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Capitolo quarto
Visioni del futuro
4.1 Prefabbricazione e organismi territoriali
Il 1980 è segnato dalla prima biennale di architettura di Venezia dal titolo “La presenza del passato
” . La mostra, organizzata dall’abile regia di Paolo Portoghesi, sancisce la vittoria dell’ala
tradizionalista di Rossi, Grassi, Aymonino, accomunata dal rifiuto verso le sperimentazioni
tecnologiche e il predominio dei valori della composizione e del disegno. E, nello stesso tempo,
registra la sconfitta delle posizioni critiche di Bruno Zevi che, anche a seguito del passo falso delle
sue dimissioni dall’università (1979), da questo momento e, per almeno una decina d’anni, vivrà in
un limbo di formale rispetto ma di crescente emarginazione.
Pellegrin, accomunato, anche se a torto e per un eccesso di semplificazione, a Zevi, parteciperà allo
stesso destino. Sorte facilitata dal carattere, certamente difficile, e dalla oggettiva estraneità della
sua ricerca rispetto a quelle, eminentemente formali, delle scuole e tendenze che una dopo l’altra si
succederanno sulla scena.
Abbiamo visto della progettazione delle scuole. Pontedera, nel 1980, prosegue la sperimentazione
sulla prefabbricazione. E propone modalità alternative di percezione dello spazio. Per esempio con
configurazioni dove il sopra si confonde con il sotto, procurando all’utente una sorta di vertigine
finalizzata a stimolare una maggiore partecipazione, anche emotiva, allo spazio esistenziale.
Del 1978 sono gli studi per interventi per l’emergenza, in zone terremotate. Studi ripresi a seguito
del disastrosi terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980. Pellegrin offre numerose soluzioni. E una
proposta brevettata. Consiste di un sistema composto da 18 componenti bidimensionali, organizzati
in modo tale da essere impilabili per un agevole trasporto. Le cellule possono essere aggregate in
diversi modi, sopra strutture a ponte che lasciano libero il terreno sottostante. Vi anche un sistema a
trave-pilastro con luce di 12 metri a sezione cava impiegabile sia in serie parallela che su impianti
circolari. L’imperativo è di non rinunciare alla qualità dell’insediamento anche nei momenti di
emergenza. Un buon intervento, infatti, non costa di più di uno cattivo, e, inoltre, permette una
sufficiente vivibilità per gli anni, a volte i decenni, che trascorrono prima che i prefabbricati siano
sostituiti da abitazioni definitive.
Del 1982 è, come abbiamo visto, il Proto-organismo territoriale a San Cristobar. Ne riassumiamo le
caratteristiche: grandi pilastri che sorreggono cellule prefabbricate tridimensionali; appoggio
puntiforme sul terreno, travi cave a sezione sagomata che fungono da percorsi, pedonalità totale,
integrazione delle funzioni: lavoro, abitazioni, tempo libero.
L’organismo, afferma Pellegrin, si estende come una mano sul territorio. E il nome suggerisce una
struttura aperta, non un’opera finita una volta per tutte, che lascia “scoprire le sue valenze e si
raffina nella vissuta correlazione tra le parti ”. Solo l’approccio, o, meglio, il metodo, conclude
l’architetto, è globale.
L’obiettivo, come afferma la relazione di progetto è “ di obbiettare al degrado del territorio
determinato dall’esportazione dei vizi occidentali: il pendolarismo, le zonizzazioni che separano
residenza e lavoro ”. Previsti 9000 abitanti in 23 ettari di cui solo 2,1 occupati dalle strutture edilizie
e coperti 7,1. Ciò vuol dire che 21 ettari circa possono essere lasciati alla natura o coltivati,
favorendo l’integrazione verticale tra attività agricola e residenze.
Il Trasporto pubblico avviene su rotaia, il privato su ruote attraverso arterie di scorrimento che si
arrestano in prossimità di auto-silos dai quali si accede ai percorsi pedonali che conducono alle
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residenze. “ La pedonalità totale distribuisce e relaziona - continua la relazione di progetto - come
in un organismo urbano medievale, gli incontri: quelli necessari (scuole, supermercato, artigianato)
e quelli, semplicemente, dell’essere insieme. Dietro, a un passo da casa, i luoghi di lavoro. Su uno
spigolo dell’insediamento, una grande piazza rituale …”.
Utilizzate le fonti energetiche naturali e alternative e previsti, a nord, i grandi teli che avvolgono il
costruito con funzione microclimatica di schermo di protezione. Contribuiscono al risparmio
energetico anche i minori costi impiantisci derivanti dalla compattezza dell’insediamento: in termini
di lunghezza delle linee elettriche e telefoniche, delle fogne, della rete dei trasporti.
4.2 I concorsi
Nel 1983 Pellegrin partecipa al Concorso per il Lingotto a Torino, l’immenso edificio destinato a
fabbrica, progettato all’inizio del secolo da Matté Trucco, che la Fiat ha dismesso per realizzare in
luoghi più convenienti della città le proprie attività produttive. Il concorso, per idee e per inviti, è
affidato a Bruno Zevi. Il quale chiama 20 progettisti, di chiara internazionale, selezionati in quanto
rappresentano sei categorie: i paesaggisti (Halprin); gli urbanisti ( Schein, Gregotti); i designers
(Aulenti, Sottsass, Pesce); gli eredi della tradizione razionalista (Lasdun, Roche, Meier, Pelli,
Stirling, Sartogo, Gabetti); gli eredi della tradizione espressionista (Fehling+Gogel, Aldo Loris
Rossi, Bohm, Hollein); coloro che puntano sulla tecnologia contemporanea (Piano, Pellegrin,
Johansen).
A tutti è data ampia facoltà di proposta, anche funzionale.
I risultati, come è prevedibile aspettarsi da un bando così aperto, sono tanto differenziati tra loro da
non essere confrontabili. Fehling e Gogel, per esempio, ipotizzano un grande oggetto espressionista,
compatto e dinamico, che ricorda l’architettura di Erich Mendelsohn. Gae Aulenti, invece,
frammenta l’edificio per eliminare la monotonia delle sue interminabili facciate. Propone di
realizzare residenze. Lawrence Halprin riutilizza il contenitore in chiave paesaggistica e di supporto
alla città, suggerendo di attivare la partecipazione dei cittadini alle scelte architettoniche. Renzo
Piano concepisce il Lingotto come un brano urbano: organizza uno spazio multifunzionale con
giardini interni coperti in parte da strutture leggere. John Johansen realizza una grande corte,
rimuovendo i collegamenti trasversali dell’edificio; aggiunge una costruzione reticolare progettata
da lui stesso, perpendicolare al corpo d fabbrica, destinata a centro congressi e albergo.
Pellegrin rifiuta il riuso delimitato e monofunzionale di un contenitore amorfo.
Poiché la dimensione del Lingotto impone il problema della città, progetta un organismo
territoriale. Con potenzialità di crescita tali da farlo diventare, almeno in fieri, una città alternativa
all’interno della metropoli torinese.
Appronta una strategia in cinque mosse. Sono:
1. La costituzione di nuovo sistema di mobilità pubblico per incrementare e favorire gli
spostamenti all’interno della città;
2. La creazione di un organismo in linea attrezzabile per le attività lavorative;
3. L’inserimento di un telone per realizzare un microclima artificiale;
4. La liberazione del piano terreno, eliminando il primo livello della costruzione tramite
demolizione e inserimento di travi scatolari che sorreggono il piano superiore, al fine di
restituisce la terra alla città;
5. L’ approntamento di uno spazio multifunzionale , utilizzando la struttura del corpo presse come
maglia disponibile a tutte le più diverse attività.
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Di tutti i progetti presentati, è forse il più inquietante. Rappresenta uno sforzo quasi titanico per
mostrare che la fantascienza, così come suggerita dai raffinati e spesso giganteschi disegni del
Vettore che da anni vanno accumulandosi nello studio, può essere trasferita nella realtà. Che
l’utopia è, insomma, realizzabile.
Ma se l’utopia è realizzabile, cessa di essere utopia. Diventa semplicemente un problema tecnico e
creativo che richiede un cambiamento di prospettiva; la volontà di crederci. E le risorse politiche e
economiche per farvi fronte. Né più e né meno le stesse, almeno in termini quantitativi, che si
richiedono per produrre un grattacielo, una autostrada o una diga, cioè opere che una qualunque
società civile realizza senza troppi problemi.
Nello stesso anno Pellegrin progetta un “involucro energetico mobile ”. Lo presenta nel numero
de L’ Architettura dedicato al solare. Riproposto il telo utilizzato nel concorso per il Lingotto. Che,
come abbiamo visto, permette di racchiudere gli organismi abitativi con un involucro che si può
mettere o togliere con la stessa facilità d un vestito. Obiettivo è ottenere un “ effetto serra a grande
scala ”, in una strategia complessa che vede approntare insieme sistemi attivi e passivi, adoperando
materiali altamente coibenti e, infine, riappropriandosi del terreno e realizzando spazi aperti.
Il terreno, la sacralità della terra. E’ un tema che ritorna quasi ossessivamente nel lavoro di questi
anni e di quelli successivi. E trova nel concorso per il parco della Villette a Parigi, sempre del 1983,
la sua più compiuta espressione. Pellegrin prevede due macrostrutture, a forma di ventaglio, che
fronteggiano i due principali edifici del parco: la Grande Halle e il Museo della Scienza e della
Tecnica. Ciascun ventaglio è una incantevole sequenza di luoghi di incontro e spazi funzionali,
coperti da una elegante struttura a sezione inclinata sulla cui sommità è piantato un parco artificiale.
“Sono- afferma la relazione di progetto- due palme ravvicinate che si offrono come protezione e,
allo stesso tempo, come proiezione del cielo ”. Realizzano due mondi: uno sotterraneo fatto di forre,
cave e luoghi ammorsati nel terreno e uno solare, aereo, sospeso su una collina artificiale con
inaspettate valenze paesaggistiche. La macrostruttura inclinata, sorretta da un limitato numero di
piloni, per non compromettere la fruibilità in orizzontale del parco, funge anche da supporto alla
viabilità pubblica e privata e alle reti che servono gli edifici direzionali posti a coronamento dei
ventagli.
E’, da parte di Pellegrin, un ennesimo insistere sulle macrostrutture. Ma il tema, è oramai trascurato
dal dibattito architettonico. Insomma, è fuori moda. Vince il concorso il progetto di Tschumi, più
disincantato, basato sulla logica dei layer, sulla frammentarietà, sull’aleatorietà delle scelte. Sulla
stessa lunghezza d’onda anche il progetto di Koolhaas, che si rivelerà a partire da questo momento,
insieme con Tschumi, l’astro nascente della nuova architettura decostruttivista.
Distante dai vincitori, Pellegrin è pure distante dalle proposte degli sconfitti a cui però,
diversamente che a lui, va l’onore delle armi, almeno della stampa specializzata. Sono coloro che
preferiscono ripercorrere strade consolidate fatte di messe in scene teatrali, valori simbolici,
complesse elaborazioni formali. Tra questi i concorrenti italiani i cui progetti sono ancora tutti
interni alla dialettica tra tipologia edilizia e morfologia urbana in corso tra le scuole di Venezia,
Roma e Milano.
Nella sua lucida utopia, il progetto di Pellegrin ha la chiarezza di una dimostrazione matematica. I
problemi della nostra epoca – afferma - non si risolvono né con il raffinato formalismo proposto dai
giovani emergenti, né con le composizioni che rifanno il verso alle città e ai giardini storici, né con
l’ecologismo che teme di confrontarsi con il costruito. Ma con soluzioni che li affrontano,
risolvendoli alla radice. E’ solo rivendicando l’atteggiamento spiazzante ma creativo e positivo di
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Paolo Soleri, di Frank Lloyd Wright ma, soprattutto, di Buckminster Fuller che si può tirare fuori
l’architettura dal pantano del formalismo. Se la città ha bisogno di verde, allora bisogna costruire
supporti attraverso i quali raddoppiarne la presenza. Se servono luoghi per gli incontri, occorre
realizzarli ma collegandoli con il sistema dei trasporti. Se la viabilità può compromettere il sistema
degli spazi destinati ai pedoni, occorre sopraelevarla. Inoltre i problemi non vanno risolti uno per
uno come se fossero indipendenti tra loro. Si correrebbe il rischio di ricadere nei famigerati miti
tecnicistici degli anni sessanta. Per evitare i quali soccorre il concetto di sinergia. Secondo il quale
– come abbiamo già avuto occasione di notare- le singole scelte devono interagire per ottimizzare il
benessere umano che non è solo fondato su standard tecnici (velocità degli spostamenti, costi di
costruzione, produttività) ma anche e soprattutto psicologici e formali. Visto in questa luce
l’obiettivo dell’architetto coincide con quello dello scienziato individuata dalla contemporanea
ricerca scientifica e in particolare da Ilya Prigogine: realizzare una nuova alleanza nelle quale la
tecnologia e le scienze umane lavorano insieme. In cui si produca con e non contro la natura. Ma la
proposta, così come avanzata da Pellegrin, richiede una concezione dell’investimento a lungo
termine in cui i maggiori costi iniziali sono compensati non da dividendi immediati ma da benefici
futuri. E, inoltre, un coordinamento di risorse tecniche e produttive che travalica la tradizionale
parcellizzazione delle competenze (chi realizza le abitazioni e gli uffici, chi il parco, chi la viabilità,
chi le reti…). Così all’anacronismo di una utopia, realizzabile ma totalizzante, si preferirà il
realismo di una nuova generazione che tenderà a circoscriversi un campo d’azione più limitato,
spesso esclusivamente sovrastrutturale, in cui i problemi saranno rappresentati formalmente
piuttosto che risolti tecnicamente.
Tra i grandi concorsi a cui Pellegrin partecipa nel 1983 vi è, infine, quello per L’Opera Bastille a
Parigi. A costo di andare, anche questa volta, fuori tema, inserisce la nuova sede dell’Opera in una
maglia di spazi urbani e naturalistici e in un complesso sistema infrastrutturale fondato sulla logica
del Vettore che contiene - a significare che ogni occasione architettonica deve essere il pretesto per
rimettere mano al funzionamento della città nel suo insieme - il trasporto pubblico, tapis roulant per
la mobilità pedonale, alloggi sociali e luoghi di incontro.
Nella sala dell’Opera progetta un sistema mutevole di spazi garantito da strutture mobili su
martinetti idraulici: “uno spazio moltiplicabile, in cui l’involucro si monta/smonta, si contrae e si
dilata variamente, consentendo anche più azioni sceniche contemporanee ”. E’ un esplicito omaggio
al teatro totale progettato negli anni sessanta dall’amico Sacripanti. Senza la frammentazione degli
spazi di quest’ultimo. Alla ricerca di un senso di unitarietà e armonia che sola, secondo Pellegrin,
può riconciliare l’architettura all’uomo, passando per l’urbanistica: “ ma una volta di più – sostiene
la relazione di progetto- non è la complessità operativa a dominare il linguaggio, bensì la sua
adozione come strumento dei due veri intenti progettuali. Il primo è trasformare questo luogo
deputato della socialità colta in pulsazione urbana, renderne manifeste le sistoli e diastoli (sic)
cardiache, farne spettacolo dello spettacolo. Il secondo è dilatarlo nel quartiere e nel tessuto urbano.
Le grandi travature orizzontali sono ponti che incanalano la comunicazione –meccanizzata,
pedonale, informativa- entro un riorganizzato tessuto ove il movimento è la chiave dell’immagine ”.
4.3 Progetti alla scala urbanistica
Sempre del 1983 è il progetto per un grande Centro polivalente, un intervento speculativo privato
su uno degli ultimi brani rimasti della zona direzionale dell’ EUR di Roma. L’obiettivo è realizzare
in uno spazio limitato una massa imponente di costruito: 323.000 mc. di cui 190.000 per uffici
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privati. Due le decisioni principali: realizzare un sistema pedonale sopraelevato, dentro l’edificio,
che si collega idealmente con le due emergenze del luogo, il lago artificiale e il Palazzo dei
Congressi di Libera. Prevedere, poi, spazi sociali protetti, un macro-portico che si dilata in una
piazza caratterizzata da una copertura traforata sulla quale insiste una seconda piazza sopraelevata.
Il progetto ha soprattutto valore metodologico: serve a testare la possibilità di conciliare
speculazione privata e innovazione abitativa. Se non sarà l’ente pubblico a farlo, come i concorsi di
Parigi hanno mostrato; forse potranno esserlo i privati una volta che si dimostri loro che
l’innovazione paga in termini economici.
Così il progetto per Roma, dirà Pellegrin “ è quasi un esercizio su come riuscire ad essere efficienti
anche da un punto di vista che qui è necessariamente speculativo, rinunciando alla prassi scatolare,
ai volumi stolidi e bloccati che in quel comparto sono la regola ”.
Il secondo esercizio su come conciliare le ragioni dell’economia con quelle della qualità
dell’insediamento abitativo avverrà l’anno successivo con il Palazzo per uffici e residenze a Sant’
Antonio, Texas,un grattacielo con caratteristiche multifunzionali, ecologiche e, insieme,
speculative.
Lo caratterizza, innanzitutto la scelta, oramai obbligata nei progetti di Pellegrin, di lasciare libero il
piano terreno alle attività pubbliche prevedendo una piazza sulla quale di affacciano, su più livelli,
negozi, bar, ristoranti tra di loro collegati attraverso un complesso alternarsi di spazi chiusi e aperti.
Vi è poi l’invenzione di frammentare, nella prima metà dell’edificio, il volume edilizio in tre
colonne tra di loro separate: una destinata a uffici, le altre due ad appartamenti. Serve a scavare la
massa del prisma, garantendo un canyon scenografico con spettacolari visuali verso la piazza
sottostante. Permette, nei due blocchi residenziali, di impilare uno sull’altro gli appartamenti come
se fossero ville unifamiliari, ciascuna caratterizzata da grandi spazi esterni e vista panoramica.
Segue, dal diciassettesimo al diciannovesimo piano, in corrispondenza con la zona destinata ai
volumi tecnici, un piano verde di separazione con solarium e attività ricreative.
La metà superiore del grattacielo, più compatta e con grandi open space, è destinata a uffici. Sopra i
quali, di nuovo, i volumi tecnici sui quali si ammorsa, con uno sviluppo di cinque piani, un
vertiginoso attico destinato a galleria, roof garden, club per riunioni.
Il terzo esercizio è il piano particolareggiato per un ambito direzionale a Pistoia, sempre del 1984.
Pellegrin inventa una gigantesca “serra direzionale ” ispirata ai progetti delle cupole di Buckminster
Fuller previste al fine di climatizzare ampi brani del territorio. Ma con la differenza che la volta non
è una geodesica, ma una struttura a forma di piramide che supporta una copertura trasparente che
avvolge, meno che a sud, tutto il complesso. Il microclima passa così da 1800 gradi giorno a circa
900. Con un minore fabbisogno energetico che può essere soddisfatto dai 10.000 mq. di batterie di
captazione solare, previste lungo l’intervento. Durante le mezze stagioni e l’estate la copertura
trasparente scompare, liberando gli spazi sottostanti. Anche grazie alle canalizzazioni sotterranee,
l’indipendenza energetica è pressoché totale. E i costi di esercizio ridotti. Ma quel che conta è che
“la soluzione energetica coincida con tutto con il segno architettonico, cioè con la modificazione
della crosta terrestre, in una nicchia intelligente, piena di vitalità e sorprendentemente carica di
immagine ”.
Dalla seconda metà degli anni ottanta Pellegrin si dedica quasi prevalentemente agli studi
sull’habitat. Lo fa soprattutto con i progetti per Roma. Nel 1985 proponendo una integrazione tra
viabilità, sistema congressuale e sistema museale all’EUR. Nel 1986 con il concorso per la seconda
università degli studi a Tor Vergata. Nel 1988 con il progetto di conversione dell’asse della
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Cristoforo Colombo in arteria pedonale. Nel 1990 con il piano quadro dell’area Ostiense. Nel 1991
con il progetto per l’area della stazione Termini. Nel 1992 con il Master Plan per le aree delle
Ferrovie dello Stato a Roma. Nel 1993 con il progetto per le stazioni romane e, l’anno successivo,
per il nodo di Roma dell’Alta Velocità.
Ma anche con progetti, sempre alla grande scala, per altre realtà locali. Tra le quali Siracusa,
Firenze Novoli, Palau.
Cerca in ogni occasione di mostrare che è possibile vivere in modo diverso. Che il ruolo
dell’architetto non è ricoprire con formalismi inutili strutture obsolete, dannose, anti-ecologiche ma
proporre modelli nuovi che garantiscano un’esistenza migliore.
Rifiuta gli stilismi, il ruolo dell’architetto come decoratore, il correre dietro le mode.
E accetta di pagare la sua scelta – di geometra, di costruttore, lui la definisce in polemica con altri
che lo vorrebbero utopista e sognatore - al prezzo di una sostanziale emarginazione dal dibattito
architettonico. Su di lui, nonostante le centinaia di opere realizzate, molte di alta qualità, non
esistono né monografie né, se si eccettuano gli articoli su L’ Architettura, una consistente
pubblicistica.
Forse perché i problemi che pone toccano un nervo scoperto. Un tabù che oggi si cerca di occultare.
Quello del ruolo dell’architetto. Che Pellegrin rifiuta di credere residuale, sovrastrutturale. Anche a
costo di ridargli una centralità forse oggi non più proponibile.
Ma qualunque siano le risposte che vogliamo dare a questo problema, non possiamo non fare i conti
con questi interrogativi e con la lezione di questo architetto, atipico e provocatorio, che ci invita a
rifiutare ciò che ci viene spacciato come progresso e, insieme, ci propone di tornare a un rapporto
più autentico e originale con la nostra esistenza,e cioè con la nostra dimensione ancestrale, passando
attraverso il futuro e la tecnologia.
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