvocatura generale dello Stato ha sollevato una seconda eccezione di inammissibilità in
relazione al fatto che, avendo il giudice a quo prospettata la questione di costituzionalità in termini
alternativi, chiede in sostanza a questa Corte di pronunziarsi su un petitum contradittorio, che
dovrebbe sfociare in sentenze di segno diverso, se non opposto.
L'eccezione va accolta.
Non si può non concordare con l'Avvocatura generale dello Stato nel ritenere che le questioni di
costituzionalità sollevate dal giudice a quo abbiano un carattere del tutto pretestuoso. Ciò si rivela
sia nella sostanziale arbitrarietà delle comparazioni che il giudice a quo propone, sia nel modo
stesso in cui le questioni sono sottoposte a questa Corte.
In particolare, il giudice a quo ipotizza due interpretazioni della disposizione impugnata aventi
significato assai diverso fra loro o addirittura opposto e le prospetta entrambe al giudice di
costituzionalità senza precisare quale delle due propone. Ma è giurisprudenza ormai costante di
questa Corte (v. sentt. nn. 169 del 1982, 225 del 1983, 30 del 1984, nonché ord. n. 204 del 1983),
ritenere inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative a disposizioni che, essendo
proposte dal giudice a quo secondo interpretazioni tra loro contrastanti e dando vita, pertanto, a
richieste meramente ipotetiche, impediscono di identificare precisamente il thema decidendum e
fanno venir meno le possibilità di verificare la rilevanza delle questioni stesse, in quanto proposte
"in astratto". Per tali motivi le questioni sollevate dal giudice a quo vanno senz'altro dichiarate
inammissibili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 49 del d.P.R. 31
agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige), sollevata, in riferimento
all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte di assise di Bolzano con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre
1988.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 29 dicembre 1988.
Il direttore della cancelleria: MINELLI
N. 252
SENTENZA 5 - 17 luglio 2001.
Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 29 del 25 luglio 2001
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Fernando SANTOSUOSSO; Giudici: Massimo VARI, Cesare
RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,Carlo MEZZANOTTE, Fernanda
CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI,Annibale MARINI, Franco BILE,
Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza emessa il 4 marzo 2000 dal tribunale di
Genova sul ricorso proposto da Dia Saliou contro il Prefetto di Genova, iscritta al n. 367 del registro
ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, 1ª serie speciale,
dell'anno 2000.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 13 dicembre 2000 il giudice relatore Fernanda Contri.
Ritenuto in fatto
1. - Il tribunale di Genova, con ordinanza del 4 marzo 2000, ha sollevato - in relazione agli artt. 2 e
32 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto
di espulsione dello straniero che, entrato clandestinamente nel territorio dello Stato, vi permanga al
solo scopo di terminare un trattamento terapeutico essenziale.
Il giudice a quo è investito dell'esame di un ricorso presentato da un cittadino del Senegal avverso il
decreto prefettizio di espulsione emesso nei suoi confronti per essere entrato in Italia sottraendosi ai
controlli di frontiera; il rimettente rileva che il ricorrente, quale unico motivo di annullamento del
provvedimento, assume di aver subito l'amputazione del piede sinistro, di essersi introdotto in Italia,
pur essendo privo di regolare passaporto, al solo fine di sostituire la protesi e di non avere la
possibilità di ottenere tale prestazione sanitaria nel Paese di origine; secondo il rimettente, le
circostanze dedotte a sostegno del ricorso - relative all'insufficienza della protesi applicata,
all'essere lo straniero in cura presso una struttura sanitaria pubblica e seguito da un'associazione di
volontariato ed alla circostanza che egli è in attesa di un nuovo apparecchio adeguato alle sue
condizioni - sono state tutte provate nell'istruttoria svolta.
Rileva il giudice a quo che l'art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 - che prevede una serie di
interventi sanitari a favore dei cittadini stranieri presenti nel territorio nazionale, anche nel caso in
cui essi non siano in regola con le norme relative all'ingresso ed al soggiorno - conterrebbe un
elenco esemplificativo e non tassativo di cure ambulatoriali ed ospedaliere "urgenti o comunque
essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio", ma riguarderebbe i casi in cui lo
straniero "venga ad ammalarsi nel territorio dello Stato", dal momento che i commi 1 e 2 della
stessa disposizione prevedono il diverso caso dello straniero che chiede il permesso di soggiorno
allo scopo di venire in Italia a curarsi.
Sempre secondo il giudice rimettente, non potendosi porre in dubbio che l'intervento sanitario di cui
abbisogna il ricorrente rientri tra quelli che la legge definisce essenziali, "dovendosi recuperare la
deambulazione come strettamente attinente ai postulati della dignità umana" ed essendovi una
legittima aspettativa dello straniero a terminare la terapia in atto, la circostanza che la norma
impugnata non vieti l'espulsione dei soggetti che si trovano nelle sue condizioni violerebbe l'art. 2
Cost., che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo quale valore fondante della democrazia pluralista,
e l'art. 32 Cost., che qualifica la salute quale diritto fondamentale dell'individuo e non del solo
cittadino.
2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile
o infondata.
L'Avvocatura preliminarmente osserva come l'art. 32 della Costituzione sia una norma
programmatica e non immediatamente precettiva, che delimita i "confini esterni" del diritto alla
salute attraverso "precetti di ordine negativo", ma non individua il contenuto in positivo di un diritto
che è anche interesse primario della collettività.
In questo campo, secondo la difesa erariale, l'azione dei pubblici poteri può quindi incidere su
situazioni soggettive individuali con modalità rimesse alla discrezionalità del legislatore ordinario
secondo scelte che - se effettuate nei limiti della ragionevolezza - possono tener conto di esigenze di
carattere finanziario, economico e sociale e di quelle dettate da altri interessi costituzionalmente
garantiti.
L'Avvocatura osserva quindi come la vigente disciplina sull'immigrazione abbia operato un
adeguato bilanciamento di due interessi costituzionalmente protetti, il diritto alla salute dello
straniero e la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica connesse al contrasto del fenomeno
dell'immigrazione clandestina. In tale contesto, secondo la difesa erariale, il legislatore, da un lato
ha stabilito la parità di trattamento tra il cittadino e lo straniero regolarmente soggiornante in Italia che viene iscritto al servizio sanitario nazionale - dall'altro ha previsto uno specifico visto di
ingresso per gli stranieri che intendano sottoporsi a terapie necessarie. Allo straniero illegalmente
presente nel territorio dello Stato la legge ha assicurato un livello minimo di cure mediche
consentendogli, con la garanzia dell'anonimato, di accedere a quelle "essenziali ed urgenti",
espressione con la quale il legislatore non avrebbe inteso indicare qualunque terapia relativa a stati
patologici di rilievo, ma assicurare esclusivamente quelle cure indispensabili alla salvaguardia della
vita umana e della salute pubblica, cure che vengono garantite anche quando la situazione di
irregolarità richiederebbe di dare esecuzione ad un provvedimento di espulsione.
Ad avviso della difesa erariale il legislatore avrebbe considerato le esigenze di tutela della sicurezza
pubblica non estendendo completamente allo straniero irregolare le terapie mediche di lungo
periodo, scelta che appare conforme sia alla tutela dei diritti inviolabili della persona sia al canone
di ragionevolezza.
Secondo l'Avvocatura, infine, l'esecuzione del provvedimento di espulsione non pregiudicherebbe il
diritto dello straniero a far ritorno in Italia per sottoporsi a cure mediche, possibilità garantita
all'interessato anche prima della scadenza del termine di cinque anni previsto dalla legge, previa
autorizzazione da parte del Ministro dell'interno.
Considerato in diritto
1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Genova investe l'art. 19,
comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non
prevede il divieto di espulsione dello straniero extra-comunitario che, essendo entrato
irregolarmente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di terminare un trattamento
terapeutico che risulti essenziale in relazione alle sue pregresse condizioni di salute; secondo il
giudice rimettente, l'omessa previsione di un tale specifico divieto di espulsione violerebbe gli artt.
2 e 32 della Costituzione perché la possibilità per il cittadino extra-comunitario, non in regola con le
norme sull'ingresso ed il soggiorno, di accedere alle "cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti e
comunque essenziali" nei presidi sanitari pubblici ed accreditati, prevista dall'art. 35 del d.lgs. n.
286 citato, riguarderebbe le sole ipotesi in cui lo straniero si sia ammalato in Italia e non quelle
nelle quali egli abbia, come nel caso del giudizio in corso davanti al giudice a quo una patologia
pregressa.
2. - La questione non è fondata.
Occorre preliminarmente rilevare che, secondo un principio costantemente affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte, il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è
"costituzionalmente condizionato" dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi
costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di "un nucleo irriducibile del diritto alla
salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di
impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione
di quel diritto" (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e n. 267 del 1998).
Questo "nucleo irriducibile" di tutela della salute quale diritto fondamentale della persona deve
perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme
che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse
modalità di esercizio dello stesso.
3. - Conformemente a tale principio, il legislatore - dopo aver previsto, all'art. 2 del d.lgs. n. 286 del
1998, che "allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono
riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle
convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente
riconosciuti" - ha dettato, per quel che concerne la tutela del diritto alla salute che qui viene in
rilievo, alcune specifiche disposizioni, nelle quali i modi di esercizio dello stesso sono differenziati
a seconda della posizione del soggetto rispetto agli obblighi relativi all'ingresso e al soggiorno.
L'art. 34 infatti prevede che lo straniero regolarmente soggiornante nello Stato ed i suoi familiari
siano in linea di principio obbligatoriamente iscritti al servizio sanitario nazionale, con piena
eguaglianza di diritti e doveri, anche contributivi, coi cittadini italiani; l'art. 35, commi 1 e 2,
disciplina il caso in cui lo straniero sia presente regolarmente nel territorio dello Stato ma non sia
iscritto al Servizio sanitario nazionale, mentre l'art. 36 del d.lgs. cit. prevede la possibilità di
ottenere uno specifico visto di ingresso ed un permesso di soggiorno a favore dello straniero che
intende entrare in Italia allo scopo di ricevere cure mediche.
Per gli stranieri presenti sul territorio nazionale ma non in regola con le norme sull'ingresso ed il
soggiorno, l'art. 35, comma 3, del decreto cit. dispone che sono "assicurate, nei presidi pubblici ed
accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché
continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a
salvaguardia della salute individuale e collettiva"; agli stessi sono poi, "in particolare", garantiti la
tutela sociale della gravidanza e della maternità, la tutela della salute del minore, nonché le
vaccinazioni e gli interventi di profilassi con particolare riguardo alle malattie infettive, secondo
una elencazione che - contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo - non può ritenersi esaustiva
degli interventi sanitari da assicurare "comunque" al soggetto che si trovi, a qualsiasi titolo, nel
territorio dello Stato.
Va in proposito ancora rilevato che il comma 5 dello stesso art. 35, proprio allo scopo di tutelare il
diritto alla salute dello straniero comunque presente nel territorio dello Stato, prevede che "l'accesso
alle strutture sanitarie ... non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in
cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano", disposizione che
conferma il favor per la salute della persona che connota tutta la disciplina in materia.
4. - La legge prevede quindi un sistema articolato di assistenza sanitaria per gli stranieri, nel quale
viene in ogni caso assicurato a tutti, quindi anche a coloro che si trovano senza titolo legittimo sul
territorio dello Stato, il "nucleo irriducibile" del diritto alla salute garantito dall'art. 32 Cost; stante
la lettera e) la ratio delle disposizioni sopra riportate, a tali soggetti sono dunque erogati non solo gli
interventi di assoluta urgenza e quelli indicati dall'art. 35, comma 3, secondo periodo, ma tutte le
cure necessarie, siano esse ambulatoriali o ospedaliere, comunque essenziali, anche continuative,
per malattia e infortunio.
E non è senza significato che, in attuazione della legge, l'art. 43, commi 2 e seguenti, del decreto del
Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del
testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) abbia
previsto particolari modalità per evitare che, dalla situazione di irregolarità nel territorio dello Stato,
derivi un ostacolo all'erogazione delle prestazioni terapeutiche di cui all'art. 35, comma 3 citato,
anche mediante l'attribuzione a fini amministrativi di un apposito codice identificativo sanitario
provvisorio, secondo disposizioni che sono state in seguito precisate con la circolare del Ministero
della sanità n. 5 del 24 marzo 2000.
5. - Dall'esame delle sopra indicate disposizioni emerge perciò l'erroneità del presupposto
interpretativo da cui muove il giudice a quo, secondo il quale il diritto inviolabile alla salute dello
straniero irregolarmente presente nel territorio nazionale, garantito dagli artt. 2 e 32 Cost., potrebbe
essere tutelato solo attraverso la previsione - da inserire nell'art. 19 del decreto legislativo n. 286 del
1998 - di uno specifico divieto di espulsione per il soggetto che si trovi nella necessità di usufruire
di una terapia essenziale per la sua salute. Al contrario, lo straniero presente, anche irregolarmente,
nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti, secondo i
criteri indicati dall'art. 35, comma 3 citato, trattandosi di un diritto fondamentale della persona che
deve essere garantito, così come disposto, in linea generale, dall'art. 2 dello stesso decreto
legislativo n. 286 del 1998.
La valutazione dello stato di salute del soggetto e della indifferibilità ed urgenza delle cure deve
essere effettuata caso per caso, secondo il prudente apprezzamento medico; di fronte ad un ricorso
avverso un provvedimento di espulsione si dovrà, qualora vengano invocate esigenze di salute
dell'interessato, preventivamente valutare tale profilo - tenuto conto dell'intera disciplina contenuta
nel decreto legislativo n. 286 del 1998 - se del caso ricorrendo ai mezzi istruttori che la legge, pur in
un procedimento caratterizzato da concentrazione e da esigenze di rapidità, certamente consente di
utilizzare.
Qualora risultino fondate le ragioni addotte dal ricorrente in ordine alla tutela del suo diritto
costituzionale alla salute, si dovrà provvedere di conseguenza, non potendosi eseguire l'espulsione
nei confronti di un soggetto che potrebbe subire, per via dell'immediata esecuzione del
provvedimento, un irreparabile pregiudizio a tale diritto.
Non sussiste perciò la violazione delle norme costituzionali indicate dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 32
della Costituzione, dal tribunale di Genova con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.
Il Presidente: Santosuosso
Il redattore: Contri
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 17 luglio 2001.
Il direttore della cancelleria: Di Paola
N. 252
SENTENZA 5 - 17 luglio 2001.
Pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» n. 29 del 25 luglio 2001
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Fernando SANTOSUOSSO; Giudici: Massimo VARI, Cesare
RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,Carlo MEZZANOTTE, Fernanda
CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI,Annibale MARINI, Franco BILE,
Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio
1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza emessa il 4 marzo 2000 dal tribunale di
Genova sul ricorso proposto da Dia Saliou contro il Prefetto di Genova, iscritta al n. 367 del registro
ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, 1ª serie speciale,
dell'anno 2000.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 13 dicembre 2000 il giudice relatore Fernanda Contri.
Ritenuto in fatto
1. - Il tribunale di Genova, con ordinanza del 4 marzo 2000, ha sollevato - in relazione agli artt. 2 e
32 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non prevede il divieto
di espulsione dello straniero che, entrato clandestinamente nel territorio dello Stato, vi permanga al
solo scopo di terminare un trattamento terapeutico essenziale.
Il giudice a quo è investito dell'esame di un ricorso presentato da un cittadino del Senegal avverso il
decreto prefettizio di espulsione emesso nei suoi confronti per essere entrato in Italia sottraendosi ai
controlli di frontiera; il rimettente rileva che il ricorrente, quale unico motivo di annullamento del
provvedimento, assume di aver subito l'amputazione del piede sinistro, di essersi introdotto in Italia,
pur essendo privo di regolare passaporto, al solo fine di sostituire la protesi e di non avere la
possibilità di ottenere tale prestazione sanitaria nel Paese di origine; secondo il rimettente, le
circostanze dedotte a sostegno del ricorso - relative all'insufficienza della protesi applicata,
all'essere lo straniero in cura presso una struttura sanitaria pubblica e seguito da un'associazione di
volontariato ed alla circostanza che egli è in attesa di un nuovo apparecchio adeguato alle sue
condizioni - sono state tutte provate nell'istruttoria svolta.
Rileva il giudice a quo che l'art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 - che prevede una serie di
interventi sanitari a favore dei cittadini stranieri presenti nel territorio nazionale, anche nel caso in
cui essi non siano in regola con le norme relative all'ingresso ed al soggiorno - conterrebbe un
elenco esemplificativo e non tassativo di cure ambulatoriali ed ospedaliere "urgenti o comunque
essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio", ma riguarderebbe i casi in cui lo
straniero "venga ad ammalarsi nel territorio dello Stato", dal momento che i commi 1 e 2 della
stessa disposizione prevedono il diverso caso dello straniero che chiede il permesso di soggiorno
allo scopo di venire in Italia a curarsi.
Sempre secondo il giudice rimettente, non potendosi porre in dubbio che l'intervento sanitario di cui
abbisogna il ricorrente rientri tra quelli che la legge definisce essenziali, "dovendosi recuperare la
deambulazione come strettamente attinente ai postulati della dignità umana" ed essendovi una
legittima aspettativa dello straniero a terminare la terapia in atto, la circostanza che la norma
impugnata non vieti l'espulsione dei soggetti che si trovano nelle sue condizioni violerebbe l'art. 2
Cost., che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo quale valore fondante della democrazia pluralista,
e l'art. 32 Cost., che qualifica la salute quale diritto fondamentale dell'individuo e non del solo
cittadino.
2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile
o infondata.
L'Avvocatura preliminarmente osserva come l'art. 32 della Costituzione sia una norma
programmatica e non immediatamente precettiva, che delimita i "confini esterni" del diritto alla
salute attraverso "precetti di ordine negativo", ma non individua il contenuto in positivo di un diritto
che è anche interesse primario della collettività.
In questo campo, secondo la difesa erariale, l'azione dei pubblici poteri può quindi incidere su
situazioni soggettive individuali con modalità rimesse alla discrezionalità del legislatore ordinario
secondo scelte che - se effettuate nei limiti della ragionevolezza - possono tener conto di esigenze di
carattere finanziario, economico e sociale e di quelle dettate da altri interessi costituzionalmente
garantiti.
L'Avvocatura osserva quindi come la vigente disciplina sull'immigrazione abbia operato un
adeguato bilanciamento di due interessi costituzionalmente protetti, il diritto alla salute dello
straniero e la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica connesse al contrasto del fenomeno
dell'immigrazione clandestina. In tale contesto, secondo la difesa erariale, il legislatore, da un lato
ha stabilito la parità di trattamento tra il cittadino e lo straniero regolarmente soggiornante in Italia che viene iscritto al servizio sanitario nazionale - dall'altro ha previsto uno specifico visto di
ingresso per gli stranieri che intendano sottoporsi a terapie necessarie. Allo straniero illegalmente
presente nel territorio dello Stato la legge ha assicurato un livello minimo di cure mediche
consentendogli, con la garanzia dell'anonimato, di accedere a quelle "essenziali ed urgenti",
espressione con la quale il legislatore non avrebbe inteso indicare qualunque terapia relativa a stati
patologici di rilievo, ma assicurare esclusivamente quelle cure indispensabili alla salvaguardia della
vita umana e della salute pubblica, cure che vengono garantite anche quando la situazione di
irregolarità richiederebbe di dare esecuzione ad un provvedimento di espulsione.
Ad avviso della difesa erariale il legislatore avrebbe considerato le esigenze di tutela della sicurezza
pubblica non estendendo completamente allo straniero irregolare le terapie mediche di lungo
periodo, scelta che appare conforme sia alla tutela dei diritti inviolabili della persona sia al canone
di ragionevolezza.
Secondo l'Avvocatura, infine, l'esecuzione del provvedimento di espulsione non pregiudicherebbe il
diritto dello straniero a far ritorno in Italia per sottoporsi a cure mediche, possibilità garantita
all'interessato anche prima della scadenza del termine di cinque anni previsto dalla legge, previa
autorizzazione da parte del Ministro dell'interno.
Considerato in diritto
1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Genova investe l'art. 19,
comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui non
prevede il divieto di espulsione dello straniero extra-comunitario che, essendo entrato
irregolarmente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di terminare un trattamento
terapeutico che risulti essenziale in relazione alle sue pregresse condizioni di salute; secondo il
giudice rimettente, l'omessa previsione di un tale specifico divieto di espulsione violerebbe gli artt.
2 e 32 della Costituzione perché la possibilità per il cittadino extra-comunitario, non in regola con le
norme sull'ingresso ed il soggiorno, di accedere alle "cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti e
comunque essenziali" nei presidi sanitari pubblici ed accreditati, prevista dall'art. 35 del d.lgs. n.
286 citato, riguarderebbe le sole ipotesi in cui lo straniero si sia ammalato in Italia e non quelle
nelle quali egli abbia, come nel caso del giudizio in corso davanti al giudice a quo una patologia
pregressa.
2. - La questione non è fondata.
Occorre preliminarmente rilevare che, secondo un principio costantemente affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte, il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è
"costituzionalmente condizionato" dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi
costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di "un nucleo irriducibile del diritto alla
salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di
impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione
di quel diritto" (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e n. 267 del 1998).
Questo "nucleo irriducibile" di tutela della salute quale diritto fondamentale della persona deve
perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme
che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse
modalità di esercizio dello stesso.
3. - Conformemente a tale principio, il legislatore - dopo aver previsto, all'art. 2 del d.lgs. n. 286 del
1998, che "allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono
riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle
convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente
riconosciuti" - ha dettato, per quel che concerne la tutela del diritto alla salute che qui viene in
rilievo, alcune specifiche disposizioni, nelle quali i modi di esercizio dello stesso sono differenziati
a seconda della posizione del soggetto rispetto agli obblighi relativi all'ingresso e al soggiorno.
L'art. 34 infatti prevede che lo straniero regolarmente soggiornante nello Stato ed i suoi familiari
siano in linea di principio obbligatoriamente iscritti al servizio sanitario nazionale, con piena
eguaglianza di diritti e doveri, anche contributivi, coi cittadini italiani; l'art. 35, commi 1 e 2,
disciplina il caso in cui lo straniero sia presente regolarmente nel territorio dello Stato ma non sia
iscritto al Servizio sanitario nazionale, mentre l'art. 36 del d.lgs. cit. prevede la possibilità di
ottenere uno specifico visto di ingresso ed un permesso di soggiorno a favore dello straniero che
intende entrare in Italia allo scopo di ricevere cure mediche.
Per gli stranieri presenti sul territorio nazionale ma non in regola con le norme sull'ingresso ed il
soggiorno, l'art. 35, comma 3, del decreto cit. dispone che sono "assicurate, nei presidi pubblici ed
accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché
continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a
salvaguardia della salute individuale e collettiva"; agli stessi sono poi, "in particolare", garantiti la
tutela sociale della gravidanza e della maternità, la tutela della salute del minore, nonché le
vaccinazioni e gli interventi di profilassi con particolare riguardo alle malattie infettive, secondo
una elencazione che - contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo - non può ritenersi esaustiva
degli interventi sanitari da assicurare "comunque" al soggetto che si trovi, a qualsiasi titolo, nel
territorio dello Stato.
Va in proposito ancora rilevato che il comma 5 dello stesso art. 35, proprio allo scopo di tutelare il
diritto alla salute dello straniero comunque presente nel territorio dello Stato, prevede che "l'accesso
alle strutture sanitarie ... non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in
cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano", disposizione che
conferma il favor per la salute della persona che connota tutta la disciplina in materia.
4. - La legge prevede quindi un sistema articolato di assistenza sanitaria per gli stranieri, nel quale
viene in ogni caso assicurato a tutti, quindi anche a coloro che si trovano senza titolo legittimo sul
territorio dello Stato, il "nucleo irriducibile" del diritto alla salute garantito dall'art. 32 Cost; stante
la lettera e) la ratio delle disposizioni sopra riportate, a tali soggetti sono dunque erogati non solo gli
interventi di assoluta urgenza e quelli indicati dall'art. 35, comma 3, secondo periodo, ma tutte le
cure necessarie, siano esse ambulatoriali o ospedaliere, comunque essenziali, anche continuative,
per malattia e infortunio.
E non è senza significato che, in attuazione della legge, l'art. 43, commi 2 e seguenti, del decreto del
Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del
testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) abbia
previsto particolari modalità per evitare che, dalla situazione di irregolarità nel territorio dello Stato,
derivi un ostacolo all'erogazione delle prestazioni terapeutiche di cui all'art. 35, comma 3 citato,
anche mediante l'attribuzione a fini amministrativi di un apposito codice identificativo sanitario
provvisorio, secondo disposizioni che sono state in seguito precisate con la circolare del Ministero
della sanità n. 5 del 24 marzo 2000.
5. - Dall'esame delle sopra indicate disposizioni emerge perciò l'erroneità del presupposto
interpretativo da cui muove il giudice a quo, secondo il quale il diritto inviolabile alla salute dello
straniero irregolarmente presente nel territorio nazionale, garantito dagli artt. 2 e 32 Cost., potrebbe
essere tutelato solo attraverso la previsione - da inserire nell'art. 19 del decreto legislativo n. 286 del
1998 - di uno specifico divieto di espulsione per il soggetto che si trovi nella necessità di usufruire
di una terapia essenziale per la sua salute. Al contrario, lo straniero presente, anche irregolarmente,
nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti, secondo i
criteri indicati dall'art. 35, comma 3 citato, trattandosi di un diritto fondamentale della persona che
deve essere garantito, così come disposto, in linea generale, dall'art. 2 dello stesso decreto
legislativo n. 286 del 1998.
La valutazione dello stato di salute del soggetto e della indifferibilità ed urgenza delle cure deve
essere effettuata caso per caso, secondo il prudente apprezzamento medico; di fronte ad un ricorso
avverso un provvedimento di espulsione si dovrà, qualora vengano invocate esigenze di salute
dell'interessato, preventivamente valutare tale profilo - tenuto conto dell'intera disciplina contenuta
nel decreto legislativo n. 286 del 1998 - se del caso ricorrendo ai mezzi istruttori che la legge, pur in
un procedimento caratterizzato da concentrazione e da esigenze di rapidità, certamente consente di
utilizzare.
Qualora risultino fondate le ragioni addotte dal ricorrente in ordine alla tutela del suo diritto
costituzionale alla salute, si dovrà provvedere di conseguenza, non potendosi eseguire l'espulsione
nei confronti di un soggetto che potrebbe subire, per via dell'immediata esecuzione del
provvedimento, un irreparabile pregiudizio a tale diritto.
Non sussiste perciò la violazione delle norme costituzionali indicate dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 32
della Costituzione, dal tribunale di Genova con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2001.
Il Presidente: Santosuosso
Il redattore: Contri
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 17 luglio 2001.
Il direttore della cancelleria: Di Paola
Sentenza della Corte dell'8 ottobre 1996.
Erich Dillenkofer, Christian Erdmann, Hans-Jürgen Schulte, Anke Heuer, Werner, Ursula e
Trosten Knor contro Bundesrepublik Deutschland.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Landgericht Bonn - Germania.
Direttiva 90/314 concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso" - Mancata
attuazione - Responsabilità e obbligo di risarcimento da parte dello Stato membro.
Cause riunite C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94 e C-190/94.
Parole chiave
1. Diritto comunitario ° Diritti attribuiti ai singoli ° Violazione, da parte di uno Stato membro, dell'
obbligo di attuare una direttiva ° Obbligo di risarcire il danno causato ai singoli ° Presupposti °
Violazione grave e manifesta ° Nozione ° Mancata attuazione della direttiva entro il termine
prescritto
(Trattato CE, art. 189, terzo comma)
2. Ravvicinamento delle legislazioni ° Viaggi, vacanze e circuiti "tutto compreso" ° Direttiva
90/314 ° Art. 7 ° Protezione contro il rischio di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore °
Attribuzione a favore dell' acquirente di viaggi "tutto compreso" di diritti il cui contenuto possa
essere sufficientemente individuato
(Direttiva del Consiglio 90/314, art. 7)
3. Ravvicinamento delle legislazioni ° Viaggi, vacanze e circuiti "tutto compreso" ° Direttiva
90/314 ° Protezione contro il rischio di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore °
Provvedimenti necessari per garantire una corretta attuazione della direttiva
(Direttiva del Consiglio 90/314, artt. 7 e 9)
Massima
1. La mancanza di qualsiasi provvedimento d' attuazione di una direttiva per raggiungere il
risultato prescritto da quest' ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una
violazione grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento
a favore dei singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto dalla direttiva implichi l'
attribuzione, a favore dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall' altro,
esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito.
2. Il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva 90/314, concernente i viaggi, le vacanze ed i
circuiti "tutto compreso", a norma del quale l' organizzatore e/o il venditore parte del contratto
danno prove sufficienti di disporre di garanzie per assicurare, in caso di insolvenza o di fallimento,
il rimborso dei fondi depositati dal consumatore e il suo rimpatrio, implica l' attribuzione, all'
acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti il cui contenuto possa essere individuato con
precisione sufficiente.
3. Per osservare l' art. 9 della direttiva 90/314, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto
compreso", il quale prevede, a carico degli Stati membri, l' obbligo di adottare le misure necessarie
per conformarsi alla direttiva al più tardi il 31 dicembre 1992, gli Stati membri dovevano adottare,
entro il termine prescritto, tutte le misure necessarie per garantire ai singoli, fin dal 1 gennaio
1993, una protezione effettiva contro i rischi di insolvenza e di fallimento degli organizzatori.
Al riguardo, qualora uno Stato membro consenta ad un organizzatore di chiedere ai viaggiatori il
versamento di un acconto non superiore al 10% del prezzo del viaggio, fino però ad un determinato
importo massimo, l' obiettivo di protezione dei consumatori perseguito dall' art. 7 della direttiva è
raggiunto solo purché sia garantito anche il rimborso di tale anticipo in caso di insolvenza o di
fallimento dell' organizzatore.
Lo stesso art. 7 va inoltre interpretato nel senso che, in primo luogo, le garanzie di cui gli
organizzatori debbono "dar prove" di disporre non sussistono nemmeno qualora i viaggiatori, al
momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito,
che, se garantiscono loro un diritto diretto nei confronti del prestatore effettivo dei servizi, non
obbligano necessariamente quest' ultimo, peraltro esposto anch' esso al rischio di fallimento, a
rispettarli, e nel senso che, in secondo luogo, uno Stato membro non può rinunciare a recepire la
direttiva eccependo una sentenza della suprema corte nazionale, ai sensi della quale gli acquirenti
di viaggi "tutto compreso" non sono più tenuti a versare oltre il 10% del prezzo del viaggio prima
di aver ottenuto siffatti documenti costituenti titolo di credito.
D' altro canto, né l' obiettivo della direttiva né sue disposizioni specifiche obbligano gli Stati
membri ad adottare provvedimenti specifici nell' ambito dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di
viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza e il giudice nazionale può sempre, a
seguito della mancata attuazione della direttiva entro il termine prescritto e per determinare il
danno risarcibile, verificare se il soggetto leso abbia fatto prova di una ragionevole diligenza per
evitare il danno o limitarne l' entità. Tuttavia, un acquirente di viaggi "tutto compreso" che abbia
versato l' intero prezzo del viaggio non può essere considerato negligente per il solo fatto di non
essersi avvalso, conformemente alla citata sentenza nazionale, della possibilità di non versare più
del 10% del prezzo totale del viaggio prima di aver ottenuto documenti costituenti titoli di credito.
Parti
Nei procedimenti riuniti C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94 e C-190/94,
avente ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, a norma dell' art. 177
del Trattato CE, dal Landgericht di Bonn nelle cause dinanzi ad esso pendenti tra
Erich Dillenkofer,
Christian Erdmann,
Hans-Juergen Schulte,
Anke Heuer,
Werner, Ursula e Torsten Knor,
e
Repubblica federale di Germania,
domanda vertente sull' interpretazione della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, 90/314/CEE,
concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso" (GU L 158, pag. 59),
LA CORTE,
composta dai signori G.C. Rodríguez Iglesias, presidente, G.F. Mancini, J.C. Moitinho de Almeida,
J.L. Murray e L. Sevón, presidenti di sezione, C.N. Kakouris, P.J.G. Kapteyn, C. Gulmann
(relatore), D.A.O. Edward, J.-P. Puissochet, G. Hirsch, P. Jann e H. Ragnemalm, giudici,
avvocato generale: G. Tesauro
cancelliere: R. Grass
viste le osservazioni scritte presentate:
° per la signora Anke Heuer, dall' avv. Gert Meier, del foro di Colonia;
° per la Repubblica federale di Germania, dai signori Karlheinz Stoehr, Ministerialrat presso il
ministero federale della Giustizia, Alfred Dittrich, Regierungsdirektor presso lo stesso ministero,
Ernst Roeder, Ministerialrat presso il ministero federale dell' Economia, in qualità di agenti, e dall'
avv. Dieter Sellner, del foro di Bonn;
° per il governo olandese, dal signor Adriaan Bos, consigliere giuridico presso il ministero degli
Affari esteri, in qualità di agente;
° per il governo del Regno Unito, dai signori John Collins, Assistant Treasury Solicitor, in qualità di
agente, Stephen Richards e Rhodri Thompson, barrister;
° per la Commissione delle Comunità europee, dal signor Rolf Waegenbaur, consigliere giuridico
principale, in qualità di agente, e dall' avv. Barbara Rapp, del foro di Bruxelles,
vista la relazione d' udienza,
sentite le osservazioni orali del signor Erich Dillenkofer, con l' avv. Roland Gappa, del foro di
Dahn, della signora Anke Heuer, con l' avv. Gert Meier, dei signori Werner e Torsten Knor e della
signora Ursula Knor, con l' avv. Karin Schumacher-d' Hondt, del foro di Bonn, della Repubblica
federale di Germania, rappresentata dal signor Ernst Roeder e dall' avv. Dieter Sellner, del governo
olandese, rappresentato dal signor Marc Fierstra, consigliere giuridico aggiunto al ministero degli
Affari esteri, in qualità di agente, del governo francese, rappresentato dalla signora Catherine de
Salins, vicedirettore presso la direzione degli affari giuridici del ministero degli Affari esteri, in
qualità di agente, del governo del Regno Unito, rappresentato dal signor Stephen Richards,
barrister, e della Commissione, rappresentata dall' avv. Barbara Rapp, all' udienza del 17 ottobre
1995,
sentite le conclusioni dell' avvocato generale, presentate all' udienza del 28 novembre 1995,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
Motivazione della sentenza
1 Con ordinanze 6 giugno 1994, pervenute alla Corte il 28 giugno successivo, nei procedimenti C178/94 e C-179/94, e il 1 luglio 1994, nei procedimenti C-188/94, C-189/94 e C-190/94, il
Landgericht di Bonn ha sottoposto alla Corte, a norma dell' art. 177 del Trattato CE, dodici
questioni pregiudiziali relative all' interpretazione della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990,
90/314/CEE, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso" (GU L 158, pag. 59; in
prosieguo: la "direttiva").
2 Tali questioni sono state sollevate nel contesto di azioni di risarcimento danni intentate,
rispettivamente, dal signor Erich Dillenkofer, dal signor Christian Erdmann, dal signor HansJuergen Schulte, dalla signora Anke Heuer nonché dai signori Werner e Torsten Knor e dalla
signora Ursula Knor (in prosieguo: gli "attori") contro la Repubblica federale di Germania per i
danni da essi subiti in seguito alla mancata attuazione della direttiva nel termine prescritto.
3 Ai sensi del suo art. 1, la direttiva ha lo scopo di ravvicinare le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti i viaggi, le vacanze e i circuiti
turistici "tutto compreso" venduti o offerti in vendita nel territorio della Comunità.
4 L' art. 2 contiene un certo numero di definizioni. E' così previsto che
"(...) si intende per:
1) servizio tutto compreso: la prefissata combinazione di almeno due degli elementi in appresso,
venduta o offerta in vendita ad un prezzo forfettario, laddove questa prestazione superi le 24 ore o
comprenda una notte:
a) trasporto;
b) alloggio;
c) altri servizi turistici non accessori al trasporto o all' alloggio che costituiscono una parte
significativa del 'tutto compreso' .
(...)
2) organizzatore: la persona che organizza in modo non occasionale servizi tutto compreso e li
vende o li offre in vendita direttamente o tramite un venditore;
3) venditore: la persona che vende o offre in vendita servizi tutto compreso proposti dall'
organizzatore;
4) consumatore: la persona che acquista o si impegna ad acquistare servizi tutto compreso (' il
contraente principale' ) o qualsiasi persona per conto della quale il contraente principale si impegna
ad acquistare servizi tutto compreso (' gli altri beneficiari' ) o qualsiasi persona cui il contraente
principale o uno degli altri beneficiari cede i servizi tutto compreso (' il cessionario' );
(...)".
5 L' art. 7 dispone che "l' organizzatore e/o il venditore parte del contratto danno prove sufficienti di
disporre di garanzie per assicurare, in caso di insolvenza o di fallimento, il rimborso dei fondi
depositati e il rimpatrio del consumatore".
6 L' art. 8 precisa che gli Stati membri possono adottare o mantenere in vigore, nel settore
disciplinato dalla direttiva, disposizioni più rigorose ai fini della protezione del consumatore.
7 Ai sensi dell' art. 9, gli Stati membri dovevano mettere in vigore i provvedimenti necessari per
conformarsi alla direttiva entro e non oltre il 31 dicembre 1992.
8 Il 24 giugno 1994, il legislatore tedesco ha adottato la legge recante applicazione della direttiva
del Consiglio 13 giugno 1990 sui viaggi "tutto compreso" (BGBl I, pag. 1322). Tale legge ha
inserito nel Buergerliches Gesetzbuch (codice civile tedesco, in prosieguo: il "BGB") un nuovo art.
651 k ai sensi del quale:
"1. L' organizzatore deve garantire che l' acquirente di un viaggio 'tutto compreso' ottenga il
rimborso
1) del prezzo pagato se non vengono fornite prestazioni di viaggio a seguito dell' insolvenza o del
fallimento dell' organizzatore, e
2) delle spese necessarie effettuate dal viaggiatore per il proprio rimpatrio a seguito dell' insolvenza
o del fallimento dell' organizzatore.
L' organizzatore può adempiere gli obblighi previsti alla prima frase solo
1) attraverso un' assicurazione sottoscritta presso una compagnia autorizzata ad operare nell' ambito
di applicazione della presente legge o
2) attraverso una promessa di pagamento di un istituto di credito autorizzato ad operare nell' ambito
di applicazione della presente legge.
2. (...)
3. Per adempiere l' obbligo di cui al n. 1, l' organizzatore deve fornire al viaggiatore un ricorso
diretto contro l' assicuratore o l' istituto di credito e darne la prova con il rilascio di un attestato
rilasciato dalla detta impresa (buono di garanzia).
4. A parte un acconto non superiore al 10% del prezzo del viaggio, acconto che non può però
eccedere i 500 DM, l' organizzatore può esigere o accettare dal viaggiatore, prima della fine del
viaggio, pagamenti anticipati solo se gli ha rilasciato un buono di garanzia.
(...)".
9 Questa legge è entrata in vigore il 1 luglio 1994. Essa si applica ai contratti conclusi dopo tale
data e riguardanti i viaggi che dovevano iniziare dopo il 31 ottobre 1994.
10 Gli attori sono acquirenti di viaggi "tutto compreso" che, a seguito del fallimento, avvenuto nel
1993, dei due operatori presso i quali essi avevano acquistato i loro viaggi, non sono partiti o sono
dovuti rientrare dal rispettivo luogo di vacanze a loro spese, senza riuscire ad ottenere il rimborso
delle somme da essi versate a tali operatori o delle spese da essi sostenute per il loro ritorno.
11 Nell' ambito delle azioni di risarcimento danni da loro intentate contro la Repubblica federale di
Germania, essi hanno sostenuto che, se l' art. 7 della direttiva fosse stato recepito nell' ordinamento
tedesco entro il termine prescritto, ossia entro il 31 dicembre 1992, essi sarebbero stati protetti
contro il fallimento degli operatori presso i quali avevano acquistato il loro viaggio "tutto
compreso".
12 Gli attori si basano in particolare sulla sentenza della Corte 19 novembre 1991 (cause C-6-90 e
C-9/90, Francovich e a., Racc. pag. I-5357, punti 39 e 40; in prosieguo: la "sentenza Francovich e
a."), secondo la quale, qualora uno Stato membro violi l' obbligo, ad esso incombente in forza dell'
art. 189, terzo comma, del Trattato, di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il
risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di questa norma di diritto comunitario esige
che sia riconosciuto un diritto a risarcimento qualora il risultato prescritto dalla direttiva implichi, a
favore dei singoli, l' attribuzione di diritti il cui contenuto possa essere individuato sulla base delle
disposizioni della direttiva, ed esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico
dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Secondo gli attori, tali condizioni ricorrono nella
fattispecie. Essi chiedono pertanto il rimborso delle somme versate per i viaggi non effettuati o delle
spese sostenute per il loro ritorno.
13 Il governo tedesco è contrario a tali domande. Esso ritiene che le condizioni della sentenza
Francovich e a. non ricorrano nel caso di specie e che, comunque, la mancata attuazione di una
direttiva entro il termine possa far sorgere la responsabilità di uno Stato membro solo se allo stesso
possa essere imputata una violazione grave e manifesta del diritto comunitario.
14 Ritenendo che il diritto tedesco non fornisca alcuna base per accogliere le domande di
risarcimento, ma nutrendo dubbi sulle conseguenze della sentenza Francovich e a., il Landgericht di
Bonn ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni
pregiudiziali:
"1) Se la direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti 'tutto
compreso' (90/314/CEE), abbia come scopo di attribuire all' acquirente di viaggi 'tutto compreso' ,
tramite le norme nazionali di attuazione, un diritto soggettivo alla garanzia del rimborso degli
importi già versati e delle spese di rimpatrio in caso di insolvenza dell' organizzatore (v. punto 40
della sentenza della Corte 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a.).
2) Se il contenuto di tale diritto sia sufficientemente definito in base alla direttiva.
3) Quali siano i requisiti minimi che devono soddisfare le 'misure necessarie' che gli Stati membri
sono tenuti ad adottare ai sensi dell' art. 9 della direttiva.
4) Se si sia ottemperato all' art. 9 della direttiva qualora il legislatore nazionale abbia approntato
entro il 31 dicembre 1992 il quadro normativo necessario per imporre all' organizzatore e/o al
venditore di viaggi di fornire garanzie ai sensi dell' art. 7 della direttiva, ovvero se la modifica
legislativa a tal fine necessaria, tenuto conto dei relativi tempi di consultazione dei settori del
turismo, delle assicurazioni e del credito, dovesse entrare in vigore con adeguato anticipo rispetto al
31 dicembre 1992, di modo che tale garanzia operasse effettivamente sul mercato dei viaggi 'tutto
compreso' a decorrere dal 1 gennaio 1993.
5) Se sia sufficiente a soddisfare l' eventuale obiettivo di tutela della direttiva il fatto che uno Stato
membro consenta all' organizzatore dei viaggi di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non
superiore al 10% di tale prezzo e fino ad un massimo di 500 DM, anche prima del rilascio di
documenti costituenti titolo di credito.
6) In quale misura gli Stati membri siano obbligati, in base alla direttiva, a prendere iniziative (sul
piano legislativo) per proteggere gli acquirenti di viaggi 'tutto compreso' contro la loro stessa
negligenza.
7 a) Se la Repubblica federale di Germania potesse rinunciare completamente a recepire nell'
ordinamento nazionale l' art. 7 della direttiva, tenuto conto della sentenza sui 'pagamenti anticipati'
(Vorkasse-Urteil) del Bundesgerichtshof del 12 marzo 1987 (BGHZ 100, 157; NJW 86, 1613).
b) Se le 'garanzie' ai sensi dell' art. 7 della direttiva non sussistano nemmeno nel caso in cui i
viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti
titoli di credito che li legittimano a pretendere il beneficio di prestazioni da parte dei diversi
fornitori di servizi (compagnia aerea/albergo).
8 a) Se sia sufficiente il semplice superamento del termine indicato nell' art. 9 della direttiva per far
riconoscere un diritto al risarcimento ai sensi della sentenza Francovich della Corte di giustizia, in
quanto elemento di fatto che fa sorgere la responsabilità, ovvero se lo Stato membro possa eccepire
che il termine prescritto per la trasposizione è risultato troppo breve.
b) Qualora tale eccezione non sia ammissibile:
se ciò valga anche nelle ipotesi in cui il singolo Stato membro non possa realizzare lo scopo di
tutela della direttiva con una semplice modifica legislativa (come ad esempio nel caso di insolvenza
del datore di lavoro), ma sia a tal fine necessaria la collaborazione di terzi privati (organizzatori di
viaggi, assicurazioni, banche).
9) Se la responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto comunitario presupponga un
inadempimento manifesto e grave dei propri obblighi.
10) Se sia necessaria una condanna in un procedimento per inadempimento, prima dell' evento
dannoso, perché sorga la responsabilità dello Stato membro.
11) Se dalla sentenza della Corte in causa Francovich si possa concludere che una domanda di
risarcimento per violazione del diritto comunitario non dipenda da un illecito in generale o
comunque dall' illecita omessa emanazione, da parte dello Stato membro, di atti normativi.
12) Qualora detta conclusione fosse erronea:
se la sentenza sui 'pagamenti anticipati' del Bundesgerichtshof possa costituire per la Repubblica
federale di Germania una esimente o un' attenuante per aver provveduto alla trasposizione della
direttiva, ai sensi delle soluzioni fornite dalla Corte di giustizia al quarto e al settimo quesito, solo
dopo la scadenza del termine di cui all' art. 9".
Sui presupposti della responsabilità dello Stato (ottava, nona, decima, undicesima e dodicesima
questione)
15 Occorre innanzi tutto affrontare le questioni ottava, nona, decima, undicesima e dodicesima con
le quali il giudice nazionale si pone il problema dei presupposti della responsabilità dello Stato nei
confronti dei singoli in caso di mancata attuazione di una direttiva entro il termine prescritto.
16 Con tali questioni, il giudice nazionale chiede in sostanza se la mancata attuazione di una
direttiva entro il termine prescritto sia di per sé sufficiente per far sorgere un diritto a risarcimento a
favore dei singoli lesi o se si debbano prendere in considerazione anche altri presupposti.
17 Il giudice nazionale si chiede, più in particolare, quale sia l' importanza da accordare all'
obiezione, mossa dal governo tedesco, secondo la quale il termine di attuazione della direttiva si è
rivelato insufficiente (ottava questione). Esso chiede inoltre se la responsabilità dello Stato membro
richieda un inadempimento grave e manifesto degli obblighi comunitari dello Stato stesso (nona
questione), se l' inadempimento debba essere stato constatato anteriormente al verificarsi del danno
(decima questione), se la responsabilità presupponga l' esistenza di una colpa, a seguito di azione od
omissione, al momento dell' adozione dei provvedimenti normativi da parte dello Stato membro
(undicesima questione), e, infine, in caso di soluzione in senso affermativo di tale ultima questione,
se essa possa essere esclusa in base ad una sentenza come quella sui "pagamenti anticipati" del
Bundesgerichtshof, considerata nella settima questione pregiudiziale (dodicesima questione).
18 I governi tedesco, olandese e del Regno Unito hanno in particolare fatto valere che la
responsabilità di uno Stato a seguito della tardiva attuazione di una direttiva può sorgere solo se
possa essergli imputata una violazione grave e manifesta del diritto comunitario. Secondo gli stessi
governi, tale imputazione dipende dalle circostanze che hanno comportato l' inosservanza del
termine.
19 Per risolvere tali questioni, occorre preliminarmente ricordare la giurisprudenza della Corte
relativa al diritto a risarcimento dei danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario
imputabili ad uno Stato membro.
20 La Corte ha dichiarato che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli
da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato (sentenze
Francovich e a., punto 35; 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e
Factortame, Racc. pag. I-1029, punto 31; 26 marzo 1996, causa C-392/93, British
Telecommunications, Racc. pag. I-1631, punto 38, e 23 maggio 1996, causa C-5/94, Hedley Lomas,
Racc. pag. I-2553, punto 24). Inoltre, la Corte ha affermato che le condizioni in cui la responsabilità
dello Stato fa sorgere un diritto a risarcimento dipendono dalla natura della violazione del diritto
comunitario che è all' origine del danno provocato (sentenze Francovich e a., punto 38, Brasserie du
pêcheur e Factortame, punto 38, e Hedley Lomas, punto 24, già citate).
21 Nelle sue citate sentenze Brasserie du pêcheur e Factortame, punti 50 e 51, British
Telecommunications, punti 39 e 40, e Hedley Lomas, punti 25 e 26, la Corte, alla luce delle
circostanze del caso di specie, ha affermato che i singoli lesi hanno un diritto a risarcimento qualora
siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire che la norma giuridica comunitaria violata sia diretta a
conferire loro diritti, che si tratti di una violazione sufficientemente grave e manifesta e che esista
un nesso di causalità diretto tra tale violazione e il danno subito dai singoli.
22 D' altro canto, risulta dalla citata sentenza Francovich e a. che, come le presenti cause,
riguardava un caso di mancato provvedimento di attuazione di una direttiva entro il termine
prescritto, che la piena efficacia dell' art. 189, terzo comma, del Trattato esige che sia riconosciuto
un diritto a risarcimento ove il risultato prescritto dalla direttiva implichi l' attribuzione di diritti a
favore dei singoli, il cui contenuto possa essere individuato sulla base delle disposizioni della
direttiva, e che esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il
danno subito dai soggetti lesi.
23 In sostanza le condizioni che sono state evidenziate in tali diverse sentenze sono le stesse, poiché
la condizione di una violazione sufficientemente grave e manifesta, che pure non è stata menzionata
nella citata sentenza Francovich e a., era tuttavia inerente alla fattispecie oggetto della causa.
24 Affermando che le condizioni in cui la responsabilità fa sorgere un diritto a risarcimento
dipendono dalla natura della violazione del diritto comunitario che è all' origine del danno
provocato, la Corte ha in effetti considerato che la valutazione di tali condizioni dipendeva da
ciascun tipo di situazione.
25 Infatti, anzitutto una violazione è sufficientemente grave e manifesta quando un' istituzione o
uno Stato membro, nell' esercizio del suo potere normativo, ha violato in modo grave e manifesto i
limiti posti al suo potere discrezionale (v. sentenze 25 maggio 1978, cause riunite 83/76, 94/76,
4/77, 15/77 e 40/77, HNL e a./Consiglio e Commissione, Racc. pag. 1209, punto 6; Brasserie du
pêcheur e Factortame, citata, punto 55, e British Telecommunications, citata, punto 42) e, in
secondo luogo, nell' ipotesi in cui lo Stato membro di cui trattasi, al momento in cui ha commesso
la trasgressione, non si fosse trovato di fronte a scelte normative e disponesse di un margine di
discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, la semplice trasgressione
del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l' esistenza di una violazione
sufficientemente grave e manifesta (v. sentenza Hedley Lomas, citata, punto 28).
26 Pertanto, qualora, come nella causa Francovich e a., uno Stato membro, in violazione dell' art.
189, terzo comma, del Trattato, non prenda alcuno dei provvedimenti necessari per raggiungere il
risultato prescritto da una direttiva, entro il termine fissato da quest' ultima, tale Stato membro
viola, in modo grave e manifesto, i limiti posti all' esercizio dei suoi poteri.
27 Di conseguenza, una siffatta violazione fa sorgere, a favore dei singoli, un diritto ad ottenere un
risarcimento se il risultato imposto dalla direttiva comporta l' attribuzione, a loro favore, di diritti il
cui contenuto possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva e se esiste un
nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti
lesi, senza che debbano essere prese in considerazione altre condizioni.
28 In particolare non si può subordinare il risarcimento del danno al presupposto di una previa
constatazione, da parte della Corte, di un inadempimento del diritto comunitario imputabile allo
Stato (v. sentenza Brasserie du pêcheur, punti 94-96) né all' esistenza di una condotta dolosa o
colposa dell' organo statale al quale è imputabile l' inadempimento (v. punti 75-80 della stessa
sentenza).
29 Occorre quindi risolvere l' ottava, la nona, la decima, l' undicesima e la dodicesima questione nel
senso che la mancanza di qualsiasi provvedimento d' attuazione di una direttiva per raggiungere il
risultato prescritto da quest' ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una
violazione grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento a
favore dei singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto da una direttiva implichi l'
attribuzione, a favore dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall' altro,
esista un nesso di causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito.
Sull' attribuzione, a vantaggio dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere sufficientemente
individuato (prima e seconda questione)
30 Con le sue prime due questioni, il giudice nazionale chiede se il risultato prescritto dall' art. 7
della direttiva implichi l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti alla
garanzia del rimborso degli importi da lui versati e al suo rimpatrio in caso di insolvenza o di
fallimento dell' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o del venditore, parte del contratto (in
prosieguo: l' "organizzatore"), e se il contenuto di tali diritti possa essere sufficientemente definito.
31 Secondo gli attori e la Commissione, tali due questioni vanno risolte in senso affermativo. L' art.
7 riconoscerebbe infatti, in maniera chiara e inequivocabile, il diritto per l' acquirente di viaggi
"tutto compreso", considerato in quanto consumatore, di ottenere il rimborso degli importi versati e
il suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore.
32 I governi tedesco, olandese e del Regno Unito contestano tale punto di vista.
33 Occorre anzitutto esaminare se il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva implichi l'
attribuzione di diritti a favore dei singoli.
34 Al riguardo, occorre far riferimento alla formulazione stessa dell' art. 7, da cui risulta che tale
norma prescrive come risultato della sua messa in vigore l' obbligo, per l' organizzatore, di disporre
di garanzie sufficienti per assicurare, in caso di insolvenza o di fallimento, il rimborso degli importi
versati e il rimpatrio del consumatore.
35 Poiché lo scopo di tali garanzie è quello di proteggere i consumatori contro i rischi economici
derivanti dall' insolvenza o dal fallimento degli organizzatori di viaggi "tutto compreso", il
legislatore comunitario ha imposto agli operatori l' obbligo di comprovare tali garanzie per
proteggere i consumatori contro detti rischi.
36 Ne consegue che l' obiettivo dell' art. 7 della direttiva è quello di proteggere i consumatori, che
beneficiano così del diritto di essere rimborsati o rimpatriati in caso di insolvenza o di fallimento
dell' organizzatore presso il quale essi hanno acquistato il viaggio. Infatti, ogni diversa
interpretazione sarebbe priva di senso in quanto le garanzie che gli organizzatori debbono offrire ai
sensi dell' art. 7 della direttiva sono destinate a permettere il rimborso degli importi versati dal
consumatore o il suo rimpatrio.
37 Tale conclusione è del resto confermata dal penultimo 'considerando' della direttiva, secondo il
quale sarebbe opportuno, sia per il consumatore sia per gli operatori di servizi tutto compreso, che l'
organizzatore sia tenuto a dare prove di disporre di garanzie sufficienti in caso di insolvenza o di
fallimento.
38 Al riguardo, i governi tedesco e del Regno Unito non possono obiettare che la direttiva, che è
fondata sull' art. 100 A del Trattato, mira essenzialmente a garantire la libera prestazione dei servizi
e, in maniera più generale, la libera concorrenza.
39 Occorre infatti osservare, da un lato, che i 'considerando' della direttiva menzionano
ripetutamente lo scopo di protezione dei consumatori e, dall' altro, che il fatto che la direttiva sia
destinata a garantire altri obiettivi non è tale da escludere che le sue norme siano dirette anche a
proteggere i consumatori. Infatti, ai sensi dell' art. 100 A, n. 3, del Trattato, la Commissione, nelle
sue proposte in forza di tale articolo, in particolare in materia di protezione dei consumatori, deve
basarsi su un livello di protezione elevato.
40 Allo stesso modo, si deve respingere l' argomento dei governi tedesco e del Regno Unito,
secondo cui risulterebbe dalla formulazione stessa dell' art. 7 che quest' ultimo si limita ad imporre
agli organizzatori di viaggi "tutto compreso" l' obbligo di dar prove sufficienti di disporre di
garanzie e che l' assenza di ogni riferimento a un eventuale diritto dei consumatori di beneficiare di
tali garanzie indicherebbe che tale diritto è soltanto indiretto e derivato.
41 Basti a questo proposito ricordare che l' obbligo di dar prova di disporre di garanzie implica
necessariamente, per i suoi destinatari, quello di sottoscrivere effettivamente tali garanzie. D' altro
canto, l' obbligo prescritto dall' art. 7 ha senso solo nei limiti in cui garanzie che consentono
eventualmente il rimborso degli importi versati o il rimpatrio del consumatore esistono
effettivamente.
42 Di conseguenza, si deve concludere che il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva comporta
l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti che garantiscano il rimborso degli
importi versati e il suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore.
43 Si deve poi esaminare se il contenuto dei diritti di cui trattasi possa essere individuato sulla sola
base delle norme della direttiva.
44 Al riguardo, occorre constatare che i titolari dei diritti di cui all' art. 7 sono sufficientemente
individuati come i consumatori, quali definiti dall' art. 2 della direttiva. Lo stesso vale per il
contenuto di tali diritti. Come è già stato rilevato in precedenza, essi consistono in garanzie di
rimborso degli importi che gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" hanno versato e di un loro
rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore. Di conseguenza, si deve ritenere
che l' art. 7 della direttiva abbia lo scopo di attribuire, a favore dei singoli, diritti il cui contenuto
può essere determinato con precisione sufficiente.
45 Tale conclusione non può essere rimessa in discussione per il fatto che, come sottolinea il
governo tedesco, la direttiva lascia un ampio margine di valutazione agli Stati membri quanto alla
scelta dei mezzi che consentono di raggiungere il risultato da essa perseguito. Infatti, il fatto che lo
Stato possa scegliere tra una molteplicità di mezzi al fine di raggiungere il risultato prescritto da una
direttiva è senza importanza dal momento che tale direttiva ha lo scopo di attribuire, a favore dei
singoli, diritti il cui contenuto può essere determinato con precisione sufficiente.
46 Le prime due questioni debbono pertanto essere risolte nel senso che il risultato prescritto dall'
art. 7 della direttiva implica l' attribuzione, all' acquirente di viaggi "tutto compreso", di diritti alla
garanzia degli importi da lui versati e del suo rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell'
organizzatore, diritti il cui contenuto può essere sufficientemente individuato.
Sulle misure necessarie per garantire una corretta attuazione della direttiva (terza, quarta, quinta,
sesta e settima questione)
Sulla terza e sulla quarta questione
47 Con le sue questioni terza e quarta, il giudice nazionale chiede in sostanza alla Corte di precisare
le "misure necessarie" che gli Stati membri dovevano adottare per osservare l' art. 9 della direttiva.
48 In via preliminare, si deve rilevare che, secondo una giurisprudenza costante, le disposizioni di
una direttiva devono essere attuate con efficacia cogente incontestabile, con la specificità,
precisione e chiarezza necessarie per garantire pienamente la certezza del diritto (sentenza 30
maggio 1991, causa C-59/89, Commissione/Germania, Racc. pag. I-2607, punto 24).
49 Si deve poi constatare che, stabilendo che gli Stati membri dovevano porre in vigore le misure
necessarie per conformarsi alla direttiva al più tardi il 31 dicembre 1992, l' art. 9 obbligava tali Stati
ad adottare tutte le misure necessarie per assicurare la piena efficacia delle norme della direttiva e
quindi assicurare la realizzazione del risultato da essa prescritto.
50 Tenuto conto della soluzione data alle prime due questioni pregiudiziali, occorre pertanto
constatare che, per provvedere alla piena entrata in vigore dell' art. 7 della direttiva, gli Stati membri
dovevano adottare, entro il termine prescritto, tutte le misure necessarie per garantire, fin dal 1
gennaio 1993, agli acquirenti di viaggi "tutto compreso" il rimborso degli importi depositati e il loro
rimpatrio in caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore.
51 Ne consegue che l' entrata in vigore dell' art. 7 non sarebbe stata piena se, entro il termine
prescritto, il legislatore nazionale si fosse limitato ad adottare il quadro normativo necessario per
imporre all' organizzatore l' obbligo legale di dar prova delle misure di garanzia.
52 Come risulta dall' ordinanza di rinvio, il governo tedesco ha sostenuto che il termine previsto per
l' attuazione della direttiva era troppo breve, in particolare a causa delle notevoli difficoltà che
susciterebbe, in Germania, l' introduzione di un sistema di garanzie conforme alla direttiva per il
settore economico interessato. Al riguardo, il governo tedesco ha sottolineato che l' applicazione
della direttiva non poteva essere realizzata attraverso semplici modifiche legislative, ma che esso
doveva avvalersi della collaborazione di terzi privati (organizzatori di viaggi, settori professionali
delle assicurazioni e del credito).
53 Occorre rilevare che tale circostanza non può giustificare la mancata attuazione di una direttiva
entro il termine prescritto. Infatti, secondo una giurisprudenza consolidata, uno Stato membro non
può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per
giustificare l' inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti dalle direttive (v., in particolare,
sentenza 21 giugno 1988, causa 283/86, Commissione/Belgio, Racc. pag. 3271, punto 7).
54 D' altro canto si deve ricordare che, qualora il termine stabilito per l' attuazione di una direttiva si
riveli troppo breve, l' unico rimedio compatibile col diritto comunitario consiste, per lo Stato
membro interessato, nel prendere, sul piano della Comunità, le iniziative idonee allo scopo di
ottenere, da parte dell' istituzione comunitaria competente, un' adeguata proroga del termine stesso
(v. sentenza 26 febbraio 1976, causa 52/75, Commissione/Italia, Racc. pag. 277, punto 12).
55 La terza e la quarta questione pregiudiziale debbono pertanto essere risolte nel senso che, per
osservare l' art. 9 della direttiva, lo Stato membro avrebbe dovuto adottare, entro il termine
prescritto, tutte le misure necessarie per garantire ai singoli, fin dal 1 gennaio 1993, una protezione
effettiva contro i rischi di insolvenza e di fallimento degli organizzatori.
Sulla quinta questione
56 Con la sua quinta questione pregiudiziale, il giudice a quo chiede se l' obiettivo di protezione dei
consumatori perseguito dall' art. 7 della direttiva sia soddisfatto qualora uno Stato membro consenta
all' organizzatore di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non superiore al 10% di tale prezzo
e fino ad un massimo di 500 DM, prima di rilasciare al proprio cliente documenti che il giudice a
quo qualifica come "documenti costituenti titoli di credito", ossia documenti che incorporano il
diritto del consumatore a fruire di varie prestazioni di servizi rientranti nel viaggio "tutto compreso"
(compagnie aeree o alberghi).
57 Risulta dall' ordinanza di rinvio che tale questione fa riferimento all' art. 651 k, n. 4, del BGB,
riportato al precedente punto 8, nonché alla sentenza 12 marzo 1987 del Bundesgerichtshof, detta
dei "pagamenti anticipati", considerata nell' ambito della settima questione pregiudiziale e che ha
annullato le condizioni generali degli organizzatori di viaggi nei limiti in cui obbligavano il
viaggiatore a versare un anticipo pari al 10% del prezzo del viaggio senza aver ricevuto un
documento costituente titolo di credito.
58 Dall' ordinanza di rinvio risulta inoltre che, attraverso tale questione, il giudice intende stabilire,
in sostanza, se il legislatore nazionale osservi l' art. 7 qualora lasci a carico del consumatore il
rischio relativo al detto anticipo, di modo che l' interessato non sia coperto dalla garanzia di cui a
tale norma.
59 Come è stato constatato nell' ambito della prima e della seconda questione, l' art. 7 della direttiva
ha l' obiettivo di proteggere il consumatore contro i rischi definiti da tale norma, che derivano dall'
insolvenza o dal fallimento dell' organizzatore. Sarebbe contrario a tale obiettivo limitare tale
protezione di modo che l' anticipo eventualmente versato non sia incluso nella garanzia di rimborso
o di rimpatrio. Infatti, la direttiva non fornisce alcun fondamento per una tale limitazione dei diritti
garantiti dall' art. 7.
60 Ne consegue che una norma nazionale che consenta agli organizzatori di chiedere ai viaggiatori
il versamento di un anticipo può essere conforme all' art. 7 della direttiva solo se, in caso di
insolvenza o di fallimento dell' organizzatore, è anche garantito il rimborso dell' anticipo di cui
trattasi.
61 Si deve quindi risolvere la quinta questione nel senso che, qualora uno Stato membro consenta
all' organizzatore di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non superiore al 10% di tale prezzo
e fino ad un massimo di 500 DM, l' obiettivo di protezione perseguito dall' art. 7 della direttiva è
raggiunto solo purché sia garantito anche il rimborso di tale anticipo in caso di insolvenza o di
fallimento dell' organizzatore.
Sulla settima questione
62 Con la seconda parte della settima questione, il giudice nazionale chiede se le garanzie di cui gli
organizzatori debbono "dar prove" di disporre, ai sensi dell' art. 7 della direttiva, non sussistano
nemmeno nel caso in cui i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio, siano in possesso
di documenti costituenti titoli di credito.
63 Secondo il governo tedesco, la protezione garantita dall' art. 7 non viene meno qualora il
viaggiatore sia in possesso di documenti che attribuiscono un diritto diretto nei confronti del
prestatore effettivo dei servizi (la compagnia aerea o l' albergo). In una situazione del genere, il
viaggiatore sarebbe infatti in grado di chiedere l' esecuzione delle prestazioni, di modo che il rischio
che egli non ne fruisca a seguito dell' insolvenza dell' organizzatore sarebbe escluso.
64 Tale tesi non può essere accolta. Infatti la protezione che l' art. 7 riconosce ai consumatori
potrebbe essere compromessa se questi ultimi fossero costretti a far valere documenti costituenti
titoli di credito nei confronti di terzi che non hanno, in ogni caso, l' obbligo di rispettarli e che, d'
altro canto, sono anch' essi esposti al rischio di fallimento.
65 Si deve, di conseguenza, risolvere la seconda parte della settima questione dichiarando che l' art.
7 della direttiva dev' essere interpretato nel senso che le garanzie di cui gli organizzatori debbono
"dar prove" di disporre non sussistono nemmeno qualora i viaggiatori, al momento di pagare il
prezzo del viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito.
66 Nella prima parte della sua settima questione, il giudice a quo chiede alla Corte se la Repubblica
federale di Germania potesse rinunciare a recepire l' art. 7 della direttiva tenuto conto della sentenza
sui "pagamenti anticipati" del Bundesgerichtshof.
67 Indipendentemente dalla questione se una giurisprudenza sia idonea a dare corretta attuazione
alla direttiva, si deve constatare che la soluzione di tale questione discende comunque da quelle
fornite alla quinta questione nonché alla seconda parte della settima questione. Dato che l' art. 7 è
diretto a proteggere il consumatore contro i rischi definiti da tale norma che derivano dall'
insolvenza o dal fallimento dell' organizzatore, una sentenza come quella sui "pagamenti anticipati"
del Bundesgerichtshof non può soddisfare gli obblighi della direttiva, nei limiti in cui lascia a carico
del consumatore, da un lato, il rischio dell' insolvenza e del fallimento dell' organizzatore quanto all'
anticipo consentito e, dall' altro, il rischio che, qualora il consumatore abbia ricevuto titoli di
credito, il prestatore effettivo dei servizi non li rispetti o diventi insolvente.
68 Si deve pertanto risolvere la settima questione dichiarando che l' art. 7 della direttiva va
interpretato nel senso che, da un lato, le garanzie di cui gli organizzatori debbono "dar prove" di
disporre non sussistono nemmeno nel caso in cui i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del
viaggio, siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito e che, dall' altro, la Repubblica
federale di Germania non poteva rinunciare a recepire la direttiva in considerazione della sentenza
del Bundesgerichtshof sui "pagamenti anticipati".
Sulla sesta questione
69 Con la sua sesta questione, il giudice nazionale chiede se la direttiva imponga agli Stati membri
di prendere provvedimenti specifici per proteggere gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" contro
la loro stessa negligenza.
70 Così formulata, la questione rende necessarie le tre osservazioni seguenti.
71 Anzitutto, né l' obiettivo della direttiva né sue disposizioni specifiche obbligano gli Stati membri
ad adottare provvedimenti specifici nell' ambito dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di viaggi
"tutto compreso" contro la loro stessa negligenza.
72 Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte, per determinare il danno risarcibile il giudice
nazionale può sempre verificare se il soggetto leso abbia dato prova di una ragionevole diligenza
per evitare il danno o limitarne l' entità (v., in particolare, la citata sentenza Brasserie du pêcheur e
Factortame, punto 84).
73 Infine, se tale principio si applica anche nel contesto di azioni di risarcimento danni fondate sulla
mancata attuazione di una direttiva come quella di cui trattasi nel caso di specie, discende, d' altro
canto, dalla soluzione fornita alla quinta e alla settima questione che un acquirente di viaggi "tutto
compreso" che abbia versato l' intero prezzo del viaggio non può essere considerato negligente per
il solo fatto di non essersi avvalso, conformemente alla sentenza sui "pagamenti anticipati", della
possibilità di non versare più del 10% del prezzo totale del viaggio prima di aver ottenuto
documenti costituenti titoli di credito.
74 Si deve pertanto risolvere la sesta questione nel senso che la direttiva non impone agli Stati
membri di adottare provvedimenti specifici nell' ambito dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di
viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza.
Decisione relativa alle spese
Sulle spese
75 Le spese sostenute dai governi tedesco, olandese, francese e del Regno Unito, nonché dalla
Commissione delle Comunità europee, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono
dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento
costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.
Dispositivo
Per questi motivi,
LA CORTE,
pronunciandosi sulle questioni sottopostele dal Landgericht di Bonn con ordinanze 6 giugno 1994,
dichiara:
1) La mancanza di qualsiasi provvedimento d' attuazione di una direttiva per raggiungere il risultato
prescritto da quest' ultima entro il termine a tal fine stabilito costituisce di per sé una violazione
grave e manifesta del diritto comunitario e pertanto fa sorgere un diritto a risarcimento a favore dei
singoli lesi qualora, da un lato, il risultato prescritto dalla direttiva implichi l' attribuzione, a favore
dei singoli, di diritti il cui contenuto possa essere individuato e, dall' altro, esista un nesso di
causalità tra la violazione dell' obbligo a carico dello Stato e il danno subito.
2) Il risultato prescritto dall' art. 7 della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, 90/314/CEE,
concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti "tutto compreso", implica l' attribuzione, all' acquirente
di viaggi "tutto compreso", di diritti alla garanzia degli importi da lui versati e del suo rimpatrio in
caso di insolvenza o di fallimento dell' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o del venditore
parte del contratto, diritti il cui contenuto possa essere sufficientemente individuato.
3) Per osservare l' art. 9 della direttiva 90/314, lo Stato membro avrebbe dovuto adottare, entro il
termine prescritto, tutte le misure necessarie per garantire ai singoli, fin dal 1 gennaio 1993, una
protezione effettiva contro i rischi di insolvenza e di fallimento degli organizzatori di viaggi "tutto
compreso" e/o dei venditori parti del contratto.
4) Qualora uno Stato membro consenta all' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o al
dettagliante parte del contratto di chiedere un anticipo sul prezzo del viaggio non superiore al 10%
di tale prezzo e fino ad un massimo di 500 DM, l' obiettivo di protezione perseguito dall' art. 7 della
direttiva 90/314 è raggiunto solo purché sia garantito anche il rimborso di tale anticipo in caso di
insolvenza o di fallimento dell' organizzatore del viaggio "tutto compreso" e/o del venditore parte
del contratto.
5) L' art. 7 della direttiva 90/314 va interpretato nel senso che, da un lato, le garanzie di cui gli
organizzatori di viaggi "tutto compreso" o i venditori parti del contratto debbono "dar prove" di
disporre non sussistono nemmeno qualora i viaggiatori, al momento di pagare il prezzo del viaggio,
siano in possesso di documenti costituenti titoli di credito e che, dall' altro, la Repubblica federale di
Germania non poteva rinunciare a recepire la direttiva in considerazione della sentenza 12 marzo
1987 del Bundesgerichtshof sui "pagamenti anticipati".
6) La direttiva 90/314 non impone agli Stati membri di adottare provvedimenti specifici nell' ambito
dell' art. 7 per proteggere gli acquirenti di viaggi "tutto compreso" contro la loro stessa negligenza.
SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione)
22 novembre 2005
«Direttiva 1999/70/CE – Clausole 2, 5 e 8 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato –
Direttiva 2000/78/CE – Art. 6 – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di
lavoro – Discriminazione legata all’età»
Nel procedimento C-144/04,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte ai sensi dell’art. 234
CE, dall’Arbeitsgericht München (Germania) con decisione 26 febbraio 2004, pervenuta in
cancelleria il 17 marzo 2004, nel procedimento
Werner Mangold
contro
Rüdiger Helm,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta dal sig. P. Jann, presidente della Prima Sezione, facente funzione di presidente, dai sigg.
C.W.A. Timmermans, A. Rosas e K. Schiemann, presidenti di sezione, dai sigg. R. Schintgen
(relatore), S. von Bahr, J. N. Cunha Rodrigues, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. K.
Lenaerts, E. Juhász, G. Arestis, A. Borg Barthet e M. Ilešič, giudici,
avvocato generale: sig. A. Tizzano
cancelliere: sig.ra K. Sztranc, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 26 aprile 2005,
viste le osservazioni presentate:
– per il sig. Mangold, dagli avv.ti D. Hummel e B. Karthaus, Rechtsanwälte;
– per il sig. Helm, da lui stesso, Rechtsanwalt;
– per il governo tedesco, dal sig. M. Lumma, in qualità di agente;
– per la Commissione delle Comunità europee, dalle sig.re N. Yerrell e S. Grünheid nonché dai
sigg. D. Martin e H. Kreppel, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 30 giugno 2005,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La demanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione delle clausole 2, 5 e 8
dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo:
l’«accordo quadro»), applicato con direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa
all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43),
nonché dell’art. 6 della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un
quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU
L 303, pag. 16).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che contrappone il sig. Mangold
al sig. Helm in merito al contratto di lavoro a tempo determinato che lo vincola a quest’ultimo (in
prosieguo: il «contratto»).
Contesto normativo
La normativa comunitaria
L’accordo quadro
3 «L’accordo quadro, a tenore della sua clausola 1, ha come oggetto:
a) migliorare la qualità di lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non
discriminazione,
b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una
successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato».
4 La clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro prevede:
«Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un
rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore in ciascuno
Stato membro».
5 A tenore della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro:
«Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a
tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, a norma delle leggi,
dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in
assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi, e in un modo che tenga conto delle
esigenze di settore o categorie specifiche di lavoratori, una o più misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti».
6 La clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro dispone:
«L’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale
di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso».
La direttiva 2000/78
7 La direttiva 2000/78 è stata adottata sulla base dell’art. 13 CE. I ‘considerando’ 1, 4, 8 e 25 di tale
direttiva sono così formulati:
«(1) Conformemente all’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea, l’Unione europea si fonda sui
principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali[,] e dello Stato
di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e rispetta i diritti fondamentali quali
sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi generali del diritto comunitario.
(…)
(4) Il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni
costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo,
dalla convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e
ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari. La Convenzione
n. 111 dell’Organizzazione internazionale del lavoro proibisce la discriminazione in materia di
occupazione e condizioni di lavoro.
(…)
(8) Gli orientamenti in materia di occupazione per il 2000, approvati dal Consiglio europeo a
Helsinki il 10 e 11 dicembre 1999, ribadiscono la necessità di promuovere un mercato del lavoro
che agevoli l’inserimento sociale formulando un insieme coerente di politiche volte a combattere la
discriminazione nei confronti di gruppi quali i disabili. Esse rilevano la necessità di aiutare in
particolar modo i lavoratori anziani, onde accrescere la loro partecipazione alla vita professionale.
(…)
(25) Il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento essenziale per il
perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione e la promozione
della diversità nell’occupazione. Tuttavia in talune circostanze, delle disparità di trattamento in
funzione dell’età possono essere giustificate e richiedono pertanto disposizioni specifiche che
possono variare secondo la situazione degli Stati membri. È quindi essenziale distinguere tra le
disparità di trattamento che sono giustificate, in particolare, da obiettivi legittimi di politica
dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale, e le discriminazioni che devono
essere vietate».
8 La direttiva 2000/78, a tenore del suo art. 1, «mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle
discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze
sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo
negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
9 L’art. 2 della direttiva 2000/78, intitolato «Nozione di discriminazione», nn. 1 e 2, lett. a),
enuncia:
«1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1,
una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una
situazione analoga».
10 L’art. 3 della direttiva 2000/78, intitolato «Campo di applicazione», al n. 1 prevede quanto
segue:
«1. Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia
del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto
attiene:
a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i
criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i
livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione;
(…)
c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la
retribuzione;
(…)».
11 La direttiva 2000/78, all’art. 6, n. 1, è così formulata:
«Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, gli Stati membri possono prevedere che le disparità di
trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente
e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi
giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i
mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.
Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare:
a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale,
di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani,
i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o
assicurare la protezione degli stessi;
b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per
l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione;
c) la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste
per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del
pensionamento.
12 Conformemente all’art. 18, n. 1, della direttiva 2000/78, gli Stati membri dovevano adottare le
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla detta
direttiva entro il 2 dicembre 2003. Tuttavia, secondo il secondo capoverso del detto articolo:
«Per tener conto di condizioni particolari gli Stati membri possono disporre se necessario di tre anni
supplementari, a partire dal 2 dicembre 2003 ovvero complessivamente di sei anni al massimo, per
attuare le disposizioni relative alle discriminazioni basate sull’età o sull’handicap. In tal caso essi
informano immediatamente la Commissione. Gli Stati membri che decidono di avvalersi di tale
periodo supplementare presentano ogni anno una relazione alla Commissione sulle misure adottate
per combattere le discriminazioni basate sull’età e sull’handicap e sui progressi realizzati in vista
dell’attuazione della direttiva. La Commissione presenta ogni anno una relazione al Consiglio».
13 Poiché la Repubblica federale di Germania ha chiesto di beneficiare di un siffatto termine
supplementare per la trasposizione della detta direttiva, tale termine, per quanto riguarda tale Stato
membro, scadrà il 2 dicembre 2006.
La normativa nazionale
14 L’art. 1 della legge per l’incremento dell’occupazione (Beschäftigungsförderungsgesetz), come
modificata con legge 25 settembre 1996 (BGBl. 1996 I, pag. 1476; in prosieguo: la «BeschFG
1996»), prevedeva:
«(1) I contratti di lavoro a tempo determinato sono ammessi per la durata massima di due anni.
Entro tale limite massimo totale di due anni, un contratto a tempo determinato può essere rinnovato
al massimo tre volte.
(2) I contratto di lavoro a tempo determinato sono ammessi senza la condizione di cui al n. 1 se il
lavoratore ha raggiunto l’età di 60 anni al momento in cui inizia il rapporto di lavoro a tempo
determinato.
(3) I contratti di lavoro ai sensi dei nn. 1 e 2 non sono consentiti qualora esista uno stretto legame
con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato o con un precedente contratto di lavoro
a tempo determinato ai sensi del n. 1 con lo stesso datore di lavoro. Si presume un siffatto stretto
legame in particolare quando l’intervallo tra i due contratti di lavoro è inferiore ai quattro mesi.
(4) La possibilità di limitare la durata dei contratti di lavoro per altri motivi resta immutata.
(…)».
15 Ai sensi dell’art. 1, n. 6, del BeschFG 1996, tale normativa era applicabile sino al 31 dicembre
2000.
16 La direttiva 1999/70 che dà attuazione all’accordo quadro è stata trasposta nell’ordinamento
giuridico tedesco dalla legge sul lavoro a tempo parziale e sui contratti a tempo determinato, che
modifica o abroga altre disposizioni in materia di lavoro (Gesetz über Teilzeitarbeit und befristete
Arbeitsverträge und zur Änderung und Aufhebung arbeitsrechtlicher Bestimmungen), del 21
dicembre 2000 (BGBl. 2000 I, pag. 1966; in prosieguo: la «TzBfG»). Tale legge è entrata in vigore
il 1° gennaio 2001.
17 A tenore dell’art. 1 della TzBfG, intitolato «Obiettivo»:
«La legge mira ad incentivare il lavoro a tempo parziale, a stabilire le condizioni sulla possibilità di
concludere contratti di lavoro a tempo determinato e a impedire la discriminazione dei lavoratori
occupati a tempo parziale e dei lavoratori aventi un contratto a durata determinata».
18 L’art. 14 del TzBfG, che disciplina i contratti a tempo determinato, dispone:
«(1) L’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro è consentita quando sia giustificata da
una ragione obiettiva. In particolare, una ragione obiettiva sussiste qualora:
1. l’azienda necessiti della prestazione di lavoro in questione solo in via temporanea;
2. la durata a tempo determinato del contratto sia connessa ad attività di formazione o di studio al
fine di agevolare il passaggio del lavoratore ad un’occupazione connessa;
3. il lavoratore venga assunto per sostituire un altro lavoratore;
4. le caratteristiche della prestazione lavorativa giustifichino la durata a tempo determinato;
5. la durata a tempo determinato sia in funzione di un periodo di prova;
6. ragioni inerenti alla persona del lavoratore giustifichino la durata a tempo determinato;
7. il lavoratore venga remunerato con risorse di bilancio finanziariamente destinate per
un’occupazione a tempo determinato ed assunto in conformità a tale destinazione, oppure
8. la durata a tempo determinato sia dovuta ad una transazione giudiziale.
(2) La durata massima consentita dei contratti di lavoro a tempo determinato in assenza di una
ragione obiettiva è di due anni. Entro tale limite, il contratto di lavoro a tempo determinato può
essere rinnovato al massimo per tre volte. Non è consentito stipulare un contratto di lavoro a tempo
determinato ai sensi della prima frase con un lavoratore che ha già avuto un rapporto di lavoro a
tempo determinato o indeterminato con lo stesso datore di lavoro. Un contratto collettivo può
derogare alla prima frase fissando il numero dei rinnovi o la durata massima. Il datore di lavoro o
lavoratori del settore interessato da una contrattazione collettiva ma a questa non soggetti, possono
concordare l’applicazione della normativa collettiva.
(3) Non è richiesta una ragione obiettiva per stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato
qualora il lavoratore all’inizio del rapporto abbia già compiuto 58 anni. Non è consentita la
fissazione di una durata determinata qualora vi sia una stretta connessione con un precedente
contratto di lavoro a tempo indeterminato con il medesimo datore di lavoro. Una tale stretta
connessione deve in particolare presumersi qualora tra i due contratti di lavoro vi sia un intervallo di
tempo inferiore ai sei mesi.
(4) L’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro necessita della forma scritta».
19 L’art. 14, n. 3 del TzBfG è stato modificato dalla prima legge per prestazioni di servizi moderni
sul mercato del lavoro 23 dicembre 2002 (BGBl. 2002 I, pag. 14607; in prosieguo: la «legge del
2002»). La nuova versione della detta disposizione, in vigore dal 1° gennaio 2003, è così formulata:
«Non è richiesta una ragione obiettiva per stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato
qualora il lavoratore all’inizio dell’accordo abbia già compiuto 58 anni. Non è consentito stipulare
un contratto a tempo determinato qualora vi sia una stretta connessione obiettiva con un precedente
contratto a tempo indeterminato con il medesimo datore di lavoro. Una tale stretta connessione
obiettiva deve ritenersi in particolare sussistente qualora tra i due contratti di lavoro vi sia un
intervallo di tempo inferiore ai 6 mesi. Fino al 31 dicembre 2006 l’età di 58 anni indicata nella
prima frase è sostituita con quella di 52 anni».
La controversia di cui alla causa principale e le questioni pregiudiziali
20 Il 26 giugno 2003 il sig. Mangold, che aveva all’epoca 56 anni, stipulava con il sig. Helm, che
esercita la professione di avvocato, il contratto qui in esame con effetto dal 1° luglio 2003.
21 A tenore dell’art. 5 del contratto:
«1. Il rapporto di lavoro inizia il 1° luglio 2003 e scade il 28 febbraio 2004.
2. La limitazione nel tempo del presente contratto si fonda sulla disposizione relativa alla facilitata
conclusione di contratti a tempo determinato con lavoratori anziani di cui all’art. 14, n. 3, quarta
frase, in combinato disposto con la prima frase, del TzBfG (…), in quanto il lavoratore ha più di 52
anni.
3. Le parti concordano che quella sopraindicata è la sola ragione di limitazione nel tempo sulla
quale si basa il patto di durata a tempo determinato del presente contratto. Altre ragioni che
consentono la conclusione di contratti a tempo determinato, in via di principio ritenute ammissibili
dalla legge e dalla giurisprudenza, vengono espressamente escluse e non costituiscono oggetto del
presente patto di durata a tempo determinato».
22 Secondo il sig. Mangold, il detto art. 5, laddove limita la durata del suo contratto sebbene siffatta
limitazione sia conforme all’art. 14, n. 3 del TzBfG, è in contrasto con l’accordo quadro e la
direttiva 2000/78.
23 Il sig. Helm sostiene che la clausola 5 dell’accordo quadro prescrive agli Stati membri di
adottare misure per evitare abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo
determinato, in particolare esigendo ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti, o
fissando una durata massima complessiva dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, o
ancora limitando il numero dei rinnovi di tali contratti o rapporti di lavoro.
24 Orbene, a suo avviso, anche se l’art. 14, n. 3, quarta frase, del TzBfG non prevede espressamente
siffatte condizioni restrittive nel caso di lavoratori anziani, esiste senz’altro una ragione obiettiva, ai
sensi della clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro, che giustifica la stipula di un contratto
di lavoro a tempo determinato, che è data dalla difficoltà, per tali lavoratori, di trovare un impiego
in considerazione delle caratteristiche del mercato del lavoro.
25 L’Arbeitsgericht München nutre dubbi circa la compatibilità dell’art. 14, n. 3, prima frase, del
TzBfG con il diritto comunitario.
26 In primo luogo, il detto giudice considera che tale disposizione è in contrasto con il divieto di
«reformatio in peius» sancito dalla clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro, in quanto, in occasione
della trasposizione della direttiva 1999/70, ha abbassato da 60 a 58 anni l’età delle persone escluse
dalla protezione contro il ricorso non giustificato da ragioni obiettive ai contratti di lavoro a tempo
determinato e, di conseguenza, il livello generale di tutela di cui tale categoria di lavoratori fruisce.
Una siffatta disposizione sarebbe altresì in contrasto con la clausola 5 dell’accordo quadro che è
inteso a prevenire il ricorso abusivo a siffatti contratti, laddove non prevede alcuna restrizione alla
stipula di tali contratti da parte di numerosi lavoratori rientranti in una categoria contraddistinta
unicamente dall’età.
27 In secondo luogo, il giudice a quo si interroga sulla compatibilità di una normativa quale
quella di cui all’art. 14, n. 3, del TzBfG con l’art. 6 della direttiva 2000/78, in quanto
l’abbassamento, operato dalla legge del 2002, da 58 a 52 dell’età alla quale è consentito
concludere contratti di lavoro a tempo determinato, senza ragioni obiettive, non garantirebbe
la protezione delle persone anziane sul lavoro. Anche il principio di proporzionalità non
sarebbe rispettato.
28 È vero che il detto giudice constata che, alla data della stipula del contratto, cioè il 26
giugno 2003, il termine di trasposizione nella normativa nazionale della direttiva 2000/78 non
era ancora scaduto. Tuttavia, ricorda che, secondo il punto 45 della sentenza 18 dicembre
1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie (Racc. pag. I-7411), lo Stato membro
destinatario della direttiva non può adottare in pendenza del termine di trasposizione
disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva
stessa.
29 Orbene, nella causa principale, la modifica apportata all’art. 14, n. 3, del TzBfG mediante la
legge del 2002 è entrata in vigore il 1° gennaio 2003, cioè dopo la pubblicazione della direttiva
2000/78 nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, ma prima della scadenza del termine di
trasposizione previsto dall’art. 18 di tale direttiva.
30 In terzo luogo, il giudice a quo solleva la questione se il giudice nazionale sia tenuto, in una
causa tra privati, a disapplicare norme di diritto nazionale incompatibili con il diritto
comunitario. Considera a tal riguardo che il primato di quest’ultimo dovrebbe indurlo a
concludere che l’art. 14, n. 3, del TzBfG è totalmente inapplicabile e che, pertanto, deve
trovare applicazione la regola fondamentale sancita nel n. 1 del medesimo articolo, secondo la
quale deve esistere una ragione obiettiva per stipulare un contratto di lavoro a tempo
determinato.
31 Ciò considerato, l’Arbeisgericht München ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla
Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) a) Se la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro (…) debba essere interpretata nel senso che
nell’ambito della sua attuazione nell’ordinamento interno vieta una “reformatio in peius” attraverso
un abbassamento dell’età da 60 a 58 anni.
b) Se la clausola 5, n. 1, dell’accordo quadro (…) debba essere interpretata nel senso che essa osta
ad una normativa nazionale la quale – come quella controversa nel caso di specie – non contenga
alcuna limitazione ai sensi delle tre alternative previste al n. 1.
2) Se l’art. 6 della direttiva (…) 2000/78/CE, debba essere interpretato nel senso che esso osta ad
una normativa nazionale la quale – come quella controversa nel caso di specie – consenta di
concludere contratti a tempo determinato con lavoratori che abbiano compiuto i 52 anni in assenza
di una ragione obiettiva, così derogando al principio della necessaria presenza di una ragione
obiettiva.
3) Se, nel caso in cui una delle tre precedenti questioni venga risolta affermativamente, il giudice
nazionale debba disapplicare la normativa nazionale contrastante con il diritto comunitario e se
trovi quindi applicazione il principio generale di diritto interno secondo cui un contratto di lavoro a
tempo determinato è ammissibile solo in presenza di una ragione obiettiva».
Sulla ricevibilità del rinvio pregiudiziale
32 Nel corso dell’udienza, la Repubblica federale di Germania ha messo in dubbio la ricevibilità
della domanda di pronuncia pregiudiziale sostenendo che la controversia di cui alla causa principale
avrebbe carattere fittizio o artificiale. Infatti, il sig. Helm avrebbe già in passato pubblicamente
difeso una tesi identica a quella del sig. Mangold circa l’illegittimità dell’art. 14, n. 3, del TzBfG.
33 A questo proposito va ricordato che, ai sensi dell’art. 234 CE, quando una questione
sull’interpretazione del Trattato o degli atti derivati adottati dalle istituzioni della Comunità è
sollevata dinanzi ad un giudice di uno Stato membro, tale giudice, qualora reputi necessaria per
emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, può domandare alla Corte di pronunciarsi
sulla questione (v., tra l’altro, sentenza 21 marzo 2002, causa C-451/99, Cura Anlagen, Racc. pag.
I-3193, punto 22).
34 Nell’ambito di questo procedimento di rinvio, il giudice nazionale, che è l’unico ad avere
conoscenza diretta dei fatti della causa, è nella situazione più idonea per valutare, tenuto conto della
peculiarità di questa, la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare
la propria sentenza (v. sentenze 16 luglio 1992, causa C-83/91, Meilicke, Racc. pag. I-4871, punto
23; 7 luglio 1994, causa C-146/93, McLachlan, Racc. pag. I-3229, punto 20; 9 febbraio 1995, causa
C-412/93, Leclerc-Siplec, Racc. pag. I-179, e 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, Racc.
pag. I-10155, punto 43).
35 Di conseguenza, se la questione sollevata dal giudice a quo verte sull’interpretazione di una
disposizione di diritto comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (v. sentenze 8
novembre 1990, causa C-231/89, Gmurzynska-Bscher, Racc. pag. I-4003, punto 20; Leclerc-Siplec,
cit., punto 11; 23 febbraio 1995, cause riunite C-358/93 e C-416/93, Bordessa e a., punto 10, e
Inspire Art, cit., punto 44).
36 Tuttavia, la Corte considera che le spetta esaminare le condizioni in cui è stata adita dal giudice
nazionale al fine di verificare la propria competenza. Infatti, lo spirito di collaborazione che deve
presiedere al funzionamento del rinvio pregiudiziale implica che, dal canto suo, il giudice nazionale
tenga presente la funzione assegnata alla Corte, che è quella di contribuire all’amministrazione della
giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri consultivi su questioni generali o ipotetiche
(sentenze 3 febbraio 1983, causa 149/82, Robards, Racc. pag. 171, punto 19; Meilicke, cit., punto
25, e Inspire Art, cit., punto 45).
37 In considerazione di questo compito la Corte ha ritenuto di non poter statuire su una questione
pregiudiziale sollevata dinanzi ad un giudice nazionale, quando risulti manifesto che
l’interpretazione del diritto comunitario non ha alcun rapporto con la realtà o con l’oggetto della
causa principale.
38 Tuttavia, nella causa principale non risulta assolutamente contestabile che l’interpretazione del
diritto comunitario richiesta dal giudice a quo risponde effettivamente ad una esigenza obiettiva
inerente alla soluzione di una controversia dinanzi ad esso pendente. Infatti, non è contestato che il
contratto è stato effettivamente eseguito e che la sua applicazione solleva una questione di
interpretazione del diritto comunitario. La circostanza che le parti di cui alla causa principale
concorderebbero sull’interpretazione dell’art. 14, n. 3, del TzBfG non è tale da inficiare l’effettività
di tale controversia.
39 Si deve di conseguenza considerare la domanda di pronuncia pregiudiziale ricevibile.
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione, lett. b)
40 Con la prima questione, lett. b), che va esaminata per prima, il giudice a quo vuole sapere se la
clausola 5 dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che osta ad una normativa
nazionale, quale quella di cui alla causa principale, che non contiene nessuna delle restrizioni
previste dalla detta clausola per il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato.
41 Si deve a questo proposito ricordare che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro mira a
«prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a
tempo determinato».
42 Orbene, come confermato dalle parti nella causa principale nel corso dell’udienza, il contratto è
il primo e unico contratto di lavoro tra esse stipulato.
43 Ciò considerato, l’interpretazione della clausola 5, punto 1, è chiaramente priva di pertinenza ai
fini della soluzione della controversia per la quale è stato adito il giudice a quo e, di conseguenza, la
prima questione, lett. b), non va risolta.
Sulla prima questione, lett. a)
44 Con la prima questione, lett. a), il giudice a quo vuole sapere se la clausola 8, punto 3,
dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale quale
quella di cui alla causa principale, la quale, in occasione della trasposizione della direttiva 1999/70,
ha abbassato l’età oltre la quale i contratti di lavoro a tempo determinato possono essere conclusi
senza restrizioni da 60 a 58 anni.
45 In limine, è giocoforza constatare che, nella causa principale, il contratto è stato concluso il 26
giugno 2003, cioè sotto la vigenza del TzBfG, come modificato dalla legge del 2002, la quale ha
abbassato da 58 a 52 anni l’età oltre la quale è senz’altro possibile concludere contratti di lavoro a
tempo determinato. Nella specie, è pacifico che il sig. Mangold è stato assunto dal sig. Helm all’età
di 56 anni.
46 Il giudice a quo considera tuttavia che l’interpretazione della detta clausola 8, punto 3, potrebbe
essergli utile per valutare la legittimità dell’art. 14, n. 3, del TzBfG nella versione iniziale, in
quanto, se quest’ultima non fosse conforme al diritto comunitario, ciò avrebbe l’effetto di rendere
caduca la modifica operata dalla legge 2002.
47 Ad ogni modo, si deve constatare che il legislatore tedesco, già in occasione della trasposizione
nel diritto interno della direttiva 1999/70, aveva abbassato l’età oltre la quale potevano essere
conclusi contratti di lavoro a tempo determinato da 60 a 58 anni.
48 Secondo il sig. Mangold, una siffatta «reformatio in peius», al pari di quella operata dalla legge
del 2002, è in contrasto con la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro.
49 Il governo tedesco, al contrario, ritiene che il detto abbassamento di età sia stato compensato dal
riconoscimento ai lavoratori vincolati da un contratto di lavoro a tempo determinato di nuove
garanzie sociali, come l’emanazione di un divieto generale di discriminazione e l’estensione alle
piccole imprese, come pure ai rapporti di lavoro di breve durata, delle restrizioni previste per il
ricorso a siffatto tipo di contratti.
50 A questo proposito, dalla formulazione stessa della clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro
risulta che l’applicazione di questo non costituisce per gli Stati membri un motivo valido per ridurre
il livello generale di protezione offerta ai lavoratori nell’ordinamento giuridico nazionale nel settore
rientrante sotto il detto accordo.
51 L’espressione «applicazione», utilizzata senza ulteriori precisazioni nella clausola 8, punto 3,
dell’accordo quadro non riguarda la sola iniziale trasposizione della direttiva 1999/70 e, in
particolare, del suo allegato contenente l’accordo quadro, ma copre ogni misura nazionale intesa a
garantire che l’obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che,
successivamente alla trasposizione propriamente detta, completano o modificano le norme nazionali
già adottate.
52 Per contro, una «reformatio in peius» della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei
contratti a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall’accordo quadro quando non è in
alcun modo collegata con l’applicazione di questo.
53 Orbene, sia dalla decisione di rinvio sia dalle osservazioni presentate dal governo tedesco nel
corso dell’udienza, risulta come rilevato dall’avvocato generale nei paragrafi 75-77 delle sue
conclusioni, che i successivi abbassamenti dell’età oltre la quale è consentita la stipula di contratti a
tempo determinato senza restrizioni sono giustificati non già dalla necessità di applicare l’accordo
quadro, ma da quella di incentivare l’occupazione delle persone anziane in Germania.
54 Ciò considerato, la prima questione, lett. a), va risolta dichiarando che la clausola 8, punto 3,
dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che non osta ad una normativa quale quella
controversa nella causa principale, la quale, per motivi connessi con la necessità di promuovere
l’occupazione e indipendentemente dall’applicazione del detto accordo, ha abbassato l’età oltre la
quale possono essere stipulati senza restrizioni contratti di lavoro a tempo determinato.
Sulla seconda e sulla terza questione
55 Con la seconda e la terza questione, che vanno esaminate congiuntamente, il giudice a quo vuole
in sostanza sapere se l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che
osta ad una normativa nazionale quale quella di cui alla causa principale che autorizza, senza
restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo
indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo
determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l’età di 52 anni. In caso affermativo, il giudice a
quo si interroga sulle conseguenze che al giudice nazionale spetta trarre da siffatta interpretazione.
56 Si deve a questo proposito ricordare che, conformemente all’art. 1, la direttiva 2000/78
mira a fissare un quadro generale per la lotta, in materia di occupazione e di lavoro, alle
discriminazioni fondate su uno dei motivi previsti da tale articolo, tra i quali, in particolare,
figura l’età.
57 Orbene, l’art. 14, n. 3, del TzBfG, nel prevedere la possibilità per i datori di lavoro di concludere
senza restrizioni contratti a tempo determinato con lavoratori che abbiano raggiunto l’età di 52 anni,
istituisce una disparità di trattamento fondata direttamente sull’età.
58 Dal momento che si tratta esattamente di disparità di trattamento fondate sull’età, l’art. 6,
n. 1, della direttiva 2000/78 dispone che gli Stati membri possono prevedere che siffatte
disparità di trattamento «non costituiscano discriminazioni laddove esse siano oggettivamente
e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima,
compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione
professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari».
Siffatte disparità possono in particolare riguardare, secondo lo stesso paragrafo, secondo
capoverso, lett. a), «la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla
formazione professionale, di occupazione di lavoro (…) per i giovani, i lavoratori anziani e i
lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la
protezione degli stessi», nonché, alle lett. b) e c), la fissazione di condizioni minime di età in
talune specifiche situazioni.
59 Come risulta dagli atti trasmessi alla Corte dal giudice a quo, tale normativa ha chiaramente lo
scopo di favorire l’inserimento professionale dei lavoratori anziani disoccupati se e in quanto questi
ultimi si trovano di fronte a difficoltà gravi nella ricerca di una nuova occupazione.
60 La legittimità di un siffatto obiettivo di interesse generale non può essere ragionevolmente messa
in discussione, come del resto Commissione ha essa stessa riconosciuto.
61 Pertanto, un obiettivo di tale natura deve, in linea di principio, ritenersi giustificare
«obiettivamente e ragionevolmente», come previsto dall’art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva
2000/78, una disparità di trattamento in ragione dell’età decretata dagli Stati membri.
62 Si deve ancora verificare, secondo la formulazione stessa della detta disposizione, se gli
strumenti attuati per realizzare tale legittimo obiettivo siano «appropriati e necessari» a tal fine.
63 A questo proposito, gli Stati membri dispongono incontestabilmente di un ampio margine di
valutazione discrezionale nella scelta delle misure atte a realizzare i loro obiettivi in materia di
politica sociale e di occupazione.
64 Tuttavia, come rilevato dal giudice a quo, l’applicazione di una normativa nazionale come
quella di cui alla causa principale approda ad una situazione nella quale indistintamente a
tutti i lavoratori che hanno raggiunto l’età di 52 anni, siano essi stati in disoccupazione o no
prima della conclusione del contratto e quale sia stata la durata del periodo dell’eventuale
disoccupazione, possono essere validamente proposti, fino all’età alla quale essi potranno far
valere il loro diritto alla pensione di vecchiaia, contratti di lavoro a tempo determinato
rinnovabili per un numero indefinito di volte. Questa importante categoria di lavoratori,
determinata esclusivamente in funzione dell’età, rischia pertanto, per una parte sostanziale
della carriera professionale dei detti lavoratori, di essere esclusa dal beneficio della stabilità
dell’occupazione, la quale costituisce pertanto, come risulta dall’accordo quadro, un elemento
portante della tutela dei lavoratori.
65 Una siffatta normativa, nella misura in cui considera l’età del lavoratore di cui trattasi come
unico criterio di applicazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, senza che sia stato
dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra
considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale
dell’interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell’obiettivo dell’inserimento
professionale dei lavoratori anziani in disoccupazione, deve considerarsi eccedente quanto è
appropriato e necessario per raggiungere la finalità perseguita. Il rispetto del principio di
proporzionalità richiede infatti che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare,
per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con l’esigenza del fine perseguito (v., in
questo senso, sentenza 19 marzo 2002, causa C-476/99, Lommers, Racc. pag. I-2891, punto 39).
Una siffatta normativa nazionale non può pertanto giustificarsi ai sensi dell’art. 6, n. 1, della
direttiva 2000/78.
66 La circostanza che, alla data della stipula del contratto, il termine di trasposizione della direttiva
2000/78 non era ancora scaduto non è tale da rimettere in discussione tale constatazione.
67 Infatti, in primo luogo, la Corte ha già giudicato che, in pendenza del termine per la
trasposizione di una direttiva, gli Stati membri devono astenersi dall’adottare disposizioni che
possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva stessa (sentenza
Inter-Environnement Wallonie, cit., punto 45).
68 A questo proposito poco rileva il fatto che la norma di diritto nazionale controversa, adottata
dopo l’entrata in vigore della direttiva di cui trattasi, riguardi o no la trasposizione di tale direttiva
(v., in questo senso, sentenza 8 maggio 2003, causa C-14/02, ATRAL, Racc. pag. I-4431, punti 58 e
59).
69 Orbene, nella causa principale, l’abbassamento da 58 a 52 anni dell’età oltre la quale è
possibile stipulare contratti di lavoro a tempo determinato, previsto dall’art. 14, n. 3, del
TzBfG, è intervenuto nel dicembre 2002 e tale misura dovrebbe essere applicata fino al 31
dicembre 2006.
70 Il solo fatto che, nella specie, tale disposizione scada il 31 dicembre 2006, cioè solo alcune
settimane dopo la scadenza della data di trasposizione che lo Stato membro interessato deve
rispettare, non è di per sé decisivo.
71 Infatti, da un lato, dalla formulazione stessa del secondo capoverso dell’art. 18 della
direttiva 2000/78 risulta che, qualora uno Stato membro, come nella specie la Repubblica
federale di Germania, decida di avvalersi di un periodo supplementare di tre anni a partire
dal 2 dicembre 2003 per trasporre tale direttiva, tale Stato presenta «ogni anno una relazione
alla Commissione sulle misure adottate per combattere le discriminazioni basate sull’età (…)
e sui progressi realizzati in vista dell’attuazione della direttiva».
72 Tale disposizione implica pertanto che lo Stato membro, che beneficia così eccezionalmente
di un termine di trasposizione più lungo, adotti progressivamente misure concrete al fine di
riavvicinare fin da tal momento la sua normativa al risultato prescritto da tale direttiva.
Orbene, tale obbligo sarebbe privato di ogni effetto utile se fosse consentito al detto Stato
membro di adottare, durante il termine di attuazione della stessa direttiva, misure
incompatibili con gli obiettivi di quest’ultima.
73 D’altro lato, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 96 delle sue conclusioni, al 31
dicembre 2006 una gran parte dei lavoratori soggetti alla normativa controversa nella causa
principale – tra cui il sig. Mangold – avrà compiuto il 58esimo anno di età e ricadrà quindi ancora
nel regime speciale istituito dall’art. 14, n. 3, del TzBfG, di modo che, per tale categoria di persone,
l’esclusione dalla garanzia della stabilità dell’occupazione per mezzo di un contratto di lavoro a
tempo indeterminato è già definitiva, a prescindere dalla scadenza, alla fine dell’anno 2006,
dell’applicabilità della condizione di età fissata in 52 anni.
74 In secondo luogo, e soprattutto, la direttiva 2000/78 non sancisce essa stessa il principio della
parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro. Infatti, tale direttiva, ai sensi del suo art.
1, ha il solo obiettivo di «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla
religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali», dal momento che il
principio stesso del divieto di siffatte forme di discriminazione, come risulta dai ‘considerando’ 1 e
4 della detta direttiva, trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri.
75 Il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve pertanto essere considerato un
principio generale del diritto comunitario. Quando una normativa nazionale rientra nella sfera di
applicazione di quest’ultimo, come è il caso dell’art. 14, n. 3, del TzBfG, modificato dalla legge del
2002, in quanto misura di attuazione della direttiva 1999/70 (v., a questo proposito, i punti 51 e 64
della presente sentenza), la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di
interpretazione necessari alla valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità della
detta normativa con tale principio (v., in questo senso, sentenza 12 dicembre 2002, causa C-442/00,
Rodríguez Caballero, Racc. pag. I-11915, punti 30-32).
76 Di conseguenza, il rispetto del principio generale della parità di trattamento, in particolare in
ragione dell’età, non dipende, come tale, dalla scadenza del termine concesso agli Stati membri per
trasporre una direttiva intesa a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate
sull’età, in particolare per quanto riguarda l’organizzazione degli opportuni strumenti di ricorso,
l’onere della prova, la protezione contro le ritorsioni, il dialogo sociale, le azioni positive e altre
misure specifiche di attuazione di una siffatta direttiva.
77 Ciò considerato, è compito del giudice nazionale, adito con una controversia che mette in
discussione il principio di non discriminazione in ragione dell’età, assicurare, nell’ambito della sua
competenza, la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, garantendone la piena
efficacia e disapplicando le disposizioni eventualmente configgenti della legge nazionale (v., in
questo senso, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc., pag. 629, punto 21, e 5
marzo 1998, causa C-347/96, Solred, Racc. pag. I-937, punto 30).
78 Considerato tutto quanto sopra, la seconda e la terza questione vanno risolte dichiarando che il
diritto comunitario e, in particolare, l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 devono essere interpretati
nel senso che ostano ad una normativa nazionale quale quella controversa nella causa principale, la
quale autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente
contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di
contratti di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l’età di 52 anni.
È compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del principio generale di non
discriminazione in ragione dell’età disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale,
anche quando il termine di trasposizione della detta direttiva non è ancora scaduto.
Sulle spese
79 Nei confronti delle parti della causa principale il presente procedimento costituisce un incidente
sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da
altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) La clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo
1999 e attuato con la direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo
quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretata nel senso che
non osta ad una normativa quale quella controversa nella causa principale, la quale, per motivi
connessi con la necessità di promuovere l’occupazione e indipendentemente dall’applicazione del
detto accordo, ha abbassato l’età oltre la quale possono essere stipulati senza restrizioni contratti di
lavoro a tempo determinato.
2) Il diritto comunitario e, in particolare, l’art. 6, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 novembre
2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazioni e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una
normativa nazionale, quale quella controversa nella causa principale, la quale autorizza, senza
restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo
indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo
determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l’età di 52 anni.
È compito del giudice nazionale assicurare la piena efficacia del principio generale di non
discriminazione in ragione dell’età disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale,
anche quando il termine di trasposizione della detta direttiva non è ancora scaduto.
Cassazione Civile, Sez. Lavoro, 12 marzo 2004, n. 5159
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Stefano
CICIRETTI - Presidente Dott. Pietro
CUOCO
- Consigliere Dott. Luciano
VIGOLO
- Rel.Consigliere Dott. Attilio
CELENTANO - Consigliere Dott. Paolo
STILE
- Consigliereha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIA S. COSTANZA 27, presso lo
studio dell'avvocato ARMANDO MONTEMARANO, che lo rappresenta e
difende unitamente all'avvocato ANDREA SOLFANELLI, giusta delega in
atti;
- ricorrente contro
BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO
VITTORIO EMANUELE Il 326, presso lo studio dell'avvocato RENATO
SCOGNAMIGLIO, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale
atto notar MARIO LIGUORI di ROMA DEL 5/11/2001, rep. 126774;
- resistente con procura avverso la sentenza n. 37753/00 del Tribunale di ROMA, depositata il
28/11/00 R.G.N. 54855/95;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
26/11/03 dal Consigliere Dott. Luciano VIGOLO;
udito l'Avvocato FERDINANDO MENETTI per delega ARMANDO
MONTEMARANO;
udito l'Avvocato CLAUDIO SCOGNAMIGLIO per delega RENATO
SCOGNAMIGLIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Giuseppe NAPOLETANO che ha concluso per l'accoglimento del ricorso
per quanto di ragione.
Inizio documento
Fatto
Con atto 14 novembre 1994, il sig. F.P. ricorreva al Pretore di Roma nei
confronti della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. chiedendo che fosse
dichiarata l'inefficacia delle dimissioni rassegnate alla stessa il 6 aprile 1990 e
accettate dalla Banca il 28 maggio 1990 (v. anche atto di appello), in
condizioni di assoluta incapacità di intendere e di volere e che fosse ordinata la
propria reintegrazione nel posto dl lavoro con attribuzione di un equo
indennizzo
per
le
mancate
retribuzioni
nel
periodo
intermedio.
Con sentenza in data 27 marzo 1995, il Pretore rigettava la domanda e il
Tribunale dl Roma, con sentenza 17 novembre 1999 /28 novembre 2000,
rigettava
l'appello
del
lavoratore.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre F.P. con tre motivi.
Resiste la Banca Nazionale del Lavoro con controricorso, memoria e
osservazioni scritte, rispettivamente, ex artt. 378 e 379 c.p.c..
Inizio documento
Diritto
Col primo motivo, il ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione,
laddove il Tribunale ha, da un lato, dato credito alle conclusioni del consulente
tecnico di ufficio, che aveva ritenuto probabile la presenza dei disturbi sopra
indicati anche al tempo della sottoscrizione delle dimissioni, talché 'la capacità
di intendere e di volere era scemata, essa era agita sotto l'influenza della fase
prevalente del momento, che in ogni caso impediva una valutazione critica
obiettiva della realtà e delle eventuali conseguenze'; e, d'altro lato, il giudice di
appello aveva poi ritenuto non sussistente l'incapacità all'atto delle dimissioni.
Col secondo motivo, deducendo la violazione dell'art. 428 c.civ., il lavoratore si
duole che il Tribunale abbia rigettato l'appello non essendovi certezza che
all'atto delle dimissioni egli versasse in stato di incapacità naturale totale. Per
contro, la giurisprudenza è costante nel ritenere sufficiente, ai fini
dell'annullamento dell'atto, una menomazione, anche non totale, delle facoltà
intellettive, tale da impedire una seria valutazione dei propri atti.
Col terzo motivo, il ricorrente deduce errore di fatto quanto alla ritenuta
insussistenza dell'incapacità di intendere e di volere e omessa motivazione sul
punto, per non avere il giudice di appello motivato il dissenso dalle conclusioni
del consulente di ufficio in punto di sussIstenza dell'incapacità naturale al
momento delle dimissioni (incapacità correttamente intesa dal consulente nel
senso
accettato
dalla
giurisprudenza
sopra
richiamata).
I tre motivi, che per la stretta connessione delle censure meritano trattazione
congiunta,
sono
fondati.
Il giudice di appello ha rilevato che il consulente tecnico d'ufficio aveva
accertato che nel 1991 il lavoratore presentava i sintomi di un disturbo
bipolare, trattato con terapia farmacologica, con sintomi di un disturbo
schizoaffettivo, caratterizzato da fasi di eccitamento alternate a fasi
depressive, onde, secondo il consulente, era probabile la sussistenza di tali
disturbi anche all'epoca delle dimissioni: essi scemavano, ma non annullavano
la capacità dl intendere e di volere, impedendo al soggetto una valutazione
critica della realtà e delle eventuali conseguenze del proprio operato. Siffatta
conclusione era, secondo il Tribunale, adeguatamente motivata e si estendeva,
seppure in termini probabilistici, alle condizioni del lavoratore al tempo delle
dimissioni.
Peraltro, ha ulteriormente argomentato il giudice di appello, l'oggettività
riscontrata, in termini probabilistici, dal consulente di ufficio, non consentiva di
ritenere l'incapacità di intendere e di volere (al momento delle dimissioni),
perché gli intervalli tra le crisi depressive e maniacali non consentivano di
accertare il grado di intensità della perdita della capacità di intendere e di
volere
nel
corso
di
ciascuna.
Se, dunque, era 'fortemente probabile' la riduzione di detta capacità, non
poteva ritenersi con certezza che l'incapacità naturale fosse stata totale all'atto
delle
dimissioni.
Per contro, costituivano sintomi della conservazione di essa a quel momento,
l'incidenza della sintomatologia discontinua sul piano dell'affettività, anziché su
quello della cognizione, l'attuale stato di remissione e la circostanza che,
all'epoca, vi fu la negoziazione di un non indifferente premio finale,
caratterizzata da una oggettiva 'normalità formale ed economica dell'atto di
dimissioni', tale da escludere che esse siano state sottoscritte in stato di
incapacità
naturale.
Siffatte argomentazioni del giudice dl appello non resistono alle critiche del
ricorrente
sopra
riportate.
In realtà, il Tribunale dopo avere ritenuto, secondo il canone corretto di una
probabilità molto elevata, la ricorrenza di una riduzione della capacità dl
intendere o di volere all'epoca delle dimissioni, ha poi ritenuto non provata tale
l'incapacità nel momento stesso in cui le dimissioni vennero sottoscritte.
Deve essere, a tale proposito, ricordata la giurisprudenza di questa Corte (cfr.
Cass. 14 maggio 2003, n. 7485; 15 giugno 1995, n. 6756) secondo cui, "ai fini
della sussistenza dell'incapacità di intendere o di volere, costituente causa di
annullamento del negozio (nella specie, dimissioni) non occorre la totale
privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la
menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà
cosciente, secondo un giudizio che è riservato al giudice del merito ed è
incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato".
Questa Corte suprema (v. Cass. 29 luglio 1968, n. 2725) ha altresì affermato
che quando esista una situazione di malattia mentale di carattere permanente
(e sul punto, l'indagine del Tribunale non ha indugiato nel considerare se il
'disturbo bipolare' dal quale era affetto il F.P. nel 1991 e, verosimilmente,
secondo il consulente di ufficio, anche nell'aprile - maggio 1990, avesse le
caratteristiche di una situazione di malattia mentale di carattere
tendenzialmente permanente, seppure caratterizzata da fasi alterne) è onere
del soggetto che sostiene la validità dell'atto dar prova che esso fu posto in
essere durante un lucido intervallo', tanto più che la malattia bipolare, come
posto in evidenza anche dai giudice di merito, alla luce della consulenza di
ufficio, presenta la caratteristica di alternanza di fasi depressive e di fasi di
eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo, di talché
(contrariamente a quanto giudicato dal Tribunale) potrebbe non essere di per
sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto in essere nell'una o
nell'altra fase, considerato che in entrambi i casi potrebbe essere esistita
incapacità
di
intendere
oppure
di
volere,
seppure
non
totale.
Anche per la incapacità di intendere o di volere non totale può essere
richiamato il principio, generalmente enunciato per l'incapacità totale (Cass. 28
marzo 2002, n. 4539), secondo cui, accertata la incapacità di un soggetto in
due determinati periodi prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la
sussistenza dell'incapacità è assistita da presunzione 'iuns tantum', sicché, in
concreto, si verifica l'inversione dell'onere della prova, nel senso che, in siffatti
ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia
agito
in
una
fase
di
lucido
intervallo.
Vero è che, secondo la giurisprudenza di questa Corte la valutazione in ordine
alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e
non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata, ma è proprio
l'adeguatezza della motivazione, a tale riguardo, che difetta nella sentenza
impugnata la quale è incorsa altresì nella violazione dell'art. 428 c.p.c., nel
pretendere che l'incapacità di intendere e di volere dovesse essere totale ai fini
dell'annullamento
dell'atto.
Del pari incongrua è l'ulteriore sottolineatura, da parte del Tribunale, della
incidenza della sintomatologia sul piano dell'affettività, anziché su quello della
cognizione, senza alcun approfondimento sul punto se vi fosse stata, tuttavia,
una incidenza sulla 'volizione' delle dimissioni e, a tal proposito, non sono
affatto pertinenti, né comunque decisive, le considerazioni del Tribunale circa
la complessità della valutazione sulla convenienza di addivenire ad una forma
di dimissioni incentivate dalla corresponsione di un 'premio finale' (oltretutto,
dopo avere posto in luce che, anche in tale ipotesi, permaneva la caratteristica
di atto unilaterale del recesso del lavoratore), non essendosi accertato, sul
piano della capacità di intendere, che per il solo fatto della ritenuta complessità
delle valutazioni che il lavoratore avrebbe dovuto operare, il soggetto sia stato
in grado, malgrado la patologia accertata, di determinarsi consapevolmente
con valutazioni adeguate e, sul piano della capacità di volere, che la volontà
del soggetto non fosse pregiudicata da una delle fasi caratteristiche del
'disturbo
bipolare'
Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, la sentenza
impugnata deve essere annullata e la causa deve essere rinviata ad altro
giudice di eguale grado, designato in dispositivo, il quale, tenuto conto dei
rilievi che precedono in punto di vizi di motivazione, dovrà riesaminare la
controversia adeguandosi ai seguenti principi di diritto: "1) Ai fini della
sussistenza dell'incapacità di intendere e di volere, costituente causa di
annullamento del negozio (nella specie, dimissioni), non occorre la totale
privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la
menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà
cosciente. 2) Quando esista una situazione di malattia mentale di carattere
tendenzialmente permanente, o protraentesi per un rilevante periodo, è onere
del soggetto che sostiene la validità dell'atto dar prova che esso fu posto in
essere, in quel periodo, durante un momento di remissione della patologia. 3)
In presenza di 'malattia bipolare', caratterizzata dalla alternanza di fasi
depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo,
può non essere di per sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto in
essere nell'una o nell'altra fase, considerato che in entrambe le ipotesi
potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure di volere".
Allo stesso giudice è opportuno demandare anche il regolamento delle spese
del giudizio dì cassazione.
Inizio documento
P.Q.M
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa
anche
per
le
spese
alla
Corte
di
appello
di
L'Aquila.
Così
deciso
in
Roma,
addì
26
novembre
2003.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 MAR. 2004
Cassazione civile, SEZIONE III, 25 novembre 2003, n. 17915
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Ernesto
LUPO
- Presidente Dott. Ennio
MALZONE - Consigliere Dott. Antonio
SEGRETO - Consigliere Dott. Alberto
TALEVI - Consigliere Dott. Gianfranco MANZO
- Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BENUCCI ANACLETO quale erede beneficiario di CAVAGNA GIUSEPPA,
elettivamente domiciliato in ROMA VIA G.FERRARI 11, presso lo studia
dell'avvocato DINO VALENZA, che lo difende unitamente all'avvocato
ERNESTO VITIELLO, giusta delega in atti;
- ricorrente contro
POLENGHI GIANCARLO, POLENGHI MAURIZIO, elettivamente domiciliati in
ROMA VIA MANGILI 3, presso lo studio dell'avvocato OTTAVIO MAROTTA,
che li difende anche disgiuntamente all'avvocato ISETTA PINTO, giusta
delega in atti;
- controricorrenti avverso la sentenza n. 2447-99 della Corte d'Appello di MILANO,
Sezione II Civile, emessa il 22-09-99 e depositata il 05-10-99 (R.G.
3145-96);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
04-07-03 dal Consigliere Dott. Gianfranco MANZO;
udito l'Avvocato Paolo PACIFICI (per delega Avv. Dino VALENZA);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Pietro ABBRITTI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Inizio documento
Fatto
Il Presidente del Tribunale di Milano, su ricorso di Luigi Polenghi, autorizzava il
sequestro conservativo sui beni di Giuseppa Cavagna. Il Polenghi affermava di
essere creditore della somma di lire 110.000.000 per vari finanziamenti fatti in
favore della Cavagna quale esercente un'attività commerciale, poi ceduta a
Renato Viganò. Il Polenghi citava quindi in giudizio la Cavagna per la convalida
del sequestro e per la condanna della stessa al pagamento della somma di lire
95.000.000. Si costituiva la convenuta, che contestava l'autorizzazione del
sequestro e chiedeva il rigetto della domanda, previa declaratoria di invalidità
della scrittura dell'11 febbraio 1986, perché effetto di circonvenzione
d'incapace. Il Tribunale annullava la scrittura in data 11 febbraio 1986, ai sensi
dell'art. 428 c.c., e respingeva la domanda. Giancarlo Polenghi e Maurizio
Polenghi, quali eredi di Luigi Polenghi, proponevano appello. Si costituiva
Anacleto Benucci, quale erede di Giuseppa Cavagna, contestando il
fondamento dell'impugnazione. La Corte d'appello accoglieva l'appello,
convalidava il sequestro e condannava Anacleto Benucci, quale erede della
Cavagna al risarcimento del danno nella misura di lire 95.000.000, con la
rivalutazione
e
gli
interessi.
Avverso questa sentenza Anacleto Benucci, quale erede beneficiato di
Giuseppa Cavagna propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
Resistono con controricorso Giancarlo e Maurizio Polenghi. Il Benucci ha
presentato memoria.
Inizio documento
Diritto
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli
artt. 112, 680 e 345 c.p.c. e 1988 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato
dalle parti. Il Polenghi nel giudizio di convalida del sequestro aveva azionato
solo una scrittura del 1985, ritenuta dai giudici di primo grado priva di ogni
valenza giuridica non implicando un riconoscimento di debito. Solo in appello
era stata azionata anche la scrittura del 1986, ma trattavasi evidentemente di
domanda nuova che doveva essere dichiarata inammissibile d'ufficio ex art.
345 c.p.c. La Corte d'appello aveva invece ritenuto valido l'atto di ricognizione
di debito dell'11 Febbraio 1986, così violando l'art. 345 c.p.c.
Il
motivo
è
infondato.
Il ricorrente muove dall'assunto che il Polenghi "nel giudizio di merito di
convalida del sequestro...aveva azionato solo la scrittura del 1985". Di qui la
violazione delle norme indicate, per avere la Corte d'appello considerato l'atto
di
ricognizione
del
debito
dell'11
febbraio
1986.
Questa premessa è tuttavia errata, poiché come risulta dalla sentenza
impugnata già in primo grado era stata considerata la scrittura del 1986, tanto
che era stata annullata a norma dell'art. 428 c.c. Non si riscontra dunque la
violazione di legge lamentata, mentre non è dato comprendere in cosa
consisterebbe il vizio di motivazione, essendo la sentenza adeguatamente
motivata e fondata su una ratio decidendi di chiara e immediata comprensione.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 428 c.c.
nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che
la sentenza impugnata, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di primo
grado e disattendendo la perizia medico legale, aveva ritenuto la Cavagna
capace d'intendere e di volere nel febbraio 1986. Più specificamente,
considerate talune deposizioni rese sia in sede civile che penale e la consulenza
tecnica, il ricorrente rileva che la Corte d'appello, pur riconoscendo che la
Cavagna era affetta da una forma di Alzheimer di grado medio nel maggio
1987, non aveva tenuto conto che, come evidenziato dalla consulenza in atti e
dalle deposizioni dei medici, già qualche anno prima erano venute meno le
capacità mentali e decisionali della stessa. In conclusione, la Corte territoriale
non aveva preso in esame tutti gli elementi di causa, motivando in maniera
insufficiente
il
proprio
giudizio.
Anche
questo
motivo
è
privo
di
fondamento.
L'indagine circa l'esistenza dell'incapacità di intendere e di volere del soggetto
nel momento in cui ha posto in essere l'atto del quale è chiesto l'annullamento
a norma dell'art. 428 cod. civ. costituisce un apprezzamento di fatto sottratto
al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata ed
esente da vizi (Cass. 28 marzo 1993, 2002, n. 4539; Cass. 25 ottobre 1997, n.
10505;
Cass.
15
giugno
1995,
n.
6756).
Ciò premesso, non si rileva alcuna violazione di legge essendo i giudici
d'appello pervenuti alla conclusione, con valutazione come si è detto
insindacabile in questa sede, che non ricorrevano le condizioni per
l'annullamento della scrittura in questione. Peraltro, dallo stesso svolgimento
del motivo risulta evidente che sotto la rubrica della violazione di legge si
censura inammissibilmente il convincimento espresso dai giudici di merito circa
l'insussistenza
dell'incapacità
d'intendere
e
di
volere.
Non
sussiste
neppure
il
lamentato
vizio
di
motivazione.
La sentenza impugnata ha proceduto all'esame della consulenza tecnica
d'ufficio, pervenendo alla conclusione che da questa non si evinceva con
certezza che la Cavagna fosse incapace d'intendere e di volere al momento
della sottoscrizione della scrittura, non solo perché il giudizio medico - legale
era espresso in termini di probabilità, ma anche perché si basava su una
documentazione concernente indagini eseguite un anno dopo la formazione
della scrittura e sul colloquio con la perizianda avvenuto nel novembre 1991.
Ha inoltre considerato la relazione tecnica del reparto di neurologia
dell'Ospedale Niguarda, la deposizione del teste Montagnolo e il parere medico
legale del prof. Rossella pervenendo alla conclusione che una menomazione,
anche solo transitoria, delle facoltà intellettive e volitive della Cavagna al
momento di sottoscrizione della scrittura, seppure ipotizzabile, non era affatto
provata; mentre non era sostenibile che l'atto fosse stato firmato in una
situazione
di
sopraffazione
nei
confronti
della
stessa.
Da quanto esposto e considerato il contenuto del motivo di ricorso, emerge
chiaro che il ricorrente non porta all'attenzione di questa Corte una carenza di
effettiva logica nella motivazione della sentenza impugnata o di
contraddittorietà all'interno della stessa, ma contesta direttamente le
valutazioni espresse dalla Corte di merito in ordine alla ritenuta insussistenza
dell'incapacità d'intendere e di volere. La sentenza impugnata appare
comunque adeguatamente e logicamente motivata e non si rileva la
pretermissione di elementi decisivi, tali non potendo essere considerati gli
stralci di deposizione riportati nel ricorso dei testi escussi in sede penale e in
sede
civile.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione
dell'art. 1988 c.c. nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
su
un
punto
decisivo
della
controversia.
Il ricorrente muove dall'assunto che il riconoscimento di debito non spiega
effetto se chi lo ha compiuto dimostra l'insussistenza del rapporto
fondamentale. Rileva quindi l'incongruenza tra il totale presuntivamente
dovuto dalla Cavagna in base ai documenti prodotti in appello, pari a lire
16.553.472, e l'importo di cui i Polenghi si vantavano creditori e lamenta che la
sentenza impugnata non spiegava perché la Cavagna era tenuta al pagamento
della
somma
di
lire
95.000.000.
Il
motivo
è
infondato.
La ricognizione di debito, al pari della promessa di pagamento, non costituisce
autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un
preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell' art.
1988 c.c. un'astrazione meramente processuale della causa debendi,
comportante una semplice relevatio ab onere probandi per la quale il
destinatario della promessa è dispensato dall'onere di provare l'esistenza del
rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (v. per es. Cass.
11 dicembre 2000, n. 15575; Cass. 9 febbraio 2001, n. 1831; Cass. 10 agosto
2002,
n.
11426).
La Corte d'appello di Milano ha fatto applicazione del principio sopra enunciato,
ritenendo, con valutazione non sindacabile in questa sede in quanto
esaurientemente motivata, che la parte obbligata non aveva fornito la prova
dell'inesistenza o dell'invalidità del rapporto oggetto di riconoscimento. Anzi, la
Corte di merito si è spinta a rilevare che la pretesa creditoria era suffragata
dalla
prova
orale
e
da
quella
documentale.
Non si ravvisa dunque alcuna violazione di legge nè vizio di motivazione.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1224 c.c.,
nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza
impugnata, deducendo che, trattandosi di un debito di valuta, doveva essere
fornita la prova del maggior danno per poter liquidare la rivalutazione
monetaria. E nel caso di specie la prova non era stata data.
Il
motivo
è
fondato.
Benché nella sentenza impugnata la condanna alla somma di lire 95.000.000
sia considerata "risarcimento danni conseguenti all'inadempimento", si versa in
effetti in ipotesi di debito di valuta, in quanto la pretesa è fondata su un
riconoscimento del debito ex art. 1988 c.c., mentre i rapporti sottostanti ai
quali si fa riferimento nella sentenza sono quelli relativi, a canoni di locazione,
a
finanziamenti
e
ad
attività
di
collaborazione.
Come costantemente affermato da questa Corte, la natura di debito di valuta,
soggetto al principio nominalistico, comporta che la rivalutazione monetaria
non può essere automaticamente riconosciuta, dovendo essere, a norma
dell'art. 1224 secondo comma c.c., provato il maggior danno, sia pure a mezzo
di presunzioni (v. per es. Cass. 26 febbraio 2002, n. 2823; Cass. 30 dicembre
2002,
n.
122;
Cass.
27
novembre
2001,
n.
15033).
Erroneamente dunque la sentenza impugnata ha liquidato la rivalutazione
monetaria secondo gli indici Istat senza alcun riferimento al maggior danno
subito.
Con il quinto motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione
dell'art. 490 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
su un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti. Lamenta che
egli aveva accettato l'eredità con beneficio d'inventario, come dedotto nella
comparsa d'appello, per cui la condanna doveva essere limitata al valore dei
beni
a
lui
pervenuti.
Il
motivo
è
inammissibile.
Nella causa non si discute degli effetti dell'accettazione con beneficio
d'inventario che il ricorrente, succeduto nel processo a norma dell'art. 110
c.p.c. assume di aver fatto, ma dell'obbligazione della Cavagna nei confronti
degli attori. È dunque estranea al thema decidendum la questione dei limiti del
pagamento del debiti ereditari, con conseguente inammissibilità del motivo.
Per quanto detto, vanno rigettati i primi tre motivi e va dichiarato
inammissibile
il
quinto,
mentre
va
accolto
il
quarto
motivo.
Alla cassazione della sentenza in relazione al motivo accolto non deve seguire il
rinvio, ma una pronuncia nel merito, che dichiari che non è dovuta la
rivalutazione monetaria sul debito della Cavagna e, quindi, del suo erede
Benucci,
fermi
ovviamente
restando
gli
interessi.
La pronuncia è autorizzata dall'art. 384 c.p.c., perché non sono necessari
accertamenti di merito per applicare alla domanda il principio di diritto sopra
indicato
sulla
base
del
quale
il
motivo
è
stato
accolto.
Sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese del
giudizio per cassazione, mentre si conferma la condanna alle spese così come
contenuta nella sentenza impugnata.
Inizio documento
P.Q.M
La Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso, accoglie il quarto e dichiara
inammissibile il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e, pronunziando nel merito, esclude la rivalutazione monetaria sul
debito del Benucci. Conferma la pronunzia delle spese in appello. Compensa le
spese
del
giudizio
di
cassazione.
Così deciso in Roma il 4 luglio 2003.
Cassazione civile, SEZIONE LAVORO, 14 maggio 2003, n. 7485
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dai Magistrati:
Dott. Guglielmo SCIARELLI - Presidente
Dott. Alberto SPANÒ
- Consigliere
Dott. Giovanni MAZZARELLA - Consigliere
Dott. Guido
VIDIRI
- Consigliere
Prof. Bruno
BALLETTI - Cons. relatore
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso r. g. 16598-2000 proposto da:
BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA s.p.a., in persona del suo legale
rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Renato
Scognamiglio, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in
Roma al Corso Vittorio Emanuele II n. 326, giusta procura per notar
Vieri Grillo in data 13 luglio 2000 n. rep. 133027;
- ricorrente principale contro
D'AGNONE RAFFAELE, rappresentato e difeso dall'avv. Mauro Rufini,
presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma al viale
Vaticano n. 46, giusta procura in calce al "controricorso e ricorso
incidentale";
- controricorrente NONCHÈ
sul ricorso r. g. 16944-2000 proposto da:
D'AGNONE RAFFAELE, rappresentato, difeso ed elettivamente domiciliato
come dinanzi indicato;
- ricorrente principale contro
BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA s.p.a., in persona del suo legale
rappresentante pro tempore, rappresentata, difesa ed elettivamente
domiciliata come dinanzi indicato;
- controricorrente NONCHÈ
sul ricorso incidentale r. g. 17528-2000 proposto da:
D'AGNONE RAFFAELE, rappresentato, difeso ed elettivamente domiciliato
come dinanzi indicato;
- ricorrente incidentale contro
BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA s.p.a., in persona del suo legale
rappresentante pro tempore, rappresentata, difesa ed elettivamente
domiciliata come dinanzi indicato;
- controricorrente avverso la sentenza del Tribunale di Foggia - Sezione Lavoro n.
785-2000 del 5 giugno 2000 (resa nel giudizio di appello avente il n.
di r. g. 2045-1998), notificata in data 27 giugno 2000.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3
dicembre 2002 dal consigliere Bruno Balletti;
Uditi gli avv.ti Claudio Scognamiglio (per delega dell'avv. Renato
Scognamiglio) e Mauro Rufini;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Giuseppe Napoletano, che ha così concluso: "previa riunione, rigetto
ricorso principale, inammissibili il ricorso incidentale ed il
ricorso autonomo del D'Agnone".
Inizio documento
Fatto
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. al Pretore - Giudice del Lavoro di Foggia
Raffaele
D'Agnone
conveniva
in
giudizio
la
s.p.a.
"Banca Monte dei Paschi di Siena" (in acronimo: BMPS) esponendo: *) di
essere stato assunto dalla cennata Banca in data 7 gennaio 1980;
*) di avere inviato alla datrice di lavoro in data 20 dicembre 1992 un certificato
medico comprovante una grave forma di esaurimento nervoso; *) di avere
richiesto alla BMPS in data 28 dicembre 1992 e reiterato la richiesta in data 30
gennaio 1993 di essere autorizzato a svolgere l'attività lavorativa part - time e
di avere avuto respinte entrambe tali richieste dalla Banca; *) di avere
richiesto un periodo di congedo retribuito con decorrenza dal mese di febbraio
1993 e di avere avuto respinta dalla Banca anche tale richiesta; *) di avere
presentato (a partire dal mese di aprile 1993) domande di trasferimento, di
aspettativa per malattia e di congedo per motivi di salute e che pure tale
richieste erano state respinte dalla Banca; *) di essere stato sottoposto su
disposizione della BMPS a visita medica ex art. 5 della legge n. 300-1970 e,
all'esito di tale visita, di avere ricevuto la comunicazione di riprendere
immediatamente servizio; *) di avere richiesto di usufruire dell'intero periodo
di ferie spettantegli, al termine del quale - per effetto dell'accoglimento della
richiesta di dimissioni rassegnate in data 7 settembre 1993 - era stato estinto
il proprio rapporto di lavoro con la Banca; *) "che, al momento in cui aveva
presentato richiesta di dimissioni, le sue capacità di valutazione dei dati della
realtà erano falsate, a motivo della grave crisi depressiva nella quale era
caduto a far data dal 1992". Il ricorrente richiedeva, quindi, all'adito Giudice
del Lavoro "di ripristinare il suo rapporto di lavoro, previo annullamento delle
dimissioni rassegnate ex art. 428, primo comma, cod. proc. civ., nonché la
condanna della Banca al risarcimento dei danni corrispondendogli le
retribuzioni medio tempore maturate ed alla ricostruzione della sua posizione
assicurativa e contributiva, il tutto con condanna al pagamento delle spese
legali".
Si costituiva in giudizio la s.p.a. BMPS che impugnava integralmente la
domanda
attorea
e
ne
chiedeva
il
rigetto.
Il Pretore - Giudice del Lavoro accoglieva parzialmente la domanda attorea e su appello principale della BMPS e appello incidentale del D'Agnone - il
Tribunale di Foggia (quale Giudice del Lavoro di secondo grado) "rigetta (va)
l'appello principale e quello incidentale e per l'effetto conferma (va) la sentenza
pretorile,
compensa
(va)
le
spese".
Per quello che rileva in questa sede il Giudice di appello ha rimarcato che: a) "il
c. t.u. dott. Ciampone, chiamato a stabilire se al momento delle dimissioni
richieste dal D'Agnone alla BMPS, l'originario ricorrente versasse in uno stato di
incapacità di intendere e di volere, ha ritenuto, sulla base dell'esame della
documentazione medica relativa al periodo immediatamente antecedente a
quello in cui il D'Agnone rassegnava le dimissioni, che nel momento e quindi
sulla base della quantità e qualità dei sintomi espressi (astenia, depressione
del tono dell'umore, sentimenti di incapacità, ricerca di protezione, idee
persecutorie allargate ai contesti familiari e lavorativo, compromissione della
capacità di giudizio, di critica ed incapacità di valutare le conseguenze degli
altrui comportamenti) che il D'Agnone al momento in cui rassegnava le
dimissioni fosse affetto da un disturbo depressivo maggiore"; b) "le conclusioni
dell'espletata c. t. u. inducono a ritenere che al momento in cui il D'Agnone
presentava le dimissioni, si trovava in uno stato di incapacità di intendere e di
volere tale da impedirgli di percepire con esattezza il significato delle sue azioni
e rendersi conto delle conseguenze pregiudizievoli che dalle stesse sarebbero
potute derivare"; c) "ai fini della prova dello stato di incapacità di intendere e
di volere, non si ritiene sia necessario dimostrare che al momento del
compimento dell'atto il soggetto fosse in uno stato di totale privazione delle
facoltà intellettive e volitive, essendo piuttosto sufficiente fornire la prova che
le stesse fossero scemate in modo tale da ostacolare il normale processo di
valutazione dei propri atti"; d) "le valutazioni effettuate dal dottor Ciamponi,
nonché quelle svolte dai medici che hanno visitato il D'Agnone in epoca
anteriore, appaiono sufficienti ai fini della dimostrazione che l'originario
ricorrente al momento del compimento dell'atto si fosse trovato in uno stato di
menomazione delle capacità valutative, dato che le stesse appaiono complete
ed accurate"; e) "circa la prova del grave pregiudizio, la circostanza che un
soggetto rimanga privo del posto di lavoro costituisce di per sè sola prova del
fatto che al soggetto sia derivato un pregiudizio grave avendo egli perso la
propria
fonte
di
reddito".
Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. "Banca Monte dei Paschi di Siena"
propone
ricorso
affidato
ad
un
unico
motivo.
Resiste con controricorso l'intimato Raffaele D'Agnone il quale ha proposto sia
un proprio autonomo ricorso (notificato il 28-29 agosto 2000), sia ricorso
incidentale (notificato il 16 settembre 2000) e, successivamente, ha depositato
memoria
ex
art.
378
cod.
proc.
civ..
Anche la s.p.a. "Banca Monte dei Paschi di Siena" ha depositato memoria ex
art. 378 cod. proc. civ. limitandosi a contrastare la cennata impugnativa del
D'Agnone.
Inizio documento
Diritto
I -. Deve essere disposta la riunione dei ricorsi summenzionati in quanto
proposti contro la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.).
II -. Con l'unico motivo del ricorso "principale" (r. g. 16598-2000) la Banca
Monte dei Paschi di Siena s.p.a. - denunziando "violazione dell'art. 428 cod.
civ. anche in relazione agli artt. 2697 cod. civ. e 116 cod. proc. civ. e vizi di
motivazione" - addebita, sotto un primo profilo, al Giudice di appello "di essersi
limitato a recepire in maniera assolutamente apodittica e tautologica le
risultanze della consulenza tecnica di ufficio e d'avere completamente omesso
di considerare circostanze fattuali o elementi documentali - ritualmente
acquisiti agli atti di causa ed evidenziati dalla Banca in sede di gravame - che
avrebbero imposto una conclusione radicalmente difforme da quella in effetti
recepita dal Tribunale di Foggia in ordine alla sussistenza dello stato di
incapacità naturale... non tenendo conto delle deduzioni e circostanze
evidenziate nella consulenza tecnica di parte del dott. Salvatore Ruggiero" e,
sotto un secondo profilo, censura la sentenza impugnata per non avere il
Giudice di appello considerato che "le dimissioni volontarie del lavoratore, in
quanto atto espressamente previsto e disciplinato dalla legge, non possono
ritenersi per loro intrinseca natura pregiudizievoli per il dipendente, ai fini
dell'annullabilità per incapacità naturale, [atteso che] la valutazione del grave
pregiudizio non deve contemplare le sole ricadute patrimoniali dell'atto, ma
anche quelle psicologiche, familiari e sociali, abbracciando tutta la sfera degli
interessi
del
soggetto".
Con l'unico motivo del ricorso "principale" (r. g. 16944-2000) Raffaele
D'Agnone chiede "la cassazione e l'annullamento della ricorsa sentenza del
Tribunale di Foggia, nella parte in cui non gli ha concesso di poter ottenere il
recupero delle somme medio tempore maturate, ovvero pure di quelle relative
al periodo intercorso tra le dimissioni prestate, senza averne consapevolezza e
coscienza, e la data dell'effettivo reintegro. Si chiede ulteriormente che si
voglia ordinare la ricostruzione ed il recupero di tutto quanto nello stesso
periodo maturato al proposito delle percezioni e dei versamenti assicurativi,
contributivi e previdenziali propri del rapporto di lavoro in essere tra lo stesso
Raffaele D'Agnone e l'Istituto di Credito Monte dei Paschi di Siena S.p.a., come
pure di tutto quanto abbia ad incidere nel decorso della carriera, nel curriculum
lavorativo, nelle anzianità convenzionali, negli automatismi economici, negli
eventuali scatti di anzianità con rivalutazione economica ed interessi, anche ai
fini
delle
pure
lamentate
omissioni
contributive
e
previdenziali".
Con il ricorso "incidentale" (r. g. 17528-2000) il D'Agnone indica solo
nell'intestazione dell'atto contenente il "controricorso avverso il ricorso
principale r. g. 16598-2000" che lo stesso debba intendersi anche quale
"ricorso incidentale", ma in realtà, nel corpo dell'atto e nelle conclusioni dello
stesso, non deduce alcuna autonoma censura alla sentenza del Tribunale di
Foggia, nè alcuna doglianza o richiesta comunque assumibile come
impugnativa
di
detta
sentenza.
III -. Prima della disamina del ricorso principale della società BMPS deve essere
valutata l'eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dal D'Agnone per
nullità della notifica di detto atto perché avvenuta nei confronti dell'avv.
Carmine Battiante "che non è più difensore del controricorrente come potrà
facilmente evincersi dalla allegata documentazione già presente e nel fascicolo
di
causa".
La cennata eccezione è da respingere attesa la sua evidente inammissibilità in
quanto - per il principio di autosufficienza che regola il contenuto degli atti di
questa sede al fine di consentirne il controllo al giudice di legittimità che non
può sopperire alle lacune dell'atto con indagini integrative - il D'Agnone ha
omesso di indicare da quale specifica documentazione si sarebbe potuto
evincere che l'avv. Battiante non fosse più stato il suo difensore nel giudizio di
appello.
In ogni caso - a conferma, comunque, dell'infondatezza dell'eccezione de qua dalla copia della sentenza impugnata risulta che era stato proprio l'avv.
Battiante a richiedere la notifica di detta sentenza nei confronti della
controparte al fine di provocare il decorso del termine dell'impugnativa ex art.
326 c. p. c. e, pertanto, in quel momento - valido agli effetti processuali
collegati al successivo ricorso per cassazione - lo stesso avv. Battiante aveva
sicuramente titolo per richiedere tale notifica in quanto, appunto, difensore del
D'Agnone.
IV-a -. Passando ora alla valutazione dell'unico motivo di ricorso sviluppato
dalla società BMPS - nei due profili dinanzi precisati ed esaminabili
conseguentemente poiché intrinsecamente connessi -, lo stesso si appalesa
infondato
e
deve,
quindi,
essere
respinto.
Al riguardo è da rilevarsi - in linea generale sulla consistenza dello stato di
incapacità di intendere e di volere quale causa di annullamento delle dimissioni
del lavoratore - che l'incapacità ex art. 428 cod. civ. non presuppone la totale
privazione delle facoltà intellettive e volitive, in quanto ai fini della
configurabilità dell'incapacità naturale è sufficiente che le facoltà intellettive o
volitive risultino diminuite in modo da impedire od ostacolare una seria
valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente (cfr. Cass. n.
6756-1995, Cass. n. 7784-1991, Cass. n. 4955-1985). Si tratta, al riguardo, di
un perturbamento psichico (anche transitorio) tale da menomare gravemente,
pur senza escluderle totalmente, le facoltà intellettive del soggetto in modo da
impedire una seria valutazione dei propri atti e la formazione di una volontà
cosciente
(Cass.
n.
7344-1997,
Cass.
n.
418-1977).
In sostanza, non occorre la totale esclusione della capacità psichica e volitiva
del soggetto, purché l'incapacità sussista al momento dell'atto "dimissionario"
(Cass. n. 10505-1997, Cass. n. 3569-1991) e sia comunque tale da arrecare al
soggetto un notevole stato di turbamento psichico, idoneo a far venire meno la
sua capacita di autodeterminazione e la consapevolezza dell'atto che sta per
compiere (Cass. n. 6199-2000, Cass. n. 6756-1995 cit., Cass. n. 2364-1977).
IV-b -. Appare, quindi, corretto il decisum del Tribunale di Foggia che ha
ritenuto, ai fini della configurabilità dello stato di incapacità invalidante l'atto di
dimissioni giudizialmente annullato, non necessario uno stato di totale
privazione delle facoltà intellettive e volitive posto che era sufficiente che fosse
accertato che le stesse erano state tali da ostacolare il normale processo di
valutazione
dei
propri
atti.
Il relativo giudizio, come più volte ribadito da questa Corte (cfr., ex plurimis,
Cass. n. 6756-1995), è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in
sede di legittimità se adeguatamente motivato e, proprio sotto tale profilo, la
ricorrente denunzia che nella specie la sentenza impugnata non sarebbe stata
adeguatamente motivata in quanto il Tribunale di Foggia non avrebbe tenuto
conto della consulenza di parte e dei documenti sanitari prodotti in atti.
Siffatte censure si rivelano infondate atteso che il Tribunale ha espresso il
proprio giudizio sulla base di una seconda consulenza tecnica ammessa nel
giudizio di appello (conforme alle conclusioni della prima consulenza svoltasi
nel giudizio di primo grado) di cui ha controllato la correttezza metodologica.
In ogni caso, a conferma dell'infondatezza delle censure formulate dall'odierna
ricorrente, si rimarca che: a) il giudice, quando aderisce alle conclusioni del
consulente tecnico, assolve al proprio obbligo di motivazione limitandosi ad
indicare le fonti del suo convincimento, senza dover esaminare
specificatamente le contrarie deduzioni di parte, che debbono così intendersi
per implicitamente disattese (Cass. n. 3711-1989, Cass. n. 4817-1987, Cass.
n. 322-1986); b) in particolare, il giudice che abbia disposto nuova consulenza
tecnica, qualora ne condivida i risultati non è tenuto ad esporre in modo
specifico le ragioni del suo convincimento e può limitarsi a riportare il relativo
parere, quando questo per la sua analiticità costituisca idonea risposta ai rilievi
critici mossi dalla parte alla consulenza precedente, posto che la decisione di
rinnovare la consulenza implica valutazione ed esame dei detti rilievi, mentre
la formale trascrizione e l'argomentata accettazione del parere del consulente,
delineando il percorso logico della decisione, ne costituiscono motivazione
adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità (Cass. n. 334-1998,
Cass. n. 271-1995); c) il vizio di omessa o errata motivazione deducibile in
sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito,
quale risulti dalla sentenza, sia riscontrabile il deficiente esame di punti decisivi
della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento in senso
difforme da quello preteso dalla parte perché l'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. non
conferisce alla Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa,
ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico - formale e della correttezza
giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto
spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, valutare le
risultanze processuali, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere,
tra le stesse, quelle ritenute più idonee per la decisione (Cass. n. 685-1995,
Cass. n. 8653-1994, Cass. n. 10503-1993); d) quando il Giudice di merito
ponga a base della propria decisione le considerazioni svolte dal consulente
d'ufficio, o a queste faccia riferimento anche implicitamente, non è tenuto a
motivare il proprio dissenso dalle osservazioni svolte dalla consulenza di parte,
la quale costituisce una semplice allegazione difensiva a contenuto tecnico
(Cass.
n.
15028-2001).
IV-c -. Quanto all'ulteriore censura della ricorrente sul vizio di insufficiente
motivazione che avrebbe inficiato la sentenza impugnata in merito alla prova
del grave pregiudizio subito dal lavoratore per l'annullamento delle dimissioni
rese in stato di incapacità di intendere e di volere, si rimarca che il cennato
grave pregiudizio non è soltanto di natura patrimoniale, ma può incidere
sull'intera sfera di interessi del lavoratore, per cui i fattori da considerare sono
molteplici
(cfr.
Cass.
n.
10577-1990).
Alla luce di questo rilievo non merita alcuna critica la statuizione del Tribunale
di Foggia che, su tale punto, ha ritenuto che la circostanza che un soggetto
rimanga privo del posto di lavoro costituisce, di per sè sola, prova del fatto che
al soggetto sia derivato un pregiudizio grave avendo egli perso la propria fonte
di reddito (scilicet, essendo venuto improvvisamente meno un flusso reddituale
che per la sua natura alimentare rappresenta di per sè grave pregiudizio
patrimoniale) e, inoltre, avendo la perdita del lavoro indubbiamente inciso in
maniera determinante sull'intera sfera di interessi del lavoratore.
Comunque, giusta quanto affermato da questa Corte con orientamento
consolidato e che nella specie deve trovare ulteriore conferma, ove una
sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente
idonee a sorreggerla, è necessario - per giungere alla cassazione della
pronunzia - non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica
censura, ma anche che il ricorso abbia avuto esito positivo nella sua interezza
con l'accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso
dell'impugnazione.
Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza nella sua interezza, o in
un suo singolo capo, idest di tutte le ragioni che autonomamente l'una o l'altro
sorreggano.
È sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi
oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una
sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere
respinto integralmente, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le
censure avverso le altre ragioni (così, di recente, Cass. n. 5149-2001).
IV-d -. In conclusione non si evince, nella disamina della sentenza impugnata,
l'esistenza di una errata disamina e valutazione o di una insufficiente
motivazione su punti decisivi della controversia dato che il Giudice di appello,
con completa e congrua motivazione in relazione alle risultanze processuali, è
correttamente pervenuto alla decisione a mente della quale ha ritenuto che il
D'Agnone, nel momento in cui ha presentato le dimissioni, si trovava in uno
stato di incapacità di intendere e di volere tale da determinare l'annullamento
delle cennate dimissioni considerato il grave pregiudizio provocato dalle stesse.
V -. Per quanto concerne il ricorso "principale" (r. g. 16944-2000) proposto dal
D'Agnone con atto notificato il 28-29 agosto 2000 e il ricorso "incidentale" (r.
g. 17528-2000) proposto dallo stesso D'Agnone con atto notificato il 16
settembre 2000, gli stessi - da esaminarsi congiuntamente in quanto
intrinsecamente
connessi
si
appalesano
inammissibili.
Al riguardo deve, anzitutto, rigettarsi l'eccezione di inammissibilità sollevata
dalla società BMPS per essere stati entrambi i cennati ricorsi sottoscritti dal
D'Agnone
e
non
dall'avv.
Mauro Rufini - nominato difensore del predetto D'Agnone con procura in calce
ai summenzionati atti autenticata dallo stesso avv. Rufini -, atteso che la firma
apposta dal difensore per l'autenticazione della procura speciale (mandato ad
litem) scritta in calce o a margine del ricorso per cassazione vale anche quale
sottoscrizione del ricorso perché consente di riferire al difensore che ha
autenticato la sottoscrizione della procura speciale anche la paternità del
ricorso
medesimo
(Cass.
n.
1083-1995).
In ordine, poi, al ricorso (r. g. 16944-2000) - che, se pure proposto
tardivamente oltre la scadenza del termine perentorio ex art. 325 capoverso c.
p. c. [ricorso notificato il 28-29 agosto 2000 rispetto alla sentenza impugnata
notificata il 27 giugno 2000], resta valido come ricorso incidentale (Cass. n.
10284-1994) -, lo stesso è comunque inammissibile per l'omessa indicazione
dei motivi di ricorso che debbono essere completi e riferibili alla sentenza
impugnata (Cass. n. 3805-1999, Cass. n. 7851-1997), mancando totalmente
nel cennato ricorso la specifica individuazione di pretesi errori di attività o di
giudizio attribuibili alla sentenza impugnata e la relativa motivazione delle
censure proposte (cfr. Cass. n. 2924-1971, Cass. n. 2572-1970).
Anche il ricorso "propriamente" incidentale (r. g. 17528-2000) notificato il 16
settembre 2000 è inammissibile per avvenuta consumazione del potere di
impugnazione perché successivamente proposto dal D'Agnone che, avendo
ricevuto ex adverso la notifica del ricorso in data 12 agosto 2000 avverso la
stessa sentenza, aveva in precedenza notificato (ripetesi, il 28-29 agosto
2000)
l'autonomo
ricorso
per
cassazione
r.
g.
16944-2000.
IV -. In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto
dalla s.p.a. "Banca Monte dei Paschi di Siena" deve essere rigettato, mentre
vanno dichiarati inammissibili i ricorsi r. g. 16944-2000 e r. g. 17528-2000
proposti
da
Raffaele
D'Agnone.
Ricorrono giusti motivi (idest: "reciproca soccombenza") per dichiarare
compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Inizio documento
P.Q.M
riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso r. g. 16598-2000 proposto dalla s.p.a. Banca
Monte dei Paschi di Siena; dichiara inammissibili i ricorsi incidentali r. g.
16944-2000 e r. g. 17528-2000 proposti da Raffaele D'Agnone; compensa
integralmente
tra
le
parti
le
spese
del
presente
giudizio.
Così deciso, in Roma, il giorno 3 dicembre 2002.