CAPITOLO SECONDO L’AVVOCATO NEI MODELLI COMUNITARI E STRANIERI SOMMARIO: 1. L’avvocato nel modello comunitario. – 1.1. I sospetti di violazione del Trattato CE da parte della direttiva 98/5. – 2. Il Rechtsanwalt nel diritto tedesco. – 2.1. Cenni storici. – 2.2. Il Rechtsanwalt nel diritto vigente. – 2.3. Il contratto con il professionista forense (Anwaltsvertrag). – 2.4. Gli obblighi professionali (Anwaltspflichten). – 2.4.1. L’obbligo di chiarimento della fattispecie. – 2.4.2. L’obbligo dell’esame giuridico della fattispecie. – 2.4.3. L’obbligo di istruzione e consulenza. – 2.4.4. L’obbligo della scelta della via più sicura. – 2.5. La responsabilità civile dell’avvocato (Anwaltshaftung). – 2.5.1. Il nesso di causalità. – 2.5.2. L’onere della prova. – 2.5.3. Il risarcimento dei danni. – 3. L’avocat nel diritto francese. – 3.1. Cenni storici. – 3.2. Requisiti per l’esercizio della professione forense in Francia. – 3.3. Principi giuridici essenziali per l’esercizio della professione di avvocato. – 3.3.1. Dovere di competenza dell’avvocato. – 3.3.2. Segreto professionale dell’avvocato. – 3.4. La responsabilità civile dell’avvocato. – 4. L’abogado nel diritto spagnolo. – 5. La professione forense nel diritto inglese. – 5.1. Cenni storici. – 5.2. Il Courts and Legal Services Act del 1990. DALLA PRASSI L’avvocato stabilito: l’accertamento dell’effettivo esercizio della professione forense è condizione essenziale ai fini dell’accesso alla professione di avvocato? Tutela degli interessi del mandante e obbligo dell’avvocato di seguire la via più sicura per raggiungere il risultato voluto dal cliente nel modello tedesco: per tutelare al meglio gli interessi del cliente l’avvocato è tenuto a seguire la strategia difensiva che ritiene più convincente oppure quella più sicura per il mandante? La disciplina del rapporto professionale forense nel modello spagnolo: la natura di obbligazione di mezzi della prestazione dell’avvocato supporta un incremento delle ipotesi di responsabilità professionale? 1. L’avvocato nel modello comunitario. Legislazione Dir. CEE 22.3.77, n. 77/249; l. 9.2.82, n. 31; Dir. CEE 21.12.88, n. 89/48; d.lgs. 27.1.92, n. 115; Dir. CE 16.2.98, n. 98/5; d.lgs. 2.2.01, n. 96. Bibliografia Belloni 1999 – Varano 1999 – Bastianon 2001 – Danovi 2001 – Amenta 2001 – Astarita 2001 – Baratta 2002 – Al Najjari e Mussato 2006 – Alpa 2007 – Berlinguer 2008. Attualmente si registra un elevato livello di integrazione giuridica in materia di professioni legali, soprattutto nell’ambito dell’esercizio transnazionale dell’avvocatura. Per quanto riguarda la libertà di circolazione delle persone, il Trattato comunitario prevede il diritto di stabilimento e la libertà di prestazione di servizi, principi che manifestano una profonda portata innovativa in quanto mirano a superare la tradizionale tendenza restrittiva e protezionistica, in favore di una liberalizzazione di tutti i fattori produttivi della Comunità. La spinta decisiva è venuta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che, già a partire dal 1974, ha mostrato una accentuata propensione ad attuare, sul piano applicativo, i principi sanciti a livello comunitario. Una delle più significative pronunce si registra con il caso Reyners C-2/74 del 21 giugno 1974 (Racc., 1974, 631), in cui la Corte europea ha affrontato alcune rilevanti questioni fra cui quella relativa alla non applicabilità alla professione forense di tale principio, in quanto l’esercizio della professione di avvocato non può essere considerato come partecipazione ai pubblici poteri, basti pensare alle «attività più tipiche della professione forense, quali la consulenza e l’assistenza giuridica, come pure la rappresentanza e la difesa delle parti in giudizio, neppure quando il ministero o assistenza dell’avvocato è obbligatorio e costituisce oggetto di un’esclusiva voluta dalla legge». Ne consegue l’illegittimità del rifiuto all’iscrizione all’albo degli avvocati, opposto dalle autorità belghe a un cittadino olandese, pur se in possesso del titolo belga di docteur en droit. Indubbiamente sia la giurisprudenza sia la legislazione comunitaria mostrano ampio favor per una graduale creazione di un mercato europeo dei servizi legali completamente libero, promuovendo «la via dello sviluppo della pratica professionale transnazionale» (Adamson 1992, 91). In tale ambito applicativo si è, progressivamente, sviluppata la figura del foreign legal consultant, quale soggetto che esercita un’attività di consulenza che può istituire e fondare anche partnerships con gli avvocati locali. Altro importante contributo può derivare dall’affermarsi, in misura progressiva, delle law firms internazionali che possono esclusivamente trarre vantaggio dalle interazioni delle esperienze di avvocati provenienti da diversi Paesi e dalla loro differente dislocazione a livello territoriale. Se il fenomeno delle law firms si è sviluppato nel modello nordamericano, attualmente si va verso la direzione della creazione di law firms globali che promuovono la formazione di associazioni e società professionali fra avvocati locali e avvocati stranieri. Pur se la legge professionale richiede la cittadinanza italiana per l’iscrizione all’albo professionale, l’intervento del diritto comunitario (soprattutto con il 2 generale divieto di discriminazione in base alla cittadinanza: art. 12 Tratt. CE) per la liberalizzazione del mercato professionale e per il riconoscimento dei titoli di studio esteri, ha modificato il quadro nel suo complesso (Astarita 2001, 19 ss.; Amenta 2001, 137 ss.; Baratta 2002, 5 ss.) «passando […] gradualmente dal principio di non discriminazione a quello, ben più implicante, del mutuo riconoscimento» (Berlinguer 2008, 172). Prima della spinta delle istituzioni comunitarie, negli anni Settanta, la giurisprudenza ha avuto un ruolo propulsivo rimuovendo una serie di ostacoli all’esercizio di alcune libere professioni entro il mercato comune. La Corte di giustizia con le sentenze Reyners (Corte giust. 21.6.74, C-74/2, Racc., 1974, 631), Van Binsbergen (Corte giust. 3.12.74, C-33/74, Racc., 1974, 1299) e Thieffry (Corte giust. 28.4.77, C-71/76, Racc., 1977, 765), riconosce l’efficacia diretta delle disposizioni degli artt. 43, 49, 50 Tratt. CE (prima rispettivamente 52, 59, 60) e obbliga gli Stati membri a non compiere discriminazioni fondate sulla cittadinanza. In particolare, nella decisione Van Binsbergen il giudice comunitario vieta le discriminazioni a carico dei prestatori di servizi che hanno una residenza in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata effettuata la prestazione (v. anche Corte giust. 26.11.75, C- 39/75, Coenen; Corte giust. 18.1.79, Cause riunite 110111/78, van Wesemael; Corte giust. 17.12.81, C-279/80, Webb). In tali settori la giurisprudenza ha avuto il merito di fungere da volano per la crescita dell’ordinamento comunitario, ma l’obiettivo dell’armonizzazione delle discipline nazionali non poteva essere realizzato se non con un intervento ad hoc, orientato, da una parte, a rimuovere gli ostacoli e le restrizioni nazionali fondate sulla cittadinanza e, dall’altra, intervenendo, per via normativa, sulla delicata fase dell’accesso alla professione. I due poli che hanno rappresentato l’obiettivo avuto di mira dal conditor iuris europeo, sono stati il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi (Berlinguer 2007, 940 ss.). Così la Direttiva del Consiglio delle Comunità europee 77/249 del 22 marzo 1977 (recepita in Italia con la l. 9 febbraio 1982, n. 31), «intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati», con la quale è stato dato un forte impulso al principio di libera circolazione degli avvocati tra gli Stati membri (in questa direzione si pone il “caso Gebhard” deciso da Corte giust. 30.11.95, C-55/94, in Racc., 1995, I, 4165, con riferimento all’apertura di uno studio professionale nel territorio dello Stato da parte di un avvocato di altro Stato membro). Successivamente la Comunità, con la Direttiva 89/48 del 21 dicembre 1988, ha disciplinato il profilo relativo al riconoscimento di diplomi di istruzione 3 superiore (in generale: Pertek 1989, 623 ss.; Scordamaglia 1990, 391 ss.), attuato con il d.lg. 27 gennaio 1992, n. 115. Nella normativa interna si prevede una deroga al mutuo riconoscimento degli stadi di formazione con riguardo a quelle professioni «il cui esercizio richiede una conoscenza precisa del diritto nazionale e nelle quali la consulenza e/o l’assistenza per quanto riguarda il diritto nazionale costituisce un elemento essenziale e costante dell’attività» (art. 4.1). In queste ipotesi, lo Stato ospitante ha introdotto la misura compensativa della prova attitudinale per i giuristi abilitati ad esercitare la professione forense (sulla recezione incompleta della Direttiva 89/48 CEE v. Corte giust. 7.3.02, C-145/99, secondo la quale è assente una regolamentazione sulle modalità della prova attitudinale per gli avvocati di altri Stati membri creando una situazione di incertezza giuridica). Di recente, è stata emanata la Direttiva 2005/36/CE del Parlamento e del Consiglio del 7 settembre 2005, il cui oggetto precipuo concerne la revisione ad opera del sistema normativo comunitario del riconoscimento delle qualifiche professionali. Infine, il definitivo riconoscimento secondo determinate modalità, del diritto di stabilimento degli avvocati nei Paesi europei è avvenuto con la Direttiva 98/5/CE del 16 febbraio 1998 (attuata con d.lg. 2 febbraio 2001, n. 96). Con quest’ultimo intervento comunitario può dirsi costruito un sistema normativo che consente ai professionisti forensi, seppure in presenza di determinate condizioni, di praticare la professione in altri Stati membri. A ciò deve aggiungersi la recente Direttiva 2006/123/CE del Parlamento e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, il cui scopo è quello di riassumere l’intera materia professionale. Per quanto riguarda le prestazioni di servizio degli avvocati, non trova applicazione il principio sancito nell’art. 16 sul divieto di restrizione della libera prestazione di servizi (art. 17). L’attuazione della Direttiva comunitaria 98/5, invero, è stata compiuta in due fasi: la prima con la legge comunitaria del 1999 (l. 21.9.99, n. 526) per sfuggire alle more di una sanzione derivante dal ritardo (la data indicata per l’attuazione è del 14 marzo 2000) dell’Italia nel recepimento della normativa comunitaria, in cui è stata conferita la delega al governo di emanare uno o più decreti legislativi per attuare la normativa europea prolungando il termine di scadenza al 2 febbraio 2001; la seconda con il d.lgs. n. 96 del 2001. La conseguenza di tale procedimento di attuazione è stata che la normativa di recepimento ha dovuto rispettare, a pena di illegittimità costituzionale, i principi fissati sia nella direttiva comunitaria sia nella legge nazionale 4 comunitaria. Così si spiega come l’attuazione normativa abbia riguardato non soltanto l’attività dell’avvocato europeo ma anche l’esercizio della professione forense in forma associata. Il decreto legislativo si compone di tre titoli: il primo concerne l’esercizio permanente della professione di avvocato da parte di cittadini comunitari; il secondo riguarda l’esercizio della professione di avvocato in forma societaria; il terzo disciplina l’esercizio della professione in forma associata o societaria da parte degli avvocati stabiliti. In sintesi i punti cardinali dell’intervento legislativo di attuazione della direttiva 98/5 sono: «a) l’avvocato straniero che intende stabilirsi in Italia (cioè esercitare stabilmente la professione forense) deve richiedere l’iscrizione in una sezione speciale dell’albo costituito nella circoscrizione del tribunale in cui ha fissato stabilmente la sua residenza o il suo domicilio: diventa in tal modo avvocato stabilito. Dopo tre anni di esercizio effettivo e regolare della professione, l’avvocato stabilito diventa avvocato integrato, cioè può utilizzare il titolo di avvocato italiano; b) l’attività professionale in Italia può essere esercitata anche in forma comune secondo il tipo della società tra professionisti (s.t.p.), regolata da varie norme, ovvero in mancanza delle norme che disciplinano la società in nome collettivo; c) gli avvocati stabiliti possono essere soci di tale società, e anche le società costituite all’estero possono svolgere attività in Italia nel rispetto delle condizioni fissate» (Danovi 2001, 321-322). È da precisare che la prestazione di servizi professionali in forma occasionale e saltuaria resta disciplinata dalla l. n. 31 del 1982, mentre il riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore – che concerne tutte le professioni – resta sempre regolata dal d.lg. n. 115 del 1992. La nuova disciplina del 2001 concerne l’esercizio costante in Italia della professione forense da parte di cittadini comunitari nonché dello spazio economico europeo (art. 1) purché in possesso del titolo professionale di cui all’elenco dell’art. 2. Con il sistema normativo vigente rimane distinto il diritto di stabilimento dalla libera prestazione dei servizi (sulla distinzione: Corte giust. 30.11.95, C-55/94), per cui l’avvocato straniero può «a) trasferirsi in Italia ed esercitare stabilmente l’attività professionale [con il titolo professionale del proprio paese], aprendo anche un proprio studio con tanto di segretarie e di collaboratori, avvalendosi delle disposizioni del d.lgs. n. 96/2001; oppure, b) può limitarsi a prestare saltuariamente i propri servizi in Italia, recandosi nel nostro paese ogni tanto in vista di una determinata udienza o per partecipare a riunioni con il cliente e/o altri colleghi, in conformità alle regole dettate in tema di libera prestazione dei servizi» (Bastianon 2001, 603). 5 All’avvocato europeo resta sempre la possibilità, a parte il diritto di stabilimento riconosciuto dal decreto 96/2001, di esercitare stabilmente la professione forense in Italia con il proprio titolo di origine e di chiedere l’equiparazione del titolo affrontando la prova attitudinale prevista dall’art. 8 del d.lg. n. 115 del 1992. Questo percorso alternativo gli consente di utilizzare subito il titolo di avvocato senza attendere il decorso del periodo triennale previsto dal decreto n. 96/2001. Il decreto ha cura di definire le figure di «avvocato stabilito» e di «avvocato integrato». Il primo è il cittadino di uno Stato membro che esercita stabilmente in Italia la professione forense avvalendosi del titolo professionale ottenuto nel paese di origine e iscritto in una sezione speciale dell’albo degli avvocati; il secondo, invece, è il cittadino di uno Stato membro che, pur avendo conseguito il titolo professionale nel paese di origine, è legittimato ad esercitare la professione forense in Italia con il titolo di avvocato. La direttiva sul diritto di stabilimento (Dir. 98/5/CE), recepita in Italia con il d.lg. 96/2001 pur prevedendo, a livello normativo, la facoltà per gli avvocati «comunitari» di svolgere l’attività forense in ogni Stato europeo avvalendosi del titolo professionale ottenuto presso il Paese d’origine, sembra essere sottoposta, attualmente, ad alcune restrizioni, sul piano applicativo. Tali limitazioni che, di fatto, pregiudicano l’effettiva attuazione del diritto di stabilimento, hanno subito, di recente, un nuovo giro di vite, all’esito del parere formulato dal Consiglio nazionale forense del 25 giugno 2009, n. 17, redatto a seguito di due quesiti formulati da due consigli dell’ordine forensi (Vicenza e Piacenza) al CNF. In ossequio a tale parere, emerge la necessità che ciascun Consiglio dell’Ordine forense esamini «nel dettaglio le domande di iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli avvocati stabiliti. Per accedere ad essa […] è necessario possedere una qualificazione professionale che sia effettiva e non solo formale». Passando attentamente al vaglio il parere del CNF si deduce che lo stesso investe i singoli Consigli degli ordini territoriali del potere di procedere ad un esame e ad un giudizio analitico, da compiersi caso per caso, verificando la consistenza del percorso formativo e professionale svolto dall’istante. Il parere del CNF si colloca all’interno di un percorso argomentativo formulato sulla base di un orientamento della giurisprudenza comunitaria in cui particolare rilievo riveste la pronuncia della Corte di giustizia, 29 gennaio 2009, C-311/06, DeJure online (sentenza Cavallera). Il caso di specie trae il suo referente normativo dal sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore previsto dalla Direttiva 89/48/CEE. In 6 particolare, la pronuncia si fonda sulla legittimità della richiesta di iscrizione all’albo degli ingegneri italiano formulata dal ricorrente, il quale ha ottenuto la corrispondente iscrizione presso il consiglio dell’ordine degli ingegneri di Barcellona. Il rinvio pregiudiziale ex art. 234 Tratt. CE presentato dal Consiglio di Stato, si fonda sulla controversia che oppone il Consiglio nazionale degli ingegneri al Ministero della Giustizia in merito al riconoscimento che quest’ultimo ha accordato al ricorrente, relativamente al titolo di ingegnere spagnolo, ottenuto a seguito dell’omologazione di un diploma italiano, ai fini della sua iscrizione all’albo degli ingegneri in Italia. Nelle motivazioni della sentenza la Corte di Giustizia ha riconosciuto che per il conseguimento dell’iscrizione all’albo degli ingegneri in Spagna il ricorrente non ha seguito né un percorso formativo supplementare consistente nel superamento di esami previsti dal sistema di istruzione spagnolo, né ha mai svolto attività professionale fuori dall’Italia, né sostenuto l’esame abilitativo italiano necessario ai fini dell’iscrizione all’albo degli ingegneri. Nella pronuncia i giudici di Lussemburgo precisano che né l’omologazione spagnola né l’iscrizione all’albo degli ingegneri spagnolo «si sono fondate sulla verifica delle qualifiche o delle esperienze professionali acquisite» e, dunque, le previsioni della Direttiva non possono essere invocate al fine di accedere ad una professione regolamentata in uno Stato membro ospitante da parte del possessore di un titolo rilasciato da un altro Stato membro. Altra recente pronuncia della Corte di giustizia, 22 dicembre 2010, sentenza Koller C-118/09 (GD, 2011, n. 3, 89) pur se relativa ad una questione in parte diversa rispetto alla sentenza appena menzionata, appare di rilevante interesse, soprattutto per l’iter motivazionale, in quanto la pronuncia si incentra sulla facoltà di consentire l’accesso alla prova attitudinale da parte di un cittadino austriaco che si era iscritto presso un consiglio dell’ordine degli avvocati spagnolo, senza adempiere all’obbligo di frequentare un periodo di pratica forense che, in Austria, ha durata quinquennale. Le conclusioni raggiunte dalla Corte di giustizia mostrano una decisa apertura verso gli avvocati che conseguono il titolo professionale presso un Paese membro diverso da quello in cui si è ottenuto il titolo di laurea. Aspetto peculiare della sentenza concerne l’accertamento dell’effettivo esercizio della professione forense nel Paese ove si è ottenuta l’iscrizione all’albo, in particolare ponendosi la questione se tale condizione sia essenziale ai fini dell’accesso alla professione di avvocato o se si tratti di un elemento da ritenersi alternativo e non cumulativo rispetto al superamento di esami idonei ad attestare le qualifiche supplementari e l’omologazione del titolo. 7 Tali questioni assumono una rilevante portata, in considerazione del fatto che le argomentazione compaiono nel dispositivo della sentenza e, dunque, richiedono un’attenta riflessione volta a sollecitare un intervento chiarificatore circa una corretta applicazione della normativa comunitaria, al fine di impedire che siano adottate, da parte dei singoli Stati membri, condotte elusive della normativa europea. Sia l’avvocato stabilito, sia quello integrato sono tenuti ad osservare le norme legislative, professionali e deontologiche che disciplinano la professione di avvocato in Italia, comprese quelle sull’incompatibilità. L’avvocato stabilito ha l’obbligo di iscriversi in una sezione speciale dell’albo costituito nella circoscrizione del Tribunale in cui ha fissato stabilmente la sua residenza o il suo domicilio professionale (l’alternativa si giustifica in virtù dell’art. 16 della legge comunitaria del 1999, che stabilisce l’equiparazione del domicilio professionale alla residenza ai fini dell’iscrizione in albi, elenchi o registri) condizionata all’iscrizione del richiedente presso la competente organizzazione professionale del paese di origine. Sulla domanda di iscrizione provvede il Consiglio dell’ordine entro trenta giorni, e in caso di silenzio (considerato silenzio-rifiuto) l’interessato può esercitare l’impugnativa davanti al Consiglio nazionale forense. L’avvocato stabilito ha il diritto di elettorato attivo, ma non passivo, ha diritto di utilizzare il proprio titolo professionale del paese di origine, può esercitare le attività di rappresentanza, assistenza e difesa nei giudizi civili, penali, amministrativi e disciplinari, ma «d’intesa con un professionista abilitato a esercitare la professione con il titolo di avvocato» (art. 8, co. 1). Questa limitazione non si estende all’attività stragiudiziale, potendo l’avvocato stabilito svolgere consulenza legale sui diritti nazionale, comunitario, internazionale ed anche italiano. La formulazione normativa secondo alcuni (Bastianon 2001, 605) non esclude che l’avvocato integrato possa fornire consulenza anche su altri diritti stranieri. L’avvocato stabilito può esercitare il patrocinio dinanzi la Corte di cassazione e altri giudici superiori, sempre assieme ad un avvocato italiano, purché dimostri di aver esercitato la professione forense per almeno dodici anni in uno Stato europeo. L’avvocato stabilito che per almeno tre anni dalla iscrizione alla sezione speciale dell’albo degli avvocati ha svolto in Italia realmente e senza interruzioni l’attività forense con il titolo professionale di origine, può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione con il titolo di avvocato, senza dover affrontare la prova attitudinale prevista dall’art. 8 d.lgs. n. 115 del 1992. La domanda è presentata al Consiglio dell’ordine, 8 presso il quale l’avvocato stabilito è iscritto, che decide nel termine di tre mesi. Se l’avvocato stabilito ha esercitato la professione forense per tre anni, ma ha trattato le pratiche sul diritto italiano per un periodo inferiore, l’esonero dalla prova attitudinale non è automatico, ma è sottoposto alla condizione del superamento di un colloquio presso il Consiglio dell’ordine che dimostri le conoscenze e le capacità acquisite sul diritto italiano. Sul decreto 96/2001 vi è un riscontro positivo in dottrina in vista della realizzazione concreta dell’integrazione europea: «in attesa quindi di una prevedibile eliminazione futura anche del termine di tre anni, non si può non plaudire alla volontà di realizzare compiutamente l’integrazione europea, pur essendo consci che altri problemi rimangono: quelli soprattutto collegati alla formazione e all’accesso (e per quanto di ragione alla formazione permanente), per arrivare a porre fine ai disquilibri e alle disarmonie, culturali e professionali, che ancora oggi si possono riscontrare nelle differenti tradizioni dei vari paesi europei» (Danovi 2001, 329). Dopo aver passato al vaglio i diversi profili che riguardano l’esercizio della professione forense e la sua disciplina a livello comunitario, occorre considerare che, quando si tratta di operazioni transnazionali, l’avvocato che assiste la parte contrattuale deve effettuare una scelta, di natura preliminare, relativa alla legge applicabile al contratto. «La prassi ci insegna che molte volte un’operazione economica, se complessa, implica la redazione di più atti, la costruzione di un congegno di rapporti, l’intervento di soggetti terzi (come istituti bancari, società fiduciarie, etc.) e che nella gran parte dei casi essa implica l’applicazione di regimi fiscali che incidono sulla scelta del tipo contrattuale da adottare, sul luogo nel quale concludere il contratto, sul luogo nel quale effettuare le prestazioni, sui tempi della procedura, sulla corte che potrà essere investita delle controversie emergenti dal rapporto. Si deve anche tener conto che il contratto, pur unitariamente considerato, può essere assoggettato a diverse leggi nazionali, se si dà ingresso al fenomeno del morcellement, cioè della sua scomposizione con l’assoggettamento di singole clausole o di gruppi di clausole a leggi nazionali diverse. Gli avvocati possono anche concordare di assoggettare il contratto a principi predisposti da Istituzioni internazionali o accreditati dal prestigio dell’istituzione che li ha coniati». (Alpa 2007, 40). Da ultimo, occorre menzionare la Direttiva sulle libere professioni, approvata l’11 maggio 2005, la cui finalità è quella di favorire la mobilità nel mercato interno che, necessariamente, presuppone l’imposizione di regole specifiche, stabilendo un giusto equilibrio fra il mercato, le regole sulla concorrenza e i principi di carattere etico. D’altronde già la Carta 9 europea dei diritti fondamentali ha sancito, all’art. 15, il principio di libertà professionale, vale a dire il diritto di esercitare una professione liberamente scelta o accettata. Nel contesto specifico di ciascuna professione è necessario assicurare l’imparzialità, la competenza, l’integrità e la responsabilità dei membri che esercitano la professione stessa, principi che necessitano, al fine di garantire una loro concreta operatività di norme, anche dettate dalle singole categorie professionali, in grado di garantire la qualità dei servizi, di fissare specifici standard di valori improntati al rispetto dei canoni della professionalità e dell’etica professionale. 1.1. I sospetti di violazione del Trattato CE da parte della direttiva 98/5. Non sono mancati sospetti sulla legittimità comunitaria della direttiva CE 98/5 sollevati dal Granducato di Lussemburgo davanti alla Corte di giustizia. Lo Stato membro fa presente che la direttiva in questione viola l’art. 52, 2° comma, Trattato CE (oggi art. 43, 2° comma, secondo il Trattato di Amsterdam) per una disparità di trattamento tra cittadini nazionali e migranti, oltre che per una lesione degli interessi generali alla protezione dei consumatori e ad una buona amministrazione della giustizia. Sotto il primo profilo il Granducato di Lussemburgo sostiene che l’art. 52 sancisce un principio di assimilazione del lavoratore autonomo migrante al suo omologo nazionale. Di conseguenza la non discriminazione deve misurarsi con la legislazione dello Stato membro ospitante e non con quella dello Stato membro di provenienza. In un progetto di armonizzazione potrebbe giustificarsi l’assenza di controllo sulle conoscenze del diritto internazionale, comunitario e dello Stato membro di origine, ma non su quelle relative al diritto nazionale dello Stato membro ospitante. La direttiva – secondo il ricorrente – allorquando consente all’avvocato migrante di svolgere le stesse attività professionali dell’avvocato in possesso del titolo rilasciato dallo Stato membro ospitante, determina una discriminazione in danno degli avvocati nazionali. La risposta della Corte di giustizia è lineare e si fonda sull’operatività del principio di non discriminazione del Trattato secondo il quale non si devono trattare in modo diverso situazioni uguali. In questo solco interpretativo i giudici sostengono che nel caso de quo «il legislatore comunitario non ha violato il detto principio, giacché le posizioni, da un lato, dell’avvocato migrante che esercita con il suo titolo professionale d’origine e, dall’altro, 10 dell’avvocato che esercita con il titolo professionale dello Stato membro ospitante non sono paragonabili. Infatti, a differenza del secondo, che può dedicarsi a tutte le attività con libertà di accesso o riservate dalla Stato membro ospitante all’avvocatura, al primo possono essere interdette talune attività e, nell’ambito della rappresentanza e della difesa di un cliente in giudizio, gli possono essere imposti taluni obblighi. Così, l’art. 5, n. 2 della direttiva 98/5 consente allo Stato membro ospitante, a determinate condizioni, di escludere dal campo di attività dell’avvocato migrante che esercita con il titolo professionale di origine la redazione degli atti che conferiscono il potere di amministrare i beni dei defunti o riguardanti la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari. Ancora, l’art. 5, n. 3, primo comma, consente allo Stato membro ospitante, a determinate condizioni, di imporre agli avvocati che esercitano con il proprio titolo professionale di origine di agire di concerto con un avvocato che eserciti con il titolo professionale del detto Stato dinanzi alla giurisdizione adita, oppure con un “avoué” patrocinante dinanzi ad essa. Il secondo comma dello stesso articolo autorizza gli Stati membri a stabilire norme specifiche di accesso alle Corti supreme, quali il ricorso ad avvocati specializzati. Si deve sottolineare, inoltre, che, ai sensi dell’art. 4, n. 1 della direttiva 98/5, l’avvocato che esercita in uno Stato membro con il proprio titolo professionale di origine è tenuto ad esercitare facendo uso di questo titolo, che “deve essere indicato (…) in modo comprensibile e tale da evitare confusioni con il titolo professionale dello Stato membro ospitante”» (Corte giust. CE 7.11.00, n. C-168/98, CG, 2001, 316). Inoltre, lo Stato ricorrente sostiene che la Direttiva, sopprimendo per gli avvocati migranti qualsiasi obbligo di formazione relativo al diritto dello Stato membro ospitante, avrebbe leso gli interessi generali della protezione dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia. I giudici supremi comunitari rispondono che la direttiva 98/5 contiene disposizioni dirette a salvaguardare gli interessi generali su richiamati. «Così, l’art. 4 stabilisce che l’avvocato migrante che esercita con il proprio titolo professionale di origine è tenuto ad esercitare facendo uso di questo titolo, cosicché il consumatore è informato del fatto che il professionista cui affida la difesa dei propri interessi non ha ottenuto la qualifica nello Stato membro ospitante e che la formazione iniziale di questo potrebbe non comprendere il diritto nazionale del detto Stato. Come già illustrato, l’art. 5, nn. 2 e 3, consente allo Stato membro ospitante, a certe condizioni, di vietare l’esercizio di determinate attività all’avvocato migrante e, nell’ambito della rappresentanza e della difesa di un cliente in giudizio, di imporgli determinati obblighi. L’art. 6, n. 1, stabilisce che l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale di origine è soggetto non solo alle regole professionale e deontologiche del proprio Stato membro di origine, ma anche alle stesse regole professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati col corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante per tutte le attività che esercita sul territorio di detto Stato. 11 L’art. 6, n. 3, autorizza lo Stato membro ad imporre all’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine l’obbligo di sottoscrivere un’assicurazione per la responsabilità professionale o l’obbligo di affiliarsi ad un fondo di garanzia professionale, secondo la normativa vigente nel suo territorio, a meno che l’avvocato interessato sia già coperto da una garanzia di tale natura secondo la normativa dello Stato membro di origine, e salva la possibilità di esigere, qualora l’equivalenza sia solo parziale, la sottoscrizione di un assicurazione o di una garanzia complementare. Ai sensi dell’art. 7, n. 1, se l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine non ottempera agli obblighi vigenti nello Stato membro ospitante, si applicano le regole in materia di procedimenti disciplinari, le relative sanzioni e i mezzi di ricorso previsti nel detto Stato. L’art. 7, nn. 2 e 3, fissa, in materia disciplinare, obblighi di reciproca informazione e cooperazione tra l’autorità competente dello Stato membro di origine e quella dello Stato membro ospitante. L’art. 7, n. 4, aggiunge che l’autorità competente dello Stato membro di origine decide, secondo le proprie norme sostanziali e procedurali, quali conseguenze debbano trarsi dalla decisione presa in materia disciplinare dall’autorità competente dello Stato membro ospitante nei confronti dell’avvocato che ivi esercita con il proprio titolo professionale d’origine. Infine, l’art. 7, n. 5, dispone che la revoca temporanea o definitiva dell’abilitazione all’esercizio della professione disposta dall’autorità competente dello Stato membro di origine comporta automaticamente, per l’avvocato che ne è oggetto, il divieto temporaneo o definitivo di esercitare con il proprio titolo professionale di origine nello Stato membro ospitante» (Corte giust. CE 7.11.00, n. C-168/98, CG, 2001, 317). Tutte queste disposizioni di carattere limitativo portano a leggere l’iniziativa comunitaria sullo stabilimento degli avvocati nel senso di preferire «ad un sistema di controllo a priori di una qualifica nel diritto nazionale dello Stato membro ospitante, una formula che comprenda un’informazione per il consumatore, alcuni limiti alla portata o alle modalità di esercizio di determinate attività della professione, il cumulo delle norme professionali e deontologiche da osservare, l’assicurazione obbligatoria, nonché un regime disciplinare che associa le autorità competenti dello Stato membro di origine e dello Stato membro ospitante. Lo stesso legislatore non ha soppresso l’obbligo di conoscenza del diritto nazionale applicabile nelle pratiche trattate dall’avvocato interessato, ma ha semplicemente dispensato quest’ultimo dalla dimostrazione preventiva del possesso di tale conoscenza. Pertanto, ha ammesso l’eventuale assimilazione progressiva delle conoscenze mediante la pratica, assimilazione facilitata dall’esperienza acquisita in altri ambiti giuridici nello Stato membro di origine. Ha altresì potuto prendere in considerazione l’effetto dissuasivo del regime disciplinare e di quello della responsabilità professionale. Operando una simile scelta delle modalità e del livello di protezione dei consumatori e di garanzia di una buona amministrazione della giustizia, il legislatore comunitario ha rispettato i limiti del suo potere discrezionale» (Corte giust. CE 7.11.00, n. C-168/98, CG, 2001, 317-318). 12 2. Il Rechtsanwalt nel diritto tedesco. Bibliografia Habscheid 1962 – Arndt 1967 – Schneider 1976 – Pfeiffer 1981 - Schier 1983 – Zuck 1984 - Borgmann e Haug 1995. 2.1. Cenni storici. La denominazione Rechtsanwalt è relativamente tarda, impiegata a partire dal XIX secolo dallo Stato bavarese. I titoli che precedentemente vengono utilizzati sono quelli di Advokat e di Prokurator, i quali denunciano manifestamente una inane duplicità di titoli nonché una evidente inadeguatezza con le nuove istanze sociali e professionali (Weißler 1905, 423, adopera gli appellativi di avvocatucolo, avvocato del diavolo ecc.). Le figure che dominavano il campo forense erano quelle dell’Anwald, mero rappresentante della parte in giudizio (procurator) e non necessariamente esperto di diritto, e del Vorsprecher, tipica istituzione germanica, soggetto esperto di diritto al servizio dapprima della ricerca della verità e poi degli interessi della parte (Borgmann e Haug 1995, 1; v. anche Schneider 1976, 28 ss.). Competente professionalmente era anche l’Advokat, chiamato anche Ratgebe, la cui importanza è cresciuta parallelamente all’influenza del diritto romano in Germania e all’introduzione del processo scritto. Anche il diritto canonico fa la sua parte nella configurazione di soggetto esperto dell’Advokat, il quale però non possiede la procura del suo assistito. Nel XV secolo la dualità dell’attività forense era suddivisa fra Advokat e Prokurator, l’uno tenuto alla redazione scritta delle difesa, l’altro alla pura attività di rappresentanza in giudizio (Weißler 1905, 117). La soppressione della bipartizione della figura dell’avvocato è diretta conseguenza della possibilità dell’Advokat di esercitare l’attività del Prokurator, anche se va ricordata la parentesi prussiana nella quale la figura dell’Advokat viene manipolata in quanto piegata esclusivamente a cercare la verità e in quanto configurata come beamtete Anwaltschaft. «I nuovi avvocati devono cercare solamente la verità che può portare giovamento o danno» avverte von Carmer (passo citato da Weißler 1905, 345), per cui la salvaguardia degli interessi della parte assistita vengono collocati nel limbo dell’irrilevanza. Ma la battaglia per la libertà da vincoli per l’esercizio della professione, per l’ammissibilità, per l’indipendenza è vinta successivamente come 13 dimostrano le due leggi sull’avvocatura (la prima è la Rechtsanwaltsordnung (RAO) del 1878; l’altra vigente è la Bundesrechtsanwaltsordnung (BRAO) del 1959), tenendo conto però che la disciplina vigente considera il Rechtsanwalt anche come «organo dell’amministrazione della giustizia». Nella parentesi oscura del periodo nazionalsocialista, tuttavia, si è compiuta una costante subordinazione della posizione dell’avvocato a fronte degli «interessi popolari». In forza del principio «Gemeinnutz geht vor Eigennutz» l’avvocato diventa difensore del diritto (Rechtswahrer), fiduciario del popolo per la protezione dei principi nazionalsocialisti scaturenti dalla vita del popolo (Noack 1937, 4). 2.2. Il Rechtsanwalt nel diritto vigente. L’avvocato ancora oggi si trova al centro dell’«eterno conflitto» fra gli interessi della parte assistita e gli interessi dello Stato alla conservazione dell’ordinamento, alla verità, alla giustizia, e ciò influisce immediatamente sulla stessa configurazione e sul regime della sua responsabilità (Borgmann e Haug 1995, 3 s.). La posizione giuridica del Rechtsanwalt non è espressamente presa in considerazione dalla Costituzione (Grundgesetz), come accade ad esempio per il giudice (art. 97). Ciò ha sollevato atteggiamenti contrari, soprattutto in dottrina, circa il problema se la professione di avvocato come istituzione possa assumere rango costituzionale. Gli autori più sensibili (Habscheid 1962, 1985 ss.; Arndt 1967, 1331; Schneider 1976, 44 ss.; Schier 1983, 76 ss., spec. p. 96; Zuck 1984, 85 ss.) ritengono che per il professionista legale possano valere institutionelle Verfassungsgarantien, sebbene poi siano diversi i parametri costituzionali richiamati. Da una parte, si individua il fondamento costituzionale nella disposizione dell’art. 103, 1° comma, GG – secondo cui ciascuno può far valere i propri diritti in giudizio – collegando intimamente il Grundsatz der Gewährung rechtlichen Gehörs ai principi dello Stato di diritto (art. 20 GG) e della tutela della persona umana (art. 2, 1° comma, GG) (Arndt 1967, 1331; Pfeiffer 1981, 72 ss.). Da altra parte, alcuni autori (Zuck 1984, 96; Schier 1983, 94 ss.) non rimangono soddisfatti dalla norma richiamata dell’art. 103 GG, in quanto questa non può garantire che una tutela minima (Schneider 1976, 57 ss., avverte che la norma dell’art. 103 GG non può essere la sola a tutelare la posizione giuridica dell’avvocato, perché un comportamento mentitorio della parte difesa potrebbe espellere il 14 professionista dalla tutela costituzionale). Sul medesimo versante si colloca la Corte costituzionale che fonda l’idea del faires Verfahren sui principi dello Stato di diritto e della tutela della persona umana. I giudici supremi avvertono che non si può disporre improvvisamente di autorità dei diritti dei singoli: l’individuo è sì oggetto della decisione giudiziale, ma deve essere altresì ascoltato prima della sentenza in modo da poter influire sul processo e sulle conclusioni (BVerfG 8.1.59, BVerfGE, 9, 1959, 89, spec. 95). La norma costituzionale di riferimento per i professionisti legali è contenuta nel 1° comma dell’art. 12 GG dedicato alla libertà di scegliere e di esercitare la professione (così, BVerfG 4.11.92, NJW, 1993, 317; BVerfG 14.7.87, NJW, 1988, 194; BVerfG 14.7.87, NJW, 1988, p. 191; BVerfG 4.4.84, NJW, 1984, 2341; BVerfG 8.3.83, NJW, 1983, 1535). Nelle valutazioni dei giudici spicca innanzitutto il «Grundsatz der freien Advokatur», inteso anche come «tradierte Momentaufnahme aus der Geschichte der Anwaltschaft» (Zuck 1984, 88). La Corte costituzionale ha declamato chiaramente che il libero accesso alla professione forense, garantito a livello costituzionale, non è in contraddizione con leggi che statuiscono la non abilitazione, ciò per salvaguardare importanti beni della comunità o per obbedire al principio di proporzionalità (così, BVerfG 4.11.92, NJW, 1993, 317, decisione che ha sollecitato una delle ennesime novelle della BRAO avvenuta nel 1994 per risolvere il problema dello Zweitberuf). Diversamente dal libero accesso alla professione forense avente esplicita copertura costituzionale, l’esercizio dell’attività professionale può trovare limitazioni con semplice legge, come ad esempio quella sull’ordinamento professionale (BRAO). Tuttavia, con un doppio intervento, il BverfG ha ribadito l’illegittimità di interferenze fondate sulla clausola generale contenuta nel § 43 BRAO lasciandosi guidare dal Grundsatz der freien Advokatur (le due decisioni hanno la medesima data del 14.7.87, NJW, 1987, 191 e 194). 2.3. Il contratto con il professionista forense (Anwaltsvertrag). Bibliografia Graf 1991 – Poll 1992 – Borgmann e Haug 1995 – Koziol e Welser 1995 – Hirte 1996 – Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010. Per comprendere appieno la natura giuridica dell’Anwaltsvertrag in Germania è utile precisare che i contratti conclusi dai diversi professionisti 15 rientrano nel «BGB-System von Tätigkeits-Schuldverhältnissen» (Fikentscher 1976, 459; Santoro V. 1994, 639 ss.) composto dai due principali modelli costituiti dai contratti di servizio (Dienstvertrag: § 611 BGB) e di opera (Werkvertrag: § 631 BGB) e dal gruppo accessorio di speciali Tätigkeitsverträge formato dai contratti di mandato (Geschäftsbesorgungsvertrag), di mediazione (Maklervertrag) e, infine, dal deposito (Verwahrung). Il BGB accoglie nel proprio grembo la tradizione romana, secondo la quale i contratti di servizio e d’opera inglobano tutte le attività di carattere oneroso nell’interesse altrui riguardanti la sfera patrimoniale e senza alcun carattere fiduciario. Quest’ultimo profilo è presente soltanto nel mandato (Auftrag), ma le difficoltà sorgono in quanto il carattere gratuito costituisce elemento qualificante del contratto (Hirte 1996, 148 ss.). In questo modo si aprono due varchi: da una parte, i rapporti onerosi a carattere fiduciario, per i quali la disposizione del § 675 BGB (entgeltliche Geschäftsbesorgung) consente una trasposizione dei contratti di servizio e d’opera nella disciplina del mandato, dall’altra, le semplici prestazioni gratuite di servizio e d’opera senza la presenza del Geschäftsbesorgungscharakter (Esser e Weyers 1984, 275 s.). Nella prima ipotesi la dottrina intravede, a seconda delle circostanze, un particolare tipo di contratto d’opera o di servizio (Von Staudinger e Richardi 1989, 26). Il BGH in proposito configura il rapporto avente ad oggetto una Geschäftsbesorgung per altri, e lo ricostruisce come attività autonoma di carattere economico, la cui cura compete allo stesso titolare del diritto che può farsi sostituire da altri nella sua tutela (BGH 25.4.66, BGHZ, 45, 1966, 228 s.; BGH 26.11.59, BGHZ, 31, 1960, 224). In questo quadro tipologico il contratto concluso fra l’avvocato e il cliente rientra nella figura dell’entgeltliche Geschäftsbesorgung costituita di regola sulla base di un contratto di servizio (§ 675 BGB) ed eccezionalmente su un contratto d’opera (Poll 1992, 78; Borgmann e Haug 1995, 45 ss.). «È giusto – avvertono i giudici di legittimità – qualificare il contratto fra l’avvocato e il cliente di regola un contratto di servizio avente per oggetto la cura dei negozi, ma in via eccezionale può integrare anche un contratto d’opera, allorché forma oggetto dell’obbligo dell’avvocato non tanto l’assistenza legale quanto il risultato dell’attività. Ciò accade di solito quando il professionista legale assume l’incarico di dare informazioni o di redigere un parere scritto su una determinata questione giuridica» (fra le tante, BGH 20.10.64, NJW, 1965, 106). La giurisprudenza precisamente afferma che l’Anwaltsvertrag rappresenta un contratto di servizio avente per oggetto «Dienste höherer Art» (servizi di 16 genere elevato) (BGH 16.10.86, NJW, 1987, 316): si pensi al compito di attività di difesa in giudizio. L’avvocato, di regola, promette un’attività «che corrisponde alla diligenza professionale forense ma non ad un determinato risultato» (BGH 1.6.78, BGHZ, 71, 1978, 381). Al contrario, rientra nel contratto d’opera, l’impegno del professionista diretto a raggiungere un determinato risultato attraverso il proprio lavoro: «risultato e compenso devono stare in relazione di prestazione e di controprestazione» (RG 5.5.16, JW, 1916, 963). È un contratto d’opera quello col quale l’avvocato si impegna a stipulare un contratto valido ed efficace secondo il diritto cinese e a curare le necessarie trattative con il consolato tedesco in cambio di un determinato compenso (RG 17.3.14, JW, 1914, 642 s.); la medesima conclusione interviene se l’avvocato si impegna verso il cliente a dare informazioni o a redigere una consulenza su una determinata questione giuridica (BGH 8.12.66, NJW¸1967, 720; BGH 20.10.64, NJW, 1965, 106). Nel quadro più ampio del modello germanico è utile sottolinare che, da una parte, i diritti austriaco (§ 1002 ss. ABGB) e svizzero (art. 394 ss. Obligationenrecht – OR) spezzano la tradizione romana, poiché ammettono il mandato oneroso accanto a quello gratuito, mentre il BGB contempla soltanto la forma gratuita (§ 662), collocando quella onerosa entro i tipi dei contratti di servizio o d’opera (§ 675 BGB); dall’altra, il diritto austriaco si caratterizza per la circostanza che il mandato è serrato all’interno dell’attività negoziale, gli atti non negoziali invece sono spinti nei contratti di servizio e d’opera (Koziol e Welser 1995, 363); per contro nei diritti tedesco e svizzero la Geschäftsbesorgung abbraccia sia l’attività negoziale sia quella di puro fatto (Bucher 1988, 223). L’art. 394 OR disciplina il mandato (einfacher Auftrag o Mandat) come «figura contenitore» di tutte le prestazioni di servizio in senso ampio che non rientrano in un puntuale contratto tipico. Oggetto del contratto non sono soltanto le Dienstleistungen ma anche la cura degli affari (Geschäftsbesorgung) e gli autori discorrono, in proposito, di contratto di lavoro in senso ampio. Anzi è opportuno rilevare che nella vecchia versione del codice svizzero delle obbligazioni del 1881 il mandato riguardava solamente la Geschäftsführung mentre accanto vi era il Dienstvertrag per le prestazioni di servizi personali. Il codice vigente del 1911 non ha fatto altro che inserire nella figura del mandato (art. 394, comma 1) tutta la disciplina prevista dal codice precedente per il contratto di servizio, e il risultato è stato una semplice dilatazione del Mandat. Per quanto riguarda la qualificazione del contratto concluso dall’avvocato col cliente, la figura richiamata senza indugi è quella del mandato, anche quando l’avvocato difende gli interessi del cliente in giudizio. 17 Dubbi sorgono allorquando l’attività del legale concerne la stesura di un parere o la stipula di un contratto, in quanto alcuni autori sono dell’opinione che in proposito trovi applicazione la disciplina del contratto d’opera (Bucher 1988, 204 s.). A siffatta configurazione proposta viene obiettato che la soluzione del problema sta nella esatta ricostruzione del concetto di opera (Werk), diverso a seconda che vi si ricomprenda nella nozione soltanto i beni materiali oppure anche quelle immateriali. La giurisprudenza della Corte federale ha oscillato fra le due concezioni, anzi più precisamente è partita da una interpretazione estensiva e attraverso una fase restrittiva è riapprodata, anche a seguito di una forte azione critica della dottrina, alla concezione più lata (istruttive: BG 26.11.57, BGE, 83, 1957, II, 529; BG 3.10.72, BGE, 98, 1972, II, 311; BG 15.2.83, BGE, 109, 1983, II, 37 ss.; BG 14.3.89, BGE, 115, 1989, I, 53 s.). Il codice civile austriaco (ABGB) – come il BGB e l’OR – non prevede una puntuale disciplina dell’Anwaltsvertrag. Esso di regola è qualificato contratto di mandato disciplinato ai §§ 1002 ss. ABGB (OGH 11.12.87, WBl, 1988, 205). Va precisato che il legislatore austriaco regola assieme i rapporti interni ed esterni, da una parte, l’Auftrag, dall’altra, la Vollmacht e denomina il contratto tipico Bevollmächtigungsvertrag; rapporti tenuti distinti dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Un illustre autore avverte esplicitamente che «la teoria della procura fa parte della figura della rappresentanza (quindi della c.d. Parte generale). Nel diritto delle obbligazioni il mandato, per contro, va trattato quale sottospecie della Geschäftsbesorgung, con o senza procura. Anche nelle ipotesi in cui il mandato è legato alla procura è necessario distinguere le norme riguardanti l’una e l’altra figura» (Gschnitzer 1988, 265). Dal momento che l’avvocato ha come attività principale la Besorgung von Rechtsgeschäften und Rechtshandlungen, egli tutela gli interessi del mandante nei confronti dei terzi . Qualora il rapporto rientri in un contratto di servizio o in un contratto d’opera (ad es. la redazione di un parere o di un contratto) trovano egualmente applicazione le norme sul mandato (Graf 1991, 5). 2.4. Gli obblighi professionali (Anwaltspflichten). Bibliografia Prinz 1986 – Odersky 1989 – Vollkommer 1989 – Poll 1992 – Henssler 1994a – Borgmann e Haug 1995 – Rinsche 1995 – Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010. 18 La latitudine della responsabilità dell’avvocato dipende direttamente dalla portata degli obblighi da lui assunti e la mancanza di una disciplina speciale. Il § 43 BRAO, che contempla l’obbligo del legale ad uno scrupoloso esercizio della professione, non è in grado di individuare tutti gli obblighi che insieme compongono l’anwaltliche Pflichtenprogramm, dovendosi orientare invece verso un’attività di bilanciamento dei contrapposti interessi dell’avvocato e del mandante. In questo senso precisamente si avverte che il tema della responsabilità del professionista si presta ad essere trattato con il metodo della giurisprudenza degli interessi, ossia partendo dalla convinzione che la soluzione dei casi non disciplinati dalla legge devono orientarsi alla volontà del conditor iuris esplicitata nelle disposizioni legislative preesistenti. Nel caso del professionista legale, si tratta di contrapporre l’interesse del mandante ad essere risarcito dei pregiudizi per le aspettative contrattuali deluse a quello dell’avvocato ad una più ampia area di esonero dalla responsabilità (Odersky 1989, 2). La giurisprudenza costruisce la sfera degli obblighi del legale in forma molto ampia. La S. Corte avverte che l’avvocato è tenuto ad un’istruzione generalmente comprensiva e quanto più possibile completa per il cliente, a meno che quest’ultimo non abbia limitato in maniera inequivocabile la consulenza in una determinata direzione. Spetta al professionista consigliare al mandante quei passi necessari e sufficienti per raggiungere il risultato sperato e, allo stesso tempo, impedire il verificarsi di tutti quei pregiudizi prevedibili ed evitabili. Con le sue dichiarazioni l’avvocato deve istruire il mandante inesperto e preservarlo da errori, nonché – diversamente dal notaio – deve mettere in guardia il cliente dai pericoli economici delle operazioni negoziali volute (BGH 18.6.68, DNotZ, 1970, 48; v. anche BGH 21.11.60, NJW, 1961, 601; RG 17.6.32, JW, 1932, 2855). La dottrina riassume la complessiva posizione obbligatoria del legale in questi termini: l’avvocato è obbligato nell’ambito dell’incarico conferitogli a istruire il mandante in maniera generale e ampia, a tutelare i suoi interessi in ogni direzione nonché ad eseguire l’incarico in modo tale da evitargli pregiudizi il più possibile (Henssler 1994a, 178). Il nocciolo duro sul quale ruotano gli obblighi dell’avvocato assunti col contratto di mandato richiama le attività di esame, consulenza e istruzione. Gli studiosi non mancano di sottolineare l’importanza dell’attività del giudice nell’individuazione degli obblighi professionali (Vollkommer 1989, 48; Raiser 1991, 2050, richiama il «Pflichterfindungsrecht»; Borgmann e Haug 1995, 165; Poll 1994, 57, discorre di «umfassende Pflichten zur Beratung und Interessenwahrung»). 19 Ciò significa che, pur nel silenzio del rapporto, il Rechtsanwalt deve consigliare il mandante nella maniera più esauriente possibile, al fine di intraprendere le misure più opportune sia in positivo per salvaguardare la sua posizione giuridica, sia in negativo per evitargli inutili pregiudizi (RG 22.12.33, JW, 1934, 1042; BGH 21.11.60, NJW, 1961, 601). Tuttavia in sede di autonomia le parti potrebbero restringere il circolo degli obblighi del mandatario, orientandolo verso determinate attività (recentemente: BGH 22.10.87, NJW, 1988, 566; BGH 1.3.07, NJW, 2007, 2486). In questo senso, un soggetto aveva chiesto al suo legale di informarlo sulla questione della cedibilità nonché sulla possibilità della caduta in successione di un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. La S. Corte declama in proposito che la soluzione in ordine all’obbligo dell’avvocato di istruire il mandante in ordine alla fattispecie sottopostagli dipende dalle circostanze del singolo caso (BGH 31.3.60, NJW, 1960, 1101; per altri casi: BGH 20.6.96, NJW, 1996, 2931; BGH 13.3.97, NJW, 1997, 2169). Ma l’obbligo fondamentale (Kardinalpflicht) del legale resta quello generale di salvaguardare a spettro intero gli interessi del mandante (fra le tante pronunzie: BGH 23.5.85, BGHZ, 94, 1985, 386; BGH 31.10.85, NJW-RR, 1986, 1281; BGH 12.12.85, BGHZ, 96, 1986, 354; BGH 5.11.87, NJW, 1988, 487; BGH 17.12.87, NJW, 1988, 1080; BGH 17.3.88, NJW, 1988, 2881; BGH 20.12.88, NJW, 1989, 1148; BGH 5.11.92, NJW, 1993, 1322; BGH 24.6.93, WM, 1993, 1891; BGH 20.10.94, VersR, 1995, 213. Giesen 1992, 58, chiaramente discorre di «tutela degli interessi del mandante in ogni direzione»). A riguardo si parla di «ottimale perseguimento degli interessi» (OLG Düsseldorf 18.12.86, AnwBl, 1987, 547), ovvero di «salvaguardia in forma ottimale»: «si può dire, in linea astratta, che l’avvocato deve consigliare in forma esaustiva il mandante e salvaguardare gli interessi di lui - nei limiti posti dalla legge e dal diritto professionale - in forma ottimale» (Rinsche 1995, 28). Ad ogni modo, gli obblighi concreti che vincolano il legale si desumono volta a volta dai termini del mandato conferitogli nonché dalle circostanze del caso concreto. In questa prospettiva risulta compatibile obbligare l’avvocato al principio «della via più sicura» (Grundsatz des sichersten Weges) per l’incolumità della sfera giuridica del cliente piuttosto che seguire la strada che lo convince di più: 20 «l’avvocato, con il contratto professionale è obbligato a salvaguardare in ogni direzione gli interessi del cliente entro i limiti del mandato conferitogli. Egli deve orientare il proprio comportamento in guisa da evitare pregiudizi al suo cliente così come potrebbero essere previsti da un esperto di diritto. Quali siano gli obblighi concreti che possano derivare da questo principio generale dipende dai termini del mandato nonché dalla circostanze del caso singolo» (BGH 28.6.90, JR, 1991, 367). Successivamente la S. Corte ribadisce che l’avvocato, in forza del contratto, è obbligato a tutelare, in maniera comprensiva e in ogni direzione, gli interessi del cliente nei limiti del mandato ricevuto. Il comportamento del professionista deve orientarsi ad evitare al cliente pregiudizi la cui possibilità possa essere presupposta soltanto dal professionista. Di conseguenza, questi, di fronte a più misure di tutela, deve scegliere quella più sicura e priva di pericoli, mentre di fronte a più strade deve intraprendere quella più sicura per raggiungere il risultato voluto dal mandante (BGH 17.12.87, NJW, 1988, 1080; BVerfG 27.9.02, NJW, 2003, 575). Quest’orientamento presuppone un esame completo della fattispecie giuridica in tutti suoi dettagli e in tutte le sue “pieghe” di fatto (BGH 20.10.94, VersR, 1995, 213; OLG Hamm 2.3.93, NJW-RR, 1993, 1182). Ma, d’altra parte, ciò può accadere soltanto a seguito di una conoscenza pressoché completa dei problemi giuridici e della relativa fattispecie che ne è alla base. La risultante di queste forze volute dalla giurisprudenza configura un «giurista supermann», il quale «metterebbe a disposizione una memoria computerizzata, un giudizio straordinario e un’intelligenza e un’energia di altissimo valore» (così, Rinsche 1995, 28. V. altresì Prinz 1986, 317 ss. Discorreva già nella medesima direzione di «Übermenschen» Scheffler 1958, 15). La formula omnicomprensiva adottata dalle Corti suona con piccole varianti sempre lo stesso ritornello: l’Anwaltsvertrag concluso dall’avvocato lo obbliga a tutelare gli interessi del mandante, nei limiti dell’incarico conferitogli, in ogni direzione (nach jeder Richtung) (BGH 28.6.90, JR, 1991, 366, ove aggiunge il compito del legale di preservare il mandante dai danni e la concretizzazione degli obblighi professionali alla luce del contratto e delle circostanze; v. anche BGH 10.2.94, VersR, 1994, 939, secondo cui l’avvocato deve eseguire l’incarico affidatogli in modo tale da evitare al mandante pregiudizi prevedibili ed evitabili; BGH 18.3.93, NJW, 1993, 1780; BGH 8.7.93, VersR, 1994, 98; BGH 30.9.93, NJW, 1993, 3324; BGH 5.11.87, NJW, 1988, spec. 487; BGH 17.12.87, NJW, 1988, spec. 21 1080; BGH 17.3.88, NJW, 1988, spec. 2881. Vengono poi utilizzate altre formule più o meno simili: «esame diligente e garanzia della pretesa in ogni direzione»: RG 17.5.38, RGZ, 158, 1939, spec. 134; «intraprendere le iniziative opportune per tutelare i diritti del mandante»: RG 17.5.38, cit., spec. 134; «preservare il mandante da pregiudizi giuridici»: BGH 30.10.84, NJW, 1986, 182; BGH 10.3.88, NJW, 1988, 2113; «provvedere affinché pregiudizi evitabili non si realizzino a carico del cliente»: BGH 26.2.81, NJW, 1981, 1553; BGH 23.6.81, NJW, 1981, spec. 2742; BGH 5.11.87, NJW, 1988, spec. 487; «di fronte a più misure di tutela, deve scegliere quella più sicura e priva di pericoli, mentre di fronte a più strade deve intraprendere quella più sicura per raggiungere il risultato voluto»: BGH 25.6.74, NJW, 1974, 1866; BGH 10.6.80, VersR, 1980, spec. 926; BGH 9.11.82, BGHZ, 85, 1983, spec. 260; BGH 11.1.77, NJW, 1977, 2073; BGH 5.11.87, NJW, 1988, spec. 487). Il BGH punta, fra i compiti dell’avvocato, all’attività di umfassende und erschöpfende Belehrung: il professionista deve esaminare la fattispecie e verificare se egli sia adatto a raggiungere il risultato desiderato dal cliente. Egli deve suggerire quei passi che potrebbero portare al risultato, ma, allo stesso tempo, deve difenderlo da tutti quei pregiudizi prevedibili ed evitabili. In questo modo l’avvocato deve proporre al mandante la via più sicura e illustrargli i possibili rischi collegati; dubbi ed incertezze che avvolgono il caso vanno rivelati e discussi con il titolare degli interessi, tutto ciò per guidarlo verso la decisione più giusta (così BGH 20.10.94, VersR, 1995, 213. V. altresì BGH 20.1.94, NJW, 1994, 1212; BGH 5.11.92, VersR, 1993, 743). Questo inquadramento generale del programma obbligatorio che riguarda l’avvocato serve ad affrontare in maniera più approfondita gli obblighi concreti al chiarimento della fattispecie, all’esame giuridico, all’istruzione e, infine, alla scelta della via più sicura (Vollkommer 1989, 52, avverte esplicitamente che una «möglichst optimale Aufklärung» della fattispecie sottesa al mandato rappresenta la base dell’attività professionale). 2.4.1. L’obbligo di chiarimento della fattispecie. Con la conclusione del contratto, avvocato e cliente hanno l’obbligo reciproco di chiarire (Aufklärungspflicht) la fattispecie (Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010, 139 s.). La dottrina avverte esplicitamente che un «chiarimento più possibile ottimale» della fattispecie sotteso al mandato costituisce la base dell’attività professionale (Vollkommer 1989, 52): il 22 legale deve ottenere dal cliente tutte informazioni rilevanti per la questione, quest’ultimo deve procurarle al suo difensore (BGH 8.10.81, NJW, 1982, 437. Già RG 4.4.11, JW, 1911, spec. 538, configurava la comunicazione delle informazioni del mandante come Vertragspflicht: «invero il cliente ha anche l’obbligo di informare l’avvocato nel miglior modo possibile»). Siffatto obbligo del mandante avvolge l’intero rapporto professionale, per cui questi è tenuto a comunicare ulteriori informazioni o a correggerle durante l’esecuzione del rapporto (Borgmann e Haug 1995, 89 s.). All’obbligo di chiarimento del professionista corrisponde quindi l’obbligo di informazione del mandante che, sicuramente, preesiste al primo (Borgmann 1983, 1 ss., in proposito ritiene proficuo distinguere le ipotesi in cui il mandante sia o meno esperto di diritto). La valutazione definitiva della fattispecie da parte del legale consegue solamente dopo una verifica approfondita e complessiva in tutti i suoi aspetti (BGH 15.1.85, NJW, 1985, spec. 1155; BGH 8.10.81, NJW, 1982, 437; BGH 21.11.60, NJW, 1961, spec. 602). In sostanza, l’obbligo di chiarimento del legale – obbligo che va adempiuto personalmente (BGH 16.6.81, VersR, 1981, 984, secondo cui se l’attività è fatta da altri, la responsabilità resta sempre propria del difensore incaricato) – si limita ad un’integrazione delle informazioni fornite per rivelare quali aspetti assumano importanza per la valutazione giuridica. In questo senso la dottrina precisa che «soltanto il professionista forense sa, di regola, quali profili della fattispecie siano giuridicamente preziosi per la decisione» (Henssler 1994a, 178). I giudici di legittimità non hanno mancato di sottolineare che senza la conoscenza e la chiarezza della fattispecie, oltre alle peculiarità di fatto, non è possibile garantire una condotta del processo che soddisfi un’efficace tutela degli interessi del mandante. Informazioni superficiali e lacunose costringono il difensore a cercare ulteriori dati e ad informare il cliente sui possibili rischi processuali. Nell’ipotesi di consulenza, la S. Corte avverte che l’avvocato deve innanzitutto chiarire, dopo aver ascoltato il mandante, i punti importanti per la valutazione giuridica e quindi anche i dubbi sottesi alla fattispecie che devono e possono essere riconosciuti dal professionista in quanto esperto, mentre gli stessi potrebbero essere deformati da un non esperto. Quando esistono dei dubbi – prosegue la Corte – l’avvocato non può confidare sulla bontà di quanto a lui comunicato, ma si deve sforzare di acquisire un quadro più possibile completo e obiettivo della fattispecie. Quindi il professionista deve portare alla luce gli autentici fondamenti del caso sottopostogli, ossia 23 le informazioni necessarie per una esatta e comprensiva consulenza (BGH 21.11.60, NJW, 1961, 602). Ciò non significa che il legale sia obbligato ad acquisire altre notizie quando quelle fornite dal mandante siano insufficienti; l’obbligo, in via eccezionale, sorge solamente nelle ipotesi in cui queste siano più facilmente reperibili dall’avvocato (così, BGH 16.6.81, cit., 984, addossa l’obbligo all’avvocato a trovare informazioni solo nei casi che queste gli siano presentate nel proprio studio). Il mandante risponde, oltre che della completezza delle indicazioni, anche della loro attendibilità e correttezza (Vollkommer 1989, 52), poiché il legale non ha alcun dovere di verificare l’esattezza delle informazioni ricevute (RG 6.4.32, RGZ, 140, 1933, spec. 397; BGH 21.11.60, NJW, 1961, spec. 602; BGH 15.1.85, NJW, 1985, spec. 1155). Una delicata questione sorge allorquando il difensore tuteli interessi del mandante che violino i principi dell’ordinamento, configurandosi una contrapposizione fra le funzioni da lui perseguite di organo dell’amministrazione della giustizia e di rappresentante degli interessi del cliente. In maniera decisa il BGH ha ritenuto responsabile il legale che ha salvaguardato interessi del mandante mossi da motivi illeciti, ex § 826 BGB, sulla base del principio che il difensore ha il dovere di informarsi sulla loro illiceità nonché quello di rinunciare all’incarico in caso di esito positivo (BGH 14.5.92, DB, 1992, 1673 s.). La soluzione adottata dalla S. Corte poggia sul rilievo giusta il quale il difensore agisce non soltanto a favore della parte, ma anche nell’interesse della generalità e della controparte, e ciò in veste di Organ der Rechtspflege. In caso contrario, il legale si troverebbe a svolgere il mestiere di «manovale per la commissione di fatti illeciti». Siffatto problema ne coinvolge immediatamente un altro più generale riguardante un presunto obbligo del legale di verificare la verità delle affermazioni del cliente e di abbandonare l’incarico in caso di scoperta di notizie false. Certamente il professionista deve confidare sulla veridicità delle informazioni fornitegli dal cliente, ma, nel contempo, se ha la fondata sensazione che le notizie siano false, egli deve rinunciare all’incarico (Rinsche 1995, 39; in diversa prospettiva, Henssler 1994, 179). La violazione di siffatto obbligo da parte del professionista comporta la sua responsabilità per i danni cagionati, mentre se la violazione è compiuta dal cliente potrebbe trovare applicazione il concorso di colpa (Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010, 140; istruttive: BGH 20.6.96, NJW, 1996, 2931; BGH 11.2.99, NJW, 1999, 1392). 24 2.4.2. L’obbligo dell’esame giuridico della fattispecie. L’esame giuridico (rechtliche Prüfung) del caso costituisce uno degli obblighi fondamentali del programma obbligatorio dell’avvocato, in quanto suo compito primario è quello di individuare il fatto, nel complesso e nei suoi elementi strutturali, sul quale applicare le regole normative (Vollkommer 1989, 62; Borgmann e Haug 1995, 98, sottolineano che sotto questo aspetto l’avvocato si presenta come un «fähiger Jurist»). Già la Suprema Corte del Reich ha statuito che l’avvocato, dopo l’accertamento dei materiali di fatto, deve formarsi un’idea del caso in virtù di un diligente esame giuridico della fattispecie (RG 22.10.15, RGZ, 87, 1916, spec. 187), e ciò accade soltanto osservando le «allgemeine rechtswissenschaftliche Methoden» (così, BGH 17.4.86, BGHZ, 97, 1986, spec. 380; anche OLG Bremen 20.3.59, NJW, 1960, spec. 300). L’elaborazione giuridica del caso si configura come congegno volto a realizzare una ottimale soddisfazione degli interessi del cliente. Questa finalizzazione dell’attività del professionista, fortemente impegnativa nella sua attuazione, sposta l’attenzione ad un altro problema: quello delle conoscenze (Rechtskenntnisse) richieste affinché il legale possa agire in conformità a siffatto obbligo. «Ogni esame giuridico presuppone necessariamente una conoscenza del diritto» avverte la dottrina (Vollkommer, Greger e Heinemann, 2009, 105). In un significato più ampio rientra anche l’attività di controllo dei termini e dei mezzi d’impugnazione. Una decisione del BGH riconosce che il dovere di elaborazione del caso è sempre e solamente in capo al professionista forense anche nell’ipotesi in cui il mandante possieda una preparazione giuridica (rechtskundig), con la conseguenza che non può far valere il concorso di colpa del cliente per l’eventuale prescrizione del diritto. «Di regola il controllo dei termini non spetta al mandante, ma appartiene all’ambito originario dei compiti dell’avvocato. Di conseguenza quest’ultimo deve provvedere affinché siano garantiti i diritti del mandante contro una imminente scadenza di un termine di prescrizione. Ciò vale anche quando il mandante sia un imprenditore o un ente pubblico avente un proprio ufficio legale che sarebbe stato in grado di seguire il caso, in quanto con la conclusione del contratto con l’avvocato ha la sicurezza che questi sarà in ogni caso attento» (BGH 19.12.91, NJW, 1992, 820). La decisione tuttavia se non riconosce alcuna differenza di trattamento per la rechtliche Bearbeitung dell’avvocato quando ad affidare l’incarico sia un 25 profano (rechtlicher Laie) o un cultore del diritto (rechtskundig), sostiene che con il mandante esperto il legale non ha il dovere di istruzione (Belehrungspflicht). I giudici di Hamm discorrono di conoscenza della legge piuttosto che di conoscenza del diritto riducendola – anche se nel minimo – a una conoscenza «ins Detail» del solo BGB (OLG Hamm 5.3.81, VersR, 1981, 936). La giurisprudenza, tuttavia, quando le circostanze del caso lo richiedono, aggrava la posizione del legale perché esige la padronanza anche delle altre leggi tedesche. Alcuni studiosi sottolineano che il Bundesgesetzblatt (nel quale vengono pubblicate le leggi federali), nella sola parte prima contiene più di tremila pagine di provvedimenti, per cui si chiedono se sia corretto pretendere dal legale la loro completa conoscenza (Borgmann e Haug 1995, 90 ss.; v. anche Hübner 1989, 7). Ciò non significa che il professionista non debba acquisire la conoscenza delle leggi necessarie per risolvere il caso da trattare (BGH 18.4.58, MDR, 1958, 497; BGH 22.9.05, NJW, 2006, 502) appartenenti a qualsiasi campo. Il BGH sostiene che l’accettazione di un incarico professionale su una materia speciale estranea alla conoscenza del professionista lo obbliga ad acquisire la relativa preparazione (BGH 18.4.58, MDR, 1958, 497), ad esempio del diritto tributario (BGH 21.4.82, NJW, 1982, 1866; LG Köln 14.3.80, NJW, 1981, 351). Così l’area del diritto del lavoro richiede particolari competenze, come, per esempio, la disciplina del licenziamento (Kündigungsschutz) (BGH 29.3.83, NJW, 1983, 1665). Parte della dottrina ritiene che in seno alle materie speciali si può esigere dall’avvocato soltanto la conoscenza delle leggi che direttamente governano il caso assunto; in particolare richiede quell’usuale stato di conoscenza che possiede un «diligente e scrupoloso avvocato» (Rinsche 1995, 42 ss.). Tuttavia, un avvocato di formazione comune («mit einer normalen Beratungs- und Prozeßpraxis») ha l’obbligo di rifiutare l’incarico su questioni per lui totalmente nuove («auf «Neuland»). Il legale non ha l’obbligo di conoscere il diritto straniero, rappresentato da mere disposizioni giuridiche straniere (Rinsche 1995, 44 s.), l’esonero però non investe il diritto comunitario nonché leggi di carattere internazionale (ad esempio le Convenzioni internazionali, la legge sul diritto internazionale) (OLG Koblenz 9.6.89, NJW, 1989, 2699). Ad ogni modo, la buona fede impone al professionista di avvertire il cliente che egli non conosce le leggi straniere rilevanti per la soluzione del caso e di suggerire la consulenza di professionisti competenti. In proposito la giurisprudenza ha considerato responsabile il legale per false informazioni nelle sole ipotesi in 26 cui lo stesso abbia dichiarato la disponibilità a redigere una consulenza (BGH 22.2.72, NJW, 1972, 1044). Nell’attività di rechtliche Bearbeitung des Falles l’avvocato non può ignorare la conoscenza degli orientamenti seguiti dalle alte Corti, purché edite (già RG 22.10.15, JW, 1916, 34; RG 5.7.29, RGZ, 125, 1929, 299, spec. 306. Diversa questione è poi se il legale deve vagliare tutte le possibili fonti per recuperare le decisioni di rilievo per il proprio caso: BGH 21.9.00, NJW, 2001, 678). Il BGH nella specie ha sostenuto che un avvocato, che difende un lavoratore in un processo del lavoro, agisce con diligenza (im Verkehr erforderliche Sorgfalt) nelle ipotesi in cui prende in considerazione le decisioni pubblicate, specialmente quando consulta la raccolta delle decisioni della S. Corte del lavoro (BAG) (BGH 29.3.83, NJW, 1983, 1665). In maniera rigorosa si esige dal professionista un continuo sforzo di aggiornamento allorquando lo si considera responsabile per la mancata conoscenza di sentenze della Corte federale, pubblicate in riviste giuridiche a carattere omnicomprensivo (ad es. la Neue Juristische Wochenschrift e la Monatsschrift für Deutsches Recht), con la precisazione che l’obbligo concerne l’intero testo del provvedimento, per cui è negligente il difensore che si limita a leggere le sole massime (OLG Düsseldorf 26.9.79, VersR, 1980, 359, addirittura pone un termine di conoscibilità (sei settimane) delle decisioni, superato il quale la mancata conoscenza supporta la responsabilità del legale). Sulla responsabilità per mancata lettura della motivazione la dottrina pone un correttivo, ossia che dal testo delle massime risulti quella connessione logica che spinga alla lettura della motivazione (Henssler 1994a, 179). Per contro, il legale è esonerato dal conoscere le decisioni edite in riviste specializzate, fra le quali è stata inserita la Zeitschrift für das gesamte Familienrecht (FamRZ) (BGH 20.12.78, VersR, 1979, 233). La regola operazionale è che l’avvocato non avente alcuna specializzazione deve conoscere soltanto le sentenze edite nelle relative raccolte e in riviste giuridiche generali (allgemeine juristische Zeitschriften) (BGH 7.2.79, VersR, 1979, 375). Diversamente alcuni autori affermano che non si può pretendere dal legale di conoscere a memoria le sentenze della S. Corte edite nelle raccolte e nelle testate giuridiche generali, piuttosto egli si deve ambientare nella materia rilevante per il caso e adoperarsi per acquisire le necessarie conoscenze degli orientamenti giurisprudenziali consultando le fonti appena menzionate (Rinsche 1995, 46 s.). Con riferimento alla giurisprudenza di merito, non si pretende dall’avvocato comune la conoscenza delle relative decisioni pubblicate, piuttosto una loro considerazione all’interno dell’attività di elaborazione della questione da trattare. A ragione, parte della dottrina (così, Rinsche 1995, 49, sostiene che 27 non si può esigere dall’avvocato una «juristische Allwissenheit») osserva che la conoscenza delle sentenze più importanti dei giudici di merito non è conciliabile con una rapida trattazione del caso fra legale e cliente, ma solamente nelle ipotesi di vero e proprio studio della causa. Un aspetto importante emerge allorquando si analizza l’atteggiamento del legale di fronte ad una questione non trattata ancora dalla giurisprudenza o sulla quale vi è un mutamento di opinione. La mancata trattazione impone al legale di visionare tutti i casi già decisi che abbiano numerosi profili di compatibilità per una corretta soluzione (BGH 8.10.92, AnwBl, 1993, 35, estende l’applicazione della legge sulla vendita a rate (AbzG) ad un’ipotesi di fornitura di birra (Bierlieferungsverpflichtung) attraverso una decisione che ha applicato la legge a un’ipotesi di vendita di immobile che aveva a che fare con bevande). Un comportamento diligente dell’avvocato con riguardo a un atteggiamento di mutamento verso l’attuale orientamento seguito dalla giurisprudenza deve poggiare su basi solide. In questa prospettiva non può riconoscersi al difensore un affidamento meritevole riguardo alla stabilità di un orientamento giurisprudenziale quando la situazione giuridica è disputata (BGH 21.12.72, BGHZ, 60, 1973, 98). Nel procedimento di elaborazione della questione la dottrina non occupa un posto di rilievo, ma tutto dipende von Fall zu Fall e, soprattutto, dalla doppia condizione, una positiva, del tempo sufficiente, l’altra negativa, della non necessità di una misura immediata. Nel caso positivo, vanno prima di tutto consultati i commentari (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 123 ss.; Rinsche 1995, 50 s., specifica che questi costituiscono gli strumenti che fanno perdere meno tempo per avere un quadro della giurisprudenza). Istruttiva è una sentenza del RG (23.2.17, JW, 1917, 462), che ha ritenuto responsabile l’avvocato per mancata consultazione dei commentari dai quali risultavano indicazioni favorevoli per la soluzione del caso a favore del proprio cliente, mentre monografie, articoli ed altro sono da prendere in considerazione soltanto se richiamati nelle sentenze (BGH 8.10.92, AnwBl, 1993, 35), altrimenti non offrono alcun aiuto per la soluzione del caso (Henssler 1994a, 180, sottolinea l’irresponsabilità del legale in quest’area). Una parte della dottrina ritiene che il parametro temporale possa essere di molto aiuto per stabilire l’erforderlicher Wissenstand dell’avvocato, a seconda che questi abbia o meno un ragionevole tempo per la preparazione del caso. Nella prima eventualità il professionista legale deve adoperarsi per acquisire tutte le conoscenze rilevanti per la concreta fattispecie; nell’altra si possono pretendere soltanto quelle conoscenze che fanno parte del bagaglio tecnico di un professionista esperto e scrupoloso (Rinsche 1995, 52, 28 ammette pure la possibilità del professionista di avvertire che la questione è fuori della sua conoscenza e chiede quindi un po’ di tempo per valutarla). Un problema importante si manifesta nell’individuazione del ruolo degli avvocati nell’ambito del fenomeno dell’evoluzione del diritto (Rechtsfortbildung). Sulla questione è intervenuta la stessa Corte costituzionale federale, la quale ha riconosciuto ai giudici la possibilità di prendere in considerazione qualsiasi posizione giurisprudenziale e dottrinale per fondare la propria decisione (BVerfG 9.4.87, NJW, 1987, 2499, ove di fronte alla lamentela del ricorrente, secondo la quale il giudice non aveva preso in considerazione una sentenza da lui citata, precisa che questi ha piena libertà di consultare dottrina e giurisprudenza a seguito del suo potere di cercare in autonomia la giusta decisione). All’avvocato invece è interdetto lo stesso modo di procedere in quanto la «fantasia giuridica» non può esercitarsi sulle spalle del cliente. Per converso, in quanto organo dell’amministrazione della giustizia, l’avvocato non può seguire in maniera automatica e acritica le tendenze dominanti se lo scopo è quello di far evolvere il diritto (così Henssler 1994a, 180). Da ciò deriva che non ci si può stupire se l’adesione ad una interpretazione insostenibile non porti ad alcuna conseguenza qualora questa risulti a fondamento di una decisione, mentre supporti una responsabilità dell’avvocato se adoperata da questi per costruire la difesa. Nella specie, il difensore che ha seguito la prospettiva così come delineata in una consulenza compiuta da un professore universitario è stato ritenuto responsabile verso il cliente (BGH 31.10.85, NJW-RR, 1986, 1281), richiamando però in causa il Prinzip des sichersten Wegs. Tuttavia, il BGH discolpa il legale che segue le concezioni accolte da una Corte d’Appello e da comuni Handkommentaren per puntellare gli argomenti a proprio favore (BGH 18.10.84, NJW, 1985, 496; già BGH 10.11.52, BGHZ, 8, 1952, spec. 54, esonera il difensore dalla responsabilità per una «falsche Rechtsansicht» quando egli adopera la «äußerste zumutbare Sorgfalt» per acquisire una «richtige Rechtsansicht»). Nel medesimo senso di tutela dell’avvocato si colloca l’arresto del BVerfG di fronte a decisioni di giudici di merito ostinatamente contrarie all’univoco indirizzo della giurisprudenza (BVerfG 14.6.91, NJW, 1991, 2895, secondo cui il cittadino ha diritto di poter contare per la tutela dei propri interessi ad una «eindeutige höchstrichterliche Rechtsprechung», tanto più che il difensore ha il dovere di esaminare (Prüfung) la questione secondo questo principio, mentre nel dubbio deve scegliere la via più sicura). 29 2.4.3. L’obbligo di istruzione e consulenza. All’accertamento del fatto e al suo esame giuridico si collega l’obbligo del legale di procedere alla consulenza e all’istruzione del mandante (Beratungs- und Belehrungspflicht) (obbligo che va adempiuto personalmente dal professionista: BGH 23.6.81, NJW, 1981, spec. 2743). La giurisprudenza discorre precisamente di «umfassende Belehrung und Beratung» del mandante (BGH 5.2.87, NJW, 1987, 1322; BGH 8.12.83, NJW, 1984, 791; BGH 13.3.80, NJW, 1980, 2128). L’avvocato deve avere come obiettivo quello di mettere in grado il mandante di decidere consapevolmente sull’an e sul quomodo della tutela dei propri interessi (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 127). Questo dovere però non si intensifica in maniera tale da comprendere anche una «particolare energia o insistenza nel consigliare», dal momento che non è possibile una distinzione graduale dell’influenza esercitata dall’avvocato sul cliente (BGH 5.2.87, NJW, 1987, 1323, ribadisce che l’avvocato è tenuto ad una esaustiva istruzione e consulenza del cliente). Il legale deve adoperarsi per evitare al mandante pregiudizi e, nello stesso tempo, rappresentare a lui le conseguenze giuridiche che possono seguire alle sue dichiarazioni. Ad ogni modo, egli nell’attività di consulenza non può arrestarsi nel rilevare al partner contrattuale i rischi di non poter affrontare una lite giudiziaria, ma comprende pure lo sforzo di prendere posizione circa i rischi e le probabilità di perdere la causa (BGH 8.12.83, NJW, 1984, 791). Questo comprensivo obbligo di chiarimento abbraccia anche i pericoli di carattere economico degli affari in questione (BGH 12.7.60, VersR, 1960, 933; BGH 29.4.93, NJW, 1993, 2045). Per quanto concerne la delicata questione della latitudine del dovere di consulenza del professionista forense, una decisione dei giudici di Colonia sostiene che la consulenza in materia di diritto civile si estende anche alle conseguenze fiscali (LG Köln 14.3.80, NJW, 1981, 351). Nel caso di specie, una persona anziana aveva ricevuto in eredità un patrimonio consistente, per cui si era rivolto a un avvocato per avere una consulenza in proposito. La Corte di Colonia ha affermato che il legale aveva violato la Beratungspflicht perché non aveva suggerito al cliente di rinunziare all’eredità a favore dei suoi figli, in modo da risparmiare la tassazione sul doppio trasferimento. Parte della dottrina ha ritenuto troppo pesante la decisione per il professionista, salvo che dall’incarico non risulti esplicitamente un puntuale compenso per la soluzione di problemi tributari (Henssler 1994a, 181, precisa che diversamente va valutata la questione se l’avvocato è uno specialista in diritto tributario; Rinsche 1995, 42 s.). Ciò però non esonera il 30 legale dall’acquisire la conoscenza delle questioni fondamentali di carattere tributario (Hübner 1989, 7), anche perché il § 3, comma 2, BRAO, raffigura un avvocato che realizzi una consulenza in tutti gli affari del cliente, quindi pure fiscali. In una fattispecie opposta, cioè dove il cliente aveva richiesto una consulenza tributaria, la S. Corte ha ritenuto obbligato il professionista a estenderla altresì agli aspetti di diritto civile (BGH 22.10.87, NJW, 1988, 563). Il legale certamente potrebbe cautelarsi concludendo col cliente un mandato limitato (beschränktes Mandat) soltanto a certe pretese in relazione a un determinato processo. Ma questo espediente non basta non appena vengono in rilievo fattori che investono in maniera negativa diritti da far valere verso terzi. In questa prospettiva la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto responsabile per violazione della Belehrungspflicht l’avvocato che, in pendenza dell’azione contro l’intendenza di finanza, non abbia avvertito il cliente sull’imminente prescrizione del suo diritto al risarcimento del danno nei confronti del consulente fiscale (BGH 29.4.93, WM, 1993, 1508). 2.4.4. L’obbligo della scelta della via più sicura. La maggior parte dei giudizi di responsabilità a carico degli avvocati si basa sulla violazione dell’obbligo – coniato dalla S. Corte del Reich – di scegliere la via più sicura (Pflicht zur Wahl des sichersten Weges) (la giurisprudenza discorre di «sicherster und zweckmäßigster Weg»: BGH 10.6.80, VersR, 1980, 926; BGH 29.3.83, VersR, 1983, 562; BGH 7.6.84, VersR, 1984, 786; BGH 28.6.90, NJW-RR, 1990, 1242, parla di «sicherster und gefahrlosester Weg»; BGH 29.4.93, NJW, 1993, spec. 2046. Borgmann e Haug 1995, 135 s., mettono in evidenza come in giurisprudenza la formula menzionata si è trasformata, senza alcuna giustificazione, da comparativo «sicherer» a superlativo «sicherster»). «Un avvocato, al quale è stato conferito un incarico, deve curare gli interessi del suo cliente sotto ogni profilo ed eseguire la prestazione in modo tale che possano essere evitati pregiudizi correlati. Perciò la giurisprudenza sostiene che un avvocato sia nell’ambito dell’istruzione sia nell’esecuzione del mandato deve scegliere fra due strade sempre quella più sicura o meno pericolosa per il mandante e che almeno faccia rilevare al cliente i rischi conseguenti alla scelta dell’altra via» (RG 15.5.36, RGZ, 151, spec. 263 s.). 31 Secondo parte della dottrina, quest’obbligo riassume e, nel contempo, concretizza gli obblighi descritti in precedenza (Henssler 1994a, 182). Esso impone al legale, nelle (e solo nelle) ipotesi in cui possa scegliere fra più soluzioni, di adottare quella più sicura e che eviti probabili pregiudizi agli interessi del cliente. Alcuni autori offrono un esempio di siffatto obbligo: l’avvocato incaricato dal convenuto di difenderlo nel processo è responsabile se trascura di opporre determinate eccezioni confidando sul comportamento indeciso dell’attore. Per questo il difensore adempie l’obbligo della via più sicura soltanto se espone i fatti determinanti, le relative prove e tutte le eccezioni (Rinsche 1995, 57). La giurisprudenza, di solito, mantiene un atteggiamento rigido in proposito, perché crede che per scongiurare la responsabilità professionale non sia sufficiente dimostrare che la strategia giuridica seguita sia sostenibile, ma occorre che l’avvocato persegua un’interpretazione proficua per il mandante. Di conseguenza, il difensore è tenuto a interrompere la prescrizione a fronte di una concezione sostenibile, nonostante nella sua prospettiva tale problema non si ponga (BGH 29.4.93, WM, 1993, 1508). Egualmente i giudici sanzionano il professionista colpevole di aver difeso una posizione successivamente poi accolta dalla stessa S. Corte: nell’ipotesi di difetti di costruzione l’avvocato aveva preferito la soluzione del termine quinquennale di prescrizione in applicazione del § 638 BGB al posto dell’altra che prevedeva un termine minore biennale secondo le condizioni di appalto (VOB). Purtroppo per il difensore, la Corte d’Appello aveva accolto la seconda soluzione, al contrario della S. Corte, per cui si è ritenuto responsabile l’avvocato per non aver interrotto la prescrizione seguendo la soluzione biennale in quanto poteva prevedere che il giudice avrebbe potuto accogliere questa soluzione (OLG München 14.7.70, VersR, 1971, 526; BGH 7.2.67, VersR, 1967, 704; critico Henssler 1994a, 182). Tuttavia il BGH in maniera sensibile ha stabilito in suo favore che il difensore può allontanarsi dall’orientamento seguito dalla giurisprudenza allorquando sia stata oggetto di gravi critiche da parte della dottrina (BGH 21.12.72, NJW, 1973, 364). Una parte della letteratura (Henssler 1994a, 182; Rinsche 1995, 59) ritiene troppo pesante il «fardello» del professionista così come concretizzato dalla giurisprudenza, secondo la quale l’avvocato deve tener conto di tutte le interpretazioni che possono pregiudicare il cliente. Una risposta ragionevole affonda le sue radici nel dictum della Corte costituzionale che prepara l’ambiente nel quale il principio deve operare, ossia il dubbio (BVerfG 14.6.91, NJW, 1991, 2895). Soltanto in questioni nelle quali possono 32 operare più soluzioni giuridiche l’avvocato è tenuto ad esplorare le varie possibili alternative. Così, per esempio, di fronte al problema della forma della revoca del contratto di vendita immobiliare, ove si disputa circa l’uso della semplice forma scritta ovvero del documento notarile, il legale non può non scegliere la soluzione più rigorosa per tutelare al meglio l’interesse del mandante alla validità del negozio (Rinsche 1995, 57 s.). In questa prospettiva siffatto obbligo viene ricostruito come sforzo diretto a escludere rischi evitabili (Rinsche 1995, 59). Così non può essere condannato un atteggiamento del legale fedele all’interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità quando manchino seri spunti critici che sollecitino un mutamento di opinione (BGH 29.4.93, WM, 1993, 1508). D’altra parte, la giurisprudenza tenta di trasferire la propria responsabilità per decisioni sorrette da motivazioni incongrue agli avvocati allorquando esige che gli stessi «devono contrastare con tutte le proprie forze errori e sviste dei giudici» (BGH 25.6.74, NJW, 1974, 1866; BGH 24.3.88, NJW, 1988, 3016), dimenticando che nell’ordinamento processuale domina il principio iura novit curia. I difensori portano nel processo i fatti rilevanti, le argomentazioni determinanti, tutti orientati alla ricerca della decisione che rimane opera esclusiva del giudice, unico soggetto responsabile. L’obbligo del difensore di prevenire errori nella decisione si concretizza sostanzialmente in un’attività di chiarimento finalizzata a scongiurare un falsa valutazione nonché di impedimento alla formazione di errori (Henssler 1994a, 182). 2.5. La responsabilità civile dell’avvocato (Anwaltshaftung). Bibliografia Borgmann e Haug 1995 – Vollkommer, Greger e Heinemann 2009 – Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010. L’obbligo di risarcimento dei danni in capo all’avvocato viene alla luce allorquando l’inadempimento soddisfa i requisiti dell’antigiuridicità e della colpa (Verschulden). La Rechtswidrigkeit postula sempre un comportamento che integra una violazione dell’obbligo (objektive Pflichtverletzung), che, in presenza di una causa di giustificazione (§§ 227-229 BGB), non provoca alcuna conseguenza negativa per l’agente. Un comportamento colpevole si presume nella ipotesi di semplice violazione obiettiva dell’obbligo; con riferimento alla prestazione del professionista forense l’inadempimento alberga in comportamenti colposi (negligenti) (Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010, 239). 33 La colpa-negligenza, diversamente dal dolo, è definita nel § 276, comma 2, BGB: «agisce con negligenza chi trascura la diligenza necessaria nel traffico» («Fahrlässig handelt, wer die im Verkehr erforderliche Sorgfalt außer acht läßt»). Essa, costituendo un parametro astratto e oggettivo, spesso si intreccia e si confonde con l’altro e diverso problema della violazione obiettiva dell’obbligo, tanto che parte della dottrina, esaminando l’atteggiamento poco chiaro della giurisprudenza, insinua la conclusione che nell’Anwaltsrecht sia stato ormai espulso il principio della colpa (Verschuldensprinzip). Precisamente, «nell’affermazione di un comportamento dell’avvocato lesivo di un obbligo (o del contratto), l’accertamento dell’antigiuridicità e della colpa è vista dai giudici di regola solamente come una questione di forma» (Rinsche 1995, 65). In questa scia è confermata la regola secondo la quale la violazione obiettiva dell’obbligo richiama da sé l’esistenza dell’antigiuridicità e della colpa (OLG München 6.8.87, NJW, 1989, 1166, con riferimento al dovere del legale di controllare la gestione dello studio). Da altra parte si precisa che la netta cesura può risultare solamente quando nell’ambito della Pflichtwidrigkeit si esige un determinato grado massimo di diligenza e la colpa interviene come semplice correttivo; per questa via può essere riconosciuto un comportamento negligente dell’avvocato in tutte quelle ipotesi in cui abbia trascurato quella diligenza che deve osservare uno scrupoloso avvocato medio (gewissenhafter Durchschnittsanwalt) (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 176 ss.). Certamente in alcune ipotesi l’ignoranza giuridica dell’avvocato richiama di per sé il concetto di negligenza, come accade, per esempio, nei casi in cui questi ignori il giudice competente per l’appello (BGH 6.5.77, VersR, 1977, 835), il termine di prescrizione dell’azione ecc. All’avvocato comune non si può chiedere che una consultazione delle riviste giuridiche generali, come per esempio la Neue Juristische Wochenschrift, mentre dagli specialisti si esige una conoscenza settoriale acquisita attraverso una consultazione costante di riviste specializzate e delle ultime edizioni dei relativi commentari. In questo modo per i Fachanwälte si eleva la soglia della diligenza, la quale sarà quella usuale fra gli specialisti del medesimo settore (Borgmann e Haug 1995, 171). Ad ogni modo, l’appesantimento della diligenza richiesta al tecnico trova fondamento immediato nello stesso contratto: chi si spaccia come specialista deve sottoporsi al relativo criterio. Nulla impedisce che l’accordo si esterni in forma implicita, per il quale interverranno ai fini dell’individuazione del regolamento le norme generali di interpretazione negoziale contenute nei §§ 133 e 157 BGB. Certamente 34 un indizio importante a favore dell’esistenza di un rapporto specialistico sta nella misura del compenso convenuto per la prestazione professionale, tuttavia la costituzione di simili rapporti devono essere sorretti dalla particolare competenza del professionista acquisita non attraverso la semplice pratica forense. Il risultato è che i criteri di diligenza vanno orientati al Verkehrskreis cui appartiene il professionista specialista (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 183 s.). La distinzione fra Rechtswidrigkeit e Verschulden risulta importante sotto il profilo probatorio, in quanto, da una parte, spetta al mandante dimostrare l’antigiuridicità del comportamento dell’avvocato, dall’altra, è quest’ultimo tenuto a provare l’esistenza di una causa di giustificazione (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 274). L’esigenza distintiva vi è ancora di più nei casi di c.d. verbotsbezogene Rechtswidrigkeit fondata sulla violazione di una norma di comportamento. In questo quadro rientra la prestazione di servizio orientata a collegare il comportamento del debitore agli usi e all’accordo. Il professionista è tenuto così alle Sorgfaltspflichten nella misura in cui appartengono alla vertragliche Leistungspflicht. 2.5.1. Il nesso di causalità. Bibliografia Larenz 1927 – Larenz 1976 – Lange 1990 – Borgmann e Haug 1995 – Vollkommer, Greger e Heinemann 2009 – Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010. Non meno difficile si pone il problema del nesso di causalità, nel senso di stabilire se e in quali limiti l’evento dannoso possa trovare la sua causa nella violazione di un obbligo da parte dell’avvocato. Ciò significa che non di ogni danno del mandante è responsabile l’avvocato: la Kausalität rappresenta un filtro di responsabilità (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 199). Una parte della dottrina discorre in materia non tanto di causalità giuridica quanto di imputazione (Larenz 1927, 84), con la quale l’ordine giuridico instaura il collegamento di un evento ad un atto traducendosi in un giudizio di paternità (Borgmann e Haug 1995, 176). Per questa via il problema della causalità giuridica non investe la necessità di una limitazione della responsabilità ma la stessa configurazione del rapporto causale. La dottrina tradizionale per restringere le conseguenze dannose risarcibili distingue tra haftungsbegründende e haftungsausfüllende Kausalität: la prima diretta a verificare se fra il comportamento del danneggiante e l’evento lesivo sussista un legame rilevante in sede di responsabilità; la 35 seconda, orientata a risolvere la questione dell’esistenza del danno da risarcire. Nell’accertamento del fatto dannoso che provoca responsabilità, si deve dapprima appurare se fra il comportamento del danneggiante e la realizzazione della conseguenza sussista una relazione di causalità (haftungsbegründende Kausalität), e poi vedere se la conseguenza ha cagionato un danno alla vittima (haftungsausfüllende Kausalität) (Lange 1990, 77). I due giudizi (per la distinzione fra i due giudizi, Larenz 1976, 352, che richiama la fattispecie dello Schreckschaden) sono in rapporto di successione condizionata, in quanto la soddisfazione (Haftungsausfüllung) presuppone risolta in maniera positiva la questione del fondamento (Haftungsbegründung). Ormai nessuno difende più la teoria dell’equivalenza – secondo la quale tutte le condizioni antecedenti alla produzione dell’evento possiedono la medesima efficacia eziologica – dove il comportamento umano costituisce causa, purché integri una delle condizioni che portano al risultato stabilito dalla norma. L’applicazione puntuale di tale tecnica, senza alcun correttivo di ordine delimitativo, porterebbe ad un «obbligo di risarcimento senza limiti»; correttivo che integra ora la teoria dell’adeguatezza (Adäquanztheorie) ora quella dello scopo tutelato dalla norma (Lehre vom Normzweck). La teoria dell’adeguatezza incide sulle cause rilevanti per il danno, nel senso che prende in considerazione soltanto quelle che probabilmente hanno condotto all’evento. Vi è adeguatezza «quando un fatto in generale era idoneo, e non soltanto sotto particolari e improbabili circostanze da non tener conto e secondo il corso regolare delle cose, alla produzione di un evento» (BGH 23.10.51, BGHZ, 3, 1951, 261 ss., spec. 267; RG 22.6.31, RGZ, 133, 1931, 126, 127). Ma, allo stesso modo, l’Adäquanz presuppone «che la possibilità obiettiva di un evento della specie di quello subentrante in generale sia facilitata o aumentata» (RG 15.2.13, RGZ, 81, 1913, 359 ss., spec. 361). Siffatta teoria affronta, sulla base di un esame valutativo, l’imputazione delle conseguenze del danno, nella specie attraverso un giudizio di probabilità. In proposito interviene un’indagine di ordine oggettivo con la quale si considerano rilevanti tutte quelle circostanze che al tempo dell’evento dannoso erano conosciute dall’agente o riconoscibili da un «osservatore ottimale» (optimaler Beobachter) (BGH 23.10.51, BGHZ, 3, 1951, 261, spec. 266 s.), costruito quest’ultimo in senso rigoroso come soggetto quasi onnisciente, avvicinando così pericolosamente tale teoria a quella dell’equivalenza. L’insoddisfazione di tale tecnica ha spinto dottrina e giurisprudenza a porgli accanto altri requisiti di delimitazione, per cui oggi essa costituisce un 36 criterio di imputazione necessario ma non sufficiente per tutte le fattispecie (Borgmann e Haug 1995, 176). In primo luogo va richiamata la teoria dello scopo della norma violata (Normzwecklehre) [Rabel 1964, 495 ss.: «il debitore, che ha violato il diritto del creditore, è responsabile non per tutte le conseguenze concepibili del suo agire illecito, ma soltanto per i danni che colpiscono gli interessi del creditore protetti dal contratto» (496)], che condiziona l’imputabilità dei danni all’autore nella misura in cui rientrano nell’area di tutela della norma che fonda la responsabilità. L’idea portante di tale concezione riposa sul fatto che ciascun obbligo e ciascuna norma contiene una determinata area di interessi, la cui violazione giustifica la responsabilità del danneggiante: «ogni obbligo legale o contrattuale serve determinati interessi e […] soltanto il danno inflitto a questi interessi può essere imputato al debitore» (Rabel 1964, 497). Nell’ambito del contratto l’obbligo al risarcimento consegue dal fatto che il precetto contrattuale violato fosse diretto ad impedire il danno conseguente (Larenz 1976, 357 ss.). L’individuazione degli interessi tutelati discendono dal senso e dallo scopo del tipo contrattuale concreto o della norma che giustifica la responsabilità. Parte della dottrina adopera la Normzwecklehre per integrare la teoria dell’adeguatezza, di guisa che il danno deve sia costituire una causa adeguata sia rientrare sotto lo scopo di tutela della norma. Nell’ambito contrattuale l’imputazione del danno postula un’analisi degli interessi e del rischio, per cui concerne i danni che investono l’area degli interessi tutelati – individuati anche secondo un’attività interpretativa – e non quelli appartenenti all’allgemeines Lebensrisiko (v., per un’applicazione interessante, capitolo quinto, § 8.1.). In questa prospettiva, l’errore dell’avvocato provoca il risarcimento di tutti quei danni che l’obbligo contrattuale leso voleva evitare: si pensi alla violazione dell’obbligo di informazione sui rischi del processo con riguardo ai costi da sopportare in caso di soccombenza (Borgmann e Haug 1995, 177). In proposito la giurisprudenza distingue nell’ambito dei rischi sulla lite giudiziale fra consiglio sul grado di possibilità di vittoria e prognosi sui costi relativi da sopportare. Nel primo caso i giudici sostengono che se l’avvocato ha sbagliato in maniera colposa sulle probabilità di vittoria della causa e proprio attraverso le sue indicazioni il cliente ha deciso per l’instaurazione della lite, allora il professionista è tenuto a risarcire l’intero costo del processo purché si accerti che il mandante non avrebbe iniziato la lite in caso di esatte informazioni. Nell’altro, invece, la fiducia del mandante sull’esatta indicazione del professionista circa i costi processuali giustifica soltanto il risarcimento del danno che supera le indicazioni, nella specie 37 questo danno rientra nell’ambito di tutela dell’obbligo violato (OLG Karlsruhe 15.5.90, NJW, 1990, 2132). Lo stesso discorso vale per l’ipotesi di tutela del cliente di fronte ad un’incombente prescrizione del diritto o a una presunta prescrizione che costringe il cliente alla conclusione di una transazione sfavorevole (BGH 17.6.93, NJW, 1993, 2797). D’altra parte, il puro rischio dell’esito del processo (Prozeßrisiko) è subito dalla parte come rischio generale della vita e non può essere scaricato in capo al professionista (BGH 8.12.81, NJW, 1982, 573, sostiene che la falsa decisione del giudice fa parte dell’allgemeines Lebensrisiko della parte che deve subire il danno senza possibilità di rivalersi). Diverse difficoltà sorgono allorquando la causalità, siccome conditio sine qua non, riguarda l’omissione: dal nulla non si può inferire alcun effetto (Larenz 1953, 686). Parte della dottrina ricostruisce per le Unterlassungen un’imputazione mediante valutazione normativa (Larenz 1976, 368, precisa che «l’omissione di un atto, che avrebbe impedito l’effetto disapprovato dall’ordinamento, equivale alla produzione di questo effetto mediante un fare se l’agente fosse obbligato ad evitare l’effetto e ad agire a questo scopo»), nel senso che il comportamento che ci si attendeva non può essere immaginato senza che con ciò venga meno la conseguenza; un comportamento può essere imputato all’autore se questo oggettivamente può influenzare il processo causale. In questo senso occorre che il soggetto agente fosse in una situazione in cui, applicando la necessaria diligenza, avrebbe potuto impedire l’effetto antigiuridico attraverso un’attività adeguata allo scopo, cioè di prevenire il danno o quanto meno di temperarne le conseguenze (Larenz 1976, 369). L’atto omesso, in particolare, avrebbe dovuto essere in grado di impedire con sicurezza (sicher) o con alta probabilità (höchtswahrscheinlich) l’effetto, mentre non è sufficiente che esistano soltanto alcune probabilità (nur möglicherweise). La responsabilità postula non soltanto un obbligo – derivante da contratto, dalla legge, o dalla sicurezza del traffico – in capo al soggetto, in quanto la configurazione dipende anche dallo scopo di tutela (Borgmann e Haug 1995, 180); per questo, se il pericolo è situato fuori dallo Schutzzweck, non sussiste alcun obbligo per il soggetto. Così la giurisprudenza precisa che «nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e di altre prescrizioni legali di responsabilità si riconosce generalmente che un danno è risarcibile solamente quando esso cade nell’area di tutela della norma violata. Ciò accade quando si tratta di conseguenze che rientrano nell’ambito dei rischi per i quali la norma è stata emanata. È necessario un legame con la situazione di pericolo creata dal danneggiante e non soltanto un puro collegamento accidentale. Questi principi valgono anche per le pretese risarcitorie da violazioni 38 contrattuali; anche qui l’obbligo di risarcimento del danneggiante dipende dal fatto che l’obbligo contrattuale violato sia diretto a impedire danni di questa specie» (BGH 30.1.90, NJW, 1990, 2057). Qualora l’avvocato lasci prescrivere un diritto, la causalità del comportamento omesso dipende dal fatto che, da un lato, il diritto sussista effettivamente e, dall’altro, che sarebbe stato esercitato. In generale l’Unterlassung si reputa causale rispetto alla conseguenza solo se con la realizzazione dell’atto dovuto quella non si sarebbe verificata (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 204). Allo stesso modo, il danno derivante da mancata consulenza risulta imputabile al professionista nei limiti in cui sarebbero esistite buone possibilità e il cliente avrebbe seguito il consiglio. Così la giurisprudenza tiene conto dell’inclinazione personale del mandante (che, per carattere, non seguiva alcun consiglio) al fine di escludere il nesso di causalità (BGH 9.11.66, NJW, 1967, spec. 570). Nell’ipotesi di mancato consiglio, i giudici partono da una presunzione favorevole al cliente (rectius: Anscheinbeweis), secondo la quale normalmente i buoni consigli vengono seguiti (BGH 26.9.91, NJW, 1992, 240; BGH 30.9.93, NJW, 1993, 3259). Nell’ipotesi in cui sussistano più cause per il medesimo danno, esse sono tutte rilevanti (BGH 24.3.88, NJW, 1988, 3013), anche nell’ipotesi di errore giudiziale (BGH 17.9.64, NJW, 1964, 2402; BGH 15.11.78, NJW, 1979, 876; BGH 28.6.90, JR, 1991, 368). Diversi dubbi sorgono intorno alla rilevanza della causalità ipotetica (überholende o hypothetische Kausalität), nel senso di stabilire se l’autore del danno sia obbligato al risarcimento anche nell’ipotesi in cui l’evento dannoso sarebbe subentrato egualmente prima o poi a seguito di altre condizioni. La giurisprudenza consolidata del Reichsgericht è sempre stata scettica sulla rilevanza delle Reserveursachen, in quanto partiva dall’idea che un esistente nesso di causalità non poteva mai essere messo in discussione mediante eventi successivi (così, RG 13.7.33, RGZ, 141, 1933, 365, spec. 369; RG 3.3.34, RGZ, 144, 1934, 80, spec. 83 s.; RG 29.4.42, RGZ, 169, 1942, 117, spec. 120). Questa rigida posizione è stata rivista dal Bundesgerichtshof, il quale, sottolineando il fatto che nella specie non è soltanto questione di nesso di causalità, in certi casi ha riconosciuto la causalità ipotetica (BGH 13.5.53, BGHZ, 10, 1953, 6). Da parte della dottrina più attenta (Larenz 1976, 412 ss.; Borgmann e Haug 1995, 180 s.; Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 207) si precisa che il ricorso del danneggiante alla Reserveursache non è questione di Kausalität ma di Schadenszurechnung, dal momento che non è dubbio che il 39 comportamento dell’agente è causale per il danno. Ma ad ogni modo la causalità ipotetica rientra nell’ambito della quantificazione del danno (Schadensberechnung) (Lange 1990, 178 s.). Il problema è risolto comunque attraverso una costellazione di soluzioni differenziate (Fallgruppen) (Larenz 1976, 412 s.; Vollkommer 1989, 205) che per il professionista forense non hanno grande utilità, ma possono risolversi nella diversa questione della contestazione del danno lamentato dal cliente. Nell’ipotesi in cui il cliente perda la causa su una pretesa inesistente a seguito di un errore dell’avvocato, qui in realtà manca il danno (BGH 20.11.84, VersR, 1985, 146: prescrizione di un credito non dimostrabile in giudizio; BGH 2.7.87, NJW, 1987, 3255: colpa del difensore nella prescrizione del termine di impugnazione per un credito inesistente). Il medesimo itinerario – confutazione del danno – si ha nel caso in cui per colpa dell’avvocato si lasci prescrivere un credito, precludendo al titolare qualsiasi possibilità di procurarsi un titolo idoneo per l’esecuzione, ma mettendosi in evidenza la sua irrealizzabilità per la totale insolvenza patrimoniale del debitore (OLG Köln, VersR, 1988, 601). Molto delicata si presenta infine la questione del comportamento ipotetico alternativo lecito dell’avvocato, cioè a dire se questi può far valere la circostanza che il danno sarebbe lo stesso subentrato anche se avesse tenuto un comportamento conforme all’obbligo. Come esempio si porta il caso dell’avvocato responsabile del vizio di forma di un contratto che successivamente avrebbe procurato del profitto al mandante; per cui nel giudizio di responsabilità del professionista si ammette l’eccezione che nel caso concreto esistevano gli estremi affinché il mandante fosse stato avvertito dei rischi dell’operazione che escludevano la sua conclusione. Una decisione ha escluso la causalità del comportamento colposo dell’avvocato perché il credito non avrebbe potuto essere riscosso dal debitore neanche a seguito di un pflichtgemäßes Verhalten (OLG Düsseldorf 28.9.89, VersR, 1990, 489). Un autore porta l’esempio dell’avvocato chiamato a concludere un contratto, il quale per errore non assolve tale compito e a fronte della richiesta di risarcimento da parte del cliente gli eccepisce che anche se fosse stato concluso un valido contratto la controparte lo avrebbe risolto a seguito della mora del mandante (§§ 326 s., 346 ss.) (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 209 s., giustifica la soluzione per il fatto che il professionista legale deve sì assicurare la conclusione di un contratto valido ed efficace, ma non può assumersi anche il rischio del fallimento dell’operazione negoziale per motivi appartenenti al mandante. I medesimi aa. offrono un secondo esempio di comportamento alternativo con 40 riferimento all’ipotesi di adempimento anticipato del contratto da parte del mandante). La soluzione adottata dall’orientamento dominante è che la rilevanza dell’Einwand des rechtsmäßigen Alternativverhaltens deve poggiare sullo scopo di tutela della norma violata, nel senso che fra violazione della norma e danno deve sussistere una connessione interna: se la norma vuole impedire il danno causato, questo deve essere risarcito; se il danno, per contro, non cade sotto lo scopo di tutela della norma l’obbligo di risarcimento va escluso (Lange 1990, 204 ss.; in giurisprudenza v. BGH 24.10.85, BGHZ, 96, 1986, 157, spec. 173; BGH 25.11.92, NJW, 1993, 520, spec. 521). Violazioni degli obblighi di informazione e di consiglio da parte dell’avvocato non precludono sempre l’eccezione del comportamento alternativo, con la precisazione che la particolare tutela del cliente gli addossa l’onere della prova (Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010). 2.5.2. L’onere della prova. Bibliorafia Heinemann 1990 – Hartstang 1991 – Vollkommer, Greger e Heinemann 2009 – Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010. Il problema della Beweislast è orientato a individuare quale parte deve sopportare il rischio della perdita della lite a seguito della mancata prova di un determinato fatto davanti al giudice. Alcune norme disciplinano la distribuzione dell’onere della prova e in via generale in capo al debitore, così come stabilito dal § 280, comma 1, periodo 2, BGB. In assenza di una regola legale, la Beweislast trova contenuto nella c.d. «formula di Rosenberg», giusta la quale è la parte che si avvantaggia degli effetti a sopportare la dimostrazione dei presupposti previsti dalla norma. In altri termini, il titolare del diritto deve provare i presupposti che ne sono a fondamento, mentre il controinteressato deve dimostrare le condizioni che modificano, estinguono o impediscono il diritto che si vuol far valere (BGH 8.11.51, BGHZ, 3, 1951, 342, spec. 346; BGH 16.6.83, BGHZ, 87 393, spec. 399 s.; BGH 20.3.86, NJW, 1986, 2426, 2427). Conformemente ai principi esposti, il mandante, nel giudizio di regresso contro l’avvocato, è soggetto all’onere di provare il contratto concluso con il professionista (Anwaltsvertrag), l’inadempimento di quest’ultimo, la colpa, il danno e il nesso di causalità fra violazione dell’obbligo e danno (haftungsausfüllende Kausalität). La posizione del mandante nel giudizio di 41 responsabilità del professionista forense non è favorevole, perché normalmente mancano i mezzi di prova per i fatti rilevanti, tanto che non raramente risulta decisivo il problema della Beweislast per la mancata condanna al risarcimento del professionista. In questo caso non è azzardato discorrere di onere della prova come strumento di restrizione della responsabilità del professionista (Hartstang 1991, 565). L’onere della prova a carico del mandante che chiede il risarcimento dei danni nei confronti del professionista forense investe dapprima l’esistenza di un Anwaltsvertrag sulla base del quale far valere la violazione di un obbligo (Heinemann 1990, 2345 ss.; Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 270). In via negativa la comunicazione occasionale, ad esempio durante un incontro privato, di un consiglio in via amichevole da parte del professionista dietro una semplice richiesta integra un mero rapporto di cortesia (Gefälligkeitsverhältnis) che non dà diritto al compenso e all’opposto non comporta responsabilità per false informazioni (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 270). Il diritto al risarcimento del cliente spesso dipende dal contenuto (Umfang) del mandato, nel senso che a fronte del fatto che il mandante non è stato istruito in tutti gli aspetti giuridici della questione («nach jeder Richtung») l’avvocato può eccepire che il rapporto professionale non includeva anche quell’aspetto giuridico del problema. I giudici superiori in proposito interpretano nel senso che il professionista è obbligato ad una «umfassende Belehrung» in tutte le ipotesi in cui il mandante non mette in evidenza che il consiglio si riferiva soltanto a determinati aspetti del problema giuridico (BGH 22.10.87, NJW, 1988, 563, spec. 566; BGH 6.2.92, NJW, 1992, 1159 e 1160). Secondo le regole dell’onere della prova, è il mandante che deve dimostrare il carattere illimitato del mandato (BGH 29.6.06, NJW, 2006, 3496; BGH 10.2.94, NJW, 1994, 1472 e 1473), mentre all’opposto il professionista deve provare che il mandante in maniera inequivoca («unzweideutig») aveva limitato il rapporto a determinati aspetti. Anche la prova dell’inadempimento del professionista è a carico del cliente all’unisono con la regola generale in materia di positive Vertragsverletzung che onera il contraente danneggiato a dimostrare l’objektive Pflichtverletzung (con riferimento specifico alla responsabilità dell’avvocato: BGH, NJW, 1999, 2437; BGH 4.6.96, NJW, 1996, 2571; BGH 15.6.93, NJW, 1993, 3073, spec. 3076; BGH 10.10.91, NJW, 1992, 436). Nell’ipotesi di false informazioni contestate dall’avvocato spetta al cliente provare la falsche Beratung del professionista (BGH 22.9.87, NJW, 1988, 706; Heinemann 1990, 2346). A volte la questione della Pflichtwidrigkeit 42 nel giudizio di responsabilità investe la prova di fatti negativi (Beweis von Negativa), come accade nelle ipotesi in cui l’avvocato trascuri di offrire al cliente le necessarie istruzioni giuridiche, prova che è a carico del mandante (BGH 16.10.84, NJW, 1985, 264, 265; anche BGH 5.2.87, NJW, 1987, 1322 s.). Le difficoltà aumentano quando la prova della Pflichtverletzung riguarda il modo di procedere dell’avvocato secondo una Wertungsentscheidung, come ad esempio la conclusione di una transazione, l’instaurazione di un processo. In proposito il mandante ha l’onere di provare il comportamento positivo o negativo del professionista, ossia che questi ha ignorato una direttiva del cliente ovvero ha agito obiettivamente in maniera inadeguata nella tutela degli interessi del mandante (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 272; la S. Corte sottolinea che è importante verificare nelle circostanze concrete quali istruzioni e consigli ha offerto il professionista e come ha reagito il mandante: BGH 22.1.86, NJW, 1986, 2570; BGH 5.2.87, NJW, 1987, 1323). Con riferimento alla colpa, la norma contenuta nel § 280, comma 1, periodo 2, BGB addossa all’avvocato la prova che l’inadempimento non è a lui imputabile, con ciò superando la diatriba precedente alla riforma del diritto delle obbligazioni del 2001 sulla ripartizione dell’onere della prova nella ipotesi di violazione positiva del contratto. Nei casi di non liquet il problema dell’onere della prova assume una posizione significativa, in quanto la prova della violazione dell’obbligo è legata anche quella della colpa del professionista; tuttavia nei casi di inadeguatezza dell’attività dell’avvocato ovvero di non osservanza di una direttiva del cliente, la prova dovuta da quest’ultimo spesso scaturisce anche dalla prova della negligenza del professionista (Heinemann 1990, 2347). La prova del nesso causale (haftungsausfüllende Kausalität) spetta a chi vuol far valere un diritto al risarcimento dei danni e consiste nella dimostrazione che il danno sorto sia conseguenza proprio del comportamento colpevole del professionista. A favore del mandante, nondimeno, vi sono delle facilitazioni di prova (la ZPO, come gli altri ordinamenti moderni, accoglie il principio della libera valutazione della prova (§ 286), attraverso il quale il giudice forma il suo convincimento sia sui risultati dell’istruzione probatoria sia su quelli della trattazione), in quanto trova applicazione la regola del § 287 ZPO, secondo la quale il giudice ha una certa libertà nella valutazione della prova per cui possono risultare sufficienti per il suo convincimento Wahrscheinlichkeitsargumente e Lebensfahrungssätze (con questa disposizione il giudice gode di una libertà ancora maggiore, perché il parametro determinante si individua nel 43 freies Ermessen, idoneo a superare le difficoltà di acquisizione di una prova completa: BGH 7.2.68, NJW, 1968, 985; BGH 23.10.03, NJW, 2004, 445). Nell’ipotesi di Ersaztanspruch trovano applicazione le due norme contenute nei §§ 286 e 287 ZPO, di guisa che sotto la prima cade la haftungsbegründende Kausalität (la causa del danno), mentre sotto l’altra v’è la haftungsausfüllende Kausalität (la verificazione del danno) nonché l’ammontare del danno (BGH 5.3.74, MDR, 1974, 747). Con riferimento alla violazione di un obbligo di informazione e di consulenza spetta al cliente dimostrare che il danno non sarebbe seguito se il professionista avesse agito con diligenza, sempre che lo stesso cliente dimostri che avrebbe seguito il consiglio. I giudici, in proposito, vengono incontro alla situazione non felice del mandante e per questo presumono (Anscheinbeweis) che il cliente avrebbe seguito la corretta informazione nell’ipotesi in cui il professionista l’avesse esternata. Il favor probatorio trova immediata giustificazione nell’evidenza che difficoltà di prova compromettano la mancata reazione risarcitoria verso la violazione di obblighi di informazione (Heinemann 1990, 2348). Non mancano riserve sull’applicabilità della prova prima-facie in casi in cui, come questo, la presunzione riguardi decisioni individuali non strettamente collegate alle generali esperienze di vita. In questo senso, il professionista subirebbe a sua volta il grave onere di provare l’intenzione altrui, una probatio diabolica difficilmente superabile (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 275). La dottrina (Heinemann 1990, 2352), contrariamente alla giurisprudenza (BGH 1.10.87, NJW, 1988, 200, 203, ove ammette l’inversione di prova esclusivamente nelle ipotesi di danni alla persona), adopera altresì lo strumento dell’inversione dell’onere della prova nelle ipotesi di grave violazione degli obblighi professionali; nella specie ritenendo necessario che il danneggiante abbia creato col suo comportamento il rischio di un tipico danno al patrimonio. Per quanto riguarda lo hypothetischer Inzidentprozeß, la questione dell’onere della prova non pone difficoltà, perché il cliente deve dimostrare che se l’avvocato avesse esercitato correttamente l’attività egli avrebbe vinto il giudizio. In sostanza il mandante deve mettere in evidenza nel giudizio di responsabilità (Regreßprozeß) quali strategie avrebbe dovuto porre in essere il suo difensore, mentre quest’ultimo per uscire indenne dalla responsabilità deve assumere il ruolo dell’avversario del giudizio principale (Vorprozeß). La posizione probatoria del cliente non cambia dal primo giudizio a quello di regresso, come le stesse facilitazioni di prova (BGH 22.6.59, BGHZ, 30, 1960, 226, 232; BGH 2.7.87, NJW, 1987, 3255); ciò in ossequio al principio 44 secondo cui la posizione del mandante, sotto il profilo probatorio, non può essere aggravata allorquando si passa dal giudizio principale a quello di responsabilità professionale. Quanto al problema dell’ammissibilità dei mezzi di prova, si discute se esista una stretta relazione fra i due giudizi, soprattutto se l’avvocato convenuto in giudizio di responsabilità possa essere ascoltato come testimone. La soluzione dipende immediatamente dalla prospettiva naturalistica o valutativa del procedimento ipotetico: secondo la prima la risposta deve essere negativa, nel senso che sono ammissibili dal Regreßgericht esclusivamente le prove ritenute tali nel processo principale in quanto il giudice deve immedesimarsi nel primo giudizio (Braun 1983, 105 s.); secondo l’altra, invece, la soluzione deve essere positiva, perché l’ammissibilità dei mezzi di prova investe il solo giudizio di regresso (BGH 14.11.78, BGHZ, 72, 1979, 328, 332; Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 277 s.). 2.5.3. Il risarcimento dei danni. Bibliografia Patti 1989 – Lange 1990 – Vollkommer, Greger e Heinemann 2009 – Fahrendorf, Mennemeyer e Terbille 2010. Il paesaggio legislativo (dai lavori preparatori risulta che la lacuna legislativa è stata voluta dal conditor iuris perché la definizione del concetto non può comprendere tutti i casi possibili. V., anche, BGH 21.4.78, NJW, 1978, 1805, spec. 1807) non contiene una definizione di danno (Lange 1990, 27 ss., lo definisce come ogni pregiudizio di un interesse, non importa se di valenza patrimoniale o puramente ideale. Va ricordato che la soluzione opposta è preferita dall’ABGB, ove al § 1293 offre una definizione di danno come pregiudizio arrecato a un soggetto nel suo patrimonio, nei suoi diritti, nella sua persona. Un quadro esaustivo è offerto da Patti 1989, 91 ss.) e le norme contenute nei §§ 249-254 BGB investono immediatamente specie e latitudine del risarcimento del danno e non la questione dell’an. Per l’accertamento del danno è determinante il principio della Naturalrestitution collegato intimamente alla Gesamtvermögensdifferenzhypothese (§ 249 BGB) (com’è noto la tecnica di valutazione fondata sulla differenza richiama la teoria di Mommsen 1855, secondo cui l’interesse è definito come la differenza fra due situazioni patrimoniali di una persona in diversi momenti, e questa differenza diviene oggetto di un credito): il danno consiste nella differenza fra la situazione 45 effettiva del patrimonio del danneggiato e la situazione patrimoniale ipotetica che sarebbe esistita in mancanza dell’evento dannoso. Siffatta prospettiva è corretta in determinati casi attraverso valutazioni normative, con le quali si riconosce un danno in senso giuridico anche se la vittima non ha patito alcun pregiudizio al proprio patrimonio (Lange 1990, 39 ss.). La dottrina riporta l’esempio classico del pagamento dello stipendio da parte del datore di lavoro anche nell’ipotesi di malattia del lavoratore – in conformità ai §§ 616 BGB e 1 Lohnfortzahlungsgesetz – in quanto nel caso l’assicurazione sociale del lavoratore non esime l’autore del danno dall’obbligo del risarcimento perché il lavoratore non ha subito alcun danno economico (BGH 19.6.52, BGHZ, 7, 1953, 30, spec. 49; BGH 22.6.56, BGHZ, 21, 1956, 112, spec. 118; BGH 20.3.84, BGHZ, 90, 1984, 334, spec. 338; egualmente per le prestazioni alimentari v. BGH 30.3.53, BGHZ, 9, 1953, 179, spec. 191). Nel giudizio di responsabilità il vero problema si identifica nel fatto di accertare quale sarebbe stata la posizione del mandante se l’avvocato avesse agito in conformità agli obblighi pattuiti. Il BGH distingue le ipotesi di violazioni positive (positives Tun) e violazioni negative (Unterlassung): nel primo caso deve verificarsi «come si sarebbe sviluppato il patrimonio del danneggiato senza l’atto lesivo dell’obbligo»; nel secondo va esaminato «come sarebbero andate le cose in presenza di un fare conforme all’obbligo» (BGH, WM, 1988, 1454). In proposito si discorre di hypothetische Betrachtung, cioè di una valutazione che riguarda il comportamento corretto dell’avvocato alla luce di tutte le circostanze rilevanti ai sensi del § 287 ZPO (BGH 28.6.90, NJW-RR, 1990, 1241, spec. 1245). Particolare interesse suscita l’ipotesi di danno al cliente costituito dal venir meno della possibilità di conseguire una sentenza favorevole. In particolare può accadere che l’avvocato abbia agito processualmente per tutelare il diritto del mandante, ma questi viene pregiudicato in conseguenza di un suo errore colposo; oppure il diritto del cliente non è stato addirittura tutelato in giudizio per colpa del professionista. Non è dubbio che in entrambe le ipotesi l’azione in responsabilità (Regreßklage) del mandante può avere successo soltanto se si accerta che il giudice originario (Erstgericht) di fronte ad un agire corretto del difensore avrebbe deciso la causa a favore del cliente. Il danno così viene accertato per mezzo di una valutazione ipotetica (hypothetischer Inzidentprozeß), con la quale il giudice di responsabilità (Regreßgericht) deve stabilire come avrebbe deciso presumibilmente il giudice originario se l’avvocato avesse agito ordnungsgemäß. 46 Certamente le difficoltà svaniscono nel caso in cui si accerta con grande probabilità che la decisione presumibile del giudice competente è all’unisono con la decisione del giudice di regresso. A questo punto ci si chiede se sia rilevante ai fini del riconoscimento del danno una considerazione «naturalistica» (Vollkommer, Greger e Heinemann 2009, 220) o «valutativa» della fattispecie oggetto del giudizio di responsabilità. La diatriba si snoda sul punto se sia determinante accertare, ai fini della responsabilità del difensore, come il giudice competente avrebbe deciso effettivamente o come avrebbe dovuto decidere. Da una parte vi è la prospettiva naturalistica (o logica) che guarda alla decisione che effettivamente avrebbe sostenuto il giudice competente. Dall’altra, vi è la concezione valutativa che privilegia il punto di vista del Regreßgericht, cioè come avrebbe dovuto decidere – secondo lui – il primo giudice. Un’importante decisione del BGH sostiene che «l’avvocato, obbligato al risarcimento nei confronti del cliente per violazione contrattuale positiva, deve collocare con la prestazione del risarcimento dei danni il mandante nella medesima posizione che sarebbe esistita a seguito del suo comportamento corretto. [...] Per questa valutazione ipotetica risulta determinante il punto di vista del giudice del risarcimento stabilendo come il primo processo nell’ipotesi di comportamento corretto del difensore avrebbe dovuto essere risolto e non come sarebbe stato deciso presumibilmente al suo tempo dal giudice competente» (così, BGH 28.6.90, NJW-RR, 1990, 1244; l’orientamento giurisprudenziale è pacifico in questo senso: BGH 20.1.94, NJW, 1994, 1211, spec. 1213; BGH 20.12.88, NJW, 1989, 1148, spec. 1150; BGH 24.3.88, NJW, 1988, 3013, spec. 3015). L’avvocato infine è anche tenuto a risarcire la voce del lucro cessante (entgangener Gewinn) del mandante – (BGH 5.2.87, BGHZ, 100, 1987, 36, spec. 50; BGH 5.5.70, NJW, 54, 1971, 45, spec. 55) – che, se strettamente collegato a una sentenza giudiziale, richiama nuovamente le antitetiche prospettive naturalistica e valutativa. 3. L’avocat nel diritto francese. Bibliografia Maroni 1904 – Robert 1923 – Oriani 1959 – Perrod 1983 - Damien 1988 Hamelin e Damien 1995 – Ader e Damien 2008-2009 – Terré, Simler, Lequette 2009 . 3.1. Cenni storici. 47 La figura dell’avocat si rinviene, per la prima volta, in un capitolario di Carlo Magno dell’802, ma è soltanto con l’ordinanza di Philippe de Valois del 1327 che si può parlare di barreau, nel cui ambito si distinguono tre ordini di avvocati: i consilarii, consulenti talvolta della Corte, gli advocati, patrocinatori in giudizio, gli audientes o novi, che vengono addestrati alla professione. Il barreau prende il nome di ordo, ossia un insieme statutario che impone un certo stile di vita riconosciuto dalla Chiesa, simile all’ordo clericorum, dove l’avvocato è «chevalier es-loi», teso a difendere, come i cavalieri militari, i poveri e gli umili. In questo periodo la professione di avvocato è esercitata principalmente da ecclesiastici, in quanto sono i soli conoscitori delle leggi e soprattutto del diritto romano, in particolare dopo l’avvento della Scuola di Bologna, di cui Irnerio è uno dei più autorevoli rappresentanti. L’elevato numero degli avvocati aveva prodotto un attenuarsi della rigidità relativa alle regole di condotta, imposte sul piano deontologico, connesse all’esercizio della professione di avvocato e assunte a seguito del giuramento prestato al momento di entrare a far parte dell’ordine professionale. Montaigne sosteneva che gli avvocati erano una «conscience de louage»: «Vous récitez simplement une cause à l’avocat, il vous répond chancelant et douteux, vous sentez qu’il lui est indifférent de soutenir l’une o l’autre partie; l’avez-vous bien payé pour y mordre et s’en formaliser, il commence à s’intéresser, il échauffe sa volonté, sa raison et sa science s’échauffent aussi, tant que voilà une apparente et indubitable lumière qui se présente à son entendement; il y découvre une toute nouvelle lumière, le croit à bon escient et s’en persuade ainsi» (passo cit. da Hamelin e Damien 1995, 19). Il Parlamento nel 1344 si attribuì il potere di disciplinare il barreau e di statuire le regole deontologiche e, nel contempo, distinse la figura dell’avocat dal diritto a stare in giudizio, discrimen sopravvissuto fino al 1920. Nell’epoca pre-rivoluzionaria i requisiti che doveva possedere l’avvocato erano rigorosi solamente sotto il profilo formale, in quanto era sì richiesta la laurea, ma il suo conseguimento era molto agevolato, basti pensare al caso dell’università di Orange che non certo si distingueva per l’elevato livello di formazione, tanto è vero che le lauree, si diceva, erano concesse «à la fleur d’orange». In più, l’avocat doveva prestare giuramento e iscriversi all’albo di un ordine degli avvocati tenuto presso una giurisdizione (i fori sono 48 indipendenti tanto che ciascuno ha la libertà di determinare il proprio assetto, anche con riferimento all’accettazione o all’espulsione dei membri). A tale proposito interessanti sono le parole dell’avvocato generale Seguier che, seguendo l’insegnamento dei colleghi bretoni, offre una definizione di avvocato nell’età dell’Ancien Régime: «Chi è l’avvocato? È un laureato di una università del regno che si è dedicato ad un esame approfondito delle leggi e delle ordinanze, alla scienza generale dei diritti pubblico e privato, allo studio degli usi e dei costumi e che si mette al servizio dei concittadini; si dedica completamente alla difesa di coloro che attingono al suo sapere e di cui hanno bisogno per salvaguardare i loro interessi, conservare la proprietà, dimostrare la loro innocenza, conservare il loro onore e garantire la loro libertà. A volte è un consulente che chiarisce le parti, a volte è un oratore che mostra la sua eloquenza, a volte è un conciliatore che ravvicina gli spiriti e diviene il primo giudice dei clienti che lo consultano e si affidano alla sua esperienza; spesso è un arbitro, dappertutto è un uomo pubblico, ma non può esercitare il ministero se non a seguito dell’azione di un terzo che lo carica della sua difesa e delle sue doglianze» (passo cit. da Hamelin e Damien 1995, 20 s.). L’epoca della rivoluzione francese porta ad una battuta d’arresto della professione forense, sia a causa della soppressione dell’ordine degli avvocati, sia per l’affermarsi del principio della totale incompatibilità della vita delle associazioni con la libertà dell’individuo. Il decreto del 2 settembre 1789 conclude statuendo che «gli uomini di legge, in precedenza chiamati avvocati, non devono formare né un ordine, né una corporazione e non devono rivestire un costume particolare nell’esercizio delle funzioni». Gli avvocati del Foro di Parigi addirittura avevano redatto un libro orientato a «riformare gli abusi di una compagnia nel contempo aristocratica e dispotica assolutamente insostenibile nello Stato monarchico» (Damien 1988, 7). Nell’ottica rivoluzionaria si respira un clima di assoluta libertà in materia di commercio, industria e di esercizio di professioni, arti o mestieri (soprattutto con il c.d. decreto d’Allarde, 2-17 maggio 1791). La famosa loi Le Chapelier (l. 14-17 giugno 1791) e lo stesso preambolo della Costituzione del 3 settembre 1791 confermano la primazia dell’individuo a scapito di qualsiasi fenomeno associativo. Con la restaurazione vengono ammessi i costumi tradizionali degli avvocati nonché lo stesso ordine degli avvocati, inteso dal decreto del 14 dicembre 1810 come «uno dei mezzi più idonei a mantenere i suoi membri, la probità, la discrezione, il disinteressamento, il desiderio della conciliazione, l’amore per la verità e la giustizia, uno zelo chiaro per i deboli e gli oppressi la base essenziale del loro stato». In Francia il ministero degli avvocati è necessario e il sistema giudiziario è 49 suddiviso in tribunali di prima istanza e Corti d’appello. Tradizionalmente, opera una distinzione fra avoués e procuratori, in particolare per l’ambito di operatività riservato agli avvocati. Inoltre, prima di concedere l’ammissione all’albo degli avvocati, il consiglio dell’ordine procede ad un esame scrupoloso dell’aspirante e può pronunciare, in caso di incompatibilità, l’esclusione dall’iscrizione all’albo. Il maggior campo dell’attività forense è rappresentato dagli affari civili «ed una volta superate le difficoltà dei primi anni la professione si fa remunerativa» (Maroni 1904, 961). Con l’ordinanza reale del 27 febbraio 1822 il diritto di patrocinio passa dagli avoués agli avocats, segnando la nascita del foro moderno. Il suo sviluppo può registrarsi soprattutto dopo la proclamazione della Repubblica nel 1870, pur restando un fenomeno della borghesia francese. In questo periodo l’avvocato non si emancipa dall’inquadramento dell’esercizio della sua attività all’interno delle professioni liberali, in quanto la sua attività non costituisce un mestiere, ma una missione di servizio pubblico. Conseguenze immediate di tale qualificazione sono rappresentate dal fatto che l’onorario costituisce un «dono spontaneo della riconoscenza del cliente» (Hamelin e Damien 1995, 24), il professionista ha la libertà di assumere o meno un incarico nonché la sua responsabilità è ridotta in ambiti ristretti qualificandosi l’obbligazione posta a suo carico esclusivamente quale obbligazione di mezzi, non potendo l’attività del professionista essere preordinata al perseguimento, in maniera esclusiva, di un risultato. I tratti dominanti questo periodo si fondano, da una parte, su una forte espansione del numero dei professionisti forensi con un progressivo venir meno del carattere borghese della categoria e, dall’altra, su una semplificazione del linguaggio professionale. Dopo la prima guerra mondiale e la conseguente difficoltà esistente sul piano socio-economico, la professione liberale si trasforma in libera professione. L’esercizio dell’attività professionale si innesta nel meccanismo dell’impresa, imposto al fine di far fronte al fenomeno dell’ambulance (la possibilità di patrocinare in più posti nello stesso momento) nonché dell’alluvionale produzione normativa (Perrod 1983, 106). La riforma del 1920 ha cancellato tutti gli avvocati non iscritti e, soprattutto, chi non è iscritto ad un albo presso una Corte d’appello o un Tribunale avendo prestato il solo giuramento. In seguito, con la legge del 28 giugno 1941, la professione forense fissa un altro limite, teso a scoraggiare le vocazioni tardive, costituito dal Certificat d’Aptitude à la Profession d’Avocat. 50 In Francia la disciplina relativa all’ordinamento forense ha caratteri affini alla nostra e la relativa professione è suddivisa in due rami di attività, la professione di avocat e quella di avoué, non cumulabili, tuttavia, nella stessa persona. «L’avocat svolge la funzione di assistenza tecnica della parte, senza assumerne di solito la rappresentanza. L’avoué invece rappresenta la parte in giudizio e cura l’andamento del processo […]». (Oriani, 1959, 661). Il superamento delle distinzioni di categoria avviene, tuttavia, solo con la legge del 31 dicembre 1971 e con il decreto 9 giugno 1972 con i quali si realizza la fusione delle professioni forensi (avocats, avoués, agréés) e la creazione di regole deontologiche nuove. Consensi e dissensi hanno accompagnato questa riforma, in sé parziale, in quanto una larga parte della categoria si mostrava favorevole a promuovere l’idea di una «grande Profession» capace di riunire, al suo interno, tutti i professionisti legali. In questa direzione la legge 31 dicembre 1990 ha fuso le categorie degli avvocati e dei consulenti giuridici, ma altre professioni restano fuori da tale classe, come i notai, gli amministratori giudiziari, gli esperti contabili e i giuristi d’impresa. Il progetto volto a creare una categoria unitaria di professionisti appare ancora in fieri e, come bene sottolineato, «il tempo dirà se questo passo era utile e necessario e se era sufficiente per affrontare l’affaccio della Francia all’Europa» (Hamelin e Damien 1995, 27). 3.2. Requisiti per l’esercizio della professione forense in Francia. Bibliografia Terré 1967 – Lamboley 1974 – Champaud 1991 – Guyon 1991- Saintourens 1991 – Daigre e Lepeltier 1993 – Lodolini 1995 – Barcaroli 2006 – Toriello 2008 – Ader e Damien 2008-2009. La professione forense in Francia è disciplinata dalla legge professionale contenuta nel decreto 91/97 del 27 maggio 1991, modificato dal decreto 2004/1386, ove vengono specificamente indicati sia i meccanismi di accesso alla professione forense sia la formazione e l’aggiornamento professionale degli avvocati ed, infine, vi sono disposizioni dedicate alla materia dell’assicurazione obbligatoria per la responsabilità professionale. Quanto all’accesso alla professione forense la legge istituisce centri regionali di formazione disciplinandone le funzioni, l’organizzazione, i requisiti per l’accesso e le modalità di nomina delle commissioni d’esame. 51 Il decreto specifica che, ai fini dell’iscrizione presso un centro regionale di formazione professionale, occorre superare l’esame d’accesso le cui modalità di espletamento sono determinate sulla scorta di un provvedimento adottato l’11 settembre 2003, di concerto, dal ministero della giustizia e dal delegato del ministero dell’università. L’esame implica il superamento di due prove scritte e due colloqui orali. A seguito della riforma dell’11 febbraio 2004, i dottori in legge hanno accesso direttamente alla formazione teorica e pratica prevista dall’art. 12, senza dover sostenere l’esame previsto dal decreto del 1971 (art. 12-1), pur essendo tenuti, obbligatoriamente, a seguire un periodo di formazione della durata di diciotto mesi. Il provvedimento del 2003 fissa inoltre, in maniera dettagliata, le modalità di accesso al centro regionale di formazione professionale (barreaux); l’iscrizione per partecipare all’esame di accesso deve essere presentata entro il 31 dicembre dell’anno antecedente l’esame, con indicazione delle materie scelte per sostenere l’esame, corredata da un’ulteriore documentazione identificativa del candidato, nonché dalla prova del percorso formativo e accademico in possesso dell’aspirante avvocato. Il percorso di formazione si suddivide in tre semestri, il primo dei quali verte sull’acquisizione e la conoscenza degli istituti fondamentali, il secondo si basa su un progetto pedagogico individuale (PPI-Projet pédagogique individuel) e l’ultimo su uno stage presso uno studio di avvocati. La formazione ha carattere progressivo e dura, complessivamente, tre anni passando da un primo esame necessario per garantire l’accesso ai centri regionali di formazione (barreaux), ad un secondo esame, dopo aver frequentato un anno di corso, obbligatorio ai fini del conseguimento del certificato di accesso alla professione di avvocato (CAPA, certificat d’aptitude à la profession d’avocat). Tali corsi sono organizzati con il supporto delle università e comprendono, oltre alla trattazione delle materie tradizionali, prove inerenti la lingua straniera e prove sulle tecniche di protezione e di tutela in materia di libertà fondamentali. Il tirocinante pur senza sostituirsi all’avocat maître de stage, deve affiancarsi a lui nello svolgimento di ogni aspetto inerente la professione (ricevimento dei clienti, redazione di atti, partecipazione alle udienze davanti a tutte le giurisdizioni e commissioni). L’aspirante avvocato è sottoposto alle medesime regole deontologiche degli avvocati. In caso di mancato superamento dell’esame, il candidato ha facoltà di ripresentarsi per una sola volta al fine di sostenere, nuovamente, la prova attitudinale. La legge, espressamente, fa menzione delle modalità necessarie per il conseguimento dei titoli di specializzazione e dei titoli extraprofessionali. Le prove sostenute al fine di ottenere il certificat 52 d’aptitude à la profession d’avocat sono subordinate alla frequenza del periodo di preparazione presso il centro regionale di formazione professionale (barreaux). A seguito di fissazione da parte del presidente del consiglio di amministrazione del centro di formazione delle date di esame, la commissione dell’esame di avvocato deve assicurare un’adeguata comunicazione, da effettuarsi mediante notifica all’interessato almeno tre mesi prima della data indicata per la prima prova d’esame. La commissione si compone di due professori universitari in materie giuridiche, un magistrato ordinario designato dal presidente della corte d’appello, tre avvocati individuati dal consiglio dell’ordine di appartenenza, nonché insegnanti di lingua straniera. Per assumere il titolo ed esercitare validamente la professione di avocat occorre essere iscritti nell’apposito albo tenuto presso ogni circoscrizione di corte d’appello dal relativo ordine degli avvocati, definito barreau. Ai fini dell’iscrizione presso l’ordine degli avvocati, fra i requisiti richiesti è necessario aver effettuato un periodo di tirocinio non inferiore a tre anni. In tale periodo il praticante riveste, medio tempore, il ruolo di avocat stagiaire e, solo dopo il primo anno, può essere ammesso all’esercizio del patrocinio. Sull’iscrizione al consiglio dell’ordine degli avvocati provvede il Consiglio dell’ordine, previa valutazione dell’attività, delle attitudini e delle capacità dimostrate dallo stagiaire durante il periodo di pratica e dopo aver conseguito il certificat d’aptitude à la profession d’avocat. Il titolo di avvocato spetta alle persone iscritte in un tableau di barreaux francese, e tale iscrizione impone la copertura assicurativa per responsabilità civile professionale, come già previsto ex lege 31 dicembre 1971, fissando a 305.000 euro il limite minimo della garanzia assicurativa. «Ciascun Ordine forense è tenuto ad adottare un proprio regolamento, le cui disposizioni sono soggette, su iniziativa del procuratore generale, a controllo di legittimità da parte della corte di appello del circondario, e possono essere, se del caso, annullate» (Oriani 1959, 662). Per quanto concerne l’accesso alla professione forense, la disciplina sancita nel 2005 fissa il programma e le modalità di svolgimento dell’esame attitudinale per l’esercizio della professione di avvocato. La fusione delle professioni di avocats e avoués dinanzi la Corte è stata annunciata da parte del Governo in un comunicato del 10 giugno 2008. La riforma si prefigge di semplificare la procedura d’appello e di operare un’unificazione, in vista del perseguimento dell’obiettivo di creare une grande profession du droit. Due sono le funzioni espletate dall’avvocato francese a seguito della riforma del 1972, l’assistenza (assistance) e la rappresentanza (représentation). A 53 tali funzioni la disciplina contenuta nel decreto 91-1997 ha aggiunto quella tipica dell’esercizio della professione forense: quella di prestare una consulenza sul piano giuridico (conseil juridique), oltre a quella di prestare assistenza tecnica e la rappresentanza in giudizio (postulation). Inoltre, si prevede la figura dell’avvocato dipendente salarié, il quale è legato all’avvocato employeur da un vincolo di dipendenza regolato mediante contratto di lavoro subordinato, da stipularsi in forma scritta. Fondamentale è la disciplina in materia di formazione e aggiornamento professionale degli avvocati su cui ha inciso la legge 11 febbraio 2004 che ne ha riconosciuto l’obbligatorietà. La previsione normativa impone un aggiornamento professionale della durata di venti ore annuali, o di quaranta ore spalmate su un biennio; la formazione può avvenire presso i centri regionali di formazione professionale o essere organizzata dal consiglio dell’ordine degli avvocati, mediante la partecipazione a conferenze e seminari che abbiano un legame, sul piano contenutistico, con l’esercizio della professione forense, ovvero mediante pubblicazioni di lavori a carattere giuridico. 3.3. Principi giuridici essenziali per l’esercizio della professione di avvocato. L’avvocato deve prestare giuramento in questi termini «Je jure, comme avocat, d’exercer mes fonctions avec dignité, conscience, indépendance, probité et humanité». Dal momento in cui l’avvocato è iscritto presso il consiglio dell’ordine, esso è subordinato alle norme disciplinari e regolamentari dettate dal consiglio e al rispetto dei doveri deontologici. I principi fondamentali che sono posti alla base dei doveri inerenti la professione di avvocato si fondano sull’osservanza di una serie di norme che connotano, specificamente, la professione forense e che, per i loro contenuti, sembrano rivestire più una dimensione morale che giuridica. All’interno di tali principi si annoverano i doveri di esercitare le proprie funzioni con dignità, coscienza, indipendenza, probità, umanità, onorabilità, lealtà e nel pieno rispetto del giuramento prestato. L’inosservanza degli stessi implica la violazione sia di regole deontologiche, con conseguente irrogazione di sanzioni disciplinari, sia di norme inerenti l’esercizio della professione. I principi deontologici che per lungo tempo hanno avuto carattere informale e consuetudinario, sono stati tradotti in un testo scritto nel decreto 2005/79 del 12 luglio 2005, i cui contenuti sono stati adottati anche dal RIU (Règlement intérieur national). 54 3.3.1. Dovere di competenza dell’avvocato. L’avvocato è tenuto ad adottare, nei confronti del cliente, una condotta conforme alla regole poste a fondamento dell’esercizio della professione forense, ed un erreur professionelle caractérisée implica conseguenze sanzionatorie sia di carattere civile sia di natura disciplinare. L’avvocato, nell’esercizio dell’attività professionale, è tenuto ad agire con diligenza e con prudenza, adottando una condotta che, in ragione della natura dell’attività esercitata, ponga adeguata attenzione sia alle norme di carattere sostanziale sia a quelle di natura processuale. Sull’avvocato incombono, inoltre, tutta una serie di obblighi connessi all’esercizio della professione fra cui uno specifico dovere di consiglio nei confronti del cliente, in modo da fornire un’adeguata, piena ed esaustiva informazione. Il dovere di consigliare il proprio cliente si traduce nell’obbligo di dare tutte le indicazioni utili al proprio cliente e individuare la possibile linea difensiva da adottare. In tal senso non può essere ravvisata una specifica responsabilità a carico del professionista forense qualora egli abbia agito in maniera corretta e diligente, non potendo essere a lui imputabile un improvviso ed imprevedibile revirement, sul piano giurisprudenziale. Sull’avvocato incombe uno specifico dovere di agire adottando un grado di diligenza adeguato alla natura dell’attività esercitata, che si traduce nel dovere di studiare attentamente e analiticamente la causa, seguire le udienze, difendere gli interessi del proprio cliente ed informarlo sullo stato della causa e sui risultati ottenuti. L’avvocato adempie la prestazione professionale personalmente, pur avendo la facoltà di farsi sostituire all’udienza, ed è tenuto ad informare, tempestivamente, il proprio cliente dell’eventuale partecipazione alla redazione degli scritti difensivi di collaboratori di cui lo stesso intende avvalersi. Sull’avvocato grava, inoltre, il rispetto di uno specifico dovere di prudenza che gli impone di non assumere una difesa che egli sappia non essere in grado di seguire con la necessaria perizia. Esso deve, in tale ipotesi, informare, in un margine di tempo ragionevole, il cliente del proprio rifiuto al fine di consentirgli di rivolgersi, in tempo utile, ad altro professionista, non pregiudicando le ragioni dello stesso. 55 3.3.2. Segreto professionale dell’avvocato. L’avvocato è tenuto ad adempiere il dovere di riservatezza e rispettare il segreto professionale sia nel caso in cui agisca in forma individuale, sia qualora eserciti la propria attività in forma associata. Il segreto professionale ha avuto origine, storicamente, proprio nell’antica Grecia, formulato per la prima volta da Ippocrate che lo pone come uno dei fondamenti dell’esercizio della professione medica. La natura e i caratteri del segreto professionale trovano giustificazione nell’interesse giuridico tutelato, l’informazione, posta a tutela di interessi generali, e tale principio riveste il valore di norme assoluta, avente rilevanza pubblicistica (norma di ordine pubblico). Il segreto professionale è, generalmente, illimitato sul piano temporale, non può essere rivelato o diffuso dall’avvocato salva l’ipotesi, prevista dal decreto del 12 luglio 2005, in cui l’avvocato si debba difendere e solo in misura funzionale ad esercitare la propria difesa. Tale segreto si estende anche al materiale cartaceo raccolto ed intercorso tra avvocato e cliente, comprese le e-mail, fotocopie e appunti raccolti nel corso del rapporto professionale. 3.4. La responsabilità civile dell’avvocato. Legislazione Legge 31 dicembre 1971, n. 71-1130 – Decreto 12 luglio 2005 n. 2005-790. Bibliografia Ader e Damien 2008-2009 – Monéger e Demeester 2001 – Avril 2008 – Martin 2008 – Taisne 2009. Il settore della responsabilità civile dell’avvocato, negli ultimi tempi, ha registrato un forte incremento, in ragione del sensibile aumento delle richieste risarcitorie promosse nei confronti della classe forense. In tal senso, recentemente la Suprema Corte francese (Cass. 14.5.09, RD, 2010, 183), ha ravvisato sussistere un’ipotesi di responsabilità professionale per inadempimento dello specifico «devoir de compétence» gravante sull’avvocato. In effetti, il decreto n. 2005/70 del 12 luglio 2005 relativo alle regole di deontologia della professione di avvocato, impone all’avvocato di adottare, nell’adempimento dell’opera professionale, un elevato standard di competenza, diligenza e prudenza nell’esercizio della professione. La Cour de cassation, in maniera specifica, traduce, in concreto, il concetto di«devoir de compétence» che equivale ad un’adeguata conoscenza sia del 56 formante giurisprudenziale, con un costante aggiornamento delle banche dati, sia del formante dottrinale. Inevitabilmente occorre prendere atto che, allo stato, agli avvocati è richiesto il possesso di un livello elevato preparazione, sia nell’esercizio dell’attività difensiva, sia nella redazione degli atti, che non si limita alla conoscenza del diritto interno, ma si estende anche alla conoscenza e allo studio del diritto comunitario e internazionale. Il rapporto che si instaura fra il cliente e l’avvocato, a seguito del conferimento del mandato ad litem, è di natura contrattuale ed è assoggettato alla regola generale in materia di responsabilità contrattuale ex art. 1147 c.c. L’avvocato deve portare a termine il mandato «accomplissement de la mission conferée» che gli è stato conferito dal proprio cliente, salvo che quest’ultimo revochi il mandato e, qualora sia il professionista a rinunciare al mandato, egli deve informare il cliente in tempo utile al fine di non recare pregiudizio e salvaguardarne gli interessi (Decreto 11 luglio 2005, art. 13). L’avvocato cui sia stato conferito un mandato difensivo, sia che l’incarico venga conferito dal cliente (difensore di fiducia), sia che vi sia una nomina d’ufficio, una volta accettato l’incarico deve garantire un’attenta analisi, studio ed approfondimento del caso, sia nei suoi profili tecnici, sia per i suoi aspetti giuridici, ponendo, del pari, adeguata attenzione al rapporto che si instaura con il cliente, da misurare anche nella sua dimensione psicologica. La responsabilità del professionista sussiste in caso di condotta negligente per inosservanza di quel grado di diligenza necessario connesso alla natura (professionale) dell’attività esercitata. Il corretto adempimento della prestazione professionale cui l’avvocato si è vincolato con il mandato difensivo si fonda su un criterio di valutazione basato su un grado di diligenza c.d. del buon professionista che si sostituisce, per il settore della responsabilità professionale, a quella del buon padre di famiglia. La diligenza esigibile per valutare il corretto adempimento dell’obbligazione professionale, opera come una specie di modello astratto, sostituendo alla diligenza del bon père famille quella del bon professionnel. Sul piano del regime della prescrizione dell’azione la legge impone che, in caso di responsabilità extracontrattuale, l’azione si prescriva in un termine decennale (art. 2270-1 c.c.), in caso di responsabilità contrattuale, il termine prescrizionale è trentennale (art. 2262 c.c.). Tali termini, tuttavia, subiscono alcune deroghe in materia di responsabilità professionale, in specie vi è una tendenza a riconoscere un diverso regime dell’azione in considerazione della natura dell’attività esercitata. In materia 57 di prescrizione dell’azione attualmente si registra una tendenza favorevole ad individuare un termine unico, decennale, per tutte le attività poste in essere dall’avvocato. In conclusione, l’applicazione della «prescription unique de dix ans pour toutes les missions de l’avocat» sembra essere auspicabile sia per una maggiore tutela del cliente sia per una corretta applicazione del principio di certezza del diritto. Connesso all’esercizio della professione forense è il dovere, posto a carico dell’avvocato, di stipulare, obbligatoriamente, un contratto di assicurazione per responsabilità civile professionale, in ossequio agli artt. 26 ss. della legge del 31 dicembre 1971 e del titolo IV della legge del 27 novembre 1991 (art. 205 ss.). L’assurance obligatoire per responsabilità civile professionale è riconosciuta sia per gli avvocati che agiscono individualmente sia per quelli che esercitano in forma associata, al fine di garantire uno strumento di copertura assicurativa obbligatoria nel caso in cui vi sia stata una condotta negligente sul piano professionale. 4. L’abogado nel diritto spagnolo. Bibliografia Maroni 1904 – Álvarez López 2000 – Serra Rodríguez 2001 – Crespo Mora 2005 – Lazari e Mancaleoni 2008 – Martí Martí 2009. L’ordinamento positivo spagnolo fonda la propria disciplina regolamentare su una serie di disposizioni normative, fra cui si segnala la legge sull’ordinamento giudiziario del 1870 e gli statuti del 15 marzo 1895. L’unità cui esso si riconduce è dovuta, principalmente, ai singoli statuti adottati da ciascun Collegio degli Avvocati, il cui modello di riferimento è ispirato alla disciplina in vigore presso il Collegio degli Avvocati di Madrid. L’avvocatura è assolutamente libera ed è sufficiente, ai fini dell’esercizio della professione forense, essere licenciado en derecho. L’esercizio della funzione di avvocato viene conferita ad un dottore in giurisprudenza (licenciado en derecho) a norma dell’art. 542 Ley organica poder judicial (LOPJ), che sia iscritto presso un Colegios de abogados. In Spagna, attualmente, ai fini dell’esercizio della professione forense, non è richiesto alcun periodo di pratica obbligatoria. Il meccanismo di accesso per l’esercizio della professione forense si sta avviando, tuttavia, ad una riforma radicale, ad opera della Ley 34/2006 diretta a modificare, in maniera profonda, il procedimento di selezione per l’esercizio della professione di 58 avvocato. Tuttavia, proprio al fine di garantire un passaggio graduale e progressivo, l’entrata in vigore della previsione normativa non ha avuto attuazione immediata, prevedendosi un periodo di transizione di cinque anni decorrenti dalla data di pubblicazione nel Boletín oficial del Estado. Inoltre, la previsione di legge, in ossequio al principio di successione di leggi nel tempo, non muterà la status degli avvocati già iscritti al Consiglio dell’ordine nel momento di entrata in vigore della legge, sia che essi operino come ejercientes sia come non ejercientes Sul piano dei diritti e dei doveri relativi all’esercizio della professione forense, può registrarsi una certa linea di continuità, sebbene si segnalano alcune differenze sul piano della disciplina, fra il sistema spagnolo e quelli italiano e francese. «Notevole il fatto che occorre la fede cattolica per esercitare la professione forense avanti ai tribunali ecclesiastici, e l’altro dell’esistenza “des abogados de beneficiencia” destinati a perorare le cause degli enti amministrativi destinati alla beneficienza» (Maroni 1904, 962). Il contratto che si instaura tra professionista e cliente ha natura contrattuale, ed ha ad oggetto la prestazione di un’opera e di un servizio da considerarsi, ex art. 1583 ss. c.c., alla stregua di una locatio operarum. Le norme di riferimento in materia di obblighi che gravano sul professionista forense trovano la loro fonte normativa nel Codigo civil, in particolare agli artt. 1583 ss. c.c., collocati nel capitolo III, titolo VI, sezione I, sotto la rubrica contratto di affitto d’opera e di servizio. Il concetto di contratto di arrendamiento de obras y servicios contemplato negli artt. 1583-1587 c.c. si estende, in quanto compatibile, al rapporto contrattuale che si instaura fra avvocato e cliente che si qualifica come contrato de arrendimiento de servicios de l’abogado. La dottrina e la giurisprudenza, unanimemente, tendono ad inquadrare la relazione che si instaura tra avvocato e cliente come un arrendamiento de servicios ex art. 1544 c.c. L’avvocato è tenuto, dopo aver ricevuto il mandato difensivo dal proprio cliente, a porre in essere un arrendamiento de servicios jurídicos o locatio operarum, in quanto il professionista forense si obbliga a prestare un determinato servizio. Nel contratto di arrendamiento de servicios jurídicos la prestazione dell’avvocato si qualifica di mezzi e, in particolare, la dottrina parla di «“mejores medios” para la obtención del resultado inicialmente proyectado. Pero esa “obligaciónes de los mejores medios” debe presentarse con unos niveles de calidad y 59 pureza propios de la professión en la que se ejercita. A estos niveles de calidad en la prestación de servicios la jurisprudencia los denomina “lex artis”» (Martí Martí 2009, 59) Uno degli obblighi fondamentali che incombono sull’avvocato nell’adempimento del contratto d’opera professionale è quello di adottare una condotta diligente, perita e prudente, conformando la propria azione ad uno standard qualitativo elevato e osservando la lex artis imposta dall’attività professionale svolta. In tal senso, si veda la sentenza del Tribunal Supremo (26.2.07, Pratica, 51, 2007, 41 ss.), relativa ad un caso di omissione da parte dell’avvocato per aver fatto decorrere, inutilmente, il termine di prescrizione dell’azione a titolo di responsabilità extracontrattuale. Il Tribunal Supremo ha riconosciuto, nel caso di specie, che il cliente ha omesso di fornire un’adeguata prova circa la possibilità che l’eventuale azione, ormai prescritta, avrebbe avuto esito positivo. La natura giuridica dell’obbligazione professionale che l’avvocato assume può essere qualificata come obbligazione di mezzi (obligación de medios), essendo lo stesso tenuto ad adottare, nell’adempimento della prestazione professionale, la diligenza necessaria (lex artis) al fine di realizzare un risultato, pur senza essere vincolato al suo perseguimento. Nel contratto di arrendamiento de servicios jurídicos l’avvocato si impegna ad adempiere l’obbligazione con diligenza, utilizzando tutti i mezzi ritenuti funzionali al perseguimento del risultato sperato dal cliente, pur senza essere tenuto a perseguire il risultato tout court in quanto, in ossequio alla regola generale, l’avvocato non assume su di sé un’obbligazione avente ad oggetto il perseguimento di un risultato. La giurisprudenza ha elaborato un concetto esteso di diligenza del «buen padre de familia» sancito all’art. 1719 c.c, criterio di diligenza che, tuttavia, non può essere adottato in caso di esercizio di attività professionale. Il regime di responsabilità dell'avvocato «Estatuto General de la Abogacía Española» (Decreto Reale 22 giugno 2001, n. 658) (EGAE) delinea una formulazione più specifica delle norme che regolano la professione, sebbene tali previsioni hanno natura puramente regolamentare e, dunque, non hanno efficacia normativa diretta. L’avvocato nell’adempimento del mandato difensivo è tenuto a rispettare e mantenere il segreto professionale (art. 42, Estatuto General de la Abogacía), nonché ad osservare le norme deontologiche che regolano l’esercizio della professione forense. Oltre alle obbligazioni nascenti dal vincolo contrattuale avvocato-cliente, l’art. 53 Estatuto General de la 60 Abogacía impone al professionista di mantenere un’assoluta riservatezza con riguardo a qualsiasi informazione appresa nel corso del rapporto. La responsabilità colposa sussiste in caso di inosservanza delle regole di diligenza prescritte nell’esercizio dell’attività professionale e, fra le ipotesi più estreme, si segnala il caso di omessa indicazione da parte dell’avvocato, nella presentazione della domanda giudiziale, di elementi essenziali ai fini della sua validità, nonché l’ipotesi di errori di natura processuale (v. Tribunal Supremo 14.7.05, Pratica, 32, 2005, 38, relativo alla proposizione, da parte dell’avvocato, di un ricorso in cassazione con difetti di natura processuale). In Spagna, permane una netta distinzione fra le figure di procuratore e di avvocato, in specie l’art. 37 dello Statuto generale dei procuratori (R.D. 5 dicembre 2002, n. 1281) stabilisce che sussiste nei confronti dell’avvocato che funge da rappresentante processuale, il dovere di agire, nell’esercizio dell’attività professionale, con diligenza e perizia, rispettando i doveri di lealtà, probità e correttezza. Il vincolo professionale che lega l’avvocato al cliente è di segno diverso rispetto a quello che si instaura tra procuratore e cliente. In primo luogo la qualificazione giuridica della relazione contrattuale tra avvocato e cliente, nella maggior parte dei casi, salvo eccezioni, trova la sua fonte normativa in un contratto di prestazione di servizi, e una delle primarie obbligazioni dell’avvocato è di adempiere correttamente la prestazione professionale. Diversamente, la qualificazione giuridica della relazione che si instaura fra procuratore e cliente si fonda su un contratto di mandato con potere rappresentativo ai sensi degli artt. 1718 e 1719 c.c. Il procuratore (art. 543 LOPJ) svolge la funzione di rappresentante delle parti e sullo stesso incombe, al pari dell’avvocato, il dovere di riservatezza e di rispetto del segreto professionale. Pertanto il procuratore è il rappresentante delle parti dinanzi al giudice, agisce in nome e per conto delle parti in sede giudiziale e riceve le comunicazioni inerenti il giudizio e tutte le notificazioni degli atti processuali. Tuttavia il procuratore non può formulare alcuna richiesta senza che la stessa sia stata avanzata dall’avvocato e dallo stesso sottoscritta, svolgendo, precipuamente, funzione di cooperazione con gli organi giurisdizionali nell’esercizio delle funzioni pubbliche di amministrazione della giustizia. La responsabilità dell’avvocato sorge per inadempimento contrattuale (artt. 1101 c.c.). L’art. 1101 c.c. concerne la disciplina degli effetti dell’inadempimento nascente da un vincolo contrattuale, il cui omologo, in ambito extracontrattuale, si rinviene nell’art. 1902 c.c. 61 Inoltre, ai sensi dell’art. 102 Estatuto General de la Abogacía: «Los Abogados en su elercicio profesional están sujetos a responsabilidad civil cuando por dolo o negligencia dañen los intereses». 5. La professione forense nel diritto inglese. Bibliografia Pollock e Maitland 1959 – Oriani 1959 – Megarry 1962 – Varano 1973 Megarry 1982 - Baker 1986 – Prest 1986 – Atiyah e Summers 1987– Abel 1988 – Cannata e Gambaro 1989 – James 1989 – Bindman 1990 – Stalteri 1991 – Mattei 1992 – Jackson 1993 – Gambaro 1996 – Gallo 1997 – Moccia 2005 – Nitti 2008. 5.1. Cenni storici. La categoria dei professionisti forensi trova espresso riconoscimento nel common law inglese, in particolare nella duplicazione delle figure degli attorneys e dei pleaders, questi ultimi specializzati nella trattazione delle cause davanti ai giudici, come disposto già nel XIII sec. da Re Eduardo I (Abel 1988; Baker 1986, 75; Pollock e Maitland, 1959, 216). Nel secolo successivo dai pleaders discendono i serjeants at law e gli apprentices at law (Holdsworth 1903, 440), ove i primi diventano immediatamente gli esclusivi interlocutori della Court of Common Pleas (James 1989, 56; Gallo 1997, 283). Il modello di common law si caratterizza, tuttavia, per lo stretto legame esistente fra bench e bar, in quanto i giudici superiori vengono selezionati proprio dai serjeants at law. In questo senso si avverte che «la storia degli avvocati e quella dei giudici inglesi non può essere narrata disgiuntamente» (Mattei 1992, 49). Nel XIV secolo nascono «the most English of all English Institutions» (Maitland 1911a, 78 ss., spec. 84.), ossia gli Inns of Courts (i più importanti dei quali sono: Lincoln’s Inn, Middle Temple, Inner Temple, Gray’s Inn), istituzioni orientate, fra le altre competenze, anche a preparare alla professione forense (Maitland 1911, 427 s.), la cui frequentazione permette l’accesso fra gli apprentices at law (la formazione professionale riposa soprattutto sui moots, simulazioni di udienze processuali che servono a preparare gli studenti alla professione: Holdsworth 1903, 437). L’organizzazione della professione forense, l’insegnamento del diritto e l’ammissione all’avvocatura dipendono dagli Inns of court. Tra i componenti dell’Inn si hanno tre distinte categorie: i benchers, i barristers e 62 gli students. I primi formano i bench, che rappresentano l’autorità collegiale, i secondi corrispondono ai nostri avvocati. Le regole di ammissione all’Inn sono stabilite da un regolamento pubblicato nel 1872 dal Consiglio degli Inns of court. Fra i barristers si distinguono gli attorney e il sostituto del barrister il solicitor, anello di congiunzione fra il governo e il foro. Il titolo di Queens counsel si acquista per anzianità e dietro presentazione di domanda da parte degli avvocati in possesso della maggiore esperienza, e vale quale titolo di preferenza per far parte della magistratura, garantendo anche l’aumento della reputazione vantata dall’avvocato. Il termine barrister appare per la prima volta nel 1465 nei Black Books del Lincoln’s Inn, per poi riguardare tutti quei soggetti che sono ammessi in uno degli Inns of Court (Holdsworth 1903, 423 s.). Un’ulteriore figura professionale che compare nel XVI secolo è il solicitor, professionista che esercita la medesima attività degli attorneys, soltanto che la esercita davanti alle Courts of Chancery (le due professioni sono state abolite solamente con lo Judicature Act del 1873). Nello stesso tempo iniziano gli sforzi dei barristers di estromettere solicitors e attorneys dagli Inns of Court, sforzi che troveranno realizzazione due secoli più tardi (Prest 1986, 282). Tuttavia, questi ultimi tutelano i propri interessi con la costituzione della Law Society (fondata nel 1825), istituzione disciplinata dalla legge orientata alla formazione e all’ammissione dei solicitors, oltre a compiti disciplinari (Solicitors Act 1974). La professione legale in Inghilterra è distinta in due separati rami di attività rispettivamente differenziata nelle figure del barrister e del solicitor. Tale distinzione non separa, tuttavia, in maniera netta, le rispettive funzioni attributive, in quanto il solicitor, che corrisponde alla figura del procuratore, esercita oggi, in numerose controversie, la funzione di assistenza giuridica propria dell’avvocato difensore, fatta eccezione per i processi pendenti davanti alla House of Lords, alla Supreme Court e alla Central Criminal Court, ove è obbligatorio il patrocinio di un barrister. L’attività del barrister si esplica, essenzialmente, nell’assistenza giuridica della parte, relativa alla redazione di memorie difensive. Il titolo di barrister viene ottenuto quando sia stata riconosciuta l’abilitazione da parte di uno dei quattro Inns of Court, associazione private fra barristers rette da propri statuti. Gli Inns of Court, in origine collegi di diritto, godono di reciproca indipendenza e di autonomia organizzativa e provvedono, in conformità ai propri statuti, all’ammissione degli studenti, conservando il loro originale carattere di scuole di diritto legittimate a riconoscere l’abilitazione all’esercizio della professione. 63 «La vigilanza sulla professione e i procedimenti disciplinari sono di competenza dell’Inn al quale il barrister appartiene. […] Di rilievo ai fini dell’esercizio professionale è la distinzione dei barristers in due classi: i King’s Counsels, che nei tempi antichi effettivamente esercitavano la funzione di consulenti della Corona, e che oggi sono comunemente indicati come leaders». (Oriani 1959, 665). Fra la parte e il barrister non si instaura un diretto rapporto giuridico; è il solicitor che conferisce, a nome proprio, l’incarico al barrister, il cui ufficio è quello dell’assistenza tecnica al solicitor. L’azione processuale del barrister spiega effetti vincolanti per la parte. Il solicitor al pari della figura, oggi non più esistente nel nostro ordinamento, di procuratore, è soggetto oltre ai rapporti di natura privatistica con il cliente, anche alle altre norme che, in generale, regolano l’esercizio della professione. Oggi sarebbe errato credere che i barristers siano esclusivamente trial lawyers, mentre i solicitors office lawyers. Ciò è vero solo in parte: i barristers trascorrono la maggior parte del tempo nelle chambers work, nelle quali redigono documenti legali, forniscono pareri giuridici, preparano la difesa per cause attuali o eventuali; diversamente i solicitors difendono la parte avanti alle corti minori (magistrates’ courts e County Courts), in quanto essi non hanno il right of audience presso le corti superiori. Di conseguenza, la distinzione reale fra le due figure professionali non risiede nel fatto che i barristers «do more advocacy and trial work than solicitors», perché possono esistere dei solicitors che esercitano l’attività forense in maniera più continuativa di alcuni barristers. La distinzione riposa su altri elementi caratteristici di ambedue le figure professionali, ove con riferimento al barrister si concretizzano nel loro esiguo numero, nella loro struttura centralizzata, nella loro omogeneità nonché nel particolare rapporto che intercorre fra questi e il giudice tanto da far diventare il barrister un «officier of the court», quindi più un «guardian of the judicial process» che non un «mouthpiece of his client» (Atiyah e Summers 1987, 359 s.). I barristers iscritti sono in rapporto di circa uno a dieci rispetto al numero dei solicitors. Per di più essi sono divisi in due classi, i juniors e i Queen’s Counsels (Qcs), ove quest’ultimi comprendono quei professionisti affermati che esercitano la professione da quasi vent’anni e che non superano le cinquecento unità (Hood Phillips e Hudson 1977, 37). Il titolo di Queen’s Counsel è collegato al possesso di un determinato standard di competenza nella professione al punto tale da costituire per il solicitor che ha chiesto un parere legale una ragione di esonero da responsabilità per negligence 64 (Atiyah e Summers 1987, 361, avvertono che l’esonero si fonda più sul piano della ragionevolezza che del diritto: «someone who relies on an opinion from a QC will normally be held to have acted reasonably, unless there are special circumstances suggesting for some reason that the opinion is unreliable»). La circostanza che la maggior parte dei barristers esercita la professione nella capitale e addirittura in un numero limitato di zone giustifica la forte coesione che lega i membri della categoria. Gli Inns of Court tutelano molto da vicino i propri membri (per es. approvano il posto dove il barrister ha lo studio) e governano interamente la professione, dalla formazione all’accesso, fino ai provvedimenti disciplinari. Il numero esiguo non può certamente spiegare questo forte spirito di coesione che si instaura fra i barristers, se non si tiene conto anche del fatto che essi fanno vita in comune nelle sale degli Inns, dalla biblioteca ai pasti. Il risultato è che essi formano un «very “cliquey” group», nel quale è normale che i barristers avversari discutano in anticipo le possibili soluzioni della controversia. Da non sottovalutare è, altresì, l’elevata estrazione sociale dei barristers, la conoscenza della lingua della BBC e la capacità di sopportare le asperità dei primi anni di attività professionale insite nelle difficoltà di reperire un posto nel foro affollato, che impongono, almeno nei primi anni, la necessità di fruire ancora dell’aiuto finanziario della famiglia (Atiyah e Summers 1987, 364, mettono in evidenza come il carattere omogeneo della categoria è messo in pericolo dalla costituzione di un «black bar» nonché dall’esistenza di barristers indiani e asiatici). Altra peculiarità di siffatta professione riguarda lo stretto legame che corre fra barristers e giudici, poiché quest’ultimi sono nominati da quelli, soprattutto dai Queen’s Counsels. Alcuni chiaramente affermano che il bar costituisce l’apprendistato per la magistratura (Megarry 1982, 388 ss.). La forte convergenza fra le due categorie è manifestata non soltanto da una vita sociale e culturale in comune ma anche dall’utilizzazione del medesimo linguaggio e stile nonché della stessa struttura argomentativa. Una counsel’s opinion costituisce una forma di training per la stesura di sentenze giudiziali: il barrister quando scrive assume una posizione piuttosto distaccata ed imparziale, orientandosi più all’essere (as it is) che non al dover essere (as it ought to be). Lo stretto legame fra bar e bench è ancora più giustificato dal carattere orale dei procedimenti davanti alle Corti di appello e la mancanza della giuria civile incoraggia una discussione strettamente tecnica delle questioni giuridiche. Un ultimo tratto distintivo concerne il ruolo del barrister come «genuine officer of the court» e «guardian of the judicial process», il quale distacca in 65 modo considerevole il professionista dal suo cliente e ciò è dimostrato dal fatto che il processo non inizia su semplice ordine di quest’ultimo. Il barrister esamina il caso e decide se vi sia materia sufficiente per iniziare una controversia o se vi siano motivi sufficienti per iniziare un procedimento d’appello. Egli costituisce una sorta di filtro che garantisce la perseguibilità di controversie in via giudiziale (Atiyah e Summers 1987, 368). Il solicitor, come «a man of affairs» (Megarry 1962, 13), assolve compiti di consulenza e di contatto con il mandante per la tutela dei suoi affari. La sua attività verte dalla consulenza in tutti gli affari giuridici alla rappresentanza del mandante nelle transazioni, non dimenticando le alienazioni immobiliari e la redazione di contratti e testamenti (Cecil 1970, 13 ss.; Hood Phillips e Hudson 1977, 34). Tale figura di professionista svolge anche compiti di rappresentanza processuale, ma soltanto davanti alle Corti inferiori, come le Magistrates’ Courts, i Justices of the Peace e le County Courts. Per le Corti superiori egli ha bisogno del barrister, il quale non ha un contatto diretto con il cliente ma soltanto con il solicitor. Uno dei primi aspetti che colpisce del modello giuridico-forense inglese è la presenza di due diverse branche dell’avvocatura, rispettivamente rappresentate dal barrister e dal solicitor. Tali figure tradizionalmente e storicamente svolgono ruoli separati ed entrambi controllano i rispettivi ordinamenti e l’accesso della professione, assicurando un’elevata qualità dei loro membri. Gli avvocati inglesi si inseriscono nella struttura costituzionale e tale caratteristica è specificamente appartenente al modello di common law. «Il ruolo fondamentale degli avvocati inglesi vale, in particolare, per i barristers, che hanno contribuito allo sviluppo del common law sia come avvocati che, alcuni di essi, come giudici delle corti superiori. Per i solicitors questa affermazione non ha invece fondamenti storici anche se le riforme intervenute a partire nell’ultima parte del secolo scorso in seguito ad un dibattito, apertosi negli anni cinquanta, sull’opportunità di mantenere l’esistenza di due rami separati dell’avvocatura. […] Il condizionale, però, è d’obbligo visto che dopo quindici anni dall’entrata in vigore del Court and Legal Service Act 1990, soltanto una minima percentuale di solicitors ha chiesto e ottenuto il right of audience di fronte alle corti superiori» (Nitti 2008, 98). Tuttavia, le attività principali dei solicitors restano quelle stragiudiziali di consulenza e di conveyancing, quest’ultima molto delicata in quanto, mancando un sistema di trascrizione che consenta di garantire l’acquisto del diritto immobiliare, postula un accurato esame di ogni titolo giuridico. Va aggiunto però che la conveyancing non è più monopolio dei solicitors in 66 quanto, a seguito dell’Administration of Justice Act del 1985 e del Building Societies Act del 1986, tale attività spetta anche al nuovo professionista denominato licensed conveyancer; mentre allo stesso tempo è stata concessa anche a banche e a società immobiliari. L’organizzazione professionale dei solicitors è la Law Society, alla quale aderisce l’85% circa dei praticanti. Essa rilascia il c.d. «practising certificate» che permette di esercitare la professione ed è altresì competente per la formazione dei futuri solicitors attraverso l’attività del College of Law. Egualmente siffatto organo ha il potere di emanare le Practise Rules che servono a regolare l’attività dei solicitors in maniera vincolante. La professione di barrister risente, pur nel contesto attuale, di tradizioni e strutture sociali di epoche remote, e riposa sul prestigio dei suoi ministri, e su antiche tradizioni; il suo rilievo è proporzionale alla dignità che la società inglese riconosce a tale figura, anche se, a livello economico, la professione di solicitor presenta maggiori attrattive. Inoltre, occorre tenere conto che in Inghilterra il passaggio dallo scanno al ruolo di giudice è frequente, le nomine alle corti di ultima istanza sono tradizionalmente riservate ai barristers. Nel modello inglese la legge si limita a dettare un quadro generale di riferimento, lasciando ampi spazi, maggiori rispetto a quelli degli ordinamenti continentali, in favore di un’autoregolamentazione delle professioni. La ragione giustificatrice di tale assetto è rinvenibile nel ruolo esercitato dal Parlamento in cui la volontà è sovrana e può produrre qualsiasi effetto giuridico. In assenza di una costituzione che detti norme e che eserciti un potere normativo sovraordinato al legislatore ordinario, il Parlamento può adottare qualsiasi provvedimento con l’unica limitazione di non poter vincolare i legislatori successivi sia per i contenuti sia per le modalità di formazione degli statutes. «In tale quadro costituzionale si inserisce, quindi, il potere di autoregolamentazione delle associazioni professionali, ampiamente delegato dal legislatore» (Nitti 2008, 102). Negli ultimi venti anni le professioni inglesi hanno subito un forte mutamento che sta, progressivamente, portando a valutare l’opportunità di ridurre le distanze fra le due professioni di barrister e solicitor. I tre momenti fondamentali di questo percorso che tende ad una modernizzazione delle professioni forensi in Inghilterra ed un riavvicinamento delle figure di barristers e solicitors sono rappresentati dal Courts and Legal Services Act del 1990, dalla sentenza della House of Lords 67 del 2000 Arthur J. S. Hall and co. V. Simons e dalla modifica, in via di autoregolamentazione, della struttura del Bar Council e Law Society del gennaio 2006. Tale spinta riformatrice ha tratto nuovo impulso anche dalle sollecitazioni che sono promanate a seguito di un’indagine commissionata dal Governo inglese ad un soggetto indipendente. Fondamentale, in questo percorso di modernizzazione, è l’aver coinvolto numerosi soggetti istituzionali, il Parlamento, i giudici, il Governo e le associazioni professionali, che insieme possono concorrere a disegnare il nuovo assetto degli ordinamenti professionali. Il percorso per accedere alla professione forense si svolge in due tappe l’Academic Stage e il Vocational Stage ai quali si somma un periodo di tirocinio che per i barristers si denomina pupillage e per i solicitors, training contract. La fonte principale per la regolamentazione delle funzioni di barrister è contenuta nel Code of Conduct adottato dal Bar Council ed entrato in vigore il 31 ottobre del 2004. Per esercitare la professione forense sia i barristers sia i solicitors ogni anno devono ottenere un nuovo certificato di abilitazione, dietro il pagamento di una determinata somma di denaro. Il Governo inglese ha, anche in tempi recenti, intrapreso alcune iniziative volte a verificare il livello di concorrenza nelle professioni, in particolare quelle legali. In effetti una delle riflessioni che ha condotto alla revisione normativa delle due strutture del Bar Council e Law Society è stata determinata proprio dalla circostanza che questi due organi condividono alcune funzioni relative alla formazione, ai requisiti di accesso e al procedimento disciplinare con gli Inns of Court e, dunque, si è avvertita, in misura progressiva, l’esigenza di separare le funzioni regolative da quelle rappresentative. A partire dal 2006, la Law Society ha scisso le funzioni di regolamentazione dalle altre, prevedendo quale organo di vertice dell’associazione, il Council of the Law Society, formato da 105 membri cui sono affidate le principali funzioni di governo dell’ente. 5.2. Il Courts and Legal Services Act del 1990. La legal profession è stata oggetto di una radicale riforma a seguito dell’emanazione del Courts and Legal Services Act 1990 parificato, per importanza, alle grandi riforme del secolo scorso attuate dal County Courts Act del 1846 e dai Judicature Acts del 1873-75, che hanno unificato le corti di equity e di common law. 68 Sulla riforma un senior judge (Lord Ackner) è convinto che «il Courts and Legal Services Act minerà gravemente l’integrità del nostro sistema di giustizia, che si è sviluppato nel corso dei secoli, e ne diminuirà sensibilmente la qualità» (cit. da Jackson 1993, 165). Va notato che già dalla metà del novecento − a seguito della caduta degli steccati sociali esistenti fra le due categorie professionali dei barristers e dei solicitors [(i forti guadagni derivanti dall’attività di conveyancing esercitata fino a poco tempo fa in regime di monopolio hanno permesso ai solicitors di acquisire un certo prestigio nell’ambito della società (Varano 1973, 77)] − si discuteva di unificazione, da parte della lower branch (così è definita la categoria dei solicitors in contrapposizione alla higher branch che riguarda i barristers), ma osteggiata fortemente dai barristers, preoccupati dall’elevato numero dei solicitors. Il livellamento culturale e sociale delle due categorie ha preparato il substratum necessario per una riforma diretta ad una immediata loro fusione o mera giustapposizione non fondata su una competenza bipartita (in proposito Varano 1973, 95 ss., sostiene che la totale fusione delle due categorie professionali non preclude una specializzazione fra gli esercenti in ordine all’attività di difesa giudiziale o di consulenza stragiudiziale). Sotto il profilo economico, si è evidenziato che l’impossibilità per il cliente di trattare direttamente col barrister ha provocato un aumento dei costi, senza garanzia su una migliore qualità del patrocinio in giudizio; anzi non era rara l’eventualità che il barrister seguisse puntualmente nel dibattimento le istruzioni del solicitor esperto in litigation (Bindman 1990, 1712 ss.). Con il Courts and Legal Services Act 1990 le limitazioni al right of audience della lower branch sono venute meno. La legge statuisce che l’esercizio del diritto di advocacy presso qualsiasi corte presuppone che il soggetto appartenga ad una categoria della legal profession iscritta presso un organo statale creato appositamente (Lord Chancellor Advisory Committee) per concedere il patrocinio presso ciascuna corte. Dall’impianto legale si ricava l’impressione che la concessione del right of advocacy e del right to conduct litigation competerà, per quanto concerne la difesa avanti alle corti superiori, ai barriters ed ai soli solicitors specializzati in materia di litigation, visto il rigore del giudizio di idoneità (così efficacemente Stalteri 1991, 401). Da altra parte, si avrà l’apertura del patrocinio, limitatamente ad alcuni gradi di giurisdizione e per materie ben definite, anche ad altre categorie, come i paralegals, o l’allargamento − sollecitato dal Green Paper − a soggetti laici legittimati a trattare questioni di esiguo valore presso le corti minori. La riforma che, in teoria, permette ai solicitors di estendere la loro attività al 69 patrocinio giudiziale non produrrà effetti immediati sulla realtà, piuttosto orienterà la categoria a costituire studi associati, ove all’interno potranno operare alcuni professionisti associati specializzatisi in litigation. Per quanto riguarda i barristers, di fronte all’impossibilità di aggregarsi in associazione vi è la facoltà, concessa dalla riforma, di costituire società professionali miste fra solicitors e barristers. In questo senso si è precisato che «dall’introduzione delle riforme contenute nel Courts and Legal Services Act 1990 può desumersi una tendenza futura alla concentrazione, ancor più di quanto non accada oggigiorno, nell’offerta dei servizi legali; ciò vale, come abbiamo visto, sia a seguito della presenza di enti collettivi nei quali i legali svolgano la propria attività in forma subordinata, sia a seguito della più ampia presenza di formule professionali associative. Quella concentrazione comporterà una contrazione del numero di soggetti presenti sul mercato dei servizi legali, alla quale potrebbe, a lungo termine, conseguire una posizione di svantaggio per il consumatore: costui, allo stato attuale, risulta poco protetto contro una simile evenienza, la quale potrebbe comportare addirittura un ritorno a condizioni di mercato a lui poco favorevoli. Né, d’altronde, la riforma in commento ha previsto alcun rimedio contro tale eventualità» (Stalteri 1991, 406). D’altra parte, la legge del 1990 incide sulla regola che preclude ai barristers di agire in giudizio per il mancato pagamento del proprio onorario e di ricevere il compenso solamente a titolo di donazione remuneratoria come comprova l’esistenza di un’apposita tasca nella parte posteriore della toga del professionista che serviva per ricevere il danaro offerto dal cliente. La situazione del barrister in ordine al compenso dipende dal comportamento del solicitor, nel senso che quest’ultimo, dopo aver trattenuto la sua parte di compenso, è tenuto, non come autentico obbligo giuridico, a consegnare la somma spettante al barrister. La riforma elimina tale posizione di svantaggio del barrister statuendo che «Any rule of law wich prevents a barrister from entering into a contract for the provision of his services as a barrister is hereby abolished» (S. 61/1) (Stalteri 1991, 409 s., osserva che la «novità si inquadra nella progressiva tendenza alla omologazione dei due rami della legal profession, tendenza alla quale ha dato un contributo decisivo la già citata apertura del diritto di patrocinio alle nuove categorie sopra indicate, tra cui anzitutto quella dei solicitors»). Tuttavia il legislatore aggiunge che «nothing in subsection (1) prevents the General Council of the Bar from making rules [...] which prohibit barristers from entering into contracts or restrict their right to do so» (Stalteri 1991, 410, mette in evidenza come la scelta della legge di rimettersi alla volontà dei barristers derivi dal principio di non ingerenza dello Stato nella legal profession; tuttavia sottolinea «l’atteggiamento schizofrenico del legislatore inglese, il 70 quale da un lato si pone al centro di una politica di controlli nei confronti delle categorie professionali che vogliano accedere al patrocinio presso le corti [...], e dall’altro non interviene allo scopo di eliminare quelle regole ormai superate di etiquette, che operano a svantaggio del consumatore stesso»). Un’altra importante modifica apportata dalla riforma è l’estensione della cab rank rule anche ai solicitors (essa prevede l’impossibilità di negare l’assistenza legale: a) perché la natura del caso sia riprovevole per il legale o per qualunque settore del pubblico; b) perché la condotta, le opinioni o le convinzioni del possibile cliente sono inaccettabili per il legale o per qualunque settore del pubblico; c) sulla base di qualunque considerazione relativa alle fonti degli aiuti finanziari che possono essere dati al possibile cliente per il procedimento in questione). Il monopolio dell’attività di patrocinio detenuto dai barristers ha avuto come contrappeso il principio del divieto di rifiutare di prestare la propria opera professionale di patrocinio per non calpestare il diritto fondamentale alla difesa di ogni cittadino (la cab rank rule è contenuta fra rules of etiquette). Se la nomina a giudice presso le Superior Courts dipende dall’esercizio del patrocinio giudiziale, è naturale che la possibilità odierna dei solicitors di patrocinare avanti alle corti superiori permette loro altresì di essere nominati giudici. Questo privilegio spettava esclusivamente ai barristers, soprattutto a coloro che potevano fregiarsi del titolo di King’s Counsel (su questa prestigiosa categoria v. Varano 1973, 88). In proposito, va precisato che i solicitors potevano essere nominati giudici della magistratura inferiore presso la quale avevano il patrocinio. Oggi il Courts and Legal Services Act 1990 consente ai solicitors l’accesso come giudice presso la High Court e la Court of Appeal, purché siano abilitati al patrocinio presso le corti superiori da almeno dieci anni. Resta loro preclusa, per contro, la nomina a giudici della House of Lords, rispecchiando con ciò la forza delle tradizioni che avvolge in maniera pregnante il diritto inglese. La riforma, in conclusione, sollecitata e orientata dalla politica del libero mercato, ha compiuto delle modifiche rilevanti nel settore della professione legale, ma non ha del tutto destituito di fondamento la bipartizione solicitor/barrister sebbene ha accorciato la distanza fra le due categorie, soprattutto al fine di conciliare il regime giuridico del professionista legale con quello perseguito dall’Unione europea. Con il Court and Service Legal Act il legislatore ha inteso promuovere la riforma dei servizi legali mediante il potenziamento dei soggetti coinvolti senza che ciò sia posto a detrimento della qualità del servizio prestato, cui si è aggiunto l’Acces to justice Act del 1999. 71 Il right of audience cioè il potere di patrocinare di fronte alla corte e di svolgere tutte le principali funzioni e il right to conduct litigation cioè il diritto di promuovere un’azione giudiziale e di esercitare le funzioni ausiliarie all’interno del procedimento dinanzi alle corti superiori, sono attribuiti esclusivamente in base alle competenze tecniche ed alla appartenenza ad una associazione professionale le cui regole di condotta sono in grado di assicurare un’efficiente amministrazione della giustizia. La legge ha preso atto che le due associazioni il Bar Council e la Law Society osservano i requisiti prescritti ed ha designato tali organizzazione come autorizzate a regolamentare le professioni di barrister e solicitor. Le fonti principali volte a regolamentare l’esercizio della professione di barrister sono contenute nel Code of Conduct adottato dal Bar Council il 18 ottobre 2004, cui sono state apportate alcune modifiche nel 2007 ad opera dello Standard Committe appartenente al Bar Standards Board. Il Code of Conduct, giunto all’ottava edizione, è formato da tre sezioni, la prima relativa alla parte preliminare e alla enunciazione delle finalità del codice, in cui vi è una parte dedicata alla Practsing Requirements, dedicata ai profili pratici in cui vengono individuati i requisiti per l’esercizio della professione forense, il right of audience e le condizioni entro le quali il barrister può entrare in contatto con i clienti ed una parte indirizzata alla fissazione dei principi generali per l’esercizio dell’attività professionale, in cui sono individuati i principali doveri del barrister ed il rapporto con la Legal service Commission. Inoltre, compaiono nella prima sezione un titolo dedicato, precipuamente, ai barrister che esercitano autonomamente la professione forense, i c.d. self employed barristers, esso è finalizzato a dettare alcuni principi fondamentali quali le modalità di svolgimento del rapporto con il cliente, la determinazione dei compensi professionali, le norme sulla gestione dello studio professionale (chamber) e la previsione di un obbligo di stipulare un’assicurazione obbligatoria. Vi sono, inoltre, gli employed barrister che non operano in proprio ma sono legati da un rapporto di lavoro con una struttura pubblica o privata (società, trade association). Altra sezione è dedicata alle modalità di conferimento e revoca del mandato professionale ed un’altra parte fissa i doveri che competono sul professionista nell’esercizio della professione, in particolare l’obbligo di agire con lealtà, probità, correttezza, con cortesia e prontezza, rispettando il dovere di riservatezza nei rapporti intercorrenti con il proprio cliente ed evitando il verificarsi di un conflitto di interessi. Vi è poi una Miscellaneus dedicata al rapporto di tirocinio professionale ed al vincolo che si instaura fra il pupil (tirocinante) ed i supervisori, al 72 rapporto con il Legal Advice Centre e agli obblighi previsti per gli avvocati stranieri. Vi è poi una sezione definita «Compliance», che detta regole sulla responsabilità professionale e sui doveri del barrister nei confronti del Bar Council in caso di particolari eventi (condanne, procedure concorsuali), legittimata ad emettere provvedimenti disciplinari. Vi è anche una sezione dedicata alle definizioni (definitions) adottate nel codice. La seconda sezione, di non minore importanza, è dedicata agli allegati e la terza, denominata Standard for the Conduct of professional Work, contiene una guida pratica all’esercizio della professione forense. A partire dal 2007 la maggior parte dei regolamenti della Law Society sono stati riuniti, in un unico testo, il Solicitors’ Code of Conduct a cui si aggiunge, per importanza, il Training Regulations del 1990 che disciplina l’accesso alla professione forense e i profili della formazione. Il Courts and Legal Services Act 1990 ha disciplinato i doveri specifici che gravano sull’avvocato, traducendo sul piano normativo regole già esistenti e valide nel common law e negli ordinamenti professionali. I diritti e i doveri dei barristers trovano regolamentazione nel Code of Conduct, fra i quali particolare rilievo riveste il dovere di agire con indipendenza, nell’interesse della giustizia, di adottare una condotta connotata da onestà ed integrità, non esercitando attività che possano pregiudicare la professione e proteggendo gli interessi del lay client (cliente finale) rispetto al professional client cioè del solicitor o di altra persona legittimata a dare mandato al barrister. Al contrario del sistema italiano, nel modello inglese non vi sono tariffe professionali e l’onorario è liberamente fissato dall’avvocato. L’onorario del barrister è, normalmente, fissato su base oraria, in relazione alla natura della causa e al prestigio di cui gode il professionista. 73