- TEORIA CAPITOLO 4 IL TERAPEUTA COGNITIVO La psicoterapia è un lavoro che si fa in due; il risultato viene cercato da entrambi sin dall'inizio ( un cambiamento del paziente ) ma appartiene ad uno solo. Il terapeuta mette se stesso a disposizione, anche se è sempre da considerare come uno strumento utilizzabile per un periodo di tempo limitato. La difficoltà del lavoro clinico consiste nell'impossibilità da parte del terapeuta di agire direttamente, affrontando e risolvendo il problema del paziente; l'arte sta nel riuscire ad attivare l'altro così che sia lui ad affrontare e risolvere il proprio problema. La difficoltà è accresciuta dal fatto che ogni psicoterapeuta coltiva una buona dose di onnipotenza e che molti pazienti tendono ad affidarsi ad un esperto sperando che sia lui a sapere come si fa a vivere e che sia in grado di spiegarlo. Tutti i pazienti hanno elaborato la frustrazione generata dalla consapevolezza che non esistono magie: nessun atto eseguito da altri può modificare in modo significativo il proprio stato interno. Nonostante il lavoro sia svolto dalla coppia terapeuta-paziente il focus è costantemente sul secondo, che è l'arbitro finale del processo. Il fatto che si dia ampio spazio alle emozioni e ai vissuti privati del terapeuta non deve far dimenticare che è il paziente a dover essere salvaguardato, in quanto è apertamente il membro debole della coppia, colui che ha chiesto aiuto, accettando di entrare in un gioco che non conosce e le cui regole sono dettate da un'altra persona. In cambio della sua competenza il terapeuta può chiedere un compenso economico: non affetto, né amore, né dipendenza o gratitudine, se non nella misura in cui questi sono ingredienti essenziali del processo di guarigione. Affetto e amore vanno attivamente cercati nella sfera extralavorativa, dove assumono inequivocabili caratteristiche di immediatezza, in quanto riferiti alla persona e non al ruolo professionale. Lo svantaggio dei clinici è che devono essere in grado di maneggiare le emozioni dei loro pazienti, e questo può portare confondere il proprio ruolo con la propria persona. Affidarsi a un amore di ruolo, investire su di esso, esigerlo, significa aver perso la propria capacità clinica. È utile distinguere la psicoterapia dal sostegno e dall'accompagnamento. Il sostegno si applica situazioni di crisi specifica, sostanzialmente non dovuta a cause psichiche, ma che sta influenzano psiche dell'individuo; si tratta di aiutare il paziente a superare un evento specifico (trauma cranico, infarto ecc.). Il concetto di accompagnamento è legato situazioni tipicamente a termine, in cui lo psicologo assiste una malato terminale, o un anziano. Nel sostegno nell'accompagnamento non troviamo la qualità della psicoterapia, ma piuttosto quella del counseling, consulenza in ambito psicologico che non partecipa di un duraturo e profondo coinvolgimento emozionale. È soprattutto la relazione, l'atteggiamento che terapeuta il paziente reciprocamente assumono, a fare di una serie di sedute una psicoterapia invece che qualcos'altro. Il terapeuta come catalizzatore di cambiamento Il cambiamento che si vuole ottenere nel corso di una psicoterapia è situato su due piani. Il primo è quello del vissuto interno del paziente ed è direttamente accessibile a lui solo; il secondo è quello del suo agire nel mondo, osservabile da chiunque gli sia abbastanza vicino. Talvolta questo secondo piano (sintomatologico) non è presente, o non è rilevante. Cambiamento profondo Corrisponde a una ristrutturazione cognitiva ed emotiva che il paziente effettua nei riguardi sia di se stesso sia del mondo. È questo il tipo di cambiamento cruciale perché il paziente abbia la sensazione che qualcosa di significativo è stato modificato nella sua vita. Solo una volta ottenuta questa ristrutturazione è utile e necessario rivolge l’attenzione verso il comportamento del paziente nel mondo. Il cambiamento che perseguiamo comprende sia la sfera cognitiva che quella emotiva.Modificare la cognizione fredda, legata agli aspetti più razionali del pensiero, ha un'efficacia limitata. La modificazione degli aspetti emozionali non può essere fatta volontariamente dal paziente, quindi il terapeuta non deve essere tentato di realizzarla direttamente: occorre passare attraverso una progressiva modificazione del contesto, così che la reazione emozionale standard non scatti modo automatico e la persona abbia la possibilità di sperimentare una risposta alternativa. L'obiettivo non è di sapere che cosa è successo davvero nell'infanzia e nell'adolescenza di un paziente, ma narrare una storia che spieghi come mai la persona si trova oggi uno stato di crisi. Il minore interesse verso un'indagine realistica del passato è dovuto anche al fatto che manca in scienza cognitiva una teoria normativa dello sviluppo personale. È possibile costruire un modello personalizzato dello sviluppo individuale, nel rispetto di alcuni precisi momenti chiave, come la prima infanzia nell'adolescenza. La coppia terapeuta-paziente si deve impegnare nel costruire una bella storia, piena di possibilità future, ma sempre plausibile e credibile: in caso contrario la parte più razionalmente critica del paziente non l’accetterebbe. Gran parte di questo cambiamento interno consiste nell'accettazione di sè, che di nuovo coinvolge sia la sfera cognitiva che quella emotiva. Il paziente tende a vivere la parte di sé sofferente o malata come una sorta di orrore da dimenticare, o di nemico da eliminare. Bisogna riuscire a cogliere come ogni nostro aspetto ci appartenga, ogni nostro diverso sé sia costitutivo della nostra persona a prescindere dalla sua attuale adeguatezza. Smettere di combattere contro se stessi, riuscire a perdonarsi ciò che causa dolore, non scegliere fra bene e male, non discriminare ma cercare di comprendere passato e presente. Una volta imboccata questa strada cambia anche il mondo in cui sono vissuti i sintomi che avevano spinto il soggetto a richiedere la psicoterapia. I sintomi possono essere attaccati direttamente solo una volta raggiunto questo cambiamento di significati interno: il sintomo non è più un segno da nascondere a sé con la repressione e agli altri con l'inganno, ma uno dei molteplici aspetti di una personalità complessa. Un sé fra molteplici sé che va compreso per subordinarlo a un nuovo più funzionale sé, attivato o costruito insieme il terapeuta. Il dilemma filosofico e scientifico sull'unitarietà del sé contrapposto alla molteplicità dei sé investe il discorso clinico. Come precursore nell'area del pensiero occidentale possiamo citare Kant che postula un sé trascendentale, una pura e immutabile coscienza originaria che precede ogni esperienza e che la rende sperimentabile dell'individuo. Nell'ambito contemporaneo della scienza cognitiva, Marvin Minsky prendere una posizione simile, anche se specularmente rovesciata. Noi attuiamo nel flusso esperienziale un sé specifico per ciascuna situazione significativa in cui veniamo a trovarci. Tali sé situati non sono però in grado di spiegare la sensazione soggettiva fenomenologica di essere un'unica persona, il senso di identità personale. Questo sé riunificante per Minsky non è dato a priori come per Kant, ma a posteriori, in funzione delle diverse esperienze: la sua essenza consiste in una grande rete di relazioni che si costituisce fra le parti del sistema. Freud si inscrive nel paradigma di un sé unitario come garante della normalità mentale. Il sé unico che si sviluppa attraverso varie tappe necessarie fino a raggiungere la piena maturità: da qui i concetti di fissazione e regressione. Il sé è determinato una volta per tutte nell'infanzia, dai rapporti avuti con i genitori. Qualche decennio più tardi Bowlby vincola al legame di attaccamento-accudimento con la figura materna la strutturazione iniziale del sé, che ciascun essere umano si porta dietro essenzialmente immutato per il resto della vita. La nostra posizione è quella di postulare un sé riflesso che riunisca i vari sé situati, continuamente spediti nella transitorietà dell'esperienza. Il sé riflesso va considerato non come un oggetto, ma come un processo, un'attività che si svolge nel presente. Attivamente costruisce il senso di identità personale, ci viene in aiuto quando sentiamo la necessità di ricomporci, perché una specifica esperienza è difficile da integrare nell'immagine che abbiamo di noi stessi. È un processo che si accompagna a una sensazione di consapevole sforzo mentale, non di esperienza immediata come nel caso del sé situato. Riguardo allo sviluppo, dobbiamo circoscriverlo al caso dei sé situati: ognuno può modificare il proprio modo di essere riguardo a una specifica classe di situazioni. Il sé riflesso è invece atemporale, immerso nel presente del processo mentale che lo costituisce. Solo la memoria può ridare un’idea del sé-riflesso-delpassato, e solo un processo di ragionamento astratto può simulare oggi un sé riflesso di ieri: ogni volta che rifletto su me stesso, sto riflettendo qui e ora, per ritrovare il filo attuale di me stesso. Il buon funzionamento psichico è legato da un lato alla possibilità di attivare sé situati adeguati alla particolare situazione in cui il sistema si trova, dall'altro alla capacità di porsi nello stato di riflettere sull'accaduto, costruendo progressivamente un valido sé riflesso che permetta di dare un senso alla molteplicità delle esperienze. Nel caso in cui una persona non possieda una varietà sufficiente di sé situati, abbiamo il nevrotico, obbligato alla ripetitività del suo modo di essere. Liotti sostiene che anche nel caso delle personalità multiple il problema essenziale sta nella ridottissima gamma disponibile di modi di essere, rispetto a quanti sarebbero necessari. Dal punto di vista dell'elasticità del sé, la migliore garanzia di equilibrio di un bambino è di avere dei genitori con stili cognitivi diversi. È importante che gli diano la possibilità di interagire modo diverso con loro, e di conseguenza con il mondo. Genitori identici trasmettono al bambino la convinzione che c'è un'unica realtà, dunque un unico modo di rapportarsi ad essa. Sempre riguardo alla molteplicità dei sé situati troviamo la scelta del partner. Una persona in grado di innamorarsi di qualcuno che ha un'organizzazione cognitiva diversa dalla propria è una persona che tollera l'intima vicinanza di un differente modo di percepire il mondo e di attribuire significati. Due partner identici possiedono una minore elasticità, sia di coppia, sia individuale. Quando una persona non sia in grado di costruire un adeguato sé riflesso rimane in una condizione di immaturità privata, destinata a stupirsi delle proprie reazioni interne ed esterne, e incapace di darsi sia un progetto stabile verso il futuro, sia una spiegazione efficace verso il passato. L'obiettivo della psicoterapia sarà duplice, in entrambe le direzioni. Sul piano dei sé situati, si tratta di permettere al paziente di strutturare di nuovi, adeguati all'ambiente con cui interagisce, e non omogenei fra loro. Si tratta di ampliare la gamma dei ruoli giocabili. Sul piano del sé riflesso, va affinata la competenza processuale, che consiste nella capacità di cogliere il nesso, di spiegare i sé stessi a sé stesso. Ciò per dare al paziente uno strumento per la vita futura, che lo metta in grado di ritrovare un filo interno capace di contenere le varie e differenziate esperienze, ogni volta che sia necessario. A patto che il significato dei sintomi sia compreso, il grado di difficoltà di un loro alleviamento cambia di conseguenza: svuotati del loro minaccioso potere di angosciare potranno essere trattati con piena efficacia tecnica. Cambiamento comportamentale L'idea di miglioramento o guarigione è comunemente associata ad una modificazione del comportamento osservabile. Ciò si verifica sicuramente nei casi standard, ma non deve essere considerato un dogma. In linea di massima il paziente dovrebbe riportare l'evidenza di cambiamento anche nel mondo in cui si muove nel proprio ambiente, al di fuori del setting. Non sempre questo è possibile: a volte la sintomatologia è talmente radicata da essere immodificabile e in questi casi va cercata almeno una diversa valutazione soggettiva del comportamento. Si tratta di comprendere le ragioni e di accettarne gli effetti, con una conseguente diminuzione di sofferenza. È evidente una diminuita enfasi rispetto all'agire osservabile del paziente, e una conseguente maggiore importanza data ai suoi stati interni, inaccessibili a tutti tranne che a lui. Il terapeuta non deve mettersi nei panni del paziente proiettando in lui il proprio modo di essere, nel tentativo di trovare una soluzione. Anche se ci riuscisse, sarebbe una soluzione adatta a sé, non una soluzione costruita su misura per il paziente. Se il terapeuta rinuncia ad un ruolo guida, e si limita a stare un passo dietro al paziente, i tempi di lavoro si allungano; spesso si dovrà attendere che il paziente giunga faticosamente a cogliere una nesso che il terapeuta aveva individuato mesi prima. Il risultato della terapia deve essere comunque di proprietà del paziente, conquistato da lui. La scommessa sta nel dare fiducia al paziente e alla sua capacità di inventarsi una soluzione originale, spesso non ipotizzabile dal terapeuta, legato ai propri schemi di vita di pensiero. Un terapeuta troppo desideroso di guarire gli altri può penalizzare i pazienti che insistono nello star male, perché non migliorano in modo corrispondente ai suoi sforzi e alle sue aspettative; così facendo, li priva della possibilità di vivere un affetto incondizionato. Per un paziente è prezioso sentire che il suo terapeuta gli permette di essere com’è. Una buona psicoterapia comporta piena accettazione dell'altro nell'interezza della sua persona, senza discriminazioni fra bene e male. La relazione come strumento di guarigione La relazione fra terapeuta e paziente è il luogo in cui ha inizio qualunque cambiamento significativo. L'assunto è che ciascun paziente tende a ripetere anche nella relazione con il terapeuta gli schemi base che dominano la sua vita, riproducendo i giochi interattivi che ha appreso nella prima infanzia, ha stabilizzato nell'adolescenza e ha utilizzato nella vita adulta. L'idea che il processo dell'uso delle parole possa essere visto come un gioco è stata introdotta da Wittgenstein con la nozione di gioco linguistico. Parlare un linguaggio fa parte di un'attività e attenersi un significato così ampio permette all’autore di prendere in considerazione una molteplicità di giochi eseguibili attraverso il linguaggio, mostrandone l'estrema duttilità di utilizzazione. Il termine gioco ci riporta inevitabilmente ai bambini e all'attività infantile presente nella vita adulta; attraverso il gioco i piccoli di ogni specie imparano i rudimenti del comportamento adulto in un contesto piacevole, libero e scevro da pericoli. Il gioco non è soltanto finalizzato all'apprendimento sociale: è un'attività autoperpetuantesi, in cui anche gli adulti si impegnano per il solo piacere di condividere un'attività interattiva. I giochi sono anche schemi di autogratificazione: la cosa non deve sorprenderci, se riflettiamo sul fatto che hanno rappresentato la modalità standard di interazione con le persone che ci hanno amato e accudito da piccoli. Perché due attori cooperino a livello comportamentale è necessario che agiscano sulla base di un piano almeno parzialmente condiviso; definiamo gioco comportamentale fra due persone un piano d'azione condiviso da entrambi. La condivisione di conoscenze è necessaria perchè i partecipanti possano interagire nello stesso gioco: può essere sia tacita che esplicita. Un gioco, perché sia giocabile, deve essere rappresentato: non è però indispensabile esserne consapevoli. Durante la psicoterapia il terapeuta dà l'occasione al paziente di uscire dallo stereotipo nel "qui ed ora". Il terapeuta fornisce al paziente la possibilità, una volta comprese le ragioni dei propri schemi di interazione, di modificarli in una situazione senza rischio. Si può offrire come partner disponibile al cambiamento in grado sia di tollerare la sequenza standard sia di tollerare una sequenza modificata, capace di restituire al paziente una spiegazione di quanto successo. Avere l'occasione di sperimentare la possibilità di un cambiamento significativo è un'esperienza chiave, che può avvenire solo in un clima di fiducia e di affidamento all'altro. Una volta che il paziente abbia esteso il proprio repertorio comportamentale possiamo dire che la psicoterapia ha trovato il suo pieno senso. Perché sia veramente efficace manca ancora una fase, quella del trasferimento della nuova competenza al di fuori della seduta, fase che possiamo far coincidere con la modificazione sintomatologica. Il trasferimento all'esterno di un gioco più elastico e non più rigidamente ingessato è compito del paziente; le peculiarità del setting sono là per segnalare che le usuali norme sociali sono sospese, e che la conversazione può indugiare in aree pericolose come il lutto o il sesso, senza che scatti alcuna implicazione pragmatica. L'organizzazione del paziente sì è strutturata intorno a eventi in primo luogo emotivi, quali sono le condizioni di attaccamento e accudimento in cui si è trovato a vivere. Perché tali strutture emozionali profonde possano modificarsi la persona deve trovarsi in una situazione di turbamento emotivo, il cui il prototipo in età postadolescenziale è una storia d'amore. Una volta entrato nella dimensione di reciprocità emozionale, il terapeuta deve essere pronto a mettersi in gioco con intensità equivalente a quella del paziente. Le modalità di interazione stabilizzate sono riproposte nelle loro linee essenziali al terapeuta; il punto chiave è chiarire al paziente quale sia il gioco che sta giocando, entrandoci quel tanto che serve a renderlo evidente ai suoi occhi. Un ragionevole livello di indefinitezza della figura del terapeuta permette al paziente di esprimere i propri schemi, sia quelli irrigiditi dalla nevrosi che quelli man mano più elastici della guarigione. Non si tratta di concedersi a un gioco né di smascherarlo, ma di farne prendere coscienza in piena serenità. È possibile che la relazione clinica attui molti tipi di interazione significativi, non fermandosi a quella genitorefiglio. Qualunque forma assuma la relazione, compito del terapeuta è entrare nel gioco per farlo comprendere al paziente. Fondamentale è il concetto di significato relazionale, che consiste nel riportare ciò che accade al paziente come riferito alla relazione fra lui e il terapeuta. L'interpretazione relazionale permette di non prendere alla lettera aggressioni o seduzioni, ma di rileggerle dando loro un altro significato, relativo ai ruoli giocati. Questo permette al terapeuta di non impegnarsi in prima persona in giochi estremamente coinvolgenti e disturbanti, ma di considerarli rivolti al suo lavoro clinico, non a sé come privato individuo. Se vogliamo cercare di delineare le caratteristiche costitutive di una relazione terapeutica, possiamo elencarne almeno tre: 1 - stabilità: il paziente sa che la relazione durerà nel tempo, finché lui lo desidera e finché gli sarà utile: non verrà abbandonato a metà strada. I pazienti si preoccupano tanto della buona salute dei terapeuti proprio per questo. 2 - mutuo riconoscimento: il paziente concede al terapeuta il permesso di accedere ai suoi stati interni, di scardinare le sue difese, di andare oltre la sua consapevolezza nel leggere i suoi comportamenti passati e presenti. 3 - asimmetria: solo al terapeuta è concesso entrare uscire dalla relazione, per dare significato a ogni evento oltre la sua portata letterale. Il terapeuta è insieme attore e osservatore. in sintesi lo psicoterapeuta è colui che è in grado di gestire a freddo una situazione calda. C'è un momento giusto per terminare la terapia, che va negoziato ampiamente ed esplicitamente, e che non va né anticipato né posticipato. La fine di una psicoterapia è una lunga fase che occupa almeno un quarto del tempo effettivo della durata e non consiste nel raggiungimento di uno stato finale fisso e immutabile: è invece la conquista di un equilibrio dinamico che permetta di muoversi liberamente nella consapevolezza che si possiedono ora gli strumenti per uscire da qualunque crisi. In questo concedere la possibilità uscendo dalla necessità sta tutta l'opera del terapeuta che, accettando l'impermanenza, non si affezionerà ad alcuna apparenza di stabilità. L'essenza del lavoro terapeutico consiste nel cercare di fare un po' di luce nel buio, aiutando il paziente a riesaminare le proprie credenze liberandosi dalle illusioni che lo spaventano. Un atteggiamento marcatamente interventista del terapeuta, dovuto al desiderio di vedersi confermato nel difficile ruolo assunto, è controproducente nel suo inibire le risorse interiori del paziente e nel suo enfatizzare la falsa stabilità dei maestri di vita. Ancora più importante è che il terapeuta sia riuscito a raggiungere un'adeguata trasparenza interna, che gli permetta di discriminare su cosa appartiene al paziente e cosa a se stesso, sia a livello emotivo che cognitivo. La consapevolezza che la conoscenza di sé sia lo strumento principale di chiunque si cimenti in una psicoterapia tesa al cambiamento profondo, è diffuso ormai a prescindere dalla differenziazione tra scuole. La fatica del terapeuta È giusto prestare attenzione anche alle sofferenze del terapeuta, e ai rischi umani che corre. Una persona che si dedica alla psicoterapia non è per ciò stesso più serena o equilibrata di qualunque altro essere umano. Il fatto che abbia ricevuto una formazione adeguata gli assicura la consapevolezza di sé, non certo stabilità emotiva né felicità privata. La vita privata va protetta dalla conoscenza di seconda mano, senza esperienza reale, che deriva dalla professione. Questa apparente saggezza, superficiale contatto con una realtà affrontata solo attraverso la narrazione altrui, può portare a prendere le distanze dalla vita vissuta, troppo intensa e imprevedibile rispetto allo sterilizzato e controllabile studio professionale. Il terapeuta può ritirarsi pian piano dalla cruda realtà, rifugiandosi nel suo immaginario, dove c'è il confronto di un'esistenza totalmente sotto controllo. Confondendo il superamento delle passioni con l'incapacità di viverle, il terapeuta sposta il proprio mondo sempre di più nel suo studio: tenderà ad aumentare le ore di lavoro e a frequentare nella vita privata solo persone che gli riconoscano continuamente il ruolo di psicoterapeuta. L'intera vita del terapeuta si trasforma in un'unica grande seduta. Non solo il transfert comincia rappresentare un succedaneo rispetto alle gratificazioni affettive non disponibili fuori dalle sedute, ma il transfer erotico sostituisce la sessualità che non si è più in grado di agire nella vita privata. Il contatto costante con la sofferenza psichica altrui può esporre il terapeuta a rischi inusuali nelle altre professioni: il più costante lo si corre seduta dopo seduta. C'è una fatica emotiva caratteristica, che consiste nell'entrare in relazione genuina con ciascun paziente, ogni volta esponendo se stesso ad un contatto che si può rivelare improvvisamente doloroso. Se l'esperienza aiuta ad ammortizzare i colpi che i pazienti più o meno coscientemente danno, è anche vero che un eccesso di prudenza rende il terapeuta talmente distaccato dal suo paziente da privare la relazione di gran parte della sua efficacia. Una certa quantità di fatica psichica, che talvolta diventa sofferenza, è indissolubile dall'essere terapeuta: eliminandola si elimina la qualità profonda di una psicoterapia. Se la sofferenza del paziente va lasciata entrare non deve comunque essere tale da sconvolgere l'equilibrio del clinico. Al terapeuta non è permesso di esprimere il proprio disagio. Il criterio di protezione consisterà nel rispettare la propria vita. Vivendo continuamente la vita altrui al terapeuta può sembrare di aver acquisito esperienza, dove invece sono solo conoscenza mediate. Il criterio discriminante tra attore e spettatore è quello fondato sull’odore e sul sapore. Il terapeuta deve quindi seguire un corso di formazione e un'esplorazione guidata del proprio mondo interno di pensieri ed emozioni. Si assicuri il terapeuta di avere qualche altro clinico con cui poter parlare delle proprie difficoltà professionali. L'assoluzione non è comunque la soluzione del problema ma la sua relativizzazione. Non esistono pazienti difficili, ma terapeuti per i quali un certo paziente è non trattabile. Il terapeuta deve essere consapevole dei propri limiti: un benefico effetto della conoscenza di sé e lo sciogliersi nel senso di invulnerabilità, che permetta terapeuta progressivamente più saggio di prendersi sempre più attenta cura della propria vita privata. Capitolo 5 Il ruolo dell'attaccamento nella conoscenza e regolazione delle emozioni Uno dei temi fondanti della terapia cognitiva riguarda l'influenza dei processi e delle strutture cognitive nell'attivazione, nell'attribuzione di significato e nella categorizzzione delle emozioni. Quest'influenza può essere studiata in riferimento a tre cornici teoriche generali: psicobiologica, socio-costruttivista e componenziale La teoria psicobiologica dei rapporti cognizione-emozione Assumere una prospettiva psicobiologica nello studio delle emozioni dei loro rapporti con la cognizione, significa partire dal presupposto che almeno alcuni processi emozionali derivino da sistemi intrinseci al cervello, siano precedenti lo sviluppo della conoscenza esplicita di sé e capaci di prodursi indipendentemente da essa. Le emozioni umane " di base " sono considerate in questa prospettiva come caratteristiche e distinte realtà biologiche a base innata, frutto della storia evolutiva di tutte le specie di mammiferi. Paura, collera, tristezza, gioia, stupore, disgusto ( ma, secondo alcuni, anche alcune altre emozioni come vergogna e desiderio erotico ) sarebbero categorie biologicamente fondate, precedenti sia filogeneticamente che ontogeneticamente l'esercizio delle capacità umane di conoscenza esplicita. Ognuna di queste categorie è indagabile nella sua struttura e nelle sue caratteristiche funzionali, con gli strumenti delle neuroscienze oltre che con quelli dell'etologia comparata e dell'analisi delle esperienze soggettive umane. Nelle varie specie di mammiferi ogni categoria emozionale fondamentale presenta le seguenti caratteristiche: 1 - Possiede lo stesso substrato anatomico ( per esempio amigdala e paura ); 2 – E’ mediata dagli stessi processi neurochimici (in tutti i mammiferi latenerezza protettiva dell'accudimento si esprime come ossitocina come neuromodulatore fondamentale); 3 - Si esprime attraverso modalità comportamentali e pattern di attivazione neuro-vegetativa sostanzialmente simili. La prospettiva psicobiologica ha importanti conseguenze per il tema fondamentale della terapia cognitiva, quello dei rapporti intercorrenti, nell'uomo, fra processi cognitivi e processi emozionali, rapporti che il cognitivismo clinico si propone di modificare per conseguire la guarigione dai disturbi emozionali. Se ogni emozione di base è mediata direttamente da uno specifico circuito cerebrale a base innata, innescato da un'appropriata realtà ambientale, allora ogni emozioniedi questo tipo è influenzata debolmente, nel suo apparire, dai processi cognitivi superiori derivanti dalla storia individuale. Debole è anche l'influenza dello stato di attivazione neurovegetativa generale sulla specifica emozione. Al contrario, una volta innescata l'emozione di base, esercita una potente influenza tanto sui pattern di attivazione neurovegetativa quanto si processi cognitivi. Il modello psicobiologico suggerisce che le credenze e i processi cognitivi possono acquisire solo un ruolo modesto nell'innesco dell’esperienza emozionale fondamentale. L'influenza dei processi cognitivi umani sulle emozioni riguarda soprattutto la modulazione o regolazione di queste emozioni a posteriori. In psicopatologia, le emozioni eccessive per intensità e durata che caratterizzano vari disturbi deriverebbero dunque da difetti nella capacità di regolazione cognitiva delle corrispondenti esperienze emozionali, e non dall'induzione di queste esperienze da parte dei processi cognitivi. La teoria socio-costruttivista dei rapporti cognizione-emozione La prospettiva socio-costruttivista considera di fondamentale importanza, nella genesi di qualunque emozione, il modo con il quale sensazioni corporee elementari e più o meno complessi pattern di esperienza psichica vengono etichettati cognitivamente. Attraverso processi di valutazione cognitiva, influenzati dal gruppo sociale dalla cultura, ogni esperienza emozionale verrebbe costruita a partire da sensazioni corporee non specifiche e da stati generali di arousal. I processi di attivazione neurovegetativa elementari vengono valutati percettivamente e cognitivamente in modi diversi: ogni emozione emerge da una specifica valutazione. Su questi processi di appraisal, il ruolo delle variabili cognitive familiari, sociali e culturali è assolutamente determinante. Per il modello sociocostruttivista ogni tentativo di identificare alcune emozioni di base indipendenti dai processi cognitivi esprimibili nel linguaggio, è malinteso e fuorviante. Mentre il modello psicobiologico è sostenuto dai risultati delle neuroscienze, il modello socio-costruttivista si appoggia su studi sperimentali attenti essenzialmente all'uso individualmente e culturalmente variabile del linguaggio nella descrizione dell'esperienza emotiva. La prospettiva socio-costruttivista induce evidentemente ad attribuire un ruolo diretto e potente ai processi cognitivi nella genesi delle emozioni, incluse quelle che caratterizzano la psicopatologia. Il problema di come le emozioni possono essere modulate grazie processi conoscitivi si impone subito all'attenzione e diviene la base per comprendere la psicopatologia dei disturbi emozionali. La teoria componenziale dei rapporti cognizione-emozione In uno sforzo di conciliare i meriti dei dati sperimentali a sostegno dei due modelli precedenti, la teoria componenziale sostiene che componenti biologicamente dati di comportamento emozionale sono aggregate e sviluppate da processi di apprendimento sociale e di appraisal cognitivo fino a costruire sistemi emozionali compiuti. Le emozioni sarebbero costruite prevalentemente durante le fasi iniziali dello sviluppo psicosociale, grazie a influenze interpersonali che attribuiscono significato e valore a unità neurovegetative più elementari, innate e selezionate dall'evoluzione, che accompagnano certi schemi di comportamento. Un esempio è fornito dall'analisi teorica condotta da Sroufe sullo sviluppo dell'emozione di gioia a partire dallo schema comportamentale e neurovegetativo del sorriso. Lo schema comportamentale del sorriso sarebbe innato e frutto dell'evoluzione, ma il suo sviluppo fino alla costruzione dell'esperienza soggettiva e dell'espressione compiuta dell'emozione di gioia dipende dall'accoppiamento progressivo di esso a uno schema cognitivo interpersonale acquisito sulla base dell'esperienza. Nonostante questo valore, che induce a considerare la prospettiva componenziale preferibile alle altre due, va sottolineato come questa non sfugga al problema posto dei risultati combinati delle neuroscienze e dell’ evoluzionismo: a dimostrazione che esiste un omologia, e non analogia, nelle diverse specie di mammiferi, dei circuiti cerebrali da una parte, e dei sistemi comportamentali espressivi dall'altra, che caratterizzano (categorizano) sono le emozioni di base. Prima che l'esperienza possa influenzare l'attività dei sistemi cerebrali deputati alla sintesi delle emozioni, questi sistemi, in quanto precostituiti dall'evoluzione, sono già in grado di operare. La prospettiva componenziale non ha fino ad oggi sviluppato alcun programma di ricerca coerente, alternativo a quello basato sull'idea di un omologia evoluzionista, per lo studio dei sistemi cerebrali che sostengono l'espressione e l'esperienza delle emozioni negli animali e nell'uomo. L'organizzazione interna delle sequenze emozionali nella prospettiva evoluzionista. L’omologia dei sistemi cerebrali emozionali è l'argomento più solido che ci induce a credere all'esistenza di emozioni di base, cablate per via innata nel cervello umano, che influenzano i processi cognitivi nel corso dello sviluppo prima di poter essere da questi influenzate. L'influenza dei processi cognitivi è comunque da intendersi nella dimensione della regolazione più che in quella dell'innesco di ogni esperienze emozionale. Visto che questo modo di considerare i rapporti fra cognizione ed emozione, centrato sull'idea di regolazione o modulazione, è sostenuto da argomenti sostanzialmente evoluzionisti, chiameremo cognitivo-evoluzionista il modello teorico esposto qui. Esiste, prima di un livello cognitivo potenzialmente cosciente di regolazione, un insieme di processi motivazionali a base innata, anch'essi precedenti filogeneticamente e ontogeneticamente la cognizione e la coscienza umana, capaci di organizzare in sequenza l'espressione dell'emozione di base. L'analisi attenta della vita emozionale rivela come diverse emozioni siano coordinate fra di loro in sequenze tipiche, invarianti rispetto le differenze di specie. Questo coordinamento appare determinato dagli scopi che ogni specie di mammiferi deve perseguire per la sopravvivenza, l'adattamento all'ambiente e la riproduzione. Seguendo la prospettiva evoluzionista dobbiamo subito rinunciare a spiegare la tipicità di queste sequenze emozionali in base alla rappresentazione cognitiva esplicita degli scopi. La cognizione cosciente non è evidentemente necessaria per organizzare in tal modo le sequenze emozionali, dato che esse sono osservabili in specie di mammiferi certamente del tutto prive delle capacità rappresentative esplicite permesse dalla condizione umana. Queste considerazioni sono all'origine del concetto di sistemi motivazionali a base innata, che si sviluppano sulla base di sistemi cerebrali filogeneticamente e ontogeneticamente precedenti la cognizione esplicita umana. Si tratta di sistemi cerebrali creati dall'evoluzione capaci di regolare o controllare non solo il comportamento, ma anche le emozioni, in funzione di alcuni scopi o valori fondamentali. Questi scopi, necessari alla sopravvivenza e all'adattamento di tutte le specie di mammiferi, sono rappresentati a un livello implicito ( percettivo-motorio e non cosciente ). I sistemi motivazionale la base innata Quanti e quali sono sistemi motivazionale base innata? L'osservazione etologica e la ricerca suggeriscono l'utilità di rispondere questa domanda attraverso la considerazione preliminare di due classi di motivazioni, a seconda che gli scopi perseguiti riguardino direttamente la relazione con altri membri della specie. Nella specie umana a queste due classi di motivazioni ne va aggiunta una terza, riguardante il bisogno di usare il linguaggio e di sviluppare la conoscenza mediata dal linguaggio. I sistemi motivazionali innati " non sociali ", evoluzionisticamente più antichi hanno come scopo il mantenimento dell'omeostasi, l'esplorazione delle novità ambientale e la difesa dai pericoli ambientali. L'alimentazione, la predazione, la raccolta di cibo, la definizione di un habitat, la termoregolazione, i ritmi di attività e riposo, l'esplorazione, l'attacco e la fuga, sono le principali espressioni del cosiddetto cervello rettiliano, o complesso R (dal tronco dell'encefalo ai nuclei della base ). I sistemi motivazionali epistemici, tipicamente umani, sono invece sostenuti dall'attività dei circuiti neurali neocorticali. Al loro esercizio si associano particolari sentimenti di padronanza di un'abilità, e di apprezzamento per una buona forma delle strutture conoscitive che ne derivano, oppure sentimenti opposti di non padronanza e sprezzo per la cattiva forma. I sistemi motivazionale innati che regolano l'interazione sociale ( nell'uomo sono chiamati sistemi motivazionali interpersonali SMI ) richiedono, diversamente dai due precedenti tipi di motivazioni, che l'attività cerebrale abbia il suo momentaneo centro di gravità del cosiddetto sistema libico, o " cervello anticomammifero ". Almeno quattro fra questi sistemi, operano in tutti mammiferi oltre che nell'uomo: il sistema dell'attaccamento, il complementare sistema dell'accudimento, il sistema competitivo e il sistema sessuale che conduce alla formazione di coppie. Il sistema di cooperazione tra pari va aggiunto per quello che riguarda molte specie di mammiferi dotati di intensa vita di gruppo. La particolare importanza dei sistemi motivazionali interpersonali nella regolazione della condotta sociale e delle emozioni rende utile soffermarsi sulle condizioni principali che ne causano l'attività o vi pongono termine. Mentre sistemi motivazionali non-sociali regolano prevalentemente sensazioni corporee, i sistemi motivazionali sociali regolano soprattutto le emozioni che tale regolazione si esprime nelle tipiche sequenze di cui abbiamo parlato. Ciascuna sequenza in un individuo comporta sempre una sequenze emozionale complementare nell' individuo con il quale si sta interagendo. La prospettiva cognitivo-evoluzionista riconosce dunque profonda validità all' intersoggettività come radice ineliminabile di ogni esperienza emozionale e di ogni conseguente conoscenza umana. Vedi pagina 111 e 112 Lo sviluppo della capacità di regolare le emozioni Ciascun sistema motivazionale interpersonale è concepibile come un sistema funzionale a base innata capace di regolare l’ esperienza emozionale in una sequenza tipica, dotata di una peculiare forma di intenzionalità. La scoperta di neuroni specifici deputati fin dall'inizio della vita a questo scopo permette di intravedere il processo innato per cui, prima di ogni conoscenza esplicita, siamo in grado di riconoscere le intenzionalità dei gesti ed espressioni emozionali in noi stessi e nell'altro. La capacità di regolare le emozioni nella sua successiva crescita lungo tutto l'arco dello sviluppo sociocognitivo va considerata a partire da questi fondamenti innati. Appare forse fuorviante l'espressione " credenze di categorizzazione " per denotare processi cognitivi espliciti con i quali il soggetto interpreta, riconosce ed etichetta il proprio stato d'animo come una certa emozione. Le emozioni di base possono essere ricategorizzate dai processi cognitivi espliciti, non primariamente categorizzate da essi. Le etichette della categorizzazione sono applicate al mondo dal cervello umano. Le emozioni di base con le quali si esprime l'attività di ogni sistema motivazionale interpersonale sono già categorie percettive distinte dotate di specifica intenzionalità, nelle quali i processi cognitivi espliciti permettono una successiva ricategorizzazione. Non si tratta di una semplice questione terminologica: proprio perché le emozioni coordinate per via innata dai vari sistemi motivazionali interpersonali sono già categorie percettive dotate di causalità, valore e senso evoluzionistico, la loro ricategorizzazione cognitiva esplicita può essere considerata più o meno adeguata. Si può ritenere che un'adeguata ricategorizzazione cognitiva delle categorie emozionali di base sia la premessa per lo sviluppo ottimale della capacità di regolare le emozioni. La ricategorizzazione delle emozioni di base, nel corso dello sviluppo socio-cognitivo, dipende dunque dal modo con cui la loro espressione da parte del bambino è abitualmente rispecchiata dagli altri significativi. L'esperienza delle prime interazioni di richiesta-offerta di cura costituirebbe il principale passo capace di indirizzare, in una direzione favorevole o sfavorevole, lo sviluppo successivo della capacità di ricategorizzare, e dunque di regolare tutte le emozioni. Il sistema dell'attaccamento nello sviluppo della capacità di regolare le emozioni Studiando migliaia di coppie genitore-bambino attraverso metodi di indagine quali la Strange situation e la Adult Attachment Interview, è stato possibile non solo tipizzare gli stili di attaccamento che si producono nel corso del primo di vita, ma anche dimostrare che sono correlabili agli atteggiamenti del genitore verso le richieste di attaccamento del bambino assai più che a variabili genetiche di temperamento o costituzionali. È stato dimostrato come gli stili di attaccamento rilevabili nei primi anni di vita siano dotati delle seguenti caratteristiche: 1 - Tendono a mantenersi stabili nel corso dello sviluppo, fino all'età adulta, anche se possono essere modificate da esperienze interpersonali adeguate lungo tutto l’arco di vita. 2 - Sono specifici per ogni relazione in cui il bambino è impegnato, visto che si sviluppano in riferimento agli atteggiamenti di chi da cura. 3 - Nel corso dello sviluppo tendono gradualmente a tradursi in strutture cognitive prima implicite e poi esplicite, cioè in memorie e aspettative ( modelli operativi interni MOI ) e in più complessi stati mentali ( sistemi di credenze ) riguardanti le esperienze di attaccamento. I modelli operativi interni e gli stati mentali relativi all'attaccamento influenzano potentemente la capacità di regolare le emozioni tipiche dell'attaccamento. È possibile iniziare ad indagare come lo sviluppo favorevole o deficitario della capacità di regolare le emozioni attaccamento, in funzione dei modelli operativi interni e degli stati mentali, si rifletta nell'organizzazione cerebrale in particolare della corteccia orbito-frontale destra. Il bambino con un attaccamento sicuro grazie all'interazione con l'adulto ha conquistato uno stato mentale libero rispetto all'attaccamento, vedendo rispecchiate positivamente le proprie emozioni di paura, collera, gioia o curiosità e esplorativa. È probabile che i mirror neurons giochino un ruolo importante nel mediare questo rispecchiamento. Ne consegue la costruzione di strutture mestiche e di aspettativa inizialmente implicite e poi esplicite all'interno delle quali un altro significativo mostra atteggiamenti di risposta positiva alle sue emozioni, validandole. I bambini con attaccamento insicuro, e in particolare quelli con attaccamento disorganizzato, sono esposti a tipi diversi di invalidazione delle emozioni. Nell'attaccamento evitante, le emozioni di attaccamento sono ricategorizzate cognitivamente come fonte di inutili fastidi per gli altri e come indicatori di inadeguatezza personale. Nell'attaccamento ambivalente l'efficacia dell'emozione di attaccamento nel determinare precise e coerenti risposte nell'altro è continuamente posta in dubbio. Nell'attaccamento disorganizzato le emozioni sono oggetto di processi di invalidazione particolarmente gravi, molteplici, paradossali e drammatici. Nell'attaccamento disorganizzato le emozioni sono ricategorizzate secondo sistemi di credenze molteplici, reciprocamente incompatibili e drammatiche che corrispondono alla descrizione psicoanalitica della scissione a alla descrizione psicopatologica della dissociazione. I modelli operativi interni dell'attaccamento esercitano un ruolo cruciale nella genesi del sistema mentale di autoregolazione delle emozioni. Una conseguenza immediata di questo mondo di pensare alla regolazione delle emozioni è che di fronte ad un disturbo emozionale, non si pensa tanto al tipo di conflitto intrapsichico o di pericolo ambientale che potrebbe averlo generato, quanto al probabile deficit delle funzioni mentali che, partire dalle esperienze di attaccamento, regolano e modulano le esperienze di disagio emozionale. La prospettiva psicobiologica sulla base della quale stiamo conducendo la nostra analisi dei rapporti fra emozione-cognizione e la teoria dell'attaccamento, pur concordando con le teorie del deficit nella comprensione dei disturbi emotivi, contemplano anche la possibilità che qualcosa di simile al conflitto entri nella genesi del disturbo. I modelli operativi interni dell'attaccamento insicuro da un lato non facilitano né l' autoconforto né la ricerca di conforto da altri; dall'altro però creano le basi per diversi tipi di atteggiamento negativo rispetto alle proprie emozioni di richiesta di aiuto, emozioni inevitabili visto che si girarono per via innata quando si fronteggiano eventi traumatici o altre difficoltà di vita. Centralità dell'attaccamento nella regolazione delle emozioni legate ad altri sistemi motivazionali interpersonali. Diversi sistemi motivazionali interpersonali regolano emozioni differenti da quelle dell'attaccamento. Anche sulla percezione di queste emozioni dovrà essere esercitato nel corso dello sviluppo un insieme di processi di conoscenza che la ricategorizzino in maniera esplicita; una ricategorizzazione cognitiva esplicita che ne riconosca il senso e il valore per l'adattamento permette un miliore sviluppo della capacità e di regolarle. Reciprocamente diversi tipi di invalidazione esplicita di queste emozioni indurranno diversi deficit nella capacità di regolarle. La ricategorizzazione è influenzata dall'interazione di attaccamento-accudimento e dai modelli operativi interni di attaccamento precedentemente formatisi. Non è vero il contrario: la ricategorizzazione di emozioni attinenti alla competizione, alla cooperazione, alla sessualità e all'accudimento non influenza altrettanto potentemente modelli operativi interni di attaccamento. Il sistema di attaccamento e i modelli operativi interni che ne controllano l'attività, svolgono un ruolo del tutto particolare, centrale nella regolazione tanto delle emozioni proprie del sistema, quando di quelle proprie ad altri sistemi. I modelli operativi interni di attaccamento influenzano potentemente le operazioni di almeno due sistemi motivazionali non-sociali, il sistema esplorativo e il sistema di difesa: curiosità esploratoria, paura di fronte ai pericoli ambientali nonsociali, come l'aggressione da parte di un animale, e rabbia connessa alla contro-aggressione. Il sistema di attaccamento, mentre è tra i primi ad attivarsi nel corso della vita, è in assoluto il primo a mettere i bambini a contatto con gli altri significativi. Se le prime strutture cognitive riguardanti la vita emozionale sono sviluppate all'interno di matrici interpersonali mediate dall'attaccamento, quelle che si svilupperanno successivamente dovranno presumibilmente essere confrontate con queste più antiche (Piaget). Il secondo motivo per il quale i processi di ricategorizzazione di emozioni mediate da sistemi motivazionali interpersonali diverse dall'attaccamento sono influenzati da modelli operativi interni di attaccamento, va rintracciato nel fatto che spesso queste emozioni sono dolorose. Poiché ogni esperienza di dolore, fisico o mentale, tende ad attivare il sistema di attaccamento (ricerca di vicinanza protettiva, aiuto e conforto), è evidente che le emozioni dolorose mediate da altri sistemi motivazionali interpersonali finiranno comunque per essere categorizzate all'interno dell’ interazione di attaccamento. Il bambino cerca conforto nella figura di attaccamento: questa potrà accogliere la richiesta, offrendo il conforto richiesto iniziando ad insegnare al bambino il nome e il significato delle emozioni che trova, oppure rispondere negativamente: il bambino con attaccamento insicuro incontrerà maggiori ostacoli nel conoscere e nel regolare le emozioni connesse alla competizione. L' attaccamento è implicato nella regolazione delle interazioni competitive e delle emozioni che in esso si producono: in ambienti scolastici bambini con attaccamento sicuro sono quelli che si mostrano meglio capaci di accogliere senza turbamento le emozioni dolorose connesse alla sconfitta nella competizione e anche quelli che esercitano con maggior efficacia la naturale disposizione umana alla competizione. I bambini con attaccamento insicuro-evitante tendono invece essere eccessivamente competitivi, con conseguenze negative rispetto alla loro popolarità fra i coetanei, mentre bambini con attaccamento insicuro-resistente sono spesso eccessivamente timidi che tengano evitare anche tipi e gradi normali di aggressività competitiva. Le maggiori difficoltà nel regolare emozioni e impulsi aggressivi sono state sistematicamente osservati in bambini con attaccamento disorganizzato. Attaccamento, regolazione delle emozioni e psicopatologia Se è vero che un deficit nella capacità di regolare e modulare le emozioni è alla base di molti disturbi psicopatologici, allora il ruolo centrale del sistema di attaccamento e dei modelli operativi interni ad esso collegati nella regolazione delle emozioni consente una previsione: rispetta la patogenesi di tutti disturbi emotivi, l'attaccamento insicuro costituisce un fattore di rischio, l'attaccamento sicuro un fattore di protezione. In quasi tutti campioni di bambini e di adulti sofferenti dei più diversi tipi di disturbi emozionali sono state riscontrate basse percentuali di " sicuri " e alte percentuali di " insicuri ", significativamente diverso dai campioni di controllo, privi di disturbi. Tuttavia non è stata riscontrata finora alcuna specifica relazione statistica fra stile di attaccamento e categoria nosografica, salvo che per una relazione assai probabile, ma non specifica, fra disorganizzazione dell'attaccamento e disturbi implicanti dissociazione. Gli attaccamenti insicuri e disorganizzati sembrano poter costituire una importante momento patogenetico nello sviluppo di diversi disturbi mentali. Tuttavia non è legittimo ipotizzare che uno specifico disturbo psicopatologico sia riconducibile ad uno specifico pattern di attaccamento precoce. Presumibilmente altri fattori di rischio si associano all'attaccamento insicuro, pilotando le disfunzioni nella capacità di regolare le emozioni, i deficit metacognitivi e la costruzione della conoscenza di sé e dell'altro verso il tipo corrispondente a quella particolare sindrome. Lo studio dell'attaccamento non è tanto importante per indagare le caratteristiche dei processi dei contenuti cognitivi specifici per ciascun tipo di disturbo emozionale, quanto lo è per la comprensione di diversi tipi di deficit della regolazione delle emozioni che possono, associate ad altri fattori di rischio, concorrere allo sviluppo di diversi tipi di disturbo mentale. Il ruolo dell'attaccamento nella regolazione delle emozioni nello sviluppo di disturbi psicopatologici ha importanti implicazioni per la conduzione della psicoterapia. Qualsiasi sia il disturbo per il quale è in corso la psicoterapia, e qualsiasi strategia terapeutica venga impiegata, è opportuno che il terapeuta si sforzi di offrire al paziente, attraverso la relazione, un'esperienza interpersonale di accudimento sicuro oltre che di cooperazione efficace. In secondo luogo i momenti di difficoltà che si incontrano durante ogni processo psicoterapeutico potranno essere analizzati come fasi in cui i vecchi modelli operativi interni dell'attaccamento si confrontano con la nuova esperienza relazionale offerta. In terzo luogo l' indagine psicoterapeutica degli stili interpersonali del paziente potrà essere utilmente guidata dalla considerazione che le interazioni simili all’ attaccamento sicuro costituiscono la norma ideale funzionale. L'attaccamento sicuro è il paradigma dello sviluppo ideale della capacità di riconoscere le emozioni in sé e nell'altro come stati mentali dotati di un essenziale valore antropologico e sempre potenzialmente regolabili. Alcune conseguenze per la conduzione della psicoterapia cognitiva Esperienze correttive di attaccamento Gli psicoterapeuti possono valutare i momenti della relazione terapeutica nei quali il comportamento, le emozioni e il pensiero del paziente sono controllati e diretti dal sistema dell'attaccamento. Questa valutazione poggia su due ordini di osservazioni: 1 - La comparsa nei pazienti di segnali emotivo-comportamentali tipici del sistema: proteste o allarme per una separazione prevista dal terapeuta, tristezza per l'aspettativa di indisponibilità o impotenza del terapeuta, richiesta di vicinanza emotiva. 2 - L' attivazione nel terapeuta del proprio sistema motivazionale di accudimento durante il dialogo con il paziente: sovente compaiono emozioni di compassione, sollecitudine, tenerezza protettiva, colpa per un fallimento enfatico, irritato fastidio per l' insistenza delle richieste di rassicurazione o di dolorosa impotenza nel fornire aiuto. Ogni volta che l'attivazione del sistema motivazionale di attaccamento nel corso della terapia viene valutata in questo modo, si apre la possibilità di offrire ai pazienti un'esperienza emozionale e relazionale correttiva. Se il terapeuta risponde ai segnali dell'altro in modo diverso rispetto alle precedenti figure di attaccamento del paziente, si avvierà la costruzione di un nuovo modello operativo interno, che potrà condurre al cambiamento del suo stato mentale relativo all'attaccamento. La modificazione terapeutica del modello operativo interno di attaccamento insicuro nella direzione della sicurezza dell'attaccamento è così ottenuta con esperienze relazionali correttive più che attraverso spiegazioni verbali. Esiste una forte correlazione tra valutazione delle emozioni nella relazione, sicurezza dell'attaccamento e capacità successiva di auto-regolare le emozioni. Il cambiamento terapeutico dei precedenti modelli operativi interni di attaccamento insicuro, nella direzione della sicurezza, dovrebbe essere considerato una meta privilegiata della psicoterapia. Le possibilità di un cambiamento terapeutico dello stato mentale relativo all'attaccamento è documentato da alcuni studi clinici che hanno utilizzato la Adult Attachment Interview all'inizio e alla fine della psicoterapia. La credenza che gli stati mentali relativi all'attaccamento siano immodificabili è priva di sostegno. Difficoltà nella relazione terapeutica Il processo di correzione terapeutica dei vecchi modelli operativi interni di attaccamento non è certo senza difficoltà. Le vecchie strutture cognitive mostrano una particolare resistenza al cambiamento; e di solito non si prestano all'identificazione attraverso gli aspetti verbali dell’interazione terapeutica, in quanto costituiscono aspetti della conoscenza implicita più che di quella esplicita. La teoria dell'attaccamento fornisce importanti guide concettuali per interpretare e superare queste difficoltà quando esse si presentano nel corso della psicoterapia. Il ragionamento clinico può essere schematizzato attraverso una serie di passaggi: 1 - Se la psicoterapia persegue lo scopo di riconoscere il valore e il senso dell'esperienza emozionale del paziente allora i pazienti sono continuamente esposti alle condizioni interpersonali tipiche dell'attaccamento sicuro. 2 - L'esperienza di sicurezza dell'attaccamento che si ripete nella relazione terapeutica contrasta con i modelli operativi interni di attaccamento insicuro o disorganizzato precedentemente costruiti nei pazienti. Questo mette in moto i processi cognitivi che caratterizzano l'esposizione alla novità informativa. 3 - Il paziente tende a costruire l'esperienza di relazione con il terapeuta assimilandola alla sua esperienza con le precedenti figure di attaccamento. Questo lo spinge ad aspettarsi che il terapeuta ripeta gli schemi di condotta tipici delle precedenti figure di attaccamento: si aspetta cioè dall'altro una mancata comprensione delle sue emozioni, rifiuto, critica, tradimento, abbandono ecc., oppure incapacità dell'altro di contenere e limitare la sua aggressività. I pazienti finiscono così per agire nella relazione terapeutica proprio perché i terapeuti appaiono potenziali referenti di un attaccamento migliore rispetto a quelli precedentemente sperimentati. 4 - Si producono nel processo e nella relazione terapeutica quelle difficoltà descritte come " fasi di test ". In queste fasi i terapeuti possono immaginare quale tipo di interazione di attaccamento potesse essere simile, per i pazienti, a quella che ora sperimentano nella relazione terapeutica, per poi rispondere in maniera diversa. 5 - Se la risposta del terapeuta è davvero diversa da quella inconsapevolmente prevista dal paziente sulla base dei propri modelli, il processo di correzione di questi vecchi modelli avrà inizio. Di solito così inizia la correzione che si manifesta con una maggiore quiete emotiva dei pazienti, con una loro partecipazione più autentica al dialogo terapeutico, o con l'emergere di ricordi traumatici relativi all'interazione con le prime figure di attaccamento. Superata così la fase di test del processo terapeutico attraverso il raggiungimento di condizioni di sicurezza nella relazione emergono informazioni più precise per ricostruire gli schemi cognitivi interpersonali dei pazienti, la loro origine in precedenti esperienze traumatiche di attaccamento e le credenze patogene correlate. Analisi e cambiamento terapeutico degli schemi interpersonali La conoscenza di schemi interpersonali e credenze patogeni consente di procedere al loro cambiamento attraverso la riflessione critica e l'esperienza di alternative comportamentali, guidata dal terapeuta. La teoria dell'attaccamento suggerisce di cercare questa direzione ancora nel paradigma dell'attaccamento sicuro: ogni persona dovrebbe riconoscere la legittimità di chieder ascolto, aiuto e conforto agli altri significativi qualora si trovi in difficoltà esistenziali, di salute, sociali, affettive ecc.. Il paradigma dell'attaccamento sicuro suggerisce che per un adulto la sicurezza dell'attaccamento sia accompagnata dalla capacità di rispondere positivamente alle esigenze degli altri significativi quando siano questi a trovarsi in difficoltà. Le relazioni acquistano un carattere paritetico e reciproco. L'esito ideale della psicoterapia implica, da parte dei pazienti, l'esercizio ottimale del loro sistema di accudimento, oltre che di quello di attaccamento. Al termine di una psicoterapia che abbia raggiunto le massime possibilità di cambiamento, il paziente dovrebbe avere una maggiore capacità di comprendere gli stati mentali degli altri significativi e di rispondervi. L’ esercizio ottimale dei sistemi motivazionali di attaccamento e accudimento richiede che altri scopi basilari, regolati da altri sistemi motivazionali innati, non vengano mai sacrificati durevolmente alle esigenze di attaccamento proprie o altrui. Non si vuole certo intendere che il percorso psicoterapeutico debba e possa concludersi sempre con la conquista della sicurezza nell'attaccamento, della piena empatia rispetto alle esigenze altrui, della capacità cooperativa, dell'esercizio ottimale della tendenza umana alla competizione, e della felicità erotica. Si vuole indicare che queste sono le direzioni ideali di sviluppo della personalità umana, a partire dai sistemi motivazionali innati, la conoscenza dei quali può guidare ogni terapeuta nell'analisi e nel commento di schemi interpersonali di tutti i pazienti, indipendentemente dalle molteplici considerazioni. L'accresciuta capacità di riconoscere il valore delle emozioni, proprie e altrui, che compaiono nel corso di ogni relazione, è comunque il segno di un esito della psicoterapia che promette di auto-incrementasi progressivamente nel tempo verso quella direzione ideale. Capitolo 6 Lo sviluppo del Sé Una prospettiva ontologica La realtà non è più considerata unica e oggettivamente data una volta per tutte, ma viene vista alla stregua di una rete di processi multidirezionali interconnessi tra loro e articolati in livelli multipli di interazione simultaneamente presenti ma non riducibili uno all'altro. L'osservatore non è più nella posizione privilegiata di chi si pone all'esterno dell'oggetto che osserva: con la sua osservazione introduce un ordine in questa rete di processi interconnessi, grazie al quale le possibili ambiguità inerenti alle interazioni multiple simultanee che continuamente hanno luogo acquistano ai suoi occhi caratteristiche di univocità e necessarietà. Lungi dall'essere esterna e neutra, ogni osservazione autoreferenziale, riflette sempre se stessa, cioè l'ordine percettivo su cui si basa, piuttosto che le qualità intrinseche all'oggetto percepito. L'ordine e le regolarità con cui siamo abituati a trattare le cose e noi stessi non ha qualcosa di esterno e oggettivamente dato, ma piuttosto il prodotto emergente del nostro continuo interagire con noi stessi e col mondo. Il comprendere è a tal punto inseparabile dall'esperire umano che esistere significa conoscere. Il problema diventa quindi capire come le nostre caratteristiche di osservatori entrino in quello che osserviamo, cioè come l'esperienza umana sia co-dipendente e co-estensiva con l'ordinamento del mondo in cui viviamo. Un'ottica in termini di epistemologia evolutiva, cioè lo studio dell’ evolversi della conoscenza e dei sistemi conoscitivi, diviene all'impostazione metodologica di base. Dato che è impossibile distinguere il nostro ordinamento del mondo dal nostro essere nel mondo, la conoscenza individuale è inseparabile dall'esperienza personale, così come l'epistemologia lo è dall'ontologia. Viene a cadere la possibilità di un punto di vista esterno imparziale, grazie al quale diventa possibile analizzare la conoscenza a prescindere dal soggetto conoscente. La struttura dell'esperienza umana e sui livelli di articolazione Dal momento che possiamo percepire la realtà in cui viviamo solo attraverso l'ordinamento che essa assume nelle nostra impalcatura percettiva, l'esperienza umana si origina e prende forma a partire dalla prassi nell'immediatezza del nostro sentirci vivere, intesa come dimensione ontologica primaria e irriducibile. L'avvento del linguaggio è contrassegnato dall'emergere di un nuovo livello di ordinamento riflessivo e autoreferenziale secondo regole lessicali semantiche che consentono la ristrutturazione dell'esperienza immediata in termini di proposizioni, cioè di oggetti svincolati dall'immediatezza dell'esperienza per i quali risulta significativa l’attribuzione di verità o falsità. Questo sentirci vivere e il continuo spiegarcelo sono costitutivi della nostra natura e alla base di qualunque possibile esperienza. Il fatto assolutamente straordinario della sede evolutiva e che l'uomo è l'unico essere vivente che per vivere deve darsi delle ragioni del suo esistere. Il sistema emotivo-affettivo corrisponde ad un'esperienza immediata e di sè. Le sensazioni e le emozioni non possono mai risultare errate proprio perché attraverso di esse possiamo esperire direttamente il nostro modo di sentirci nel mondo. Gli errori emergono insieme alla possibilità di operare distinzione nell'esperienza immediata: essi possono quindi solo essere osservati a posteriori e dipendono dal punto di vista che noi, come osservatori, assumiamo nel riordinare la nostre esperienza immediata. Ogni riordinamento autoreferenziale consiste nell'operare con la coerenza di regole logico-proposizioninali per rendere il fluire dell'esperienza immediata coerente con la continuità della nostra percezione del mondo. Mentre il fluire dell'esperienza immediata appare come un vincolo necessario per ogni spiegazione, lo spiegare assume un ruolo cruciale nel dare significato a questo stesso flusso; questa interdipendenza fra esperire e spiegare appare come una vera e propria demarcazione ontologica primaria che crea l'irriducibile dualità assoluta tipica dell'esperienza umana, la distinzione fra soggettivo e oggettivo. Pur essendo entrambi parti integranti dell'esperienza umana, l'esperire e lo spiegare sono decisi dal soggetto in modo del tutto differente, lo spiegare viene avvertito come una propria attività interna, il fluire dell'esperienza immediata, essendo inseparabilmente interconnesso con il nostro ordinamento del mondo, è riferito all'esterno ed è avvertito come una realtà esterna univoca e comune ad ogni essere umano. Auto-individuazione e intersoggettività La caratteristica essenziale di tutti primati è quella di vivere in un mondo sociale molto complesso che ha trasformato l'ambiente fisico in un mondo intersoggettivo, cioè una dimensione di realtà in cui conoscere sé e il mondo è possibile sono in relazione agli altri. L'aumento della complessità della dimensione interpersonale fu contrassegnato da un aumento parallelo nell'apprendimento intersoggettivo e nella capacità di auto-individuazione. La propensione alla differenziazione individualizzata dagli altri è parte integrante della struttura di primati. Nella co-evoluzione fra intersoggettività e individuazione che contraddistingue l'organizzazione di primati, l'abilità a differenziare tra sé e gli altri appare come la condizione essenziale per arrivare a strutturare un riconoscimento di sé stabile. La capacità di riconoscimento individualizzato usata dagli altri permette infatti di anticipare la loro percezione delle nostre azioni e questo migliora la sincronia nella reciprocità con le loro: il poter simulare come gli altri guarderanno le nostre azioni implica inoltre la capacità di vedere se stessi secondo la prospettiva percepita dagli altri. La nuova dimensione di esperienza intersoggettiva offerta dal linguaggio ha articolato ulteriormente le capacità di individuazione di autoriconoscimento, dando luogo allo sviluppo di un senso di sé sia come soggetto ( io ) sia con oggetto ( me ). L’aumentata capacità di sincronizzazione con le intenzioni degli altri nella coordinazione del discorso va in parallelo a un progressivo ordinamento del flusso degli stati interni di ritmi psicofisiologici che fornisce continuità e stabilita alll'esperienza immediata ( io ). Dall'altro l'abilità di vedersi nella prospettiva degli altri incrementata dalle capacità di astrazione inerente al linguaggio, dà luogo a un senso riconoscibile ( me ) della continuità e unicità con cui si percepisce; tale senso diviene uno strumento essenziale per il riordinamento dell'esperienza immediata e per la stabilizzazione della coerenza interna. L'interdipendenza fra l'esperire e lo spiegare che sottende la conoscenza di sè corrisponde pertanto al processo di circolarità senza fine tra l'esperienza immediata di se e il senso di sé più astratto ed esplicito che deriva dal riferire a sé quella stessa esperienza. L'essere soggetto e sentirsi oggetto sono i contorni riducibili della processualità del sè, la cui direzionalità dipende dal fluire continuo dell'esperienza immediata. L’ io che esperisce e agisce è sempre un passo avanti rispetto alla valutazione in corso della situazione e trasforma il me in un continuo processo di riordinamento dell'immagine cosciente di sé. Il ruolo organizzativo nello sviluppo del sé sia come soggetto che come oggetto svolto dall'attaccamento nel corso dei periodi maturazionali, può essere così delineato. Gli aspetti emotivi dall'attaccamento trasformano le tonalità emotive di base in specifiche modulazioni emotive; attraverso le regolarità precipite nei comportamenti e nelle intenzioni dei genitori il bambino può cominciare a connettere tonalità emotive di base con specifiche percezioni, azioni, ricordi trasformandole in schemi emozionali altrettanto specifici e responsabili dell'esperienza soggettiva. L’io può arrivare a vedersi come un me solo attraverso la coscienza. Anticipare la percezione che gli altri hanno delle proprie azioni permette la riconoscibilità, all'interno del fluire continuo di stati interni, di schemi emozionali specifici, che vengono così strutturati in esperienze emotive coscienti e correlate a intenzioni e atteggiamenti specifici. La percezione che il bambino ha della propria immagine attraverso il comportamento dei genitori non riguarda solo le circostanze in cui questi sono impegnati a soddisfare i suoi bisogni fondamentali; la maggior parte dei genitori mimano e imitano il comportamento del bambino fino dalle primissime fasi di vita e questa imitazione fornisce in modo continuativo una fonte di dati essenziali per riconoscere come proprie le caratteristiche e le attitudini con le quali i genitori lo percepiscono come persona. Dinamica del sé nel ciclo di vita Il ciclo di vita individuale si sviluppa attraverso una progressione ortogenetica, cioè un processo in continuo svolgimento in cui il riordinamento della dinamica fra i contorni del sé produce l'emergere discontinuo di livelli più strutturati e integrati di coerenza di significato. La capacità di autoregolazione nel procedere lungo la direzionalità ortogenetica prende le forme di quell’equilibrio dinamico noto come " ordine attraverso fluttuazioni ": gli spostamenti continui dal punto di equilibrio della dinamica io-me sono la modalità esistenziale per mantenere la coerenza su cui si fondano la continuità e consistenza del proprio sentir-si. Consideriamo le variabili essenziali che regolano questa dinamica, cioè il ruolo della consapevolezza è modulare le perturbazioni destabilizzanti e il ruolo dell'affettività è nell'innescare tali perturbazioni. Fondamentalmente la consapevolezza regola la tensione essenziale inerente alla dinamica tra i contorni del sé, vale a dire il modo in cui il me insegue l’io che agisce ed esperisce e che è sempre un passo avanti rispetto alla valutazione della situazione in corso. La consapevolezza di sé è un processo riflessivo di autoriferimento dell'esperienza immediata che è volto ad amplificare gli aspetti coerenti dell'immagine cosciente di sè, escludendo quelli discrepanti. Ogni spiegazione del fluire dell'esperienza immediata corrisponde ad una costruzione dal punto di vista del me che la compie, ed è volta a confermare la valutazione in corso della realtà, piuttosto che ad esplorare l'Io che agisce ed esperisce. Ogni persona si trova nella condizione di esperire molto di più di quello che sarebbe richiesto per mantenere la propria coerenza in quella situazione; è evidente la necessità di poter manipolare di continuo il fluire dell'esperienza immediata auto-riferendolo e riordinandolo, in modo tale da impedire che affiorino alla coscienza dati irrilevanti o addirittura contrastanti con la valutazione della situazione in corso che si sta portando avanti. Una consapevolezza di sé che risulti efficace comporta sempre meccanismi adeguati di autoinganno; ogni organizzazione individuale da un lato è caratterizzata da tonalità emotive critiche ricorrenti nel fluire dell'esperienza immediata, dall'altro è corredata di specifiche procedure di autoinganno atte a manipolare la loro decodificazione in modo coerente con la qualità di consapevolezza di sé consentita dal livello di flessibilità e astrazione raggiunto. Le tonalità critiche possono essere in questo modo rese intelleggibili e controllabili senza mettere in discussione l'accettabilità dell'immagine di sè strutturata fino a quel momento. L'esperienza immediata e la sua valutazione cosciente corrispondono a dimensioni conoscitive distinte e irriducibili, le emozioni possono affiorare nella coscienza indipendentemente dai processi cognitivi; tuttavia, in assenza di una decodificazione cognitiva, l'attivazione neurovegetativa motoria tende a realizzarsi direttamente attraverso manifestazioni somatiche e affettive, avvertite come stati fluttuanti relativamente incontrollabili, che vanno oltre la gamma abituale di emozioni riconosciute come proprie. Questo processo continuo di ri-ordinamento di sé è caratterizzato da tutta una serie di possibili discrepanze io-me, cioè di divergenze fra l'esperienza immediata e la coscienza di sé che tendono destabilizzare i pattern di autoregolazione in corso. Nel continuo riordinamento della propria esperienza immediata il soggetto ha virtualmente un accesso illimitato alle informazioni su di sè che sono disponibili ed è lui stesso a definire i limiti di tale accesso. D'altra parte, nell'equilibrio fra l'esperienza immediata e pattern di consapevolezza in corso, il ruolo di regolazione svolto delle procedure di autoinganno è duplice: esse mirano a preservare l'equilibrio in corso e creano contemporaneamente le condizioni per l'affiorare di discrepanze io-me, la cui assimilazione comporta slittamenti del punto di equilibrio lungo una direzione di riordinamento personale che può essere progressivo o regressivo e che dipende dal livello di flessibilità e astrazione raggiunta nella consapevolezza di sé. Nel caso di riordinamento regressivi, la destabilizzazione dei meccanismi di autoregolazione in corso si accompagna sempre a livelli apprezzabili di iperemozionalità e crisi personale che finiscono per dare luogo a sindromi. Quanto maggiore è l'indecodificabilità della discrepanza io-me emersa, tanto più intensa è l'esperienza di divisione tra pensieri e proprie emozioni. Il ri-ordinamento esplicito-cosciente sarà sempre più focalizzato nel mantenere ad oltranza l'immagine di sè in corso attraverso l'elaborazione di cognizioni e comportamenti volti a negare la natura stessa delle emozioni discrepanti, che vengono così ad essere percepite come qualcosa di estraneo a sè. In assenza di un'appropriata mediazione cognitiva, l'attività motoria, neurovegetativa e affettiva che accompagna l'attivazione di modulazioni emotive discrepanti tende a essere direttamente attualizzato sotto forma di stress emozionali, disturbi somatici e comportamenti stereotipati. Mentre negli stadi maturativi di attaccamento è strettamente correlato alla differenziazione e allo sviluppo di contorni di sè, durante l'età adulta emergono nuovi tipi di attaccamento che acquisiscono una funzione auto differenziale di confermare, stabilizzare e eventualmente articolare il pattern di coerenza di sé strutturato fino a quel momento. È bene precisare come l'influenza dell'attaccamento precoce non sia tanto correlata con la qualità concreta dei primi modelli, quando con lo stile di attaccamento che a partire da quei modelli sia andato man mano differenziano lungo l'intero itinerario di sviluppo. La continuità dell'attaccamento nel corso del ciclo di vita appare più comprensibile se si considera come il coinvolgimento di relazioni affettive percepite con caratteristiche di esclusività e unicità cominci con l'inizio stesso del ciclo di vita, e come legami affettivi dell'adulto sembrino prendere forma proprio a partire da quelle prime relazioni. Anche nel corso della vita adulta costruire una relazione esclusiva con una persona significativa rappresenta una modalità di base per poter percepire un senso di unicità e individualità consistente con il proprio sentir-si nel mondo. I temi affettivi mantengono una loro primarietà e continuità nei confronti dei temi ideativi. Paragonati alla mutabilità dei temi ideativi, che vanno incontro al continuo processo di differenziazione e integrazione astratta, regolato da regole logico-razionali di trasformazione, i temi affettivi appaiono molto più costanti nel tempo e le procedure logico-razionali esercitano una scarsa influenza sui meccanismi e sui tempi delle loro trasformazioni. L'articolazione dei temi affettivi dall'infanzia ai contenuti tematici adolescenziali prende forma attraverso un assemblaggio progressivo di scene significative, portato avanti e reso consistente attraverso regole narrative di derivazione analogica e proiezione metaforica. Qualsiasi trasformazione in un tema affettivo deriva dall'affiorare di nuove modulazioni emotive che facilitano ulteriori articolazioni nell'esperienza immediata. La procedura essenziale che regola la direzionalità del ciclo di vita individuale corrisponde al processo continuo di rendere esplicito il tacito, in cui il fluire dell'esperienza immediata è costruttivamentre autoriferito e riordinato lungo dimensioni di comprensione semantica proprie al linguaggio e al pensiero. Metodologia e strategia psicoterapeutica Attraverso il continuo riordinamento dell'esperienza immediata (io) in un senso cosciente di sé e del mondo (me), ogni individuo è in grado di strutturare una demarcazione stabile e al tempo stesso dinamica tra ciò che avverte come reale nel continuo fluire della sua prassi del vivere e ciò che non lo è mentre la modulazione emotiva che accompagna l'Io che esperisce, può superare una certa soglia scivolando dentro e fuori il focus dell'attenzione selettiva, le possibilità effettive che essa venga riconosciuta e riordinata nell'immagine cosciente di sé dipendono dalle capacità astratte di autoriferimento strutturatesi fino a quel momento. In primo luogo, il setting operativo cruciale si situa nell'interfaccia tra esperienza immediata e il suo riordinamento esplicito. La procedura di base consiste nell'addestrare il paziente, attraverso un metodo di auto osservazione a differenziare la percezione immediata di sé dalle spiegazioni che se ne dà e dalle convinzione che ne ricava, ricostruendo il pattern di coerenza che egli impiega per rendere consistente ciò che sente. In secondo luogo, perché tale strategia risulti efficace, nel corso del processo il paziente deve sperimentare gradualmente alcuni eventi emotivamente significativi; la relazione terapeutica è il contesto specifico nel quale diventa possibile sia innescare eventi affettivamente significativi sia tentare di orientare il processo di riorganizzazione che essi attivano. Gli aspetti emotivi della relazione terapeutica esercitano un effetto facilitante nell'assimilazione di nuove esperienze o nella rielaborazione di quelle già esistenti. Struttura e dinamica del cambiamento Un cambiamento nella valutazione dell’ io da parte del me consiste in uno spostamento dall'esperire alcuni aspetti della propria prassi del vivere in modo scontato, come se fossero oggettivamente dati dall'esterno, ad auto riferirli e riconoscerli come modalità dinamiche di percepire e spiegarsi il proprio essere nel mondo, rendendoli suscettibili di ulteriore esplorazione per arrivare a una comprensione più articolata dalla loro natura. Sono possibili livelli diversi di cambiamento in grado di innescare la riorganizzazione dell'esperienza immediata più o meno profondi e articolati tanto che vengono usati i termini di cambiamento superficiale o cambiamento profondo. Si tratta di due tipi di cambiamento che non si escludono ma possono far parte di momenti diversi di uno stesso processo terapeutico. A loro volta le perturbazioni emotive capaci di innescare eventi affettivamente significativi nel corso del processo terapeutico derivano da due fonti principali: 1 - l'aumento di comprensione, da parte del paziente, delle proprie regole di funzionamento si accompagna sempre a un grado apprezzabile di modulazione emotiva, con l'affiorare di nuove tonalità affettive. Le modificazioni nella comprensione derivano in qualche modo dalle spiegazioni offerte dal terapeuta. 2 - la struttura e la reciprocità del contesto terapeutico interpersonale possono innescare perturbazioni emotive che facilitano la destabilizzazione del punto di vista che il paziente ha attualmente su di sé. Questa interdipendenza tra affettività e cambiamento si basa sulla presenza simultanea di due processi che possono variare per intensità e struttura: un effetto discrepante, in grado di innescare una modificazione apprezzabile del punto di vista che il paziente assume abitualmente; un livello apprezzabile di coinvolgimento emotivo nella relazione terapeutica. 1 - l'efficacia terapeutica delle spiegazioni del terapeuta, più che dal contenuto di conoscenza offerto, dipendono dal grado di discrepanza che esse hanno rispetto alla percezione abituale che il paziente ha di sé. L'effetto è riconducibile all'emergere di tonalità emotive perturbanti che, modificando il fluire dell'esperienza immediata, vincolano il paziente a una ri-valutazione dell'immagine di sé in corso; tale rivalutazione comporta una modificazione del livello di consapevolezza che avvia un riordinamento di quella stessa immagine. Tuttavia, anche se la disponibilità di spiegazioni è una condizione necessaria per attivare perturbazioni significative, non è di per sé sufficiente a innescare un processo di riorganizzazione. 2 - il coinvolgimento nella relazione terapeutica pone il paziente nella condizione di non poter evitare il confronto con un punto di vista critico e alternativo, costringendolo a quell’ autoriferimento immediato e globale da cui ha origine senso di discrepanza. Il grado di incidenza di qualsiasi messaggio dipende dalla qualità dell'interazione in corso. Una spiegazione critica, a prescindere dal contenuto, può assumere un effetto discrepante in funzione del livello di autoreferenzialità consentitole dal contesto relazionale che si è andato strutturando. Non bisogna ritenere che la necessità del coinvolgimento emotivo sia qualcosa che riguarda esclusivamente il paziente: il coinvolgimento del terapeuta nel setting terapeutico svolge un ruolo cruciale nell'attivare nel paziente quella condizione di autoreferenzialità inevitabile. A parte il contenuto della transizione in atto, solo uno specifico impegno emotivo del terapeuta può garantire che egli è disposto a trarre tutte le conseguenze contenute nell'offerta che avanza, e solo questo rende credibile l'offerta in chi la riceve. Il coinvolgimento emotivo in ciò che terapeuta fa o dice appare proprio come la variabile critica che rende credibile la spiegazione offerta e attiva nel paziente quell’ autoriferimento obbligato inevitabile. Una tale prospettiva configura un ruolo del terapeuta come perturbatore strategicamente orientato; un professionista che mentre è tecnicamente proteso modificare il pattern di consapevolezza del paziente all'interno della strategia che sta portando avanti, è estremamente attento ad utilizzare le oscillazioni emotive che osserva in lui per facilitare la comprensione di quanto si va costruendo. Metodo di auto-osservazione L'auto osservazione consente di ricostruire gli eventi di interesse terapeutico lavorando nell'interfaccia tra l'esperienza immediata e il suo riordinamento esplicito e permette di analizzare entrambi i livelli, così come la relazione che tra di essi intercorre. L'auto osservazione si differenzia nettamente sia dall'introspezione, dove è privilegiato il primo livello, sia dalle tecniche di automonitoraggio, dove viene invece privilegiato il livello esplicito. Innanzitutto occorre partire da un evento o da una serie di eventi disposti in successione, che possono essere analizzati uno per uno; il paziente viene addestrato a ripercorrere l'intera successione di scene andando avanti e indietro al rallentatore e, alternativamente, uscire da una singola scena per focalizzare aspetti particolari, ed entrare ricollocando di nuovo la stessa scena arricchita di nuovi particolari nell'intera sequenza. Ogni volta che una scena viene ricollocata nella sequenza arricchita di nuovi dettagli, questa si modifica assumendo nuove connotazioni e consentendo l'emergere di ulteriori particolari in altre scene. L'auto-osservazione è un metodo che come tale viene portato avanti a livelli sempre più strutturati man mano che si procede nelle fasi della terapia e che le abilità del paziente diventano più efficaci; nelle fasi iniziali è necessario orientare il paziente nel comprendere e valutare la differenza tra il fluire dell'esperienza immediata e le sue modalità di autoriferimento e spiegazione; successivamente il paziente può cominciare a vedersi alternativamente, sia mentre sta portando avanti prima persona una data scena, sia mentre si guarda dall'esterno. La flessibilità nella differenziazione soggettivo-oggettivo migliora le possibilità di ricostruzione dell'esperienza immediata, in quanto il paziente diventa in grado di elaborare inferenze sulla possibile struttura del punto di vista soggettivo spedito nella situazione. La stessa procedura può essere utilizzata anche nelle fasi più avanzate della terapia; la differenza è che in questo caso, grazie alle maggiori capacità raggiunte dal paziente, la ricostruzione del punto di vista soggettivo con cui un evento era stato esperito a una certa età può essere portata avanti secondo due punti di vista oggettivi: 1 - come uno si sarebbe visto dal di fuori a quell'età; 2 - come uno si vede ora dal di fuori mettendo a fuoco quel periodo di vita. L'aspetto essenziale del metodo di auto-osservazione consiste nella progressiva acquisizione, da parte del paziente, di un grado apprezzabile di flessibilità nella sua dinamica tra i contorni del Sè, grazie alla capacità di differenziare l'Io che esperisce dal Me che riconosce e valuta e, di poter vedere l'intero processo sia dal punto di vista soggettivo che dal punto di vista oggettivo. L'incremento nell'affiorare delle proprie emozioni e lo svelarsi che derivano da una maggiore messa a fuoco dell’esperienza immediata, uniti alla possibilità di vedersi sia dal di dentro che dal di fuori, modificano il senso di sé in corso. Rivedere al rallentatore, andando avanti e indietro una medesima scena emotivamente significativa da molti punti di vista diversi porta ad una modificazione delle modalità con cui essa è valutata e auto riferita e ciò comporta l'emergere di altri tonalità emotive. Mano a mano che la flessibilità aumenta, il punto di vista abituale su di sé risulta gradualmente destabilizzato tanto da far affiorare nuovi aspetti nell'immediatezza del proprio sentirsi. L'effetto terapeutico di base che risulta da un incremento della flessibilità tra contorni del Sé consiste in un cambiamento graduale nella valutazione dell'Io da parte del Me che si accompagna ad un grado consistente di ristrutturazione emotiva: nel fluire dell'esperienza immediata vengono riconosciute e auto-riferite nuove tonalità emotivo-affettive che si trasformano in ingredienti essenziali della propria gamma di emozioni personali. Il processo terapeutico La strategia di intervento ha inizio con la costruzione di un setting terapeutico adeguato al tipo di metodologia che s'intende portare avanti. Il terapeuta deve arrivare ad una riformulazione del problema presentato in termini che consentano di operare nell'interfaccia e esperire-spiegare, escludendo ogni aspetto connesso a nozioni di malattia ( attribuzione causale esterna ). L'operazione di base consiste nel ridefinire come interno ciò che il paziente presenta come definizione esterna. Una volta raggiunta una riformulazione, il processo terapeutico si svolge in tre fasi principali, la cui successione è così disposta: 1 - focalizzazione e ri-ordinamento dell'esperienza immediata; 2 - ricostruzione dello stile affettivo; 3 - ricostruzione della storia di sviluppo. Fase 1. A inizio con la richiesta da parte del terapeuta di mettere a fuoco e successivamente annotare sul taccuino gli eventi che si succedono nel corso della settimana e che sono stati scelti come significativi; analizzandoli nel setting insieme al terapeuta, il paziente impara a comporre e scomporre tali eventi in base alle sequenze di scene principali che li compongono, acquisendo gradualmente la capacità di mettere a fuoco per ogni scena la differenza tra l'esperienza immediata vissuta nella situazione la spiegazione che se ne dà, sia durante che dopo. Di solito ci si accorge che pazienti cominciano essere in grado di operare una differenziazione fra e esperire e spiegare, non tanto perché l'applicano correttamente nei loro resoconti settimanali, quanto per il fatto che il focus sull'esperienza immediata si amplifica e si iniziano gradualmente estendere questa differenziazione ad altri settori di esperienza. Il cambiamento consiste in una maggiore capacità di mettere a fuoco modulazioni emotive critiche, che si accompagna ad un maggiore distanziamento dall'immediatezza e pervasività con cui di solito sono avvertite; ciò sua volta ne facilita ulteriormente la messa a fuoco. Nel settino tipo moviola, il focus si sposta sempre più sull'emergere della discrepanza tra esperienza immediata e suo ri-ordinamento esplicito, con l'obiettivo di ricostruire il pattern di coerenza interna da cui tale discrepanza dipende. A questo punto il paziente è andato incontro ad un mutamento apprezzabile del punto di vista su di sé, che si accompagna costantemente a una notevole remissione dei disturbi che l'avevano condotto in terapia. Questo cambiamento nella valutazione dell'Io da parte del me porta ad un riordinamento dell'esperienza immediata che corrisponde ad un primo livello di ristrutturazione della gamma di emozioni percepibili. Allargando ulteriormente il focus dell'esplorazione e della comprensione nel setting di autoosservazione si procede con l'analizzare lo stile affettivo del paziente ricostruendo con lui i pattern ricorrenti che s'ottendono la sua unitarietà e continuità. Fase due. La ricostruzione di uno stile affettivo occupa l'intera seconda fase, che ha inizio con un'analisi della carriera sentimentale, condotta sviluppando i seguenti aspetti: 1 - variabili che hanno presieduto al debutto sentimentale e modalità con cui esso fu esperito, autoriferito e ri-ordinato nella propria continuità personale (contesto di sviluppo, atteggiamenti personali, ambiente sociale); 2 - sequenza di rapporti significativi che si sono succeduti a partire dal debutto, permettendo al paziente di differenziare quelli significativi da quelli non significativi: tali criteri consentono di evidenziare quali pattern di selezione reciproca risultino più coerenti con lo stile affettivo che si è andato strutturando; 3 - ricostruzione delle fasi di formazione, mantenimento e rottura intercorse in ogni rapporto significativo e delle modalità con cui ogni fase è stata esperita, autoriferita e ri ordinata nella propria continuità: diventa possibile comprendere come il paziente sia in grado di produrre una qualità ricorrente di esperienze emotive capaci di stabilizzare e articolare il senso di sé in corso. Il paziente diventa sempre più in grado di ricostruire le invarianti essenziali che regolano l'organizzazione del suo stile affettivo, unificando e dando continuità alla sua carriera sentimentale. Andare avanti e indietro attraverso gli eventi critici per la durata della ricostruzione di uno stile affettivo, dà luogo ad un graduale riordinamento dell'esperienza immediata parallelo ad una rielaborazione degli stessi eventi. Questo fa scattare un'ulteriore cambiamento nella valutazione dell'io da parte del me; il cambiamento consiste in uno spostamento dall’ esperire la ripetitività degli eventi affettivi come " data in quanto tale ", all'avvertirla invece come il modo di mantenere il proprio senso di sé attraverso la produzione di pattern di attivazione emotiva ricorrenti e consistenti con l'esperienza immediata della propria unicità e continuità. Questo cambiamento va in parallelo all'emergere di un secondo livello di ristrutturazione della gamma di emozioni percepibili: da un lato il paziente è in grado di riconoscere e valutare come stati emozionali diversi si combinano nel procedere lungo un legame affettivo, e come la percezione di un altro significativo venga a regolare la percezione di sé; dall'altra avverte come queste ricombinazioni o percezione di altri significativi abbiano luogo grazie alla coerenza del proprio significato personale, le cui tracce gli appaiono riconoscibili anche nei precedenti periodi di sviluppo. Fase 3. Quest'ultima fase ha una durata variabile da un minimo di tre ad un massimo di sei mesi e si svolge nel corso del secondo anno di terapia. Innanzitutto viene ricostruita la storia di sviluppo del paziente per identificarne gli eventi critici da scomporre nelle corrispondenti scene che saranno ripetutamente analizzatie in sequenze. Pertanto, a partire dai primissimi ricordi si procede ad una raccolta curata di eventi significativi affettivamente, analizzando in successione l’andamento dei principali stadi di maturazione,cioè infanzia e anni prescolari, fanciullezza, adolescenza e gioventù. L'interdipendenza tra attaccamento e organizzazione dei contorni del sé - e come questa interdipendenza regoli lo sviluppo emotivo e cognitivo è il filo che fornisce il focus autosservazionale nell'andare avanti e indietro nella sequenza di scene significative. Per ogni scena si mettono fuoco da un lato le sequenze di interazioni ivi contenute per ricostruire i pattern di attaccamento in corso, dall'altro l'esperienza soggettiva del bambino per ricostruire il senso di sé e del mondo che egli avvertiva al momento. Il paziente diventa progressivamente in grado di ricostruire l'itinerario di sviluppo dal quale hanno preso forma i suoi pattern di coerenza interna, ri-ordinando la sua lettura del passato. Far andare il paziente avanti e indietro ripetutamente lungo il suo itinerario di sviluppo è il processo di auto osservazione che innesca un riordinamento di notevole rilievo nelle esperienze critiche. Tale riordinamento è costantemente contrassegnato dalla ristrutturazione dei ricordi di quelle esperienze e si accompagna ad un distanziamento e ad un decentramento maggiore dalle tonalità affettive ricorrenti che sono parte integrante della percezione di sé in corso. Se il cambiamento della valutazione dell'io da parte del me consiste uno spostamento dall’ esperire la propria prassi del vivere come qualcosa di dato per scontato all'avvertirla come il pattern basico di coerenza interna che ordina le esperienze passate e presenti in modo che risulti continuamente riconoscibile la propria continuità e unicità. Potremmo dire che con il cambiamento che si verifica nel corso della prima fase, i disturbi emotivi, piuttosto che come " dati ", sono percepiti come "co-prodotti " del proprio modo di esperire l'andamento di legami affettivi; con il cambiamento che ha luogo nella seconda fase accade lo stesso per lo stile affettivo, la cui coerenza è sempre più avvertita come dispiegarsi del proprio significato personale. Con l'analisi di sviluppo, quello che non è più dato per scontato è il significato personale, che viene a essere esperito come il processo che incessantemente ordina e mantiene la coerenza del proprio essere nel mondo. Capitolo 7 La relazione terapeutica Che cosa succede nella relazione terapeutica Le teorie della relazione terapeutica ruotano intorno a due voci: scrivere e spiegare gli eventi importanti della relazione e scrivere e spiegare l'influenza della relazione sul processo della cura. Possiamo distinguere in ogni teoria della relazione terapeutica due livelli: una teoria degli eventi e una teoria della cura. La prima si occupa degli eventi relazionali rilevanti, siano essi sentimenti, pensieri o azioni che coinvolgono il paziente e il terapeuta nella loro interazione personale; la seconda si preoccupa di inquadrare questi eventi nel più generale processo terapeutico e di valutare la loro influenza nel determinare l'esito finale del trattamento. Mentre autori e scuole di psicoterapia presentano differenze per quanto riguarda le teorie della cura e sottolineano aspetti diversi relativi al ruolo terapeutico della relazione, è possibile rilevare un'ampia convergenza per quanto riguarda la teoria degli eventi. Tale convergenza si realizza nel concetto secondo cui ciascuna persona possiede in memoria delle strutture mentali prototipiche che organizzano l'esperienza della relazione, guidano l'elaborazione dell'informazione e dell'azione, e generano rappresentazioni su di sé e l'altro in relazione reciproca. In ambito cognitivista Safran ha proposto di chiamare tali strutture schemi interpersonali: uno schema interpersonale può essere definito come una rappresentazione generica di interazione tra sé e l'altro ricavata dall'esperienza interpersonale. L' idea di strutture cognitive profonde deputate a organizzare, anticipare e rappresentare l'esperienza interpersonale non è esclusiva della psicoterapia cognitiva. È nella teoria freudiana del transfert che viene espressa per la prima volta questa concezione: “ogni uomo ha acquisito, per l'azione congiunta della sua disposizione congenita e degli influssi esercitati su di lui durante gli anni dell'infanzia, una determinata indole che caratterizza il modo di condurre la vita amorosa, le pulsioni che con ciò soddisfa e le mete che si prefigge. Ne risulta un cliché che viene costantemente ripetuto nella misura in cui lo consentono le circostanze esterne e la natura dei gli oggetti d'amore accessibili: cliché che può in parte modificarsi in una relazione a impressioni recenti”. (Dinamica della traslazione 1912) Le funzioni che Freud attribuisce al cliché sono in gran parte riconducibili a quelle che oggi attribuiamo a uno schema: il cliché definisce, da un punto di vista strutturale, un dominio cognitivo, quello delle condizioni dell'amore, delle pulsioni e delle mete. Dal punto di vista dinamico Freud afferma che ripetute esperienze interpersonali si organizzano in memoria sotto forma di strutture anticipatorie degli eventi relazionali in corso. Il cliché costituisce un ponte tra presente e passato, esattamente come uno schema nell'accezione di Neisser: l'atto fondamentale del transfert è costituito dall'applicazione sull'analista di tali cliché. Nell'Introduzione alla psicoanalisi Freud discute degli effetti terapeutici del transfert in termini di spostamenti di energia libidica. La cura avverrebbe prima con uno spostamento di libido dai sintomi all’analista, successivamente attraverso il lavoro di interpretazione, la libido viene nuovamente trasferita dall'analista all'Io del paziente, che risulterebbe rafforzato. Con il superamento della metapsicologia è stato l'aspetto cognitivo della teoria freudiana ad affermarsi, rendendo indistinguibile sul piano concettuale il contributo di autori di area psicodinamica da quello di autori di area cognitivista. Nell'ambito della teoria dell'attaccamento Bowlby ha sostenuto che le esperienze relative alla storia di attaccamento si organizzano nell'adulto in modelli operativi interni contenenti previsioni sulla propria capacità di suscitare negli altri affetto e disponibilità, e sulla propensione dell'altro a fornire sostegno e aiuto. È importante ricordare un sillogismo formulato da Liotti: il sistema motivazionale dell'attaccamento si attiva in condizioni di bisogno di aiuto, la richiesta di psicoterapia implica una bisogno di aiuto, pertanto è molto probabile che durante una psicoterapia si attivino i modelli operativi di attaccamento del paziente, la cui natura influenzerà l'andamento degli eventi relazionali. Un forte impulso a un'evoluzione in senso cognitivo della teoria freudiana del transfert è stato impresso dagli analisti interessati a formalizzare i concetti teorici in modo da renderli passibili di controllo empirico. Luborsky ha proposto il concetto di tema relazionale conflittuale centrale intendendo una struttura complessa che comprende: a ) ciò che il paziente desidera dall'altro; b ) il modo in cui interpreta la condotta dell'altro; c ) il modo in cui reagisce alla condotta dell'altro. Seganti ha proposto un metodo di indagine ( metodo dei prototipi e delle variazioni ) nell'ambito di una teoria generale per cui le nuove esperienze relazionali sarebbero guidate da strutture di memoria sensoriale riguardanti l'influenza degli altri sugli stati del sé. La teoria del transfert proposta da Weiss e colleghi, secondo la quale i test che continuamente il paziente compie sull'analista sarebbero guidati da " convinzioni irrazionali inconsce" relative alle reazioni che l'altro significativo potrebbe avere se il paziente perseguisse i propri scopi di vita. Anche nell'ambito della teoria delle relazioni oggettuali, ad un'invariata terminologia corrisponde una progressiva modificazione dei concetti in senso cognitivo. Blatt e Lerner definiscono le relazioni oggettuali interiorizzate "schemi mentali consci ed inconsci che includono componenti cognitive affettive e esperienziali". Guidano e Liotti hanno sostenuto che le interazioni significative nello sviluppo di quell'esperienza immediata di sé che chiamano conoscenza tacita si organizza in memoria sotto forma di emotional schermata, ovvero strutture d'insieme costituite da pattern di esperienza corporea, stati emotivi, immagini prototipiche connesse a frammenti di memoria episodica. Liotti e Seganti hanno esplicitato un concetto ancora largamente implicito nella letteratura corrente, secondo cui esiste una stretta correlazione tra il grado di coordinamento interattivo e gli stati di coscienza, coesione del sé e senso di efficacia personale soggettivamente percepita dall'altro. Le strutture profonde che organizzano l'esperienza interpersonale contengono informazioni su come l'altro può influire sugli stati del sé. Un concetto analogo è presente nella psicologia dei costrutti personali, con la nozione per cui l’invalidazione da parte di altri significativi, di alcuni costrutti centrali di ruolo, è percepita dal soggetto come una minaccia al senso di identità personale. La correlazione tra schemi interpersonali e stati del Sé è stata sottolineata da Horowitz: egli descrive gli stati mentali come pattern ricorrenti in parte analoghi agli emotional schermata, costituiti da complessi emozionali associati a particolari stili di auto-rappresentazione e a particolari qualità percepite nelle relazioni interpersonali. La natura psicopatologica di alcuni stati è definita non tanto dal loro contenuto, ma dalla scarsa capacità del soggetto di modulare idee, sentimenti e azioni. Se gli schemi interpersonali contengono informazioni sull'influenza dell'altro e sugli stati del Sé, l'attivazione di questi schemi comporterà l'attivazione delle difese e delle strategie volte alla gestione degli stati temuti e saranno queste reazioni a essere presentate per prime nelle relazioni concrete, compresa quella con il terapeuta. Es.: un paziente ritiene di avere un carattere distruttivo e di rovinare i suoi rapporti con ricorrenti crisi di rabbia scarsamente controllata. Dalla narrazione emerge che le esplosioni sono precedute da una lettura degli eventi in termini di esclusione e rifiuto che egli subirebbe da parte degli altri, da brevi momenti di profonda tristezza cui si associano un senso di vuoto interiore e sensazioni di non esistere. Secondo un approccio classico la rabbia sarebbe considerata l'espressione di convinzioni e aspettative del paziente di essere escluso dagli altri, accompagnate dalla valutazione di subire un'ingiustizia o una cattiveria a cui dover reagire. Secondo un'altra interpretazione la rabbia costituirebbe la reazione del paziente tesa a contrastare il senso di vuoto e di non non-esistenza che nel suo schema è associato all'anticipazione del fallimento nella coordinazione relazionale. In questo caso l'obiettivo della terapia diventa quello di aiutare il paziente a sostenere i momenti di solitudine e vuoto senza ricorrere a reazioni disadattive. L’obiettivo comporta non solo che il paziente acquisisca una distanza critica dalle sue aspettative relazionali prototipiche, ma anche che acquisti la capacità di evocare, nei momenti di solitudine, l'esperienza di relazioni confortanti. Il clima interpersonale della seduta diventa allora un fattore essenziale perché il paziente possa acquisire una capacità di rievocazione. L'applicazione al terapeuta degli schemi interpersonali prototipici del paziente e solo una delle facce della medaglia con cui leggere gli eventi rilevati dalla relazione. L'altra faccia è costituita dal modo con cui il terapeuta reagisce alla situazione interpersonale che viene crearsi; diversi autori cognitivisti hanno insistito sulla necessità di monitorare i propri stati emotivi, nonché le fantasie dei pensieri automatici diretti verso i loro pazienti. Lo scopo è non solo quello di salvaguardarsi ma anche quello di utilizzare le proprie reazioni come informazioni su ciò che sta accadendo al paziente e alla relazione. Le ragioni teoriche dello sviluppo cognitivista della teoria del controtransfert sono essenzialmente due; in primo luogo, numerosi studi sull'espressione delle emozioni hanno dimostrato che le emozioni primarie nell'uomo sono segnalate da specifici pattern espressivi, e che negli esseri umani vi è un'innata capacità di riconoscere e di reagire emotivamente alle espressioni emotive dell'altro, indipendentemente dalle appartenenze razziali culturali. Il secondo luogo i modelli cognitivisti ci hanno abituato a considerare la mente come costituita da processi distribuiti in parallelo, in grado di percepire stimoli sotto soglia, elaborarli e trasmettere alla coscienza solo il prodotto finito dell'elaborazione. Bisogna aspettarsi che il terapeuta percepisca stimoli sotto soglia relativi a stati emotivi che il paziente inibisce e a elaborarli inconsciamente; alla coscienza perverrà soltanto prodotto finito di quest'elaborazione, sotto forma di atteggiamento interpersonale verso paziente. Dato che anche il paziente dispone dell'innata capacità di riconoscere gli atteggiamenti emotivi e relazionali dell'altro, gran parte degli eventi della relazione saranno condizionati dal rischio dell’ instaurarsi di questi circoli viziosi, e i risultati dipenderanno dalla capacità dei partecipanti di riconoscerli, evitarli, o utilizzarli. La relazione terapeutica può dar luogo circoli viziosi o a cicli virtuosi; la possibilità dei circoli viziosi è legata al fatto che gli schemi interpersonali contengono non solo le previsioni sull'andamento della relazione, ma anche le strategie per prevenire e gestire le condizioni temute. Se queste strategie sono tali da favorire nell'altro reazioni che confermano le previsioni negative, l'intero processo interpersonale si trova in un ciclo problematico. Il concetto di ciclo interpersonale permette di intravedere anche il versante potenzialmente terapeutico del processo, in cui la disconferma di aspettative negative permette al paziente nuove aperture che motivano il terapeuta a reiterare il tipo di condotta che ha favorito dalle aperture. Un ciclo interpersonale positivo è una situazione in cui il terapeuta e il paziente selezionano le rispettive condotte e si addestrano reciprocamente essere l'uno un buon terapeuta e l'altro un buon paziente per quel terapeuta. La teoria della cura Che ruolo svolge la relazione nel processo di cura? Per dare risposta questa domanda concetti analoghi sono stati sostenuti da autori con formazioni molto diverse e le posizioni espresse non portano a ipotesi tra loro incompatibili. Essi sottolineano aspetti diversi del ruolo terapeutico che la relazione può svolgere. La relazione terapeutica come influenza sociale positiva Quanto più una scuola di psicoterapia aspira alla definizione di tecniche standardizzate e riproducibili, tanto più diventa necessario che pazienti svolgano i compiti assegnati loro dai terapeuti e collaborino attivamente. Approcci di questo tipo tendono a sottolineare gli aspetti di influenza sociale della relazione terapeutica che possono indurre il paziente ad una corretta applicazione delle tecniche. Non è terapeutica la relazione in sé, ma una buona relazione costituisce un prerequisito perché la tecnica risulti terapeuticamentre efficace. Gli aspetti relativi all'influenza sociale positiva della relazione vengono messi in evidenza specialmente nella terapia comportamentale e in quella cognitiva breve. Per quanto riguarda la terapia cognitiva standard (TCS) alcuni autori hanno introdotto il concetto di empirismo collaborativo, inteso come un clima interpersonale nel quale terapeuta e paziente si impegnano a individuare le distorsioni cognitive e i pensieri irrazionali del paziente e a correggeli con le procedure opportune. La relazione terapeutica come laboratorio privilegiato per la presa di coscienza L'applicazione al terapeuta degli schemi interpersonali del paziente costituisce un'occasione sperimentale privilegiata per evidenziare la natura di questi schemi, renderne il paziente consapevole e favorire il decentramento e la distanza critica dalle aspettative relazionali contenute in essi. Questa concezione, nella sua versione più estrema, presenta alcune affinità con la precedente, in quanto tende a considerare la relazione non come un fattore terapeutico in sé ma come un prerequisito per l'azione del fattore terapeutico principale, la presa di coscienza. Freud per primo espresse questa concezione legandolo a un modello idraulico influenzato dalle teorie metapsicologiche: questo modello prevede che le condizioni di astinenza proprie del setting psicoanalitico, con elementi come l'opacità e di silenzio dell'analista, creino condizioni frustranti per gli impulsi contenuti nei cliché transferali del paziente. Questa condizione di frustrazione aumenterebbe la forza, cioè la quota di carica degli impulsi che alla fine vincerebbero l'ostacolo delle resistenze e si attualizzerebbero nella relazione psicanalitica. Ciò che viene ancora oggi condiviso di questa concezione è l'attenzione per l'attualizzasi, nel “qui e ora " della seduta, dei problemi interpersonali del paziente, e dell'occasione che questo offre per l'aumento di consapevolezza di distanza critica. L'idea che la relazione svolga essenzialmente un ruolo propedeutico all'interpretazione e l’idea che la consapevolezza delle problematiche interpersonali sia favorita in modo ottimale della frustrazione tendono ad essere abbandonate. . Esperienze interpersonale correttiva e aumento della conoscenza di sé Diversi autori cognitivisti e di aria psicodinamica ritengono che l'esperienza della relazione con il terapeuta svolga un ruolo terapeutico diretto di correzione degli schemi interpersonali problematici e che l'aumento di consapevolezza sia favorito dalle esperienze interpersonali positive rassicuranti nella relazione. Viene usata l'espressione esperienza interpersonale correttiva al posto della tradizionale definizione di esperienza emotiva correttiva perché la maggior parte degli autori si riferiscono al cambiamento operato dall'esperienza relazionale con il terapeuta tanto sulle componenti emotive quanto su quelle cognitive. L'espressione " conoscenza di sé " è preferita a quella di " presa di coscienza ", perché sottolinea l'idea di nuove costruzioni che favoriscono attività autoriflessive più euristiche e adattive delle precedenti, piuttosto che la presa di coscienza di dati oggettivi. Secondo gli autori che ricorrono al concetto di esperienza correttiva, non è la frustrazione a favorire l'aumento di consapevolezza, ma vi è una sostanziale sinergia tra esperienze correttive e aumento della conoscenza. I ricercatori del Mount Zion Group hanno dimostrato che l'insight del paziente aumenta quando il terapeuta supera i test che questi gli propone, comportandosi in modo concorde con i suoi piani inconsci. Nella prospettiva della teoria dell'attaccamento, è proprio lo sperimentare il terapeuta come una base sicura che favorisce nel paziente l'esplorazione del proprio mondo intersoggettivo. Secondo Semerari i pazienti sottopongono il terapeuta a ripetuti test per verificare la credibilità del grado di sicurezza interpersonale che egli garantisce. Superando tali test il terapeuta diviene per il paziente una fonte autorevole di informazioni per la costruzione della visione di sé. Il senso di sicurezza nella relazione interpersonale e la disponibilità ad assimilare ed elaborare in interventi del terapeuta si potenziano a vicenda. Per Lorenzini e Sassaroli proprio l'invalidazione delle aspettative negative di uno schema interpersonale provoca quel distanziamento dallo schema che favorisce lo sviluppo di una coscienza critica. L'intera concezione della terapia cognitiva può essere letta come un alternarsi e potenziarsi reciproco di esperienze correttive e un aumento della conoscenza di sé. Il terapeuta, osservando i propri stati emotivi, può rendersi conto di emozioni che il paziente inibisce e che esprime solo attraverso indici indiretti non verbali. Queste emozioni vengono inibite per il timore di fallimenti interpersonali, legato a specifiche convinzioni relative alle relazioni con gli altri. Il terapeuta può aiutare il paziente a diventare consapevole delle emozioni inibite e delle convinzioni per cui le inibisce e nello stesso tempo favorire un'esperienza correttiva permettendogli di esprimere quelle emozioni in seduta senza che si verifichino le temute reazioni da parte dell'altro. Progressivamente il paziente acquisirà sempre maggiore consapevolezza dei propri stati emotivi e insieme sempre maggior capacità di sperimentare situazioni interpersonali diverse da quelle abituali. Identificazione e modello di ruolo Un tipo particolare di azione terapeutica diretta attribuita alla relazione consiste nella possibilità da parte del paziente di apprendere e far propri atteggiamenti e modi di pensare e di agire che risultano più utili ed euristici di quelli da lui abitualmente adottati. Il paziente può far proprio solo quanto lui stesso ha costruito come " atteggiamenti del terapeuta ", il termine apprendimento andrebbe sostituito con il termine assimilazione, che include sia il concetto di modificazione attiva che il paziente opera sulle condotte del terapeuta, sia il concetto di inserimento di queste condotte modificate all'interno della propria struttura cognitiva. Nella tradizione psicoanalitica questo aspetto terapeutico della relazione viene colto attraverso il concetto di identificazione con l'analista. Secondo la Zetzel questa identificazione dell'Io del paziente con l'analista consente la formazione dell'alleanza terapeutica. Fra i terapeuti cognitivisti Mahoney ha illustrato come il terapeuta possa attivamente, con la propria condotta, diventare un modello positivo e sollecitare il paziente ad un cambiamento nello stile di approccio ai problemi. Il terapeuta deve offrire l'immagine di una persona attivamente impegnata, evitando di trasmettere l'idea di un'assoluta padronanza e di una totale sicurezza, che favorirebbe pericolose idealizzazioni e non potrebbe essere assimilata dal paziente. Questo modello può essere ottenuto " pensando ad alta voce”, rendendo il paziente partecipe dei pensieri, delle riflessioni, dei dubbi e delle ipotesi che il terapeuta va elaborando. La funzione vicariante della relazione terapeutica rispetto a funzioni mentali deficitarie del paziente Quando un paziente presenta significativi deficit in funzioni importanti per l'adattamento, alla relazione terapeutica viene attribuito un ruolo vicariante di tali funzioni. Il prototipo di queste teorie è quello del transfert di oggetto-sé proposto da Kohut: i soggetti narcisisti soffrono di una cronica difficoltà nel regolare l'autostima e nel definire e perseguire i propri scopi di vita e i propri ideali di riferimento. Secondo tale modello evolutivo questa difficoltà nella regolazione dell'autostima è dovuta al fatto che i genitori non hanno saputo accettare il normale narcisismo del bambino, non sono cioè stati oggetti-sé speculari, rispecchianti la sua immagine grandiosa. La difficoltà nella definizione di scopi ideali è a sua volta dovuta all'incapacità dei genitori di rappresentare una figura idealizzata. Il bambino non ha potuto interiorizzare le figure ideali da cui acquisire valori guida. Il terapeuta, dando modo al paziente di interiorizzarlo come figura speculare e come figura idealizzata, gli consentirebbe di colmare tali deficit di funzioni per riuscire così a mantenere stabile il proprio senso di autostima e a darsi scopi e valori guida finché il processo di materializzazione non lo metterà in grado di stabilizzare queste funzioni. In ambito cognitivista la funzione vicariante della relazione terapeutica è stata particolarmente sottolineata da autori che si sono occupati di patologie gravi. Una modello integrato di teoria della cura: i processi cognitivi nella relazione terapeutica Considerando singolarmente le varie funzioni terapeutiche attribuite alla relazione è facile constatare come ciascuna di esse colga un aspetto importante del processo terapeutico. Il fatto che autori di diversa formazione finiscano col mettere in luce aspetti analoghi del ruolo terapeutico della relazione può rappresentare una convalida indiretta dell'importanza che tali aspetti assumono nella pratica clinica. È necessario arrivare a una descrizione dinamica che metta in luce il modo in cui i diversi fattori interagiscono tra loro e il modo in cui contribuiscono ad un esito terapeutico finale. Come ogni descrizione, anche questo richiede un punto di osservazione da cui guardare al processo: un punto di osservazione favorevole e spesso trascurato è rappresentato dei processi cognitivi che il paziente mette in atto per rendere terapeutica la relazione. Si tratta di comprendere cosa deve fare un paziente perché si verifichino le condizioni terapeutiche appena descritte. Generalmente gli autori tendono a soffermarsi molto di più sulle operazioni mentali richieste al terapeuta per rendere terapeutica la relazione, che su quelle richieste al paziente. Ciascuno dei fattori terapeutici esaminati, per dispiegare la propria efficacia, richiede al paziente un insieme di attività cognitive complesse. Per seguire i suoi consigli e le sue indicazioni tecniche, il paziente dovrà valutare in base ai propri criteri personali se il terapeuta è degno di fiducia e se le sue indicazioni e i suoi suggerimenti meritano l'impegno richiesto; per diventare consapevole dei suoi schemi, dovrà comprendere il senso degli interventi espliciti dell'interpretazione e dovrà riuscire ad applicare a sé stesso e alle proprie condotte quanto detto dal terapeuta. La più immediata esperienza correttiva richiede che il paziente percepisca almeno sul piano emotivo l'invalidazione delle sue aspettative negative, e anche questo implica un complesso processo di riconoscimento di segnali interpersonali e la loro organizzazione in termini di significati. Quella che va abbandonata è l'idea che l'applicazione sul terapeuta di uno schema interpersonale del paziente costituisca un impulso oppure una sorta di automatismo riflesso. Dobbiamo guardare ai processi interpersonali messi in atto dal paziente come a processi intelligenti, sia consci che inconsci, in cui la natura degli schemi predetermina il tipo di domanda e di valutazione che si porrà al paziente, non l'esito complessivo del processo. Se uno schema interpersonale prevede l'essere umiliati in una relazione, la domanda che il paziente si porrà è predeterminata: “sarò umiliato o meno in questa relazione?” a questo punto entrano in gioco strategie più o meno complesse per evitare l'umiliazione e l'osservazione attenta della condotta del terapeuta. La formazione di neo-strutture terapeutiche Un modello che centra l'attenzione sui processi cognitivi dei pazienti è quello proposto dal gruppo di ricerca guidato da Weiss; secondo questo modello l'attività cognitiva del paziente consiste essenzialmente nel testare la condotta del terapeuta rispetto ai propri piani inconsci e alle convinzioni negative che impediscono il perseguimento dei piani. Il paziente valuta se la condotta del terapeuta è favorevole al piano e se invalida le convinzioni negative: se la valutazione è positiva, migliorano una serie di indici clinici. Sul piano teorico è evidente che il paziente trarrà conclusioni generali dai risultati dei test e potrà riflettere sulla condotta del terapeuta per molto tempo anche al di fuori dell'area temporale delle sedute. Ogni test fornisce quindi al paziente informazioni sul terapeuta che vengono organizzate e integrate con le informazioni precedenti, costruendo modelli generali del terapeuta e del suo modo di pensare. Più precisamente costruisce modelli dei punti di vista del terapeuta, modelli che gli consentono di impegnarsi in una sorta di gioco di simulazione: provare a guardare sé stesso a partire da ciò che presume sia il punto di vista del terapeuta. In questa luce la dinamica tra i vari fattori terapeutici descritti cominciò assumere una logica unitaria: esperienze interpersonali positive, interventi accurati, sono tutti fattori che da un lato motivano il paziente a impegnarsi in questo lavoro, dall'altro gli forniscono informazioni sul modo di vedere il terapeuta. Mano a mano che questa costruzione procede, favorisce processi come l'identificazione terapeutica o l'uso vicariante dei punti di vista del terapeuta per compensare funzioni deficitarie. Resta aperta la domanda: che tipo di effetti produce sull'organizzazione cognitiva del paziente questo complesso lavoro di interrogativi sul terapeuta? Occorre centrare l'attenzione su un evento clinico molto comune nel corso di una psicoterapia. Ad un dato momento il paziente riferisce di aver pensato quale sarebbe stata l'opinione del terapeuta rispetto ad una sua particolare condotta psicologica, a un suo comportamento a una situazione che stava vivendo. Concetti come l’identificazione con il terapeuta, modello di ruolo, trasfert di oggetto-sé, colgono un aspetto importante di questo fenomeno, ma non sembrano rendere pienamente giustizia alla complessità del processo e all'impegnativo lavoro di elaborazione condotto sulla figura del terapeuta, necessario perché il fenomeno possa realizzarsi. Il secondo aspetto che va sottolineato è che l'idea che viene attribuita al terapeuta dal paziente in una determinata situazione che può essere in questo modo vissuta in modo diverso dal solito, è in realtà un'idea del paziente stesso. Ciò che viene segnalato dalla presenza di questo fenomeno non è il superamento delle problematiche relazionali interpersonali del paziente, ma la presenza di una neo-struttura terapeutica che sancisce l'aprirsi di una fase di squilibrio in cui si alternano vecchie e nuove condotte, vecchi e nuovi modi di percepire sè e la realtà. Proprio per il loro carattere di novità le neo-strutture richiedono un processo di integrazione nel sistema cognitivo complessivo del paziente. L'indice principale di una progressiva integrazione è rappresentato dall'aumento del senso di appartenenza a sé delle attribuzioni di significato compiuto dalle neo-strutture. La rappresentazione dell'operazione delle neo strutture deve traslocare dalla forma " il terapeuta pensa che... " a quella " io penso che... ". La tendenza a ricorrere al dialogo immaginario e all'opinione immaginaria del terapeuta dovrebbe scemare fino a sparire. La presenza di nuove strutture di significato consente al paziente nuove operazioni di distinzione di domini cognitivi; si può affermare che il lavoro di costruzione dei punti di vista del terapeuta operato dal paziente nella relazione determina un incremento della sua complessità cognitiva. Queste modificazioni strutturali si accompagnano a importanti cambiamenti funzionali e ad un altra importante funzione potenziata dalle neo-strutture, la funzione autoriflessiva. Nato dallo sforzo del paziente di comprendere ciò che il terapeuta pensa di lui, le neo-strutture terapeutiche diventano lo strumento principale con cui paziente pensa a sé stesso. Sono strutture essenzialmente specializzate in attività autoriflessive con cui cogliere il senso e il significato di pensieri, comportamenti ed emozioni, potenziando la funzione meta-cognitiva. Il paziente potrà osservare e gestire situazioni interpersonali ed emotive che in precedenza aveva impressione di subire o che sembravano accadergli, e sarà in grado di modulare stati mentali prima scarsamente modulati. Dalla teoria alla tecnica: la regolazione dell'alleanza terapeutica Con l'espressione alleanza terapeutica s'intende una condizione relazionale definita da tre fattori: un clima interpersonale positivo tra terapeuta e paziente, caratterizzato da sentimenti di stima e fiducia reciproca, un accordo sugli scopi del trattamento e un accordo sui compiti che ciascuno deve svolgere in vista del proseguimento degli scopi condivisi. La qualità dell'alleanza costituisce uno dei fattori maggiormente predittivi dell'esito della terapia; nonostante sia riconosciuta l'importanza dell'alleanza nel determinare l'esito di una psicoterapia, solo di recente si cominciano ad analizzare le componenti che influenzano l’alleanza e le tecniche per la sua regolazione. Safran e Muran hanno mostrato come sia possibile sviluppare l'intervento terapeutico a partire dai momenti di rottura dell'alleanza. Gli autori operano un capovolgimento di significato di questi momenti, che da episodi di malfunzionamento diventano punto di partenza per una nuova consapevolezza e per un cambiamento. Gli autori distinguono due classi di rottura: quelle che si manifestano con il ritiro, e quelle che si manifestano attraverso il confronto. Le caratteristiche di ritiro sono di solito più sfumate: il paziente diventa laconico, risponda monosillabi, diventa lamentoso. Gli indici di confronto sono più chiari e si manifestano in critiche più o meno esplicite al terapeuta. A partire dal riconoscimento di questi momenti si sviluppa un processo di metacomunicazione terapeutica. La tecnica di comunicazione esplicita al paziente è la seguente: nei momenti di rottura dell'alleanza, il terapeuta inizia con lo svelare la propria esperienza del momento, evitando di presumere che essa debba essere determinata dal comportamento del paziente; quindi, per favorire l'inizio del processo autoriflessivo, propone una connessione tra l’esperienza e un indice espressivo. Se il paziente dichiara di essere consapevole dell'indice, il terapeuta lo invita ad esplorare le idee e i sentimenti che vi sono connessi; dopo aver ascoltato il paziente fornisce ulteriori informazioni sull'impressione suscitata in lui dagli atteggiamenti relazionali di quest'ultimo, in modo da indirizzare l'attenzione verso aspetti dell'esperienza non ancora esplorati su cui si invita a riflettere. Infine incoraggia il paziente a capire quale possa essere stato il ruolo del terapeuta stesso nel determinare l'impasse. Lo scopo della sequenza è di favorire nel paziente una migliore conoscenza degli stati mentali propri e del terapeuta, nonché una maggiore comprensione di come essi si influenzano reciprocamente. La relazione terapeutica con il paziente difficile Carlo Perris sosteneva che gli psicoterapeuti con l’espressione “pazienti difficili " designassero il paziente difficile dal punto di vista della relazione. Che cos'è che rende un paziente relazionalmente difficile? La possibilità di costruire relazioni positive con gli altri esseri umani dipende in buona parte dalla nostra capacità di comprendere gli stati mentali, di essere lettori della mente, e quindi da un buon livello di capacità metacognitive. In ogni fase della terapia il paziente deve comprendere gli stati mentali problematici, riconoscerli, integrarli, per poi elaborare con il terapeuta efficaci strategie per padroneggiarli. I pazienti gravi, che di solito ricevono diagnosi di disturbo psicotico o di grave disturbo di personalità, hanno problemi proprio questo tipo di funzioni. Trovano difficoltà più o meno accentuate nell'elaborare metarappresentazioni valide della mente propria e di quella del terapeuta e non riescono a dare coerenza alle diverse metarappresentazioni in modo da disporre di una percezione stabile della relazione terapeutica. L'alleanza si forma a fatica e, una volta stabilita, è soggetta a continue crisi. I pazienti relazionalmente difficili sono quindi quelli metacognitivamente difficili. Esiste tuttavia un paradosso terapeutico che rende possibile il trattamento di questi pazienti. Se è vero che i disturbi delle metarappresentazioni ostacolano lo sviluppo della relazione, è anche vero che una buona relazione migliora le funzioni di metarappresentazione. Interventi di validazione, autosvelamento, e condivisione favoriscono, qui e ora, un aumento della capacità del paziente di comprendere ed elaborare gli stati mentali. Questi interventi presentano le seguenti caratteristiche: favoriscono la riflessione sull'esperienza immediata, evitando interpretazioni e cercando di cogliere ciò che vi è di universale, comprensibile e valido; svelano aspetti degli stati mentali del terapeuta, sottolineando quanto ci sia di condiviso e di complementare all'esperienza del paziente; invitano ad articolare l'esperienza del paziente includendovi un ulteriore esplorazione e suggerendo nuove strategie di padroneggiamento. Non è chiaro perché questo stile di intervento risulti efficace nel migliorare le funzioni di meta rappresentazione. Metaforicamente può essere accostato il processo di sviluppo delle capacità di mentalizzazione: secondo alcuni autori, in una buona relazione chi si prende cura del bambino comprende gli stati mentali di quest'ultimo e invia informazioni su di essi, dando un nome a pensieri ed emozioni. In questo modo il bambino trova rispecchiate nell'adulto le proprie esperienze mentali, che gli vengono rinviate, lavorate e modificate dalla capacità adulta di padroneggiamento. Il bambino non solo si formerebbe un'immagine di sé come essere pensante, ma acquisterebbe progressivamente una disposizione a padroneggiamento e una sicurezza di fondo nel pensare agli stati mentali. E possibile che la relazione terapeutica crei queste condizioni interpersonale per lo sviluppo di funzioni altrimenti disturbate. Tanto nel trattamento dei pazienti gravi quanto in quello dei pazienti meno disturbati, lo sviluppo della potenzialità terapeutica della relazione richiede la creazione di condizioni interpersonali di sicurezza, che consistono nella percezione da parte di entrambi i partecipanti di non essere danneggiati dalla relazione stessa né ora ne in futuro. Questa condizione non è però facilmente raggiungibile con i pazienti più gravi. Quello che è importante sottolineare è che le condizioni interpersonali di sicurezza riguardano tanto il sentire del paziente quanto il sentire il terapeuta. Molti pazienti gravi inducono nel terapeuta stati di allarme, gravosi sensi di responsabilità, fantasie di minaccia e queste condizioni possono indurre comportamenti che favoriscono cicli interpersonali patogeni; anche per questa ragione i pazienti più gravi vanno curati in équipe, allo scopo di sostenere garantire nel terapeuta le condizioni interiori che gli consentono l'uso terapeutico della relazione stessa. Capitolo 9 Metacognizione: aspetti rilevanti per la clinica Immaginare, desiderare, riflettere, prevedere ecc. sono alcune possibili manifestazioni dell'attività metacognitiva, che possiamo inizialmente definire come la capacità di riflettere sulla propria mente e su quella altrui, unita alla capacità di utilizzare questa conoscenza per prevedere pianificare il comportamento nostro e quelle degli altri. Conoscere i propri stati mentali e saperli monitorare sono aspetti rilevanti per migliorare le nostre prestazioni cognitive e per interagire modo adeguato con le altre persone. Possedere teorie generali sul funzionamento mentale permette di generare piani d'azione e strategie di regolazione del comportamento efficaci rispetto alle diverse richieste ambientali. Alcuni modelli clinici hanno mostrato come sia possibile interpretare i sintomi di diverse patologie come l'erotismo, la schizofrenia o i disturbi di personalità in termini di deficit metacognitivi. L'incapacità di riflettere sugli stati mentali propri e altrui può generare malessere psicologico e ostacolare la formulazione di strategie efficaci per fronteggiare tale malessere. Il mancato accesso ai propri stati mentali può per esempio impedire di comprendere quando è perché siamo arrabbiati con qualcuno e quali operazioni mentali eseguire per regolare tale emozione. Non essere in grado di identificare le intenzioni che sono alla base del comportamento altrui rende difficile l’interazione con l'altro e diminuisce la capacità di entrare in sintonia empatica con il prossimo. Un modello multicomponenziale di metacognizione La definizione di metacognizione come " cognizione sulla cognizione " è stata formulata per la prima volta da Flavell nel 1976, che la descrive come ogni conoscenza o attività cognitiva che ha come oggetto ogni aspetto di qualsivoglia attività mentale. La sua definizione include qualsiasi processo di pensiero che abbia come oggetto la mente stessa, nelle sue diverse dimensioni: interpersonale, emozionale, cognitiva. Dall'originaria definizione si sono via via sviluppati domini di indagine molto differenti che hanno assunto come oggetto di ricerca aspetti specifici della metacognizione. Il primo intento di questo lavoro è quello di definire gli aspetti della metacognizione più rilevanti ai fini clinici; è possibile individuare alcune dimensioni, in parte indipendenti tra loro, in cui scomporre questa competenza. Secondo Bara e Colle è possibile differenziare le componenti metacognitive sia sulla base di diversi stati mentali in gioco (emozioni, desideri, credenze), sia in relazione alle funzioni che assolvono ( conoscenza e processi metacognitivi ), sia nei termini del soggetto cui tali funzioni sono attribuite ( prima o terza persona ). La prima distinzione che c'interessa è quella tra conoscenza e processi metacognitivi. L'autore descrive la metacognizione come la conoscenza che una persona ha del funzionamento mentale proprio e altrui, unita all'uso che una persona fa di tale conoscenza. Le conoscenze metacognitive si riferiscono all’insieme delle rappresentazioni che l’individuo possiede sulla mente. Queste conoscenze riguardano tutte le idee che l'individuo ha sviluppato sul funzionamento mentale. All'interno di questa categoria funzionale è possibile attuare un ulteriore differenziazione sulla base di contenuti specifici a cui queste conoscenze si riferiscono. Secondo il nostro modello, i contenuti metacognitivi più rilevanti per lo studio delle patologie riguardano tre tipi di stati mentali: gli stati emotivi, gli stati volizionali e gli stati epistemici. Il sostegno dell'ipotesi che sia possibile analizzare separatamente i diversi contenuti della conoscenza metacognitivi sta nel fatto che la comprensione e il riferimento verbale a questi contenuti mentali emergono in fasi diverse dello sviluppo. Il concetto di metacognizione porta con se anche una componente operativa che riguarda l'uso che le persone fanno delle conoscenze mentalistiche, cioè i processi metacognitivi. Essi comprendono tutte le attività di regolazione dei processi di pensiero ma verranno qui considerati e indagati quei processi di regolazione metacognitiva utili a gestire le nostre relazioni sociali e gli stati di sofferenza psicologica. Sebbene le conoscenze e i processi metacognitivi lavorino in parallelo è possibile immaginare una dissociazione tra queste due dimensioni della metacognizione. Di fronte a un malfunzionamento metacognitivo diventa importante capire se le difficoltà siano dovute ad una conoscenza metacognitiviva non un'adeguata oppure ad un cattivo utilizzo di una corretta conoscenza. Le osservazioni cliniche sembrano confermare la possibilità di una dissociazione tra conoscenze e processi metacognitivi. Mentre nell'autismo sembra mancare una conoscenza adeguata degli stati mentali altrui, nei disturbi dell'umore si riscontra una difficoltà nel gestirli o modificarli. La gestione dei processi metacognitivi diventa inoltre fondamentale nei momenti di cambiamento: per cambiamento si intendono sia i tentativi del paziente di fronteggiare stati di sofferenza psichica, sia i tentativi di ciascuno di noi di migliorare il nostro benessere psichico. È possibile suddividere le competenze metacognitive in base alla prospettiva a cui si riferiscono. Sia i contenuti, sia i processi possono essere applicati a sé stessi o agli altri, cioè si riferiscono sia alla capacità di riconoscere e modulare i propri stati interni che di interpretare e interagire con gli stati mentali altrui. È importante chiedersi se sia possibile una dissociazione tra competenze metacognitive su di sé e sugli altri. Alcuni risultati mostrano come tale dissociazione sia almeno in parte rintracciabile in diverse patologie: osservare le differenze tra capacità in prima e in terza persona può fornire elementi per la definizione di modelli di trattamento: per esempio nel caso di patologie in cui la capacità di percepire i propri stati mentali sia conservata rispetto alla capacità di capire quelli altrui, le metacognizioni in prima persona potrebbero vicariare quelle in terza. Lo sviluppo della metacognizione: dalla nascita all'età adulta Riconoscimento dell’agentività La capacità di riconoscere gli altri come esseri umani simili a se si manifesta fin dalla nascita e viene riconosciuta come il primissimo tassello dell'emergere della metacognizione. I neonati rivolgono la loro attenzione in maniera preferenziale ai volti, in particolare agli occhi di loro conspecifici, che fissano per un tempo maggiore rispetto ad altri oggetti o a volti disegnati. I neonati sembrano essere geneticamente programmati per interagire con i propri simili, tanto da riuscire a discriminare fin da subito il suono della voce umana da altri tipi di suoni. I bambini reagiscono in maniera appropriata alle differenti emozioni espresse dai visi delle loro madri, testimoniando una precoce predisposizione per l'interpretazione degli stimoli sociali. Meltzoff e Moore sostengono che i bambini normali mostrano particolare attenzione alle altre persone perché le riconoscono come simili a loro: la più precoce testimonianza di tale abilità si riscontra nella capacità di imitazione. Esistono fenomeni imitativi in neonati con meno di due giorni di vita ; bambini venuti al mondo anche da soli 42 minuti sono già in grado di limitare l'apertura della bocca e la protrusione della lingua da parte di un adulto. Recenti studi indicano una relazione tra queste precoci competenze sociali e alcune popolazioni neurali definite come mirror neurons, neuroni che hanno la peculiare caratteristica di attivarsi sia quando una persona esegue un'azione, sia quando vede un altro soggetto eseguire la medesima azione. L'esistenza di tali neuroni sembra fornire le basi neurologiche di abilità cognitive complesse come l'imitazione. Oltre ai comportamenti imitativi, diversi studi relativi all'età evolutiva evidenziano la comprensione precoce dell'intenzionalità: già dalla primissima infanzia i bambini sono in grado di differenziare tra il movimento biologico e il movimento di tipo meccanico. Sono capaci quindi di identificare le persone come agenti intenzionali ed entro il primo anno di vita comprendono per esempio che le azioni sono organizzate sulla base di uno scopo o intenzione dell’agente. Sono in grado di riconoscere che può esistere una discrepanza tra intenzione ed esito comportamentale e imitano il comportamento non sulla base dell'esito ma delle intenzioni sottostanti l’azione. Queste caratteristiche si affinano poi nel corso del tempo dando la possibilità al bambino di riprodurre azioni complesse e di distinguere tra diversi livelli di intenzionalità sottostanti l'azione, per esempio azione involontaria, desiderate ma involontaria ecc. Durante il successivo sviluppo del bambino alcune abilità vengono considerate come passaggi fondamentali per l'emergere della Teoria Della Mente. A circa nove mesi l'infante inizia a voltare il suo sguardo nella stessa direzione in cui l'altra persona sta guardando e durante lo stesso periodo mette in atto il gesto del pointing con intenti protodichiarativi. Questo significa che il bambino utilizza il gesto di indicare non perché vuole ottenere quell'oggetto ma semplicemente perché lo vuole mostrare. Questi comportamenti sono interpretati come una prova che il bambino riconosce l'altra persona come un agente dotato di stati mentali autonomi e con il quale è possibile comunicare e condividere i propri stati interiori. La Teoria Della Mente Intorno ai 18 mesi di età il bambino inizia manifestare la capacità di formulare metarappresentazioni rispetto agli stati mentali. Questa capacità viene definita come teoria della mente e rappresenta una componente fondamentale dello sviluppo di più complesse abilità metacognitive. Ma la più precoce manifestazione di quest'abilità consiste, secondo Leslie, nel gioco di finzione, che sottende un meccanismo cognitivo, quello della metarappresentazione, che consente di avere una rappresentazione mentale distaccata dalla rappresentazione primaria della realtà e di agire tenendo in considerazione entrambe le rappresentazioni contemporaneamente. Leslie afferma che la capacità di agire il gioco di finzione richiede la stessa capacità cognitiva implicata nella comprensione di stati mentali e che per questo può essere considerata la manifestazione più precoce della teoria della mente. Perner, in disaccordo con Leslie, afferma che l'unica prova certa che un bambino sia in grado di formulare metarappresentazioni è data dal superamento dei test sulla falsa credenza. La risposta che equivale al riconoscimento della falsa credenza viene fornita dalla maggioranza dei bambini normo dotati a partire dai 4-5 anni di età. Lo sviluppo della teoria della mente fornisce al bambino le possibilità di avere metarappresentazioni, cioè rappresentazioni consapevoli ed esplicite dei diversi stati mentali: emozioni, intenzioni, credenze. La capacità di formulare una metarappresentazione emerge in fasi diverse dello sviluppo a seconda del tipo di contenuto mentale: fare previsioni non in base alla credenza, ma in base al desiderio risulta possibile più precocemente per i bambini rispetto a ragionare sulla falsa credenza. Quest'osservazione sembra confermare l'importanza di differenziare la metacognizione anche in relazione agli stati mentali cui si riferisce. Solo in seguito allo sviluppo della teoria della mente il bambino sarà in grado di generalizzare e integrare diverse conoscenze riguardo agli stati mentali e sarà in grado di usare queste conoscenze per la regolazione e pianificazione del comportamento. I deficit risultano interessanti per la psicologia clinica in quanto consentono di spiegare i sintomi di alcune patologie estreme come autismo a schizofrenia. Processi metacognitivi: integrazione e regolazione La capacità di comprendere il funzionamento mentale è un’abilità che le persona affina lungo tutto corso della vita, sia in termini di conoscenze che di processi metacognitivi sempre più sofisticati. Due aspetti fondamentali riguardano la capacità di integrare più stati mentali in un sistema di significati coerente e di regolare adeguatamente questi stati mentali a seconda dei contesti interpersonali. Durante il periodo scolare le conoscenze metacognitivr diventano via via più complesse, cominciano ad emergere la capacità di integrare in uno stesso momento diversi stati mentali, che il bambino mette in relazione, considerandone l'interazione reciproca. Il bambino comincia riconoscere la natura potenzialmente contraddittoria degli stati mentali e a contemplare la possibilità che la stessa persona possa avere stati mentali differenti nei confronti di uno stesso evento. Una buona capacità di integrazione si dispiega nel riuscire a cogliere aspetti diversi e apparentemente incompatibili di sé o degli altri, riconoscendo nella contraddittorietà e riuscendo a dar un loro significato. Secondo Flavell queste competenze più sofisticate dipendono da una specifica modalità di ragionamento metacognitivo definita " doppia codifica ". Solo in età scolare il bambino sarebbe in grado di formulare rappresentazioni multiple di una stessa realtà e di manipolarle contemporaneamente. Il passaggio evolutivo successivo consiste nella possibilità di integrare diversi contenuti mentali, propri e altrui, in un sistema complesso e unitario di significati. Lo sviluppo della capacità di integrare contenuti mentali diversi garantisce la possibilità di formulare una narrazione coerente rispetto a sé e agli altri e la realizzazione di un senso di continuità e unità personali permette il raggiungimento di livelli sempre più complessi di previsione di sé e degli altri. Alcuni studi dimostrano che solo durante l'adolescenza emerge la capacità di gestire caratteristiche contraddittorie di sé in una teoria di personalità articolata e coerente. Questo senso di continuità è ciò che ci permette di dare un senso all'esperienza, anticipare le reazioni future e organizzare il nostro comportamento. Nei pazienti gravi è questo livello più complesso di abilità metacognitive a risultare problematico. I dati clinici hanno sottolineato come la difficoltà di operare un’ integrazione tra i diversi stati mentali di un sé coerente ed integrato sia un aspetto centrale di alcuni disturbi gravi: la regolazione stessa dei vari stati mentali è da considerarsi come un’abilità metacognitiva di alto livello, che consente una gestione più matura delle conoscenze metacognitive. Mentre il riconoscimento delle proprie emozioni e dei propri pensieri avviene molto presto durante lo sviluppo, la capacità di saperle modulare ed usare opportunamente richiede un processo di sviluppo più complesso. La ricerca in età evolutiva ha mostrato come la regolazione dei contenuti mentali emerga successivamente al riconoscimento di questi stessi contenuti. Grazie alla maggiore complessità delle relazioni sociali e all'aumentata della consapevolezza emotiva, i bambini in età scolare acquisiscono strategie di regolazione più autonome e sofisticate, sono per esempio in grado di regolare autonomamente le emozioni negative. Questo aspetto è importante nel processo terapeutico: la vulnerabilità emozionale e l'incapacità di controllare l'intensità delle proprie emozioni può portare a conseguenze molto gravi. Metacognizione e attaccamento Nell'ambito della discussione sullo sviluppo delle capacità metacognitive è importante guardare ad un aspetto essenziale della mente umana, cioè il suo carattere sociale. L'ambiente relazionale consente di comprendere come le funzioni mentali individuali si sviluppino durante l'infanzia e si organizzino in base agli stimoli ambientali cui sono sottoposte. Diversi autori sottolineano il forte rapporto tra le prime relazioni significative e lo sviluppo delle abilità metacognitive. Bowlby sottolineava l'importanza che il sistema d'attaccamento ha nell'organizzazione delle funzioni psichiche: il sistema di attaccamento media molto precocemente le modalità del bambino di entrare in relazione con il mondo circostante e modula lo sviluppo e l'organizzazione dei suoi processi motivazionali, emotivi e mnestici. Main ha sottolineato che le differenze nelle relazioni di attaccamento comportano specifiche caratteristiche nella regolazione emotiva, nei processi di memorizzazione di attenzione, nella funzione riflessiva e nello sviluppo delle abilità comunicative. Il genitore riconosce ed dà significato allo stato interno del bambino rispondendo in modo adeguato: la risposta sintonica promuove nei primi mesi la comprensione da parte del bambino dei propri ed altrui stati mentali e ne permette la regolazione. Le ripetute esperienze di invalidazione degli stati interni del bambino non gli consentono un'elaborazione chiara e coerente dei propri contenuti mentali, né la possibilità di sviluppare una corretta interpretazione mentalistica del comportamento altrui. Alcuni autori hanno voluto indagare le relazioni tra attaccamento e capacità metacognitive: la sintonizzazione tra gli stati interni del bambino e le risposte del genitore sembrano avere un ruolo nella regolazione delle emozioni, nella capacità di trasformarle in contenuti mentali coscienti e nella capacità di attribuire loro un'etichetta semantica. Anche rispetto ai processi metacognitivi è stata rilevata una differenza significativa nei diversi pattern di attaccamento: i bambini sicuri mostrano all'età di 18 mesi la capacità di mantenere l'attenzione sul compito per periodi di tempo più lunghi, di avere una disposizione emozionale più positiva durante la risoluzione dei compiti e di chiedere maggiormente aiuto in caso di necessità. Oltre alla relazione tra stili di attaccamento e processi metacognitivi, è stata recentemente indagata anche la relazione tra stili di attaccamento e capacità di risolvere compiti di Teoria Della Mente. I bambini con un attaccamento sicuro mostrano prestazioni migliori in compiti che richiedono di ragionare in termini mentalistici e anche l'utilizzo di un vocabolario mentalistico sembra essere in relazione con lo stile di attaccamento. Sono state avanzate alcune ipotesi sul rapporto tra attaccamento, metacognizione e psicopatologia; partendo dall'osservazione che i pazienti con Disturbo Borderline Di Personalità hanno limitate capacità auto-riflessive e che alcuni autori hanno ipotizzato che tali deficit siano il risultato di relazioni disfunzionali durante l'infanzia tra questi pazienti e le figure di attaccamento. In linea con questo approccio, Liotti propone un modello evolutivo dei disturbi dissociativi secondo cui essi sarebbero riconducibili ad esperienze di invalidazione emotiva e relazionale a cui il pazienti sono stati sottoposti nella regolazione con le figure di riferimento. Metacognizione e psicopatologia La metacognizione non è solo un'area di studio astratta: è un concetto innovativo per spiegare eziologia, patogenesi e sintomatologia di una serie di gravi disturbi. A seconda della gravità del disturbo è stata rintracciata una disfunzione di componenti diverse delle funzione metacognitive. Autismo L'autismo è un disturbo pervasivo dello sviluppo, caratterizzato da gravi deficit nell'ambito della comunicazione, dell'interazione sociale e del comportamento. Sebbene le ricerche indichino delle cause genetiche, l’eziologia è tutt'oggi sconosciuta. La diagnosi viene fatta intorno al secondo anno di vita e si rivela per una mancanza di risposta sociale, mancanza di attenzione condivisa, ritardo nella comparsa delle parole e rigidità nei movimenti e nello stare in braccio. L'autismo è definito dal DSM-IV secondo criteri comportamentali e oggi si parla di Disturbi Dello Spettro Autistico: questa definizione è utile per sottolineare la grande varietà rispetto al tipo di sintomi e alla gravità con cui si presentano all'interno dello spettro. Il quadro sintomatologico si presenta estremamente eterogeneo fra le diverse forme di autismo. La diagnosi va dai disturbi più severi, come l'autismo classico, fino ai più lievi, come la sindrome di Asperger, in cui non sono presenti né ritardo dello sviluppo del linguaggio né ritardo mentale. In ogni caso tutti i disturbi dello spettro sono comprati dalla triade di deficit che comprende: 1 - deficit nell'interazione sociale 2 - deficit nella comunicazione 3 - deficit negli interessi e nelle attività. Lo studio dell'autismo sembra riguardare molto da vicino quella capacità fondamentale per l'essere umano che è la capacità di Teoria Della Mente. Il concerto di Teoria Della Mente fu applicato per la prima volta all'autismo da Baron-Cohen, Leslie e Frith; questi autori sostengono che il deficit cognitivo primario dell'autismo consista proprio nel mancato sviluppo del meccanismo neurocognitivo responsabile dello sviluppo della teoria della mente. Il confronto con le prestazioni dei gruppi di controllo ha portato gli autori a sostenere che questo aspetto dell'intelligenza sociale sia relativamente indipendente da abilità cognitive generali e che i soggetti autistici abbiano un deficit proprio in questa specifico dominio. Il deficit di mentalizzazione può essere associato alle difficoltà comunicative degli autistici, sia nella comprensione che nella produzione. I soggetti autistici hanno difficoltà nel cogliere il significato di scambi complessi come per esempio l'ironia, le metafore e gli inganni; la mancanza di Teoria Della Mente sembra spiegare la difficoltà di questi soggetti nel valutare l'appropriatezza di messaggi verbali e la prosodia che li accompagna. Rispetto alla produzione linguistica, alcuni studiosi sottolineano come l'incapacità di attribuire stati mentali renda difficile l'attribuzione di significato alle parole che si presentano al bambino durante l'acquisizione del linguaggio, dove solo le inferenze sul significato inteso dal parlante possono chiarire il senso degli enunciati linguistici. Quest'ipotesi di stretta connessione tra teoria della mente e competenze linguistiche sembra spiegare perché nella maggior parte dei casi i bambini autistici presentano un vocabolario molto limitato. Anche in quella minoranza di autistici che mostrano un normale sviluppo linguistico, ossia gli autistici ad alto funzionamento o con sindrome di Asperger, sono rintracciabili alcune anomalie nella conversazione. I loro enunciati sono spesso inappropriati al contesto, mostrano difficoltà ad incominciare o proseguire la conversazione e nel rispettare i turni. Il mancato accesso al mondo mentale dell'altro sembra rendere conto anche dei deficit sociali di questi pazienti. I soggetti autistici non sono totalmente privi di competenze sociali: possiedono normali pattern di attaccamento, si riconoscono allo specchio, stanno modulare il comportamento a seconda della persona che hanno di fronte. Nonostante queste abilità è possibile evidenziare alcune difficoltà caratteristiche dello sviluppo anomalo dei bambini autistici: hanno problemi nel condividere e dirigere l'attenzione di altre persone rispetto ad un comune oggetto di interesse, non sviluppano comportamenti imitativi, hanno difficoltà nel copiare sequenze motorie. Privilegiano generalmente il contatto con oggetti inanimati, dimostrando chiusura e disinteresse rispetto agli scambi sociali: sebbene siano in grado di riconoscere e emozioni semplici hanno difficoltà nel comprendere emozioni complesse come la sorpresa, in cui è richiesto un confronto tra le aspettative di qualcuno con la situazione reale attesa. Sono evidenti anche le difficoltà di espressione affettiva di questi soggetti: il disinteresse e la chiusura sociale, la difficoltà di espressione affettiva, la mancanza di comportamenti imitativi sono stati spiegati come conseguenze della difficoltà di rappresentarsi l'altro in quanto agente dotato di stati mentali. In un mondo in cui gli altri non vengono interpretati come agenti dotati di una vita mentale propria molto di ciò che ci circonda risulta essere privo di senso così come il senso delle parole e dei gesti dell'espressione corporea risulta vuoto, imprevedibile e in alcuni casi terrorizzante. L'ipotesi di un deficit di Teoria Della Mente non è sufficiente per la piena comprensione di una patologia così complessa; quest'ipotesi non spiega per esempio i comportamenti stereotipati e perseverativi, la resistenza al cambiamento anche minimo delle routine o la ristretta gamma di interessi tipica del disturbo. Questi sintomi hanno forti analogie con quelli riscontrati in individui con danni frontali, il cui disturbo è classicamente descritto come deficit delle funzioni esecutive. Le funzioni esecutive servono alla programmazione e al controllo del comportamento volontario e i deficit esecutivi portano alla ripetizione senza scopo di movimenti e parole, difficoltà nell'inibire le risposte, nello spostare l'attenzione da un oggetto all'altro e nella pianificazione. I modelli cognitivi più recenti di spiegazione dei disturbi dell'autismo propongono un modello integrato in cui deficit in entrambe le capacità, Teoria Della Mente e funzioni esecutive, sembrano svolgere un ruolo fondamentale nelle difficoltà di mentalizzazione tipiche del disturbo. Gli autistici mostrano alcune aree di sviluppo normale, se non superiore alla media, come l'acutezza visiva, le capacità classificatoria, le competenze matematiche, la musica e così via. Come vedremo queste abilità hanno permesso di strutturare protocolli di interventi efficaci. Nonostante il deficit metacognitivo degli autistici sia il più delle volte rintracciabile a livello elementare, esistono livelli di variabilità molto elevati all'interno dello spettro e una discreta percentuale di soggetti è in grado di superare i testi classici di Teoria Della Mente come la falsa credenza, e in certi casi anche compiti più complessi. Durante lo sviluppo, i bambini autistici che all'età di quattro anni non erano in grado di superare la prova della falsa credenza diventano lentamente più capaci di risolvere questi compiti e compaiono nel comportamento manifestazioni che implicano la Teoria Della Mente. Queste osservazioni sono di estrema rilevanza al fine di strutturare nel tempo programmi educativi volti a differenziare tra livelli diversi di deficit metacognitivo e a potenziare le capacità residue. Schizofrenia Frith ha esteso l'ipotesi di un deficit metacognitivo di base, identificabile con un deficit di Teoria della Mente, per spiegare anche un'altra patologia, la schizofrenia. La differenza tra autismo e schizofrenia, rispetto ai deficit metacognitivi, riguarda la storia evolutiva di questi pazienti. Mentre soggetti autistici non hanno mai sviluppato una Teoria della Mente della mente completa secondo le normali linee evolutive, nei pz. schizofrenici questo meccanismo è giunto a maturazione, per cessare però in seguito di funzionare correttamente. Quest'ipotesi è supportata da alcuni studi empirici che mostrano come persone con diagnosi di schizofrenia abbiano prestazioni scadenti in compiti di Teoria della Mente. Alla radice della schizofrenia è riconosciuta una causa di tipo organico, generalmente il primo esordio sintomatologico è situato intorno ai vent'anni, anche se la malattia può manifestarsi più precocemente. Secondo il DSM IV devono essere presenti due dei seguenti sintomi psicotici caratteristici: deliri, allucinazioni, incoerenza, comportamento catatonico, appiattimento dell'affettività, deliri bizzarri, come la trasmissione del pensiero o allucinazioni con una voce che esprima contenuto distonico rispetto al tono dell'umore. Secondo Frith sarebbe possibile individuare nel deficit di teoria della mente la causa principale e comune ai diversi sintomi mostrati. Identifica tre principali aree di anomalie sintomatologiche che sarebbero responsabili di tutti sintomi manifestati dai pazienti schizofrenici: 1 - disturbi nella pianificazione dell'azione: sono presenti i sintomi come la povertà del linguaggio spontaneo, la povertà di movimenti, l’incapacità di esprimere sentimenti, l’incapacità di inibire comportamenti incongrui. 2 - disturbi dell'autocontrollo: riguardano le capacità di percepire i pensieri e le proprie azioni come prodotto delle proprie intenzioni: pensieri e azioni sono vissuti dai pazienti come generati da cause esterne. 3 - disturbi nel controllo delle azioni altrui: pz. schizofrenici hanno difficoltà nell'individuare correttamente quando le altre persone mettono in atto comportamenti intenzionali (volti ad uno scopo) e quando sono casuali. Secondo Frith questi tre gruppi di manifestazioni sarebbero tutti dovuti al malfunzionamento dell'abilità metacognitiva di base, la teoria della mente, e questo deficit si manifesta nella difficoltà di formulare metarappresentazioni su di sé e sugli altri, unita all'incapacità di pianificare le proprie azioni e comprendere quelle altrui. Gli schizofrenici non hanno consapevolezza dei propri obiettivi e mostrano incapacità di pianificazione finalizzata. Senza consapevolezza delle proprie intenzioni si verifica una mancanza di autocontrollo sia sui propri pensieri, sia sui propri comportamenti. In presenza di un deficit di teoria della mente si possono verificare disturbi come l'isolamento sociale, i deliri di riferimento e di persecuzione, dovuti a inferenze scorrette sull'intenzione altrui. Vi è una certa corrispondenza tra questo comportamento sintomatologico e quello messo in atto dai pazienti autistici. Di fatto la differenza fondamentale tra le due patologie è l'età in cui si verifica l'esordio del disturbo: l'autismo ha un'insorgenza precoce e si manifesta prima che la teoria della mente abbia avuto modo di svilupparsi, la schizofrenia si manifesta in un'età successiva allo sviluppo della teoria della mente. Gli schizofrenici perdono la capacità di usarla correttamente e il tentativo di utilizzare questa capacità perduta causerebbe il deliri di riferimento, che portano il paziente a credere erroneamente che l'altro abbia intenzione di comunicare. Viene attribuito valore comunicativo a comportamenti messi in atto in maniera casuale e viceversa. Frith interpreta in questo senso anche le allucinazioni uditive in terza persona che alcuni pazienti schizofrenici riferiscono. Le inferenze sugli stati mentali altrui sono percepite come provenienti da una fonte esterna e le allucinazioni assumono la forma di voci. Disturbi di Personalità I pazienti con Disturbi di Personalità presentano difficoltà nel mantenere relazioni sociali, che risultano disturbate o impoverite; le difficoltà relazionali vengono ricondotte ad una difficoltà nella regolazione degli stati emotivi o ad un appiattimento delle espressioni emotive come l'alessitimia. A rendere difficile le relazioni interpersonali di questi pazienti c'è anche la propensione all' acting out, all'impulsività e alla violenza verso sé stessi e verso gli altri, fattore che può portare a cicli relazionali invalidanti che accentuano e mantengono le difficoltà. Questi pazienti, nonostante non presentino difficoltà metacognitive severe come quelle degli autistici, mostrano un’ incapacità di accedere ai propri stati interni, di cogliere e articolare il punto di vista di un altro o di gestire i fenomeni mentali che procurano sofferenza psichica. L'ipotesi di una mancanza di competenze metacognitive è in grado di spiegare le manifestazioni comportamentali più tipiche. Fonagy suggerisce che la vulnerabilità individuale a questo tipo di disturbo sia dovuta all'interazione tra una predisposizione biologica e la qualità delle relazioni primarie di attaccamento; l'autore sottolinea la relazione tra attaccamento disorganizzato, tipico dei disturbi borderline di personalità, e la successiva difficoltà di questi soggetti a sviluppare rappresentazioni di sé e dell'altro coerenti funzionali. Un contesto di attaccamento che non permette di rispecchiare i propri stati interni in modo coerente e armonico conduce all'interiorizzazione di immagini di sè e di sè con l'altro distorte o dissociate. Fonagy e Target hanno sviluppato una scala di valutazione delle abilità metacognitive definita Self-Reflective Scale. Quest'impostazione presenta, secondo il nostro punto di vista, alcuni limiti. L'autore si focalizza in particolare sui disturbi borderline, senza preoccuparsi di verificare in che misura la sua interpretazione possa essere estesa anche ad altri disturbi di personalità. Rispetto alla nostra definizione di metacognizione l'autore sembra non preoccuparsi della possibilità che diverse funzioni metacognitive possono svilupparsi modo indipendente ed essere selettivamente danneggiate. Secondo la Self-Reflective Scale esiste una capacità metacognitiva complessa che permette la riflessione indistintamente in prima e in terza persona e che valuta allo stesso modo la riflessione sui contenuti mentali e sui processi di regolazione di questi contenuti. Ci sembra più utile per lo studio della patologia poter differenziare tra diverse funzioni metacognitive che insieme ma distintamente contribuiscono alla comprensione della mente propria e altrui: le osservazioni cliniche dimostrano che la comprensione metacognitiva può variare a seconda che sia rivolta alla prima o alla terza persona. È stato recentemente proposto un modello dei deficit metacognitivi di diversi disturbi di personalità da Dimaggio e Semerari: tale modello prevede un sistema di abilità metacognitive articolato in diverse sottofunzioni che insieme, ma in modo indipendente, concorrono a definire le competenze metacognitive. Vengono distinte quattro aree principali in cui si compone la competenza metacognitiva: 1 - monitoraggio: riconoscimento dei propri stati mentali e la capacità di metterli in relazione con eventi interpersonali; 2 - decentramento: comprensione degli stati mentali altrui e capacità di tener presente le possibili differenze rispetto ai propri; si associa alla capacità di riconoscere la soggettività delle nostre rappresentazioni. 3 - integrazione: capacità di descrivere variazioni o modificazioni dello stato mentale in una narrazione coerente e integrata; 4 - mastery: capacità di controllo e regolazione degli stati interni. Le prime due possono essere considerate conoscenze metacognitive complesse, le seconde andrebbero inserite tra i processi metacognitivi. Gli autori hanno costruito una Scala di valutazione delle funzioni metacognitive che è stata applicata ai trascritti delle sedute psicoterapeutiche di pazienti con Disturbi Di Personalità che hanno potuto quantificare il modo con cui le abilità e le difficoltà metacognitive nelle diverse tipologie di pazienti: Evitante, Dipendente, Borderline, Paranoide, Narcisistico. Dai dati emerge che una prevalente difficoltà nel comprendere stati mentali e processi propri è ciò che caratterizza il Disturbo Evitante e il Disturbo Narcisistico; così i pazienti che hanno difficoltà a riconoscere le proprie emozioni, hanno difficoltà a cogliere i segnali corporei e si affidano preferibilmente al ragionamento cosciente e razionale per interpretare il mondo circostante. I deficit delle funzioni integrative sembrano caratterizzare maggiormente il Disturbo Borderline; così i pazienti, anche se in grado di accedere a contenuti mentali molecolari, presentano una ridotta capacità di mettere in ordine coerentemente e gerarchicamentre i diversi aspetti di un contenuto o mentale diversi contenuti mentali. Le rappresentazioni di sé e dell'altro come assolutamente buoni o assolutamente cattivi rimangono scisse nella mente del paziente che non era in grado di integrarle in un unico sistema di significato che oscilla tra le diverse polarità in modo caotico. Il deficit di integrazione sarebbe anche alla base della difficoltà di regolazione emotiva di questi pazienti. I deficit di decentramento-differenziazione sono emersi in particolare in pazienti con Disturbo Paranoide. La specificità di questi pazienti consiste nell'interpretare i segnali emotivi e comunicative agli altri modo rigido e spesso persecutorio attribuendo agli altri principalmente lo scopo di danneggiarli o raggirarli, come se fossero incapaci di avere stati mentali indipendenti dal paziente stesso. Le scarse capacità metacognitive risultano importanti per spiegare alcune caratteristiche dei Disturbi Di Personalità: il mantenimento del disturbo e la problematicità della relazione terapeutica. La difficoltà nel leggere i propri stati interni, nel differenziarli da quelli degli altri e nel tenerle insieme in una narrazione personale coerente influenza negativamente la capacità di questi pazienti di padroneggiare situazioni emotivamente problematiche. Gli stati mentali sono difficilmente elaborabili o modificabili: i deficit metacognitivi fanno sì che certi comportamenti vengano reiterati. I comportamenti elicitati dalla scarsa metacognizione di questi pazienti generano scambi interpersonali problematici che tendono a rinforzare il disturbo. Un individuo con Disturbo Evitante tenderà a mostrarsi negli scambi sociali modo schivo e impacciato e questo genererà negli altri una tendenza all'allontanamento e all'estraneità tale da confermare le sue rappresentazioni. Anche la relazione psicoterapeutica risulta instabile e spesso problematica; questi pazienti sono a rischio di drop-out e generano una sensazione di fatica relazionale da parte del terapeuta. La difficoltà di accesso ai propri stati mentali o la scarsa comprensione delle predisposizionei mentali altrui rendono i pazienti distaccati e difesi o aggressivi e ostili nei confronti del terapeuta. Uno dei principali obiettivi della terapia e quello di modulare la relazione terapeutica per consentire un miglioramento delle capacità metacognitive. Disturbi emozionali Aalcuni modelli recenti hanno esteso l'analisi del funzionamento metacognitivo anche a disturbi più sottili, come i disturbi d'ansia. La teoria proposta da Wells illustra come proprio il malfunzionamento di conoscenze e processi metacognitivi conduca i pazienti con disturbi affettivi a pensieri disfunzionali e faccia sì che questi pensieri si mantengano nel tempo. L' autore introduce il concetto di metacognizione ed illustra come proprio i deficit metacognitivi portino i pazienti con disturbi emozionali a formulare convinzioni disadattive e a confermare ripetutamente queste convinzioni fonte di sofferenza psichica. L'attenzione si sposta dai singoli contenuti di pensiero ai fattori che controllano i regolari processi di pensiero e che possono influire sui processi cognitivi e sulle risposte comportamentali di questi pazienti. Secondo questo modello convinzioni metacognitive distorte e strategie di controllo disfunzionali accomunano tutti in disturbi d'ansia, a cambiare è il contenuto specifico dei pensieri. Il modello di Wells è un tentativo di coniugare elementi cognitivi di base (processi attentivi, pensieri automatici o processi di elaborazione delle informazioni) alle diverse componenti metacognitive. Nonostante la fragilità dell'impianto teorico e la concreta inapplicabilità clinica, Wells offre numerosi spunti interessanti. L'autore confonde tra componenti cognitive e funzioni metacognitive. In quest'ottica la sofferenza psichica avrebbe origine da una sindrome che l'autore definisce come cognitivo-attenzionale e coinvolge sia i livelli inferiori del processo di elaborazione delle informazioni provenienti dal mondo esterno dal corpo, sia i processi contro la valutazione dei contenuti mentali. Questi processi cognitivi di base interferiscono con lo sviluppo di conoscenze su di sè più diversificate e rendono i processi di controllo metacognitivo poco flessibili e funzionali. La selezione e l' elaborazione distorta delle informazioni e i contenuti di pensiero invalidanti di questi pazienti generano sia idee errore sul funzionamento mentale, sia l'implementazione di strategie di controllo disadattive. Tra il deficit delle conoscenze metacognitive l'autore fa presente la difficoltà di riconoscere gli stati mentali come rappresentazioni passibili di errore: i pazienti tendono a reificare i contenuti dei loro pensieri e a considerare le loro rappresentazioni del mondo come rappresentazioni fedeli della realtà: non sono capaci di prendere distanza metacognitiva dai loro contenuti mentali. La connessione stretta fra i processi cognitivi di base della mancanza di distanza metacognitiva risiede nel fatto che le conoscenze metacognitive erronee del paziente modulano a loro volta i processi di elaborazione di informazioni somantiche o relazionali in senso disfunzionale, generando circuiti di mantenimento del disturbo. Gli stati interni possono essere usati impropriamente a confermare le interpretazioni negative riguardo a sé; conoscenze metacognitive disfunzionali non creano occasioni di ristrutturazione cognitiva ma tendono al contrario a rinforzare le modalità di elaborazione distorta di questi pazienti. Oltre ai contenuti metacognitivi anche i processi metacognitivi dei pazienti risultano poco funzionali. L'idea che il flusso di pensieri vada controllato per evitare esiti catastrofici induce gli ossessivi a utilizzare la preoccupazione o la ruminazione come strategie di controllo del pensiero. Queste strategie vengono utilizzate nelle situazioni critiche, ostacolando lo sviluppo di credenze e strategie di controllo più utili. La permanenza in uno stato di preoccupazione e di allarme allo stesso modo non permette di ottenere informazioni che smentiscono le valutazioni negative di sé e delle situazioni esterne. Secondo modello di Wells, la relazione tra disfunzioni cognitive e metacognitive descrive le condizioni che inducono a una mantenimento del disturbo nel tempo. L'obiettivo di una terapia è proprio quella di rompere questo funzionamento circolare, facilitando l'acquisizione di conoscenze metacognitive sostitutive e permettendo la sperimentazione di strategie alternative. Il trattamento dei disturbi metacognitivi Terapia dell'autismo La maggior parte degli approcci riabilitativi sono di natura psico-educativa e comportamentale. Gli interventi mirano all'acquisizione di routine comportamentali per favorire l'autonomia e l'adattamento sociale di persone affette da autismo. Meno numerosi sono gli interventi volti a migliorare le difficoltà interpersonale comunicative tipiche del disturbo. Recentemente sono stati proposti programmi per lo sviluppo delle competenze sociali che mirano a migliorare le capacità di mentalizzazione e di appropriatezza sociale in individui con autismo o sindrome di Asperger. Attualmente non esiste nessun modello di psicoterapia che propone un trattamento specifico per la sindrome di Asperger, nonostante le buone capacità cognitive di questi pazienti. Si deve a Howlin, Baron-Cohen e Hadwin l'elaborazione di un programma di intervento volta migliorare le difficoltà di teoria della mente nei bambini autistici. Il protocollo si propone l'insegnamento progressivo di strategie per il riconoscimento di stati mentali e per la generazione di differenze rispetto alle conseguenze comportamentali che tali contenuti mentali producono. Viene privilegiato l'apprendimento in un contesto naturale e la ricompensa intrinseca al compito viene privilegiata rispetto al rinforzo estrinseco; è attraverso il compito che il bambino riceve gratificazione, non tramite premi. Il training si concentra sull'illustrazione delle conoscenze metacognitive che stanno alla base delle diverse situazioni sociali e si privilegiano le spiegazioni generali riguardo alla relazione fra stati mentali e comportamento. Questo consente ai soggetti di estendere a situazioni sempre nuove le conoscenze acquisite. La struttura del programma prevede di sviluppare il riconoscimento e la riflessione sulle emozioni partendo dal semplice riconoscimento visivo dell'espressione facciale, per passare ad indici sempre più complessi di comprensione delle emozioni, come la comprensione di emozioni causate da situazioni sociali, desideri privati e da opinioni di gruppo. Il programma prevede inoltre delle schede di valutazione alla fine di ogni livello di apprendimento. Alcuni tipi di interventi utilizzano alcune delle straordinarie risorse dell'individui autistici come per esempio l'abilità visivo-spaziale, le abilità classificatorie e la straordinaria memoria per le regole i numeri. Gli interventi riabilitativi utilizzano tali specificità nel tentativo di vicariare i gravi deficit di metacognizione e di potenziare l'adattamento e lo sviluppo sociale. Rimane difficile stabilire che cosa porti ai miglioramenti ottenuti con l'esercitazione in questi compiti. Per quanto riguarda gli esiti, l'efficacia risulta limitata dalla difficoltà dei pazienti nell'applicare contenuti dell'apprendimento a contesti nuovi; fuori dai momenti di gioco e di scambio strutturati, i bambini autistici mostrano la stessa difficoltà e lo stesso disinteresse per gli scambi interpersonali spontanei. Il risultato è che le abilità metacognitive potenziate dai programmi siano difficilmente estese e generalizzate alla vita quotidiana. L'esercizio e la familiarizzazione con alcuni contenuti mentalistici non sembrano portare all'acquisizione di nuove competenze sociali che per durino nel tempo e che siano utilizzabili in contesti di vita naturali. Terapia dei Disturbi Di Personalità Le diverse realtà cliniche presentano difficoltà specifiche riguardo ad alcune delle sottofunzioni della metacognizione. È necessario distinguere fra deficit strutturali e deficit funzionali: il deficit metacognitivi dei disturbi di personalità non sono da ricondurre ad un mancato sviluppo delle strutture neurali di base, che rendono possibili operazioni di mentalizzazione, ma sono da considerarsi come deficit funzionali o con una relativa debolezza delle capacità metacognitive, che si esprime in determinate condizioni. Questa distinzione è importante per definire possibili margini di intervento con diversi tipi di pazienti e per spiegare perché lo stesso tipo di intervento risulta troppo complesso nel caso di pazienti autistici. Uno degli strumenti principali per intraprendere un percorso psicoterapeutico è la capacità di accedere ai propri stati mentali e a quelli altrui, organizzandoli in modo coerente ed integrato: una difficoltà in quest'ambito rende molto difficile l’instaurarsi di una buona relazione terapeutica e risulta impossibile applicare diverse strategie che hanno come fondamento l'alleanza terapeutica. Le difficoltà relazionali e i deficit metacognitivi costituiscono dei circuiti patogeni da cui è difficile uscire. L'intricato meccanismo viene ben descritto dal modello proposto dal Terzo centro di terapia cognitiva di Roma che spiega come le difficoltà relazionali di questi pazienti e i deficit metacognitivi creino cicli interpersonali problematici in cui il pz. Mette in atto strategie automatiche ed infruttuose di relazione a cui il terapeuta è indotto a rispondere rinforzando il comportamento del paziente. I modelli di trattamento fanno particolare attenzione alla regolazione della relazione: la prima condizione è creare un buon clima relazionale, cosa che si ottiene grazie alla capacità da parte del terapeuta di modulare le reazioni antiterapeutiche che il paziente involontariamente induce. Il clima relazionale positivo ha l'effetto di potenziare le capacità metacognitive. I principali interventi proposti per la regolazione della relazione terapeutica che sembrano migliorare le capacità metacognitive dei pazienti con Disturbi Di Personalità sono i seguenti: -- validazione: ha l'obiettivo di restituire valore all'esperienza soggettiva qualora il paziente stesso la giudichi indegna o squalificante. L'accettazione di questi stati da parte del terapeuta si accompagna alla possibilità di evidenziarne l'aspetto controproducente. Questi interventi migliorano le funzioni metacognitive, legittimando il paziente rispetto a sue rappresentazioni considerate vergognose, generando nel pz. la sensazione di poterle fronteggiare. -- svelamento: in questo caso il terapeuta esprime al paziente ciò che sta provando o pensando in un dato momento; questi interventi sembrano importanti sia nei momenti in cui vi è una rottura dell'alleanza terapeutica, sia per far comprender al paziente i contenuti mentali del terapeuta, che risultano fondamentali per esercitare il paziente alla lettura della mente altrui. -- condivisione: è finalizzato a sottolineare come aspetti dell'esperienza riportati dal paziente siano compresi e condivisi anche dal terapeuta, se non da ogni essere umano. Questi interventi prevedono infatti l'utilizzo del " noi " universale, la narrazione di eventi di vita del terapeuta, discussioni su argomenti di interesse condiviso queste modalità hanno la funzione di normalizzare l'esperienza del paziente e di potenziare le capacità di empatia e integrazione del paziente rispetto ai propri contenuti mentali. Oltre a questi interventi volti al mantenimento di una buona alleanza terapeutica, il modello del Terzo centro comprende anche tecniche specifiche che permettono un esercizio e un utilizzo più funzionali di queste funzioni mentali. Una prima strategia suggerita è quella di spiegare al paziente quali tipo di difficoltà il terapeuta ha individuato nella sua capacità di interpretare il proprio e gli altrui stati mentali, e nel mostrare al paziente le conseguenze che queste difficoltà possono generare nella sua vita. Una volta data come conoscenza condivisala difficoltà metacognitiva del pz., il terapeuta lo stimolerà il più possibile ad utilizzare proprio le funzioni metacognitive, facendo domande specifiche durante la narrazione. Il modello propone infine di intervenire sulle difficoltà metacognitive individuate e spiegate dal paziente tramite compiti specifici da mettere in atto al di fuori delle sedute. L’offerta di strumenti più efficaci per la comprensione degli stati mentali propri e altrui e l'esercizio continuo volto ad utilizzare le funzioni metacognitive producono in questi pazienti un miglioramento delle competenze e una generalizzazione di tali acquisizioni impensabile nel caso di sindrome più severe. Trattamento dei disturbi emozionali Secondo il modello dei disturbi affettivi proposto da Wells, un aspetto problematico riguarda la funzione di auto-regolazione che seleziona e modella le informazioni su di sé esistenti in memoria e la salienza degli stimoli esterni. Nel caso dei Disturbi d'Ansia le informazioni vengono elaborate in modo disfunzionale, con una riduzione della flessibilità necessaria per poterli modificare. Il lavoro in psicoterapia si focalizza sulla modificazione della metacognizione dei piani di elaborazione; secondo questo schema i pazienti operano in una specifica situazione pensando che le loro convinzioni siano rappresentazioni fedeli della realtà, per es. pensano che le loro sensazioni di pericolo rispecchino una possibile reale minaccia. Per il trattamento di questi pazienti sembra importante sollecitare una lettura metacognitiva delle convinzioni che permetta di prenderne distanza e trattarle come eventi passibili di valutazione. Secondo l'autore sostituire una convenzione disadattiva in psicoterapia non significa lavorarvi direttamente, quanto piuttosto facilitare l'acquisizione di nuove strategie di consapevolezza metacognitiva che permettono di modificare la valutazione e l'elaborazione delle informazioni nelle situazioni critiche. Lo scopo del trattamento è quello di produrre conoscenze sostitutive di sé che guidino le funzioni di auto-regolazione e non quello più limitativo di mettere in dubbio specifiche convinzioni o pensieri automatici negativi. Per far questo il modello di trattamento prevede la definizione di un profilo metacognitivo del paziente durante la fase di assessment attraverso l'utilizzo di questionari: il profilo permette di identificare le routine di elaborazione problematiche, le convenzioni disfunzionali e i processi metacognitivi di controllo che il paziente mette in atto durante situazioni stressanti. La terapia si concentra sul cambiamento delle convinzioni su se stesso attraverso la modificazione dell'elaborazione di tali conoscenze e delle procedure di fronteggiamento. Lo scopo condiviso con il paziente dev'essere quello di rivedere le sue conoscenze e correggerle attraverso l'apprendimento e l'utilizzo di strategie. Sono identificabili diverse fasi: innanzitutto è necessario che il paziente assuma ciò che Wells chiama modo di elaborazione metacognitivo in cui viene incoraggiato ad esaminare i propri pensieri e le proprie sensazioni in modo distaccato e ad assumere il ruolo di osservatore passivo di propri processi mentali. Una volta favorito quest'atteggiamento metacognitivo, il trattamento prevede la regolazione dell'elaborazione e il paziente viene istruito a regolare il flusso di informazioni allo scopo di ridurre l'elaborazione di informazioni relative a sé e le forme di pensiero reiterative(ruminazione preoccupazione). Allo scopo di aumentare il flusso di informazioni nuove che potrebbero portare alla revisione delle convinzioni e delle strategie del paziente, il trattamento prevede l'utilizzo di nuove tecniche attentive che si fondano sul principio che la concezione su di sè tipica dei Disturbi d'Ansia intensifichi le relazioni interne, le renda più salienti e contribuisca a perdurare di convinzioni e di emozioni negative. Le tecniche prevedono esercizi per l'attenzione selettiva, lo spostamento dell'attenzione e il focalizzasi sulla tensione verso l'esterno. L'effetto della riduzione dell'attenzione auto-centrato può essere quello di ridurre l'intensità delle risposte affettive e somatiche ed i pensieri negativi. Le tecniche possono interrompere le attività lavorative reiterative, e i principali componenti disfunzionali. La concentrazione sull'esterno può consentire al paziente di ragionare sui problemi in modo distaccato e di considerare i propri pensieri non più come minacciosi. La ristrutturazione dell'elaborazione prevede la messa in atto di strategie che modifichino i comportamenti tipici di fronteggiamento nelle situazioni critiche. Non si tratta di semplice esposizione agli stimoli, ma di indurre il paziente a comportarsi e a pensare in modo diverso così che le nuove esperienze confutino le convinzioni disfunzionali. A differenza della terapia cognitiva standard, il modello di Wells non intende concentrarsi sulla confutazione verbale dei pensieri, nè soltanto sull'esposizione comportamentale: questi aspetti devono invece essere accompagnati da un intervento sui processi metacognitivi e comportamenti finalizzati al consolidamento di queste nuove modalità di elaborazione. Non si tratta soltanto di accrescere la consapevolezza sulle proprie conoscenze disadattive, ma di trasformare mano mano queste conoscenze dichiarative in conoscenze procedurali. Solo l'esercizio reiterato di nuove modalità di funzionamento che coinvolgono l'attenzione, il comportamento e i contenuti di pensiero può consolidare routine di elaborazione delle informazioni di risposta più funzionali per l'individuo. La metacognizione del terapeuta Aiutare il paziente a sviluppare le proprie capacità metacognitive è un passaggio importante per tutte le psicoterapie. Nel caso di pazienti gravi, una minimo di auto-consapevolezza è indispensabile per garantire un risultato accettabile. L'auto-consapevolezza relativa alla genesi alle caratteristiche del disturbo psichico è necessaria per garantire un cambiamento profondo e questo cambiamento, sia soggettivo che comportamentale, non si può stabilire se il paziente non ha raggiunto una consapevolezza di sé adeguata rispetto alle proprie potenzialità. La psicoterapia cognitiva è fondata sulla relazione e focalizza ulteriormente il lavoro della diade terapeutapaziente sulla lettura condivisa degli schemi interpersonali agti in seduta. Tale lettura condivisa è guidata dalle capacità metacognitive del terapeuta, che facilita quelle del paziente. Partendo dalla psicologia della percezione, Witkin contraddistingue lo stile di dipendenza dal campo come caratteristico dei soggetti che orientano la postura assumendo come riferimento il campo percettivo e trascurando le propriocezioni corporee. Lo stile di indipendenza dal campo è tipico invece dei soggetti che si basano sulle sensazioni corporee per orientare la propria posizione nello spazio. Estendendo questa distinzione alla cognizione in generale possiamo concettualizzare la dicotomia fra persone che organizzano la propria interazione con gli altri a partire da sé stessi oppure a partire dall'altro. È possibile applicare questa distinzione anche ad uno stile terapeutico a seconda che il terapeuta usi come punto di riferimento gli stati mentali del paziente o i propri: in ogni caso il terapeuta sposterà la propria metacognizione fino a comprenderli entrambi. Psicoterapeuta psicosomatico Lo stile percettivo è campo-dipendente: il mantenimento della coerenza interna è affidato le figure di riferimento, che determinano il senso dell'interazione e il significato personale del terapeuta stesso. Il terapeuta si sintonizza facilmente, spesso con tale intensità d'avere la sensazione di leggere nella mente del paziente, anticipandone gli stati mentali e offrendogli una piena comprensione. Se il Sé del terapeuta non è sufficientemente strutturato, può avere una certa difficoltà distanziarsi, e ad agire autonomamente quando la situazione di richiedere andare oltre la condivisione, introducendo un nuovo punto di vista. Psicoterapeuta fobico Lo stile percettivo è campo-dipendente, con il mantenimento della coerenza interna collegato alla vicinanza a una figura di riferimento. Il terapeuta, abituato ad assicurarsi la vicinanza protettiva delle figure significative controllandone pensieri ed emozioni, è competente nel leggere gli stati mentali di propri pazienti, comprendendoli quasi prima che vengano coscientemente espressi. La buona strutturazione del sé fobico e la tranquillità sulla propria amabilità permettono una buona consapevolezza di propri stati mentali anche quando questi siano diversi da quelli del paziente: il terapeuta é in grado di perturbare il paziente in modo adeguato. Se il terapeuta non ha compreso fino in fondo il proprio intrinseco oscillare fra i poli della libertà della sicurezza, può sentirsi oppresso risultando improvvisamente intollerante o indisponibile oppure può temere la separazione, reagendo con durezza ai tentativi di autonomia del paziente. Psicoterapeuta ossessivo Lo stile percettivo è campo indipendente, con il mantenimento della coerenza interna affidato al rispetto di regole e princìpi che disciplinano sia il proprio comportamento che la situazione interpersonale. Il terapeuta è competente nella lettura dei propri stati interni, che utilizza per comprendere quelli speculari del paziente. I comportamenti interpersonali agiti dal paziente, le emozioni che questi introduce nello spazio condiviso, sono riconosciuti a partire da comportamenti indotti dal terapeuta e dalle emozioni da lui provate. Il terapeuta campo-dipendente sente l'emozione del paziente, il terapeuta campo-indipendente sente le emozioni che il paziente gli ha indotto. Se il terapeuta non è sufficientemente consapevole della propria organizzazione cognitiva può diventare pedagogico o invasivo nel suo tentativo di prestare al paziente la propria struttura mentale per vicariare i presunti deficit. Psicoterapeuta depressivo Lo stile percettivo è campo-indipendente, con il mantenimento della coerenza interna affidato alla prevenzione e alla gestione del rischio di rifiuto e di abbandono. Il terapeuta offre una tonalità emotiva monocorde, per quanto sia fine l'interpretazione metacognitiva dell'interazione fra lui e il paziente. La sua disponibilità a occuparsi dell'altro non è sminuita dalla sensazione che il paziente gli sia comunque estraneo, e sa offrire un genuino conforto e una totale attenzione. Se il terapeuta non ha raggiunto una buona consapevolezza di sé può diventare oblativo, rendendo difficile la piena autonomia del paziente, e può provare una certa difficoltà a fidarsi e a gestire la buona relazione col pz., nell'inconscio timore che questi se ne vada o non sia sincero. Capitolo 11 L'organizzazione della conoscenza Un essere umano adulto è portato a esprimersi con modalità che lo caratterizzano e che sembrano rispettare una serie di " regole personali ": per cui se a volte i suoi atteggiamenti appaiono imprevedibili, sono sempre l'espressione di una sua coerenza interna. L'organizzazione della conoscenza ha una sua graduale strutturazione: non è geneticamente predeterminata, ma è la risultante dello sviluppo di un sistema nervoso centrale che avviene seguendo regole ereditate filogeneticamente e dall'incontro con altre menti culturalmente formate con cui una mente in via di formazione cerca selettivamente e attivamente l'interazione. Lo sviluppo Il nostro cervello si accresce, tra la nascita e la fine dell'adolescenza, di circa quattro volte. Questa crescita, all'inizio più accentuata poi più lenta e graduale, avviene mediante lo stabilirsi di connessioni sinaptiche fra gli emisferi cerebrali, e più precisamente nella corteccia associativa frontale, parietale e temporale. A circa metà del primo anno compare l'onda di proliferazione sinaptica, con fasi di ridondanza transitoria e stabilizzazione selettiva. Tali fasi sono dapprima di origine spontanea, per poi essere evocate dall'interazione del neonato con il suo ambiente. Il cervello presenta una netta individualità che si manifesta fin dalle prime fasi di sviluppo per poi consolidarsi: le modalità con cui si struttura il nostro sistema nervoso costituiscono la base anatomofisiologica dell'organizzazione del processo di conoscenza. La conoscenza appare quindi come un sistema autopoietico, in quanto si autorganizza mediante impulsi provenienti dai nuclei reticolari modulatori che si trovano bilateralmente al centro del cervello e che si sviluppano in fase embrionale. Essi stabiliscono le condizioni con cui le cellule corticali risponderanno agli stimoli esterni e controllano le fasi di proliferazione delle associazioni nervose sinaptiche. Una prova indiretta delle funzioni autopoietiche dei nuclei regolatori di base si ha nella sindrome Rett, quando la loro funzione cessa improvvisamente, per motivi ancora non ben noti, in bambine intorno ai nove mesi che interrompono loro sviluppo,fino ad allora normale, e mostrano un comportamento autistico con ritardi e disturbi dell'attività motivazionale ed emotiva che provocano gravi difficoltà nella relazione con le figure di accudimento e un blocco irreversibile dell'apprendimento culturale. Accanto a questa evidenza di una componente autonoma dell'organizzazione di conoscenza degli esseri umani, si presenta contemporaneamente una caratteristica altrettanto evidente: per uno sviluppo culturalmente corretto è indispensabile l'interazione attiva con altri esseri umani, con " menti guida " già culturalmente formate. Un'altra fondamentale caratteristica del sistema nervoso centrale degli esseri umani è l'asimmetria emisferica: l'emisfero destro ha una funzione diversa rispetto sinistro. Possiamo dire in generale che il destro è la sede di apprendimenti più analogici e astratti, mentre il sinistro è più analitico e verbale. In un individuo adulto una lesione dell'emisfero destro non consente l'espressione melodica, la comprensione di poesie e metafore e il riconoscimento di espressioni emozionali nel volto degli altri, una lesione nell'emisfero sinistro non consente espressioni linguistiche e aspetti più elaborati dalla parola o la comprensione di proposizioni e frasi articolate. La differenza emisferica compare alla metà dello sviluppo fetale ed è tipica della nostra specie. Questa caratteristica è considerata un adattamento filogenetico per l'incontro fra due cervelli, che ci fa capire come l'apprendimento culturale non può avvenire per semplice imitazione attiva o per meccanismi di tipo input-output o feedback-feedforward. L'apprendimento è ciò che risulta dall'attività di due emisferi differenziati che si collegano progressivamente l'uno con l'altro, mediante il corpo calloso, mentre si sintonizzano contemporaneamente con un cervello adulto. Nella fase preverbale l'emisfero dominante è il destro, ma il piccolo risponde alla figura guida, che gli parla in motherese, con atteggiamenti protolinguistici con cui ricerca la sintonia e il ritmo, muove la mano destra e la parte destra del corpo in maniera intensa e sincronica ( controllata dall'emisfero sinistro ) a conferma che l'altalena tra sensazioni e significati, tra conoscenza tacita ed esplicita, è collegata fin dalla prima infanzia alle attività propriocettive, ai movimenti muscolari e alle modalità di funzionamento dell'intero organismo. La conoscenza per un essere umano coincide con l'esistenza. L'attività conoscitiva stimola lo sviluppo di tutti i sistemi dell'organismo, consentendo modalità sempre più complesse di conoscenza. I processi imitativi che caratterizzano tutti i primati vengono utilizzati per generare motivazioni che conseguono allo sviluppo mentale di un bambino e che si incontreranno con segnali di motivazioni complementari e costruttive degli adulti con quel bambino entra in una relazione di reciprocità. Anche il modo con cui tutto il corpo viene ad assumere le caratteristiche che ritroviamo in un adulto e che lo differenziano dagli altri individui, facendolo sentire diverso e unico rispetto agli altri, si struttura gradualmente durante lo sviluppo del sistema nervoso centrale e l'incontro contemporaneo con figure di riferimento. Tutte queste attività sono elementi di conoscenza che vengono chiamati taciti se compaiono nella fase preverbale, ed espliciti quando con l'attività prevalente dell'emisfero sinistro si è pronti allo sviluppo ulteriore del linguaggio, che costantemente ci induce a spiegare lo spiegabile. Il livello tacito di conoscenza ha comunque una sua continuità e costituisce la modalità di base per riconoscersi a contatto con la realtà esterna indipendentemente dai modelli di rappresentazione a cui dà luogo. È un'impalcatura complessa che filtra il materiale derivante dall'interazione reciproca con l'ambiente e costituisce una componente di se vissuta implicitamente come invariante. Il livello tacito e quello esplicito di conoscenza sono in relazione di interdipendenza: questo deriva dalla necessità e dallo stimolo biologico e ambientale di spiegare ciò che accade internamente ed esternamente a se stessi. L’insieme delle due modalità di conoscenza costituisce l'identità personale. L'organizzazione della conoscenza appare del tutto individuale e differenziata fin dall'inizio. Si comprende, date le caratteristiche della nostra mente, che organizzare la conoscenza non vuol dire rappresentarsi la realtà in modo più o meno adeguato o ad attivo, ma significa costruire una propria personale chiave di lettura del mondo in un'ottica non rappresentazionale. La conoscenza non è la ricostruzione di un mondo esterno, più o meno valida a seconda della corrispondenza al mondo reale: il conoscere è esistere, e la cognizione, sospesa nell'orizzonte temporale, è storicità dell'esistenza: storia vissuta e progetto di possibilità. Non si pone un problema di validità di rappresentazioni e non si può parlare di organizzazione cognitive giuste o sbagliate ma di organizzazioni più o meno elastiche di fronte alle richieste di cambiamento. La ricerca di una mente guida già formata è necessaria fin dalla nascita per non disperdere le modalità personali di conoscenza diversificandole eccessivamente da quelle degli altri individui. Per l'avvio e per il progredire nello sviluppo della conoscenza è indispensabile la ricerca continua di una figura materna che dia accudimento: questa interazione diadica ha inizio fin dai primi momenti dello sviluppo fetale e caratterizza l'attività dell'essere umano fino alla morte. L'intera soggettività sembra essere anche alla base della regolazione dell'interazione fra i vari sistemi di un'organizzazione in via di sviluppo. A modalità differenziate nello stabilire la reciprocità sembra corrispondere un'iniziale impostazione diversificata dell'impalcatura della conoscenza. Ad una prima fase di organizzazione prevalentemente tacita fa seguito quella che potremmo definire l'organizzazione culturale della conoscenza, strettamente legata allo sviluppo del linguaggio, non nel senso di un semplice apprendimento di concetti ma nel senso della costruzione di una propria storia che conferisce un senso di unicità e continuità narrata inserendosi nel contesto sociale e relazionale tramandato dalla propria cultura. Nel corso dell'organizzazione del proprio copione si passa da una narrativa cosiddetta immediata a una più complessa o tematica: con la prima modalità si verbalizzano i segnali comunicati da avvenimenti esterni o le situazioni percepite, senza la possibilità di raccontarle secondo una propria memoria storica. Questa forma di conoscenza ha caratterizzato gli scambi di comunicazione fra esseri umani fino a 100.000 anni fa. La conoscenza immediata caratterizza i bambini piccoli fin dall'inizio dell'attività linguistica e alcuni primati non umani addestrati al linguaggio. L'organizzazione di queste forme arcaiche di conoscenza è guidato dallo scambio emozionale con altri individui: i piccoli del Bonobo, un primate antropomorfo che riesce a imparare circa 40 lexigrammi che si possono unire in frasi articolate con un linguaggio artificiale solo se si stabilisce una reciprocità emotiva con l’addestratore. Il limite dell'organizzazione cognitiva dei primati non umani è segnato dall'impossibilità di passare da una conoscenza immediata alla conoscenza tematica che caratterizza gli esseri umani: questo passaggio evolutivo, consentito da una mutazione genetica non darwiniana(natura fecit saltus), ha fatto sì che il sistema nervoso centrale assumesse una complessità tale da consentire ad un fanciullo la distinzione tra quello che vede e quello che sa, cioè di inserire la realtà che costruisce con gli organi di senso nel contesto storico-culturale che gli appartiene e che ha acquisito attraverso l'interazione con altre menti guida già culturalmente formate. Attraverso questo sviluppo organizzativo la narrativa passa progressivamente da immediata a tematica: tutto ha inizio con la formulazione dei primi vocaboli e si completa intorno agli 8-10 anni. Gli autistici non sviluppano una conoscenza tematica: anche nei casi in cui imparano completamente a parlare, descrivono senza spiegare e questo introduce il concetto di teoria della mente. Aver materia della mente significa comprendere che gli esseri umani sono entità dotate di stati mentali e che questi stati mentali sono in una relazione causale con gli eventi del mondo fisico, cioè che ne possono essere sia la causa che l'effetto. Durante il periodo adolescenziale il completamento dello sviluppo del nostro organismo coincide con il completamento dell'organizzazione cognitiva. Cessa la produzione spontanea dei collegamenti sinaptici, il volume del cervello si stabilizza e le varie componenti entrano in un'interazione più stabile di equilibrio dinamico. La conoscenza prima di raggiungere un proprio equilibrio, attraversa un periodo di relativo disordine. La complessità strutturale della mente fa emergere il pensiero astratto, che consente e stimola l'auto-confronto con modalità di conoscenza diversificate e alternative. Questa caratteristica evolutiva sposta il focus dell'organizzazione della conoscenza: dalla ricerca attiva di menti culturalmente formate si passa al confronto con le altre modalità di conoscenza, attraverso il quale si tende a confermare un'organizzazione unica e differenziata. Questo processo richiede una naturale opposizione alle precedenti figure di riferimento. L'importanza fondamentale dell'incontro con l'altro, che da specchio diviene una figura di confronto indispensabile per confermare le proprie differenze e il proprio senso di unicità, è chiara. Mantenimenti e cambiamenti Durante il percorso di formazione l'organizzazione cognitiva tende a confermare le proprie caratteristiche mantenendo una continuità nonostante le modificazioni cognitive nel corso dello sviluppo. Lo sviluppo non è predeterminato, ma nemmeno del tutto indeterminato: ogni fase una volta soddisfatte le sue richieste, predispone l'altra a seguire una certa direzione. L'organizzazione della conoscenza procede in una maniera non lineare, ma a piani irregolari creando connessioni fra le varie fasi di sviluppo. Un bambino che stabilisce con la figura di attaccamento una reciprocità ansiosa sarà portato a privilegiare le sensazioni di paura, con attivazione neurovegetativa durante i distacchi, che si prolunga anche dopo il ricongiungimento alla madre. Nella fanciullezza tenderà a dirigere l'esplorazione verso i luoghi conosciuti escludendo altre possibilità, con una particolare attenzione selettiva verso i pericoli da evitare e un controllo verso le reazioni emotive che possono segnalare un'alterazione patologica dell'organismo. Il tutto è confermato dall'atteggiamento e dalle attribuzioni di significato dei genitori, che il fanciullo è pronto a fare proprie. Nell'adolescenza le stesse sensazioni saranno veicolate da attribuzioni derivate da ricordi di esperienze passate e soluzioni attuate che costituiranno la base per la formazione dei significati personali che moduleranno le sensazioni di ansia da separazione. Le sensazioni più intense verranno lette come segnali di una propria debolezza psicofisica di fronte a un mondo da controllare per tenere vicino le persone care. Il significati personali costituiscono la base della conoscenza tematica: tali significati potranno avere maggiore o minore rigidità a seconda delle modalità con cui si è strutturata la propria scelta organizzativa e faranno sì che l'organizzazione cognitiva sia soggetta a un più facile o più difficile dissestamento di fronte alle perturbazioni. È importante considerare che alla plasticità cerebrale corrisponde una plasticità organizzativa. La tendenza a percorrere le stesse modalità che si sono strutturate nei periodi precedenti non impedisce di modificare la propria organizzazione se si modifica l'interazione con le figure di riferimento. Con il progredire dello sviluppo si tende sempre più confermare la stabilità della propria organizzazione cognitiva. Un'organizzazione complessa si trova costantemente in una situazione di equilibrio instabile: è una sorta di mantenimento attivo della struttura dell'organizzazione di conoscenza, con continui aggiustamenti nel presente e ricostruzione del passato, a garantire la stabilità. In una persona adulta ritroveremo degli atteggiamenti di base e una modalità sensoriale caratteristici, che corrisponderanno a un particolare funzionamento di tutto l'organismo. La registrazione delle correlazioni tra alcuni parametri psicofisiologici di base o sotto stress evidenzierà notevoli differenze tra individuo e individuo. Sono presenti in varianti tipiche e diversificate per le diverse organizzazione cognitive. Queste correlazioni subiscono in caso di cambiamento personale in psicoterapia, cambiamenti quantitativi, ma restano qualitativamente stabili. Possiamo supporre che la diversa modulazione degli stati emotivi che caratterizza un cambiamento sia determinata dalle modificazioni dei significati personali attribuiti a sensazioni che conservano comunque le stesse caratteristiche qualitative che consentono di mantenere un senso di sé basico, stabile. Un cambiamento di significati può avvenire anche senza l'insorgenza di uno scompenso psicopatologico. Una perturbazione emotiva intensa è una spinta per una ricerca di cambiamenti. Si tratta di cambiamenti superficiali, in quanto si assiste a un riassestamento emotivo senza revisione di significati personali. Non è detto che l'organizzazione della conoscenza si scompensi nuovamente, a meno che non vengano messi in discussione gli equilibri istituzionali. In questi periodi può anche accadere che l'organizzazione cognitiva si trovi di fronte alla possibilità di nuove scoperte: di solito il cambiamento è consentito dall'azione. Questi sono cambiamenti profondi, in quanto il riassestamento emotivo è accompagnato dall'introduzione di significati personali nuovi che venivano precedentemente esclusi. L'assetto sensoriale di base non può modificarsi, perché si perderebbe il senso di continuità della propria identità, ma le sensazioni di disagio inevitabili di fronte a certe situazioni saranno più facilmente accettabili, in quanto è più complesso sistema di significati con cui ci si può riorientare. Non c'è una modalità giusta nel risolvere una perturbazione dell'organizzazione cognitiva: un cambiamento implica un periodo di crisi in cui si mettono in discussione significati precedentemente utilizzati, mentre il proprio assetto sensoriale è in fase di elevata instabilità. La capacità di ricentramento dopo una situazione emotiva perturbata sembra dipendere dall'elasticità dell'organizzazione cognitiva e dalla presenza interattiva di persone che aiutino a modulare la crisi; il cambiamento di significati può essere più o meno stabile a seconda del livello di consapevolezza sui motivi che hanno attivato la perturbazione. L'interazione con un terapeuta che induce il paziente spiegare i propri significati personali al di là della richiesta di intervenire sul sintomo crea una reciprocità che può facilitare il paziente nell'esplorazione attiva di situazioni di vita reale con l'obiettivo di scoprire significati nuovi. - CLINICA - Capitolo 2 L'organizzazione depressiva: aspetti strutturali e problematiche cliniche L'organizzazione cognitiva di tipo depressivo costituisce un modo particolare di ordinare il flusso dell'esperienza e le conoscenze personali, di dare significato agli eventi e di costruire l'immagine di Sé, il proprio stile relazionale e le aspettative nei confronti degli altri significativi. La persona sente di non poter avere attenzione e interesse relativamente ai propri bisogni più intimi, si considera costretta ad ottenere accettazione solo attraverso prestazioni socialmente apprezzabili, anche al prezzo di impegnarsi con fatica in ruoli talvolta estranei ai propri desideri; si sente destinata a ricevere indifferenza o ostilità qualora si presentasse con le proprie autentiche caratteristiche. Spesso l'organizzazione si manifesta attraverso vissuti interiori di solitudine e con problemi di interazione strettamente connessi ad una particolare lettura delle difficoltà incontrate sul piano relazionale. A queste viene assegnato generalmente una significato di fallimento personale che sancisce il proprio scarso valore, anche quando potrebbero essere valutate in tutto altro mondo. Soprattutto in risposta ad avvenimenti di grande risonanza emotiva percepiti come conferma del proprio destino infelice, il percorso può essere segnato da momenti di profonda crisi personale, spesso rilevanti per la gravità clinica che possono assumere. Gli episodi depressivi costituiscono la modalità di scompenso di gran lunga più caratteristica di quest'organizzazione, ma è bene chiarire che il concetto di organizzazione depressiva non coincide con quello di disturbo depressivo. Il disturbo depressivo indica l'emergere di forti emozioni legate alle dimensioni di colpa, vergogna e rabbia, vissute con un pervasivo senso di tristezza e disperazione: queste emozioni interferiscono con la visione del mondo e con le capacità cognitive, operative e di interazione sociale. La crisi depressiva rappresenta un momento di perturbazione dell'equilibrio personale e può evolvere sia verso esiti di cambiamento, sia verso un equilibrio più funzionale, sia verso un collasso delle capacità di organizzare in modo ad attivo la visione del mondo e il senso dell'esistenza. Un soggetto può mostrare un'organizzazione depressiva senza presentare crisi depressive, altre persone possono vivere crisi depressive pur non presentando quest'organizzazione di personalità. Arciero distingue tra disturbi depressivi aspecifici, che possono presentarsi in una persona con qualsiasi tipo di organizzazione, disturbi depressivi specifici, determinati da un'accentuazione patologica di tratti del carattere e organizzazione di personalità tendente a disturbi depressivi. Si deve tenere presente che i moderni sistemi di classificazione dei disturbi psicologici utilizzano soprattutto criteri descrittivi. Questi criteri non possono rendere ragione del senso che un certo disturbo ha nell'esperienza di un paziente, delle modalità con cui si è generato, del significato che il paziente vi attribuisce. Il concetto di organizzazione depressiva può essere colto a pieno solo tenendo conto dei criteri esplicativi di comprensione delle dinamiche psicologiche e della sofferenza emotiva. Esso non va visto come la descrizione di una condizione di costante deflessione del tono dell'umore, perdita di interessi o rallentamento psicomotorio, né di isolamento sociale. L'organizzazione cognitiva di tipo depressivo può essere considerata come una particolare predisposizione ai disturbi dell'umore. Più correttamente l'organizzazione depressiva va intesa come un modo di attribuire un determinato senso agli eventi della vita, centrato su una rappresentazione negativa di sé e costruito a partire dalle proprie esperienze più significative. Stile di attaccamento-accudimento nell'infanzia Nell'ambito dell'approccio cognitivo si ritiene che le esperienze di attaccamento che orientano alla rappresentazione di Sé caratteristica dell'organizzazione depressiva di personalità siano rintracciabili in situazioni in cui le richieste di vicinanza e conforto ottengono con regolarità risposte di indifferenza, fastidio, allontanamento o aperta ostilità. La correlazione fra organizzazione depressiva e attaccamento evitante è sostenuta da tutti gli autori e i clinici che fanno riferimento al costrutto delle organizzazioni cognitive di personalità. L’ attaccamento evitante è il più rappresentativo della condizione in cui il soggetto si percepisce come non meritevole di attenzione e conforto. Un accudimento segnato da queste caratteristiche può essere il frutto di situazioni molto diverse: talvolta è legato ad atteggiamenti freddi e distanzianti di una madre che non accetta il proprio ruolo; in altre situazioni è possibile che una madre tendenzialmente affettuosa sia disturbata e ostacolata nelle sue potenzialità e capacità di cura da importanti problemi. Non sono giustificati quindi atteggiamenti colpevolizzanti verso i genitori di persone con pattern di attaccamento evitante o insicuro: spesso le concrete condizioni di vita sociale influenzano pesantemente le possibilità di fornire cure e favorire lo sviluppo emotivo e cognitivo dei figli. Anche esperienze di prolungato allontanamento e soprattutto di perdita della figura di attaccamento possono favorire la strutturazione di una modalità evitante di attaccamento: importanti ricerche hanno messo in luce una relazione chiara e significativa fra eventi di lutto precoce e predisposizione a problemi depressivi. La possibilità che esperienze di questa natura portino alla strutturazione di una rappresentazione di Sé come persona negativa passa attraverso la sensazione del bambino di essere in qualche modo responsabile della situazione relazionale che vive. Il bambino non ha gli strumenti e le capacità metacognitive per spiegarsi eventuali lontanamente o rifiuti sulla base delle caratteristiche psicologiche e dei contenuti mentali di chi si occupa di lui. I suoi stessi bisogni di supporto e vicinanza, la cui espressione e comunicazione non ottengono risposta o suscitano emozioni negative nell'altro, rischiano di essere visti come elementi evocatori di risposte di rifiuto e di essere ritenuti minacciosi per la relazione. Alcune parti di Sé cominciano a essere connotate come inadeguate e incomunicabili e gli altri significativi sono visti come avvicinabili solo al prezzo di tenere nascosti questi aspetti di sé, o sono percepiti come potenziali nemici. Il conseguente sviluppo di un'immagine di Sé come contenente qualcosa di negativo e la costruzione di aspettative di abbandono rappresentano a questo punto il modo più fruibile per dare senso e coerenza alle proprie vicende di attaccamento. Quando la relazione di essere tenuto a distanza viene vissuta in modo frequente e regolare, il modello operativo interno descritto può diventare stabile e la realtà acquista per il bimbo caratteri abbastanza chiari e prevedibili, tanto da favorire un'organizzazione coerente del comportamento, orientato in primo luogo a non recare disturbo alle figure di attaccamento. La fanciullezza L’ itinerario che si va delineando porta nella fanciullezza ad un equilibrio in cui il tipo di comportamento interpersonale considerato come presentabile e meno rischioso per la salvaguardia delle relazioni è non fare richieste e di mostrare le abilità valorizzate dalle figure di attaccamento. Le competenze cognitive emergenti in questa fase della vita possono svolgere due differenti funzioni: -contribuire a regolare i propri stati emotivi con l'assegnazione di un valore marginale ai propri bisogni di cura perché considerare questi ultimi poco importanti può rendere più sopportabile il fatto che vengano trascurati dagli altri. -possono essere utilizzate, quando valorizzato in ambito familiare, per lo sviluppo delle abilità scolastiche e per l'avvio di un itinerario personale centrato sul riconoscimento della propria bravura. Viene amplificata l'importanza data alle proprie prestazioni e non raramente vengono realizzati percorsi scolastici brillanti: un insuccesso in ambito scolastico o sociale può avere effetti devastanti sul senso di Sé. Questo favorisce l'emergere di potenti sensazioni di vergogna quando ci si percepisce in situazioni di difficoltà sociale. Questi elementi, associati all'aspettativa di non ricevere conforto e supporto di fronte al fallimento possono creare serie difficoltà nell'area della competizione; l'evitamento di qualsiasi interazione competitiva o l'accettazione di ogni competizione con uno spirito agonistico e aggressivo. Si incontrano difficoltà anche nel costruire interazioni di carattere cooperativo. Lo sviluppo delle capacità metacognitive della teoria della mente inizia a consentire la possibilità di spiegarsi gli eventi relazionali anche sulla base del contenuto mentale degli altri: il significato dell'indifferenza o del rifiuto può essere costruito sia attraverso un'assunzione di responsabilità sulla propria persona, sia attraverso lo sviluppo di una percezione negativa dell'altro. Quest'ultima interpretazione può esprimersi con qualche manifestazione di durezza relazionale o di spiccata antipatia verso alcune persone significative. La lettura degli eventi relazionali può quindi vedere un'oscillazione dell'attribuzione di causalità dalla polarizzazione interna associata ai vissuti motivi di tristezza e vergogna, a quella esterna associata a emozioni di rabbia. La negatività continua comunque ad essere considerata come l'elemento centrale della realtà percepita. Le dinamiche descritte possono costituire una sorta di nucleo emotivo-cognitivo generatore di attitudini orientate all'auto-colpevolizzazione o ad atteggiamenti colpevolizzanti verso gli altri. Ricercatori che si occupano dell'attaccamento in relazionale alla psicopatologia definiscono queste due differenti attitudini in termini di interiorizzazione e esteriorizzazione; studiandone la presenza nei disturbi dell'umore questi ricercatori rilevano che nei pazienti depressi la preminenza di stili di accusa diretti contro gli altri è più fortemente correlata a esperienze infantili di natura evitante. Le conseguenze disfunzionali delle strategie di mascheramento o repressione di alcuni aspetti di Sé non tardano a manifestarsi: quanto viene sottratto alla comunicazione viene di fatto sottratto anche all'elaborazione personale, così che alcuni aspetti della realtà percepita non ottengono pieno diritto di cittadinanza nella costruzione dell'immagine di Sé. Quando l'esclusione di dati e informazioni diviene una modalità consueta poco consapevole di strutturare la propria visione del mondo, quest'ultima risulta in qualche modo parziale, irrigidita e schematica. Le rappresentazioni della realtà si fanno incomplete e attraverso questa via si rilevano spesso fenomeni di idealizzazione delle persone significative, attraverso processi nei quali le raffigurazioni degli altri vengono depurate dai caratteri meno positivi. L'esclusione difensiva dalla consapevolezza di alcuni aspetti del mondo interno e della realtà percepita, meccanismo che Bowlby identifica come una delle principali forme di adattamento e difesa disfunzionali davanti a condizioni di crescita difficili, trova nell'organizzazione depressiva uno dei principali esempi di realizzazione. Quando l'utilizzo di strategie di dissimulazione avviene in modo consapevole e intenzionale, la coscienza di ingannare attivamente gli altri finisce per accrescere la sensazione della propria indegnità, alimentando circolarmente il meccanismo cardine dell'organizzazione depressiva. I meccanismi descritti portano inevitabilmente alla compromissione del senso di autenticità personale nelle relazioni. Va sottolineato che le strategie basate sul nascondere aspetti di sé e della propria vita nel caso di soggetti con organizzazione cognitiva in tipo depressivo vanno lette e rispettate come tentativi di raggiungere e mantenere uno stato di relazione con l'altro e di controllare ed evitare rifiuti e abbandoni. Sarebbe un errore considerarle motivate alla ricerca di potere sull'altro: sono sorrette da bisogni di cura e vicinanza, non da desideri di dominanza. Il problema dell'autenticità diviene centrale nello sviluppo dell'identità personale ed è destinato a diventare uno degli aspetti più significativi delle difficoltà relazionali e dell'eventuale sofferenza psicologica. La solitudine in cui viene a trovarsi la persona in crescita e l'impossibilità di chiedere serenamente aiuto e supporto prendono ragione del frequente sviluppo di un particolare atteggiamento noto come autosufficienza compulsiva, che consiste nella convinzione profonda di poter contare solo sulle proprie capacità per affrontare gli impegni e le difficoltà della vita. Le categorie dello sforzo e del sacrificio individuale guidano la percezione di Sé nella valutazione degli eventi della vita: il senso del valore di Sé viene costruito in buona parte sull'abnegazione e il valore delle mete da raggiungere è costruito sulla base dell'impegno che richiedono. Se la dimensione dell'aiuto non viene sufficientemente conosciuta come attenzione ricevuta, può essere conosciuta fornendo cura e supporto agli altri, fino a mostrare frequenti atteggiamenti di accudimento compulsivo: questo atteggiamento diventa particolarmente potente quando chi chiede aiuto è il genitore stesso, che si trova in difficoltà o è rimasto da solo per separazione o per morte del coniuge. In questi casi si assiste un'inversione del rapporto di attaccamento in cui il fanciullo, apprezzato per la compagnia e il sollievo che procura con le sue attenzioni, nella relazione con il genitore finisce con il rivestire un ruolo accudente. Il percorso che a partire da stili di attaccamento evitante si dispiega nella strutturazione di un'organizzazione di personalità depressiva, può manifestarsi con diverse modalità. Queste sono comunque accomunate da un identico modello sottostante: " io non sono degno di essere amato per le mie caratteristiche più autentiche: forse posso meritare un po' di stima se sto attento non dare fastidio, sei mi sacrifico e mi rendo utile per la felicità degli altri”. L'adolescenza Con ingresso nella fase adolescenziale l'immagine di Sé e la visione del mondo trovando sempre più gli strumenti cognitivi per trasformarsi in conoscenza esplicita e dichiarativa. Si delinea così la narrazione della propria storia in termini autobiografici, organizzata intorno ai temi di vita emergenti, e vengono formulate delle proprie teorie personali per attribuire significato alle sensazioni di inadeguatezza personale. Gli elementi che contraddistinguono la costruzione di significati sono la propensione a considerare gli aspetti negativi della realtà come quelli più rilevanti; la tendenza a non vivere le prove esperienze e i propri vissuti emozionali come esempi di un comune sentire umano, condivisibile; la mancata esperienza di sintonia e reciprocità viene a determinare una senso di profonda diversità dagli altri e di unicità personale definito da Reda solitudine epistemologica. Anche gli inevitabili conflitti sperimentati nel rapporto con i coetanei o le difficoltà vissute nella costruzione dell'appartenenza gruppi di pari sono vissuti come conferma del proprio isolamento: si amplifica la sensazione di incomunicabilità delle esperienze emotive personali e si limitano ulteriormente le possibilità di confronto e condivisione del proprio mondo interiore. L'esclusione dalla propria elaborazione di importanti elementi favorisce il completamento di processi di radicalizzazione delle rappresentazioni di Sé e degli altri, con l'esito di frequenti idealizzazioni o profonde svalutazioni. I genitori vengono in genere descritti attraverso definizione assolute, non articolate, completamente positive o completamente negative. L'equilibrio fra la ricerca di autonomia dei genitori e il bisogno di considerare l'ambito familiare come base sicura può essere disturbato con l'esito di differenti disregolazioni della distanza emotiva assunta rispetto alla famiglia. Si può assistere a distacchi drammatici, messi in moto dalla tensione all'autosufficienza e associati all'emergere di vissuti emotivi di rabbia e di squalifica verso i genitori stessi. Dall'altro lato si possono ritrovare bassi livelli di autonomia da parte dei genitori. Alla luce della teoria dell'attaccamento alcuni autori rilevano che gli adolescenti con attitudine all'isolamento, caratterizzati da modalità evitanti di attaccamento possono avere difficoltà a rinegoziare la natura del rapporto genitori-adolescente. Questo accade sia perché si aspettano che le loro nuove esigenze di esplorazione non vengano capite, sia per la paura di non riuscire a governare la rabbia in eventuali momenti di litigio. Per quanto riguarda altre aree della vita di relazione, i rapporti sentimentali scontano le gravi difficoltà nel giocarsi per intero in una relazione intima, legata alla sensazione di essere portatore di qualcosa di brutto e alla costante aspettativa di abbandono. L'avvicinamento una persona è possibile solo attraverso le strategie difensive descritte a proposito del periodo della fanciullezza. Il modo più probabile con cui le paure e i desideri personali più intimi possono essere comunicati, è quello rappresentato dagli scoppi di rabbia che accompagnano il prepotente emergere di bisogni di comprensione e le gravi delusioni dovuta alla momentanea caduta dell'idealizzazione dell'altro. Le aree più risparmiate dalle difficoltà rimangono quelle in cui è possibile muoversi per il raggiungimento di obiettivi socialmente apprezzati. Non di rado l'adolescenza di una persona organizzata i senso depressivo si riempie di impegni di natura diversa intrapresi con senso del dovere del sacrificio. Non sono l'esplorazione né l'arricchimento personale in termini relazionali e di esperienza a essere ricercati, ma piuttosto il riscatto delle parti di Sé meno nobili e accettabili e di rinforzo dell'immagine di Sé più apprezzata socialmente. Tutta una serie di impegni assunti possono rappresentare attività diversive volte in modo non consapevole ad allontanare selettivamente l'attenzione dall'esperienza dalle aree di vita che risultano più difficili da comprendere che da affrontare. La crescita e il miglioramento non sono visti come una progressiva graduale trasformazione di alcune attitudini disfunzionali, ma come vittoria sulla propria negatività. L'equilibrio viene ad oscillare fra la percepita condanna ad un’infelice solitudine e la sensazione di poter arrivare a meritarsi, attraverso la volontà e l'abnegazione, una vita felice. Importanti compromissioni del funzionamento sociale possono manifestarsi quando prevalga l'assestamento su posizioni rabbiose, oppositive e aggressive orientate a leggere le proprie vicende personali come esito dell'ostilità degli altri nei propri confronti. La maturità Strutturazione dell'identità personale e dell'attitudine verso la realtà Se non intervengono esperienze in grado di svolgere una funzione collettiva di schemi emotivo-cognitivi acquisiti e consolidati, i modelli di attaccamento e gli stili relazionali tendono a rimanere stabili. Per quanto l’esteriorizzazione degli atteggiamenti e la rapidità nelle oscillazioni fra polarità opposte di attribuzione di significato caratteristiche dell'adolescenza vengano ammorbidite dal progressivo arricchimento della visione della realtà, nell'età adulta ritroveremo i caratteri nucleari dell'organizzazione depressiva anche perché il modo di darsi spiegazioni di quanto avviene tende ad automantenersi perché diventa generatore di esperienze che lo confermano: la tendenza a selezionare gli elementi negativi nella percezione degli eventi della propria storia continua a mantenere un ruolo centrale nell'attitudine verso Sé e verso la realtà. Quando prevale l'assunzione su di Sé della totale responsabilità della propria situazione si assiste all'emergere di atteggiamenti autosvalutanti e sempre più rinunciatari. Quando in primo piano un'attribuzione di responsabilità ad altri si assiste all'assunzione di comportamenti rivendicativi e colpevolizzanti, non di rado connotati in senso aggressivo. In entrambi i casi il percepirsi attivi costruttori della propria esistenza passa attraverso il costante senso di dover lottare e l'oscillazione fra le due posizioni descritte rende ragione delle frequenti sensazioni di disperazione e di rabbia. Quando viene avviato un percorso terapeutico il tema della collera rappresenta un elemento importante nella gestione della relazione, all'interno della quale è possibile assistere a movimenti di critica e attacco verso il terapeuta, spesso difficilmente comprensibili nella loro genesi, apparentemente giustificati, emotivamente faticosi da affrontare. Talvolta il tentativo di tollerare la povertà di esperienza di supporto e accettazione ricevuta porta a una generale sottovalutazione degli aspetti emotivi dell'esistenza; questa posizione permette di considerare poco significative eventuali esperienze di rifiuto e abbandono e di tollerare i comportamenti degli altri che le hanno determinate. Ciò comporta però il rischio di un’ inaridimento progressivo delle proprie capacità affettive, di identificazione e di contatto emotivo. È interessante notare come quest'osservazioni siano compatibili con quanto rilevato nei pazienti depressi da alcune ricerche neurofisiologiche; Siegel riferisce che in soggetti depressi si è riscontrata una ridotta capacità di riconoscere espressioni facciali con valenza emozionale, associata ad una diminuzione del flusso ematico nell'emisfero destro. Egli postula che l'individuo depresso perda la capacità di utilizzare le informazioni emotive. Nei momenti di difficoltà personale il modello operativo interno con la correlata rappresentazione di Sé fa sentire la sua influenza nell'organizzare il comportamento relazionale intorno alle aspettative di rifiuto; nei casi più frequenti questo induce ad una ricerca attiva di solitudine, che rappresenta un tentativo di controllare e prevenire eventuali perdite. Ne consegue la strutturazione di rapporti nei quali l'attenzione all'avvicinamento è costantemente accompagnata dalla necessità di mantenere una distanza di sicurezza. Le condizioni che permettono il mantenersi di legami affettivi diventano quelle che consentono il veloce ripristino dell'autonomia completa; importanti ricadute negative sono frequenti anche sulle capacità di accudimento che possono manifestarsi con modalità molto diverse: nella tendenza alla negazione o alla sottovalutazione delle proprie capacità genitoriali, fino alla rinuncia alla maternità, minimizzazione dell'importanza della vita emotiva, soprattutto per quanto riguarda i sentimenti legati alla ricerca di cura e conforto. Accanto a questo stile inadeguato di accudimento non è raro assistere a situazioni più complesse, nelle quali il bambino è visto come possibile sollievo dalle proprie difficoltà emotive e relazionali; può succedere che in lui si ricerchino ascolto, compagnia e conferma del proprio valore e della propria amabilità, oppure che da lui e dal suo comportamento si desiderino dimostrazioni della propria capacità di educare. Sebbene siano diverse le dinamiche con cui l’organizzazione depressiva può interferire con le capacità di accudimento, esse convergono invariabilmente nel determinare un esito comune, rappresentato dalla riproposta al proprio bambino delle esperienze che hanno portato il soggetto alla strutturazione di un pattern di attaccamento evitante e di una rappresentazione di Sé come persona inadeguata e non-amabile (trasmissione intergenerazionale del pattern di attaccamento). Anche in altre aree della vita di relazione sono rintracciabili modalità di interazione che rimandano a caratteristici schemi interpersonali. Gli atteggiamenti di accudimento compulsivo che abbiamo incontrato come strategia di adattamento del periodo della fanciullezza si sviluppano nell'età adulta in scelte di professione di aiuto. La drammatizzazione del significato dei singoli avvenimenti spiega i frequenti cambi d'umore: anche un piccolo evento può diventare segno del proprio valore o disvalore attorno al quale costruire l'intera percezione di Sé. Queste dinamiche si accompagnano fra l'altro a una spiccata tendenza alla svalutazione degli obiettivi raggiunti tanto da neutralizzare il potenziale valore delle esperienze positive. Un'ulteriore ostacolo all'utilizzo di esperienze positive in senso correttivo viene dalle particolari modalità cognitive di lettura degli eventi, definita come lettura orientata all'interno o indipendente dal campo. Con questi concetti si fa riferimento al fatto che la costruzione del senso di Sé dipende poco dai segnali provenienti dalle persone significative. Il problema della sintomatologia e dello scompenso La maggior parte delle persone con organizzazione depressiva non sviluppa una sofferenza tale da richiedere interventi terapeutici di supporto. È possibile assistere al raggiungimento di un discreto livello di benessere; si possono incontrare persone caratterizzate dalla propensione aun'eccessiva responsabilizzazione personale, da un certo pessimismo nelle aspettative oppure da una qualche vulnerabilità del livello di autostima, ma con risorse individuali che permettono attribuzioni di significato abbastanza ricche, articolate e flessibili. In alcune situazioni però l'equilibrio raggiunto può essere scompensato da tutta una serie di eventi che la persona riesce ad integrare nel proprio sistema di significati solo considerandoli come esito della propria indegnità personale e come manifestazione della propria solitudine. Per quanto riguarda la natura di tali eventi è noto che essi sono riferibili ad esperienze vissute in termini di perdita e collegati alle aree emotive della separazione, della delusione, dell'abbandono del rifiuto. L'elemento che dota queste esperienze di un carattere particolarmente perturbante, è il fatto che esse appaiono non controllabili. Queste dinamiche sono compatibili con la teoria dell'impotenza appresa di Seligman. Questo autore ha dimostrato che alcune reazioni depressive sono legate alla dimensione dell'inaiutabilità e si sviluppano in seguito ad eventi negativi percepiti come inevitabili incontrollabili. In casi particolari l'evento disturbante è presentato da una sconfitta; è opportuno segnalare il punto di vista di Gilbert su alcune forme di scompenso depressivo, messe in stretta relazione con eventi, avvenuti o attesi, percepiti come sconfitte in interazione di natura conflittuale. In termini di sistemi motivazionali in questi casi si potrebbe parlare di un'attivazione privilegiata del sistema agonistico, funzionale a ridurre al minimo l'attivazione del sistema di attaccamento. L'evento ha talvolta caratteri tali da poter evocare sensazioni di tristezza e disperazione anche in persone con organizzazione di personalità non depressiva. La disperazione può svolgere una funzione adattiva nel portare persone vicine verso gesti di vicinanza e supporto; quello che caratterizza lo scompenso di organizzazione depressiva è l'intensità della sofferenza soprattutto la sua profondità e pervasività nell'investire il senso dell'identità personale e nel generalizzarsi a tutti gli aspetti della vita. Nei casi in cui si assista allo sviluppo di manifestazioni evidenti di sofferenza, questa si esprime attraverso una chiara sintomatologia depressiva, segnata da un'intesa tristezza che tende a spegnere le dimensioni più vitali dell'esistenza e che si accompagna a profondi sentimenti di auto-svalutazione, colpa e vergogna. Va notato che i pazienti con organizzazione depressiva possono arrivare all'osservazione del terapeuta durante i periodi di compromissione dell'equilibrio personale con altri quadri sintomatologici. Talvolta le emozioni vengono avvertite nei loro correlati somatici senza poter essere riconosciute come esperienze psicologiche. Non di rado la ricerca di sollievo dalla solitudine porta all'abuso di sostanze sedative e di alcol. Può accadere che questo comportamento rappresenti la parte più evidente del disagio personale; gli studi sulla correlazione tra attaccamento e attivazione emotiva nei campioni di bevitori hanno rilevato che le persone con attaccamento evitante-distanziante possono sviluppare una tendenza all'abuso di alcol non tanto per controllare le emozioni negative quanto per amplificare quelle positive. Il modo di determinarsi e di manifestarsi di uno scompenso può variare sensibilmente da persona a persona, a seconda delle strategie di adattamento privilegiate nel tentativo di controllare possibili eventi di perdita, rifiuto e abbandono. Tenendo conto di quei sospetti si possono distinguere due grosse categorie di soggetti: quelli prevalentemente oblativi e quelli prevalentemente distanzianti. 1-soggetti oblativi: la più importante strategia di controllo delle esperienze di perdita consiste nell'assunzione del ruolo di persona di supporto nelle relazioni significative. Gli episodi critici sono caratterizzati sostanzialmente da eventi di rottura e compromissione di importanti relazioni interpersonali, letti come conseguenza della propria inadeguatezza nella capacità di comprendere e soddisfare le necessità dell'altro. Altri avvenimenti potenzialmente negativi, qualora determinino l'allontanamento o la separazione da persone significative, assumono significati potentemente negativi nel rappresentare un gesto di abbandono. Le emozioni negative caratteristiche di questo tipo di scompenso sono legate all'esperienza di deludere o recare danno, e connesse all'indegnità per colpa. 2-soggetti distanzianti: il tentativo di controllo su eventi di perdita si realizza attraverso una costruzione attiva di lontananza relazionale e una generale svalutazione dell'importanza della dimensione emotiva nei rapporti interpersonali. La solitudine consiste nell'unica situazione percepita come prevenzione sufficiente di esperienze di rifiuto. In questi casi è il superamento di una soglia tollerabile di solitudine che diviene il nucleo centrale dello scompenso. Eventi di perdita e lutto possono generare una sofferenza devastante. Il proprio destino viene sentito come parte intrinseca del Sé e non correggibile: le sensazioni di impotenza e inutilità prevalgono sulla colpa. Quando la causa della propria felicità viene percepita nella negatività e nell'ostilità degli altri l'attribuzione di causalità all'esterno può produrre lo sviluppo di condizioni deliranti persecutorie; quando l'attribuzione è interna queste condizioni possono portare a quadri psicopatologici deliranti centrati su tematiche di rovina. Il gesto suicidario in alcuni casi diviene l'unica possibilità di riappropriarsi del controllo sull’esistenza. Le modalità con le quali viene sentito proprio, programmato e gelosamente tenuto nascosto sono una preziosa espressione autentica di sé, non solo si distinguono dalle azioni auto-lesive di richiamo dell'attenzione, ma anche lo connotano come estrema disperata realizzazione di un Sé ormai privo di altre possibilità di manifestazione autentica. Conclusioni Se le persone che presentano organizzazione cognitiva di carattere depressiva possono mostrare percorsi di vita del tutto diversi, quali elementi fanno sì che qualcuno possa evitare di incontrare sofferenze significative nella propria esistenza mentre altri possono mostrare gravi problematiche di ordine relazionale? Su che basi alcuni individui possono non attraversare mai momenti di crisi clinicamente rilevanti, mentre altri presentano periodi di marcato malessere depressivo? Dare una risposta questi interrogativi significa confrontarsi con la complessità spesso misteriosa della realtà clinica, e rinunciare ad alcune sicurezze nella spiegazione dei fenomeni psicopatologici. Guidano ha proposito di individuare gli elementi che consentono il mantenimento di una condizione di discreto benessere emotivo anche di fronte ad eventi perturbanti, e che proteggono dallo sviluppo di condizioni psicopatologiche conclamate, nelle modalità con le quali vengono individuati i propri significati personali. Considera come favorevole allo sviluppo di un buon livello di funzionamento complesso psicologico, il grado di astrazione, flessibilità e generatività con il quale l'individuo decodifica ed elabora gli eventi. Il termine astrazione indica la capacità di prescindere da elementi concreti, facendo riferimento a significati generali. Il termine flessibilità si riferisce alla capacità di modificare significato attribuito all'esperienza in corso al momento di inquadrarla nella propria costruzione narrativa. Il concetto di generatività si riferisce alla capacità di dispiegare nuove modalità di lettura di Sè e della realtà di fronte ad eventi perturbanti. Questa prospettiva considera normalità, nevrosi e psicosi come stati dinamici in relazione fra loro, lungo una linea che vede realizzarsi nella psicosi il massimo della concretezza, il minimo della flessibilità e della generatività e il crollo delle capacità di integrazione. La complessità dei risultati fa raccomandare una particolare attenzione agli aspetti diagnostici quando si intendano individuare correlazioni tra stile di attaccamento e disturbi depressivi. Le conseguenze delle dinamiche precoci di attaccamento dovrebbero essere viste con uno sguardo capace di cogliere la complessità rispetto a quanto si è fatto fino ad ora; le esperienze di attaccamento generatrici di modelli di Sé come persona non amabile possono non essere limitate a quelle di natura evitante. Anche esperienze di attaccamento di tipo resistente, destinato a determinare stili di attaccamento preoccupati nell'adulto, possono produrre incertezze e difficoltà per quanto concerne l'accesso alla disponibilità del genitore. La disorganizzazione dell'attaccamento risulta essere fortemente correlata a difetti delle capacità metacognitive che possono rendere conto della gravità della sintomatologia osservata in alcune condizioni cliniche, fino allo smarrimento di un senso integrato coerente di Sé nella produzione di drammatici quadri psicologici. Probabilmente i disturbi depressivi rappresentano fenomeni così eterogenei rispetto alle cause, alle manifestazioni e al decorso, da non consentire una lettura univoca della loro genesi e del loro mantenimento. Sono soprattutto quelli meno gravi a risultare significativamente correlati a esperienze di perdita problematiche relative all'attaccamento; ma anche altre esperienze di sicurezza dell'attaccamento, non solo quelle di natura evitante-distanziante, possono dar luogo a rappresentazioni di sé costruite sul senso di solitudine quando impediscono al bambino la strutturazione di una relazione stabile e affidabile con le figure di attaccamento. In ogni forma di insicurezza dell'attaccamento può essere implicito una specie nella percezione dell'amabilità o della competenza personali. La sintomatologia sarà tanto più grave quanto più si è stati esposti a esperienze favorenti la disorganizzazione. Capitolo 3 le fobie e il loro trattamento Che cos'è una fobia e che cos'è il panico La fobia è una costante e intensissima paura di un particolare oggetto, situazione o persona. In presenza di questo stimolo l'individuo teme di impazzire o di morire e sperimenta il panico, vissuto soggettivo di una fine percepita come imminente. Il soggetto organizza la propria esistenza nel tentativo di evitare le occasioni che possono innescarla. Paura La paura è un prodotto dell'evoluzione: discende dalla previsione di un possibile danno che prepara l'organismo ad affrontare il pericolo nel migliore dei modi, in nalzando il tono adrenergico: il cuore inizia a battere più rapidamente per irrorare di sangue i muscoli che servono al movimento, il respiro si fa più frequente per avere più ossigeno a disposizione, la cute diventa pallida perché il sangue è dirottato verso i muscoli con il doppio vantaggio di aumentare le prestazioni muscolari e ridurre il rischio di perderlo a seguito di una ferita cutanea, il tono muscolare aumenta fino a causare tremori, il tubo digerente sospende le sue attività, tutti i sensi aumentano la loro vigilanza sull'ambiente. Non tutte le persone hanno la stessa predisposizione a provare paura, ma si tratta di una componente essenziale del corredo genetico e una delle cinque emozioni di base, la cui espressione è transculturale, e quindi non appresa. Ansia L’ansia è una reazione di paura di fronte ad un evento che normalmente non viene considerato spaventoso. Il soggetto non è in grado di spiegarsela e la ritiene ingiustificata o perlomeno eccessiva e indesiderata. In realtà ad un'indagine più approfondita emerge il vero motivo per cui quell'evento è vissuto da soggetto come estremamente pericoloso: egli vede in pericolo il raggiungimento di alcuni scopi importanti. L' ansia non è immotivata e senza senso ma è causata da precise valutazioni, anche se esagerate e assolute, che trasformano qualcosa di apparentemente innocuo in un evento pericoloso per il soggetto. Nella paura il pericolo è presente, nello spazio e nel tempo, nell'ansia invece pericoli sono ipotetici distanti e per l'ansioso non c'è limite alle ipotesi negative, così che spesso si instaura una continuo rimuginio su quanto di sgradevole può capitare da oggi fino alla fine dell'esistenza, evento a sua volta motivo di grande ansia, soprattutto per di fobici. Ci sono almeno due aspetti disadattivi dell'ansia: la maggior parte dei pericoli situati nel futuro per i quali si sperimentano non sono molto modificabili e dunque il fatto di preoccuparsene non diminuisce la possibilità che essi si realizzi una e rovina il presente. L'altro aspetto consiste in un inopportuno dispendio di energia: non serve l'attivazione corporea che invece si rivela tanto importante nella paura che nel conseguente stato di allerta propizio comportamento di attacco e fuga. I pilastri della fobia e la loro genesi Opposizione tra esplorazione e attaccamento È esperienza comune trovare in anamnesi madre a loro volta fobiche, iper-protettive, ansiose, sempre preoccupate delle malattie e impegnata a mantenere in ogni modo il bambino vicino a sé. La figura di attaccamento può inibire il comportamento esplorativo, principalmente in tre modi: 1- diventando imprevedibile davanti al comportamento esplorativo del figlio che dunque viene preso dal dilemma: o conosco il mondo rinunciando alla mamma o sto con la mamma e rinuncio al mondo. 2- suggerendo al bambino la costruzione di sè come debole, malato e inadatto. 3- favorendo la costruzione del mondo esterno come ostile, pieno di incognite e di pericoli, quindi minaccioso. Il bambino che si confronta con una figura di attaccamento che mostra una tendenza a rendere inefficace il comportamento esplorativo verso il mondo finisce per ritenere incompatibili fra loro l'esplorazione e l'attaccamento. Il rischio di insorgenza della fobia è presente in entrambe le situazioni ed è dovuto proprio alla reciproca esclusione tra esplorazione e attaccamento: l'attaccamento sarà molto simile alla dipendenza, fondato su idee di inadeguatezza personale e difficoltà nell'affrontare da soli le insidie del mondo, l'esplorazione sarà una sorta di compulsiva fiducia in se stessi, che rifugge da ogni forma di legame. La scelta di privilegiare una modalità o l'altra è dipendente dal periodo di vita in cui si attuano le manovre di inibizione dell'esplorazione. Quanto più precocemente avviene tanto più il bambino sarà incline a privilegiare l'attaccamento in quanto più importante ai fini della sopravvivenza; se l'inibizione emerge più avanti, quando il legame è meno indispensabile, è possibile che il bambino vi rinunci pur di continuare ad esplorare. Nei fobici che hanno privilegiato l'esplorazione nella situazione premorbosa si può immaginare un cambiamento rilevante che un certo punto dell'esistenza ha cominciato a ostacolare l'esplorazione; se questa invece era già inibita in precedenza, la scelta sarà più facilmente orientata verso l'attaccamento. Il non riconoscimento delle emozioni Il secondo pilastro irrinunciabile, decisivo per lo scompenso lo sviluppo di un disturbo da attacchi di panico, è costituito dall'incapacità di riconoscere le proprie emozioni: senza di esso non si arriva alla drammatica esperienza del panico che consiste in una mancato riconoscimento dell'emozione di allarme, scambiato per un'imminente catastrofe fisica o mentale attivando una spirale a feedback positivo che si esaurisce soltanto per esaurimento del mediatore chimico. Le crisi di panico sono causate da erronee interpretazioni catastrofiche delle sensazioni corporee molti autori hanno avanzato osservazioni in questo senso, ma la difficoltà di questi pazienti a compilare un diario delle emozioni è stata riscontrata nell'esperienza clinica. Non solo questi individui sono in difficoltà nell'identificare i pensieri sottostanti ma mostrano un'incredibile incapacità nel riconoscere le diverse emozioni: il loro mondo emotivo sembra articolarsi in popolarità: una descritta come assenza di qualsiasi attivazione e l'altra definita come malessere che comprende tutte le altre emozioni. Paura, rabbia, e citazione, ansia, vergogna e persino sensazioni fisiche come stanchezza o freddo vengono etichettate tutte " come stare male ". Viene da chiedersi come mai il vocabolario motivo di questi pazienti sia così povero della capacità discriminatoria relativa alle emozioni così inibita. Se si ripercorre la storia di apprendimento del bambino spesso si scopre che i segni dell'attivazione neurovegetativa venivano regolarmente decodificati dei genitori come indici di malattia, debolezza, fragilità o come qualcosa di pericoloso da far cessare al più presto. I genitori non si preoccupano di conferire senso alle sue sensazioni, dando un nome alle emozioni sperimentate e aiutando il bambino comprendere il significato del suo stato interno, ma si limitano a commentarle modo preoccupato. Il bambino impara così che quando sperimenta l'attivazione emotiva intensa è in pericolo e deve farlo cessare immediatamente senza imparare ad usarla come un segnale ricco di informazioni su di sé, su gli scopi che quel momento sta perseguendo e sul suo modo di valutare l'andamento delle cose. In secondo luogo si ritrova di frequente un meccanismo che potremmo chiamare " impedimento alla solitudine ". Dalla fine del primo anno di vita al bambino inizia fare esperienza del proprio mondo interiore e a discriminarlo dalla realtà esterna. In questo modo inizia sperimentare la propria rabbia, proprio dolore, l'amore, la gratitudine, la colpa, l'angoscia: questo avviene con maggiore difficoltà se il genitore interviene immediatamente distogliendo l'attenzione del bambino dal proprio mondo interno. Il bambino rischia di essere continuamente invaso da un genitore che non gli concede spazi di solitudine. In sintesi il bambino candidato alla fobia sperimenta un doppio blocco dell’esplorazione: sia verso il mondo esterno che verso il mondo interno. Entrambi rimangono inesplorati e minacciosi. La storia del disturbo La personalità premorbosa I soggetti destinati a sviluppare una fobia negli anni precedenti all'esordio appartengono a due categorie diametralmente opposte: una prima categoria è quella dei soggetti che chiameremo dipendenti: sono individui che vivono nella continua preoccupazione di perdere l'affetto delle persone che hanno intorno senza le quali ritengono impossibile affrontare la vita. Sentono inoltre di valere così poco che gli altri prima o poi se ne accorgeranno e le lasceranno al loro destino di solitudine. La loro identità è costruita intorno all'idea di essere deboli e bisognosi del sostegno degli altri: fin da piccoli sono molto paurosi, tendono a stare in compagnia dei grandi piuttosto che dei coetanei, non si allontanano dai propri genitori e quando ciò avviene, provoca in loro estrema sofferenza. Temono i giochi in cui ci si può fare male e sono costantemente preoccupati di subire danni fisici. Non infrequente che manifestino la cosiddetta fobia della scuola, che consiste in un violento malessere fisico ogni mattina al momento di staccarsi dei genitori. Durante l'adolescenza il distacco da famiglia avviene solo parzialmente e con molte difficoltà. Questi soggetti evitano di allontanarsi da casa per lunghi periodi, i genitori rimangono il punto di riferimento principale e verso di loro si manifesta una fiducia assoluta. Il gruppo, l'amicizia, i legami affettivi restano in secondo piano rispetto al bisogno di appartenenza e di protezione da parte della famiglia. Hanno difficoltà a prendere decisioni e si affidano sempre a persone che ritengono più forti e mature. Con gli altri sono molto accomodanti ed evitano qualsiasi conflitto, sia perché ritengono di soccombere nello scontro, sia perché gli altri vanno tenuti buoni in quanto si potrebbe sempre aver bisogno di un loro aiuto. L'idea di essere fragili li spinge alla ricerca di sicurezza attraverso legami intensi con persone sentite come protettive e rinunciano quasi completamente all'esplorazione per privilegiare l'attaccamento. La seconda categoria di soggetti sono i cosiddetti autonomi: sembrano del tutto disinteressati alla ricerca delle cure e dell'affetto degli altri, mostrano fermezza di carattere e tendono a fare tutto da soli in qualsiasi circostanza. La loro identità è costruita intorno all'idea di essere forti e di doversela cavare da soli, senza mai avere bisogno degli altri verso i quali i sentimenti appaiono superficiali o inesistenti: non soffrono per i distacchi e non gioiscono per i legami. Il loro ideale è una persona capace di affrontare con freddezza e senza incertezze qualsiasi situazione. Nel periodo dell'adolescenza vivono attivamente, spesso lontano da casa e ottengono notevoli risultati: hanno molti amici e qualche storia senza mai un reale intenso coinvolgimento affettivo; appaiono centrati sugli obiettivi concreti che si sono prefissati e che perseguono con tenace razionalità senza mai farsi intralciare dall'emozione che sembrano ignorare del tutto, compresa la paura con cui più tardi faranno una drammatica e improvvisa conoscenza. Questo tipo di soggetto ha una concezione di sé come persona forte e ricerca attivamente la libertà da ogni legame. Il dilemma dei fobici si gioca lungo l'asse di queste due opposte dimensioni: da un lato alla ricerca della libertà che diventa solitudine, dall'altro la ricerca della solitudine che diventa costrizione. I soggetti di entrambe le categorie vivono la vita con il loro peculiare stile, fino a che un evento viene a turbare il precedente instabile equilibrio e di lì a poco si manifesterà improvvisamente la sintomatologia. La dinamica dello scompenso Perché si sperimenti ansia il sistema deve sentire minacciato uno dei suoi scopi ritenuti importanti: per attivare il movimento emotivo è indispensabile che ci sia la rappresentazione della possibile compromissione dello scopo. È necessario un evento attivante che procuri la rappresentazione della minaccia o dello scopo: quest'evento non deve per forza essere esterno ma può essere anche il pensiero o un'immagine interna. La percezione della minaccia di uno scopo dipende dalla valutazione della probabilità di andare incontro al fallimento: l'ambiente esterno può essere percepito di aiuto o di ostacolo al raggiungimento degli scoppi del soggetto aumentando o diminuendo le probabilità di successo. La stima del successo-fallimento dipende per buona parte della stima relativa alle condizioni ambientali lungo un continuum che va da favorenti a ostacolanti. La collocazione lungo questo continuum dipende da una doppia stima lungo altri due assi che misurano la potenziale ostilità-benevolenza dell'altro e il suo potere nel conseguire quanto il soggetto si prefigge: per un fobico il miglior accompagnatore sarà chi viene percepito come benevolente, in grado di fare qualcosa per lui. Al polo opposto si trova il passante qualsiasi che può non interessarsi per nulla malessere ed essere incapace di aiutare. In posizione intermedia stanno persone ritenute bendisposte ma non competenti tecnicamente. L'altro fattore importante è la stima delle proprie capacità. L'auto-efficacia è la capacità di raggiungere un certo scopo che il soggetto crede di avere. La valutazione relativa al proprio potere e a quello dell'ambiente sono in qualche modo complementari in quanto più di soggetto pensa che l'esito dipenda dall'ambiente, tantomeno si ritiene responsabile e viceversa. Gli eventi scatenanti Le categorie di eventi che hanno il potere di agire da detonatore sono quattro, due per i soggetti dipendenti e due per i soggetti autonomi. Soggetti dipendenti -invalidazione della polarità " attaccato ": questo è forse l'evento scatenante più frequente e anche il più facilmente riconosciuto. Il soggetto che si è costruito fino a quel momento come debole, a causa della morte o più semplicemente di una separazione subisce la perdita di una persona cara cui era molto legato e che costituiva una pila di sicurezza. È sufficiente che la perdita, pur senza verificarsi realmente, sia temuta. È importante distinguere quanto sperimentato da soggetto fobico dal normale dolore per una perdita che tutti gli esseri umani provano: egli non è tanto addolorato, o perlomeno non lo è più della norma, ma piuttosto spaventato all'idea di non farcela da solo. Il dolore c'è, ma ad essere decisiva è la paura. -invalidazione della polarità " debole ": l'equilibrio di questi soggetti può andare perduto anche in seguito ad eventi in apparenza positivi per la maggior parte degli esseri umani, come una promozione sul lavoro, il raggiungimento di un traguardo, la laurea e tutto ciò che il soggetto può vedere come la disconferma del modo con cui si era definito fino ad allora, vale a dire debole. Quello che mette in crisi non è tanto il fatto che l'evento sia giudicato negativo o positivo, quanto che non sia compatibile con la visione che il soggetto ha di sé stesso, incentrata sull'idea di essere debole e bisognoso della protezione degli altri. Soggetti autonomi -invalidazione della polarità " forte ": accade a questi soggetti a causa di malattie fisiche, soprattutto se si manifestano improvvisamente suscitando l'idea di una possibile debolezza invisibile, nascosta, sempre in agguato. Un caso frequente è l'incidente stradale in cui soggetto sperimenta improvvisamente la sua estrema vulnerabilità, alla quale sembra non avere mai pensato. Non è necessario che il danno fisico effettivo sia grave, quello che determina la svolta è fare per la prima volta i conti con l'idea della propria possibile vulnerabilità. Non è necessario che tutto ciò gli capiti direttamente, è sufficiente che succeda a una persona o che semplicemente vi assista e nella sua mente, per la prima volta, dice asse stesso: " potrebbe capitare anche a me ". -invalidazione della polarità " solo ": a produrre l'effetto destabilizzante può essere un fidanzamento, l'imminenza di un matrimonio, l'inizio di una gravidanza: qualsiasi evento insomma che impedisca al soggetto di continuare a pensarsi solo e libero come aveva sempre fatto. La paura di questi soggetti nei confronti dei legami affettivi si è creata nelle prime relazioni infantili in cui hanno imparato a non fidarsi dell'altro e quindi a contare solo su se stessi. Quando avvertono di essere sempre più coinvolti in una storia, si sentono minacciati e in pericolo. L'esordio della sintomatologia e il circolo vizioso dell'ansia non riconosciuta Quando il paziente fobico manifesta le prime crisi acute di ansia, gli eventi scatenanti che abbiamo descritto si sono verificati da poco tempo, in genere meno di un anno, ma egli non vi attribuisce un significato specifico, né alcuna responsabilità nell'insorgenza della sintomatologia. Una caratteristica specifica dei pazienti fobici è quella di avere un'estrema difficoltà di introspezione e quindi di sottovalutare la risonanza emotiva degli eventi e di loro significato psicologico. Dopo alcuni mesi dall'evento scatenante si presenta improvvisa, drammatica e inaspettata la prima crisi d'ansia che diventa una vera e propria esplosione, in quanto soggetto non è abituato a riconoscere le proprie emozioni e non pensa di avere una crisi d'ansia ma una serie di sintomi fisici che provocano un'indiscutibile malessere fisico che lo condurrà a morte nel giro di pochi minuti oppure alla follia definitiva. Un pensiero del genere non fa altro che aumentare i sintomi fisici dell'ansia, che a loro volta diventano ulteriore conferma della gravità del malessere in un circolo vizioso che continuamente si auto-alimenta. Quello che fa la differenza tra una crisi di paura e un attacco di panico è proprio questo: nella paura il pericolo è esterno, nell'attacco di panico il pericolo viene dall'interno, anche se è attivato da una situazione esterna. Chi ha la fobia dell'aereo ad esempio non teme che l'aereo cada: ha paura di non sopportare la situazione di trovarsi chiuso dentro l'aereo e venire assalito da malessere. Non è la debolezza dell'aereo a occupare il fobico, ma la propria debolezza personale. La conseguenza della crisi di panico è l’evitamento. Il soggetto inizia a evitare tutto ciò che assomiglia la situazione in cui è stato male e adotta una strategia di estrema prudenza, finendo per rinchiudersi in confini sempre più ristretti, fino a casi estremi in cui si barrica in casa. L’evitamento non è una strategia risolutiva e finisce per essere più invalidante. Il mantenimento (meccanismi a circolo vizioso) Provare un’ansia intensa non necessariamente comporta un'evoluzione verso un disturbo o più specificamente verso la fobia. Quello che avviene è che il soggetto mette in atto strategie che riducono la minaccia e la situazione ritorna nella norma. Perché l'evoluzione vada in direzione di un disturbo di ansia sono indispensabili alcuni elementi caratteristici: -il controllo: tra illusione, bisogno e obbligo Il costrutto del controllo si può definire come lo scopo finale di sistemi cognitivi fobici. Possiamo descrivere la formazione del costrutto del controllo a partire dalla selezione emotiva dei segnali negativi tipica dei fobici. In base a questa selezione, il soggetto fobico ritiene che i danni siano inevitabili, irreparabile e, in ogni caso, non si sente in grado di fronteggiarli e di sopportarli. Per il fobico l'alternativa è la sicurezza di evitare ciò che teme, monitorando uno ad uno gli aspetti o parametri della realtà. Si tratta della ricerca necessaria e obbligata, perseguita dal soggetto ansioso, dell'illusione di certezza assoluta che egli possa evitare in ogni caso e in ogni momento tutte le previsioni negative e catastrofiche che immagina durante il rimuginio, attraverso il controllo di alcuni parametri della realtà esterna e/o mentale. Il controllo è l'unica alternativa alla paura di una catastrofe concepita dai soggetti ansiosi e la condizione indispensabile per la loro tranquillità. Si rivela pertanto uno scopo obbligato. In realtà, anche i soggetti non fobici usano il controllo per mantenere la propria tranquillità, illudendosi di esercitare più controllo di quanto in realtà ne esercitino: in questo senso si parla di illusione di controllo, relativamente ad una percezione soggettiva di controllo che riduce l'ansia, ma che è una percezione fallace. Gli esseri umani sanno che su certe cose hanno poco potere e devono rispettare il corso di eventi. Paradigmatica è la consapevolezza della propria morte: evento sgradito e al tempo stesso inevitabile. Tutte le persone cercano di tenere sotto controllo gli elementi che concorrono a determinare esiti positivi e a evitare gli elementi giudicati negativi: se un risultato è ritenuto importante certamente si cercherà di influenzarlo. Ciò che caratterizza i soggetti destinati a sviluppare un disturbo di ansia è la concretezza che sia possibile e persino doveroso tenere tutto sotto controllo: hanno la convinzione che il tentativo di controllo possa essere assolutamente efficace se condotto con meticolosità e attenzione costante. La differenza è sottile ma decisiva: ciò che determina la patologia non è il desiderio di controllare l'andamento delle cose, ma la certezza di poterlo fare e l'obbligo di doverlo fare. Può sembrare che questo modo di pensare sia una forma estrema di auto-efficacia ma non è così. Nell'auto-efficacia il soggetto ritiene di avere il potere di influenzare positivamente gli eventi, compie una valutazione positiva riguardo a se stesso; nel caso dell'illusione di controllo il soggetto ritiene che sia possibile in assoluto controllo sugli eventi, ma di non essere in grado di farlo. Il tentativo di controllo assoluto è ovviamente destinato al fallimento, il soggetto ne ricava una sensazione di inadeguatezza personale. L'illusione di controllo non sta ad indicare che il soggetto ha dì sè un vissuto di onnipotenza, ma che ritiene l'onnipotenza la regola, qualcosa che si può raggiungere e che lui si rivela incapace di raggiungere. - l'errore metacognitivo Si tratta di una componente essenziale nella genesi e nel mantenimento delle fobie. Quest'errore trasforma l'ansia in un vero e proprio disturbo. Il problema fobico si crea nel momento in cui l'ansia non viene riconosciuta da soggetto stesso e da segnale di pericolo diventa un pericolo: tutti i disturbi ansiosi condividono una scarsa dimestichezza con le emozioni e in particolare un'incapacità di riconoscere l'ansia stessa. In questo modo si creano circoli viziosi che auto- alimentano il disturbo: l'ansia e i sintomi somatici che comporta non vengono interpretati come segno del timore che un certo evento temuto accada ma come prova che l'evento stia già accadendo. Tutto ciò ha l'effetto di aumentare l'ansia e i suoi sintomi e si trasforma nella conferma di ciò che si teme. Il soggetto con disturbo da attacchi di panico è spaventato dall'idea di avere un infarto e tale paura si intensifica quando con la sua attenzione selettiva avverte piccoli segnali corporei o quando pensa di trovarsi in una situazione in cui non potrebbe essere soccorso. Scatta così la trappola: non riconosce la paura ma avverte i sintomi fisici della paura (l'affanno, la tachicardia ecc.) e li interpreta come prova del fatto che si sta sentendo male e il temuto infarto si sta avvicinando. Questo pensiero agisce da moltiplicatore e conseguentemente i sintomi fisici della paura aumentano confermando che è giunta la sua ora. Il fobico sociale è preoccupato di fare brutta figura di fronte agli altri e questo lo spaventa producendo i sintomi dell'ansia: inizia a sentirsi tremare, bianco come un cencio e sarà terrorizzato all'idea degli altri lo vedano in quello stato: ha paura che su di lui venga formato un giudizio negativo e l’espressione fisica dell’ansia rende tale giudizio più probabile e attuale, La cosa grave per questo tipo di fobico è proprio l'essere giudicato pauroso. Il soggetto è assolutamente concentrato sull'immagine di sé che pensa di dare agli altri e non bada più a tutto il resto. Possiamo dire che un elemento indispensabile perché l'ansia si trasformi in un disturbo ansioso è il mancato riconoscimento dell'ansia stessa, che da segnale di pericolo diventa pericolo. -la tendenza a previsioni catastrofiche Questo elemento porta il soggetto a considerare sempre l'ipotesi peggiore: quest'atteggiamento ha un valore adattivo in quanto si configura come una strategia potenziale per evitare che accada quanto si teme. l fobici vedono pericoli dappertutto: la cosa deriva proprio dall’attenzione selettiva che essi sviluppano per prevenire pericoli, a partire dalla sensazione della propria fragilità: il risultato è la percezione di un ambiente costantemente minaccioso. Sperimentano in modo costante un'attivazione di allarme e su questa costruiscono un ragionamento paradossale di conferma del tipo: " se ho paura dev'esserci un pericolo ", utilizzando un meccanismo cognitivo noto come ex consequetia reasoning. -il rimuginio Gli esseri umani pensano continuamente a come realizzare gli scopi che sembrano loro rilevanti, soprattutto quando ne percepiscono minacciato il raggiungimento. Il rimuginio è una forma di pensiero particolare, un fenomeno psicologico che nella letteratura anglosassone viene designato con il termine worry, o rumination. I due termini inglesi sono sostanzialmente intercambiabili. Secondo alcuni autori le caratteristiche del rimuginio sono tre: 1- la predominanza del pensiero verbale di valore negativo; 2- l’evitamento cognitivo; 3- l’inibizione della processazione?? emotiva. Il primo punto mette in luce del rimuginio la predominanza quantitativa del tempo dedicato ai possibili eventi negativi futuri, o predominanza di previsioni negative. Quest'attività è prevalentemente del tipo verbale, coinvolge poco l'immaginazione visiva. Sarebbe questa predominanza del pensiero verbale a fare del rimuginio un processo potenzialmente psicopatogeno. Gli autori giustificano teoricamente tale conclusione facendo notare come il pensiero verbale che riguarda materiale emozionalmente carico stimoli una risposta cardiovascolare meno forte rispetto all'immaginazione visiva vivida. Le persone userebbero spontaneamente la verbalizzazione come strategia di gestione dell'ansia e di disimpegno dal materiale emozionale troppo carico in grado di evocare sgradevoli risposte. L'isolamento neurofisiologico del sistema cognitivo-verbale permette la gestione razionale delle emozioni., ma può determinare stati maladattivi in cui l'inibizione protratta della processazione emozionale determinerebbe una persistenza delle stesse emozioni sgradevoli. Da questa definizione del rimuginio come distorsione maladattiva del pensiero verbale utilizzato come esitamento cognitivo delle emozioni negative si traggono una serie di considerazioni cliniche sugli scopi del rimuginio. -scopi dei rimuginio A breve termine, il rimuginio sopprime uno stato d'animo immediatamente sgradevole, cioè l'ansia semantica. L'immagine evocate nel rimuginio sono comunque meno vivide e concrete di quelle che si generano dall'attività mentale del non-rimuginio. A lungo termine il rimuginio è un tentativo di evitamento di eventi negativi ed una strategia di preparazione al peggio. Secondo Eysenk il rimuginio ha una fase di allarme, e a una fase di prompt, succederebbe una fase di elaborazione dei piani di gestione del pericolo. Sarebbe proprio la terza fase ad essere meno efficace, poiché un buon grado di concretezza nell'elaborazione mentale delle informazioni è cruciale nella formulazione di piani efficaci, e nel rimuginio viene a mancare questo aspetto e si determina appunto la mancata elaborazione di piani efficaci. Di conseguenza la minaccia non sparisce ma il rimuginio permane e riduce il pensiero alla funzione di soppressione dell'ansia. Borkovec, Ray e altri sostengono che il rimuginio avrebbe lo scopo di distrarre da previsioni negative. Questi autori notano come soggetti rimuginatori abbiano una rete di associazioni di eventi previsti negativi molto più ricca dei soggetti normali. I soggetti con disturbo d'ansia generalizzato rispondono in effetti affermativamente alla domanda se il rimuginio serve loro per non pensare a possibilità ancora peggiori. In altri casi il rimuginio si presenta non come soluzione pratica ma come una sorta di preparazione psicologica al peggio, uno scudo emozionale. Un'altra forma di rimuginio è quello ascopico, caratteristica delle patologie ansiose gravi e croniche, che si osserva quando i pazienti riferiscono di non avere idea del perché rimuginino sempre e di non riuscire a controllare questo fenomeno. Ciò che conta è la scoperta che il soggetto rimuginatore è un soggetto con una rete di previsioni negative più ampia del soggetto normale. Secondo Vasey e Borkovec non si è mai pienamente coscienti di tutte le paure sottese al timore immediato che ci preoccupa al momento. Alcuni soggetti, se indotti, mostrano una rete di paure sottostanti molto ampia. È possibile che alla base dello sviluppo delle fobie vi sia proprio questa capacità. In conclusione, i rimuginio è un tipo di attività mentale che svolge un ruolo di mantenimento nel gruppo di disturbi ansioso-depressivi. È un processo, una modalità dell'attività mentale, ma ha anche degli scopi, alcuni a breve e altri a lungo termine. Gli scopi del rimuginio sono: -tranquillizzarsi; -risolvere i problemi; -non pensare a guai ancora peggiori; -sopportare i guai quando arrivano; -rimuginio ascopico. È il rimuginio che rende inutile e disadattiva la tendenza a previsioni catastrofiche che avrebbe perfino un significato adattivo, se desse origine a un attento problem-solving. Ma il rimuginio sostituisce il problemsolving, proprio in una mancanza di alternative rispetto agli scopi che sono in gioco, alternative che esigono di venir costruite. -l'evitamento quelle di esitamento sono strategie caratteristiche con le quali il sistema cognitivo può ridurre o eliminare gli effetti di una invalidazione che colpisce una credenza con alto valore epistemico. Sono state identificate quattro modalità tipiche (esplorazione, evitamento, ostilità, immunizzazione) che sono state messe in relazione con la storia di attaccamento dei soggetti: il loro carattere patogenico emerge quando questi meccanismi diventano pervasivi, coatti e stereotipati e rendono sistema del tutto impermeabile alle invalidazioni in certe aree. L'importanza di saper riconoscere tali meccanismi è evidente in quanto rappresenta un modo in cui il soggetto si blocca sulle posizioni di sofferenza e si impedisce di cambiare e di prendere atto della realtà. Lo stile di conoscenza caratteristico dei fobici e l'evitamento, che si applica al mondo interiore e a quello esterno. Allo scopo di mettere in atto le strategie di evitamento e di controllo, si attiva una costante attenzione selettiva verso quegli stimoli che potrebbero essere considerati pericolosi e così il mondo appare ancora più denso di minacce: per l'attenzione selettiva l'evento temuto è sperimentato come più probabile di quanto sia in realtà. Poiché l'evento temuto normalmente non si verifica, la cosa viene attribuita a comportamenti protettivi, di evitamento e di controllo che dunque vengono rinforzati. Il soggetto con attacchi di panico che non si espone a certi stimoli resta convinto che se lo avesse fatto sarebbe stato assalito dal terrore e probabilmente sarebbe morto e che la sua salvezza è affidata proprio l'attenzione con cui evita determinate situazioni. L'evitamento impedisce di mettere in discussione le credenze disfunzionali alla base della sofferenza e costituisce la strada maestra per il suo mantenimento. Il soggetto con disturbo da attacchi di panico che si percepisce fragile, evitando qualsiasi attivazione ansiosa, non potrà mai cambiare idea sulla propria fragilità. L’ evitamento e il rimuginio creano congiuntamente un circolo vizioso particolare e specifico che tende ad allontanare l’evento temuto, a non avvicinarsi ad esso né con il pensiero né con i fatti e dunque a mantenerlo sempre privo di implicazioni, sconosciuto e impensabile. Più esso resta ignoto più è spaventoso, in un circolo vizioso che va interrotto in terapia. Ciò che costituisce un elemento decisivo per lo sviluppo di un disturbo d'ansia è la mancanza di scenari alternativi, il che non necessariamente è connesso al coefficiente di valore dello scopo stesso, ma alla sua importanza. Tutti sperimentiamo un'emozione di allarme quando un nostro scopo importante è in gioco e questa reazione è proporzionale all’importanza dello scopo: a determinare lo sviluppo di un disturbo d'ansia è l'altra dimensione, l'irrinunciabilità dello scopo stesso ,che consiste nella mancanza di scenari alternativi rappresentati nella mente. Le conseguenze Una volta che disturbo fobico si è instaurato la vita del soggetto si modifica in modo sostanziale e si modificano le sue relazioni e la sua idea di sé. Una parte consistente del tempo della sua giornata è assorbito da pensieri e comportamenti connessi all'evitamento dell’evento temuto: questo peggiora la capacità di far fronte ai compiti della vita quotidiana e comporta un aumento costante della fatica. Le persone che il soggetto fobico ha vicino si mostrano in un primo momento comprensibile ma progressivamente tendono a stancarsi, a sentirsi impotenti e inutili, quindi anche i rapporti affettivi si deteriorano. A questa tendenza al peggioramento dei legami fanno eccezione quelli che si fondavano su presupposti disfunzionali di reciproca assistenza che però non fanno altro che rinforzare le condotte patologiche. Il soggetto vede la sua vita mutata drammaticamente in negativo e spesso se ne attribuisce la responsabilità e dunque di frequente subentra una depressione secondaria sostenuta sia da una vera e propria perdita della qualità della vita, sia da un decremento dell'autostima. In questa fase generalmente pazienti arrivano a formulare una richiesta psicoterapeutica. La terapia Chi manifesta una fobia si presenta allo psicoterapeuta con tutti o alcuni di questi sintomi: 1- ha paura di qualcosa che fa di tutto attivamente per evitare di incontrarlo. 2- riferisce di non riuscire a fare una serie di cose che prima era in grado di portare a compimento perché potrebbe sopraggiungere un possibile malessere. 3- ricorda nettamente il momento in cui tutto quanto è iniziato; al contrario di molti altri disturbi la fobia ha una data e un'ora di inizio, prima delle quali il soggetto riferisce uno stato di assoluto benessere. 4- dall'inizio della sua sofferenza si è recato molte volte d'urgenza al pronto soccorso dove gli è stato praticata una fiala di ansiolitico ed è stato immediatamente dimesso. Si è fatto visitare da molti specialisti che dopo molti esami lo hanno inutilmente rassicurato sul suo stato di salute. 5- la sua vita attuale è paralizzata da crescenti limitazioni: ha rinunciato a molte attività per evitare di rivivere quella terribile esperienza di morte imminente che, nonostante si possa essere verificata anche poche volte, lo costringe ad un continuo tentativo di evitamento. Il paziente è certo che il merito di aver tenuto lontano questa esperienza sia del suo comportamento. 6- se il disturbo è presente da molto tempo, spesso si è sviluppata una depressione secondaria dovuta alla constatazione della propria impotenza a risolvere il problema, all'inefficacia dei tentativi terapeutici e al fallimento delle proprie aspettative esistenziali: il tutto aggravato dall'autocolpevolezza rispetto al proprio stato, incentivato dalle persone che il fobico ha intorno e che continuano a dirgli che deve farcela da solo, lasciando intendere che la sua sofferenza è una specie di capriccio. L'intervento terapeutico è un intervento sulle credenze o sui meccanismi di funzionamento del sistema che sono esprimibili come credenze metacognitive. Consisterà essenzialmente nell'identificare e rimuovere le credenze che costituiscono un ostacolo al cambiamento, piuttosto che nell'indicare la direzione del cambiamento. La prima operazione consiste nell'acquisizione di distacco critico e consapevolezza dei propri problemi e dal proprio modo di funzionare: si tratta di un'operazione che viene messa in atto da tutte le psicoterapie ed è un incremento della metacognizione. Il soggetto, invece di limitarsi a vivere i problemi e le sofferenze di cui si lamenta, si osserva mentre ciò avviene, rendendosi conto di quali siano le situazioni che scatenano il disagio, di quali pensieri gli passino per la testa, di quali siano gli scopi irrinunciabili che muovono il suo comportamento e attivano le sue emozioni. Questo osservarsi dall'esterno fa sì che si sviluppi un punto di vista che si colloca fuori dal problema presentato. Avere consapevolezza delle credenze e degli scopi che regolano il proprio stare al mondo è la premessa indispensabile. Nel caso dei pazienti fobici il primo passo è rendere consapevoli dell'idea di fragilità che essi hanno e di come ciò comporti la visione di un mondo pieno di pericoli; questa convinzione li porta sviluppare un’attenzione selettiva verso tutti segnali provenienti dal proprio corpo, in particolare dalla regione cardiaca, attribuendo loro un significato patologico. Tra questi segnali ci sono principalmente le emozioni che non vengono riconosciute come tali ma come segno di malessere attivando un circolo vizioso in cui la paura non riconosciuta genera paura, fino al vero e proprio panico. È importante informare adeguatamente il paziente sul funzionamento del cuore e sui sintomi fisici che la reazione di allarme genera. Il paziente inizia a rendersi conto che il malessere non lo assale all'improvviso ma è generato dai suoi pensieri e in particolare delle sue previsioni di pericolo. Spesso si chiede al paziente di tenere un diario delle sue esperienze emotive collegandole inizialmente agli eventi vissuti e successivamente ai pensieri e alle valutazioni sugli eventi stessi. Per ciascun emozione il paziente dovrà trovare un nome e valutarne l'intensità e la durata. Quando il paziente sarà pienamente convinto che ciò che sperimenta altro non è che ansia, sarà in grado di dare inizio all’esplorazione per riconquistare territori perduti e al tempo stesso familiarizzare con l'ansia per non percepirla più come un pericolo mortale ma semplicemente come un segnale delle sue previsioni catastrofiche. L'intervento sull’evitamento prevede una serie di passi in successione. Innanzitutto è importante che il paziente prenda consapevolezza dell'estensione degli evitamenti che mette in atto di cui spesso non è cosciente. Il secondo passo consiste nel valutare il costo soggettivo di questi comportamenti per creare una motivazione ad abbandonarli; il soggetto mette in atto il singolo comportamento di evitamento secondo un bilancio costi-benefici all'apparenza vantaggioso in quanto l'evento che tende scongiurare appare come disastroso, ma non tiene conto del fatto che gli evitamenti accompagnarono sempre delle rinunce che acquistano una rilevanza enorme. A questo punto sarà possibile illustrare lo svantaggio dei comportamenti di evitamento e come essi tendono ad auto-perpetuarsi sia perché producono un momentaneo sollievo dall'ansia, sia perché viene loro attribuito il potere di avere comunque conseguito il risultato sperato, risultato che invece si sarebbe raggiunto indipendentemente da quel comportamenti. Solo dopo aver compiuto un tale percorso il paziente sarà motivato a lavorare per ridurre ed eliminare gli evitamenti e ciò verrà fatto con dei compiti di esposizione alle situazioni temute che potranno essere sia in immaginazione che in vivo, prima con la guida del terapeuta e poi svolti autonomamente. È indispensabile discutere in seduta i risultati dell'esposizione per aiutare il paziente ad accorgersi del mondo in cui le sue credenze disfunzionali sono state invalidate dall'esposizione. Per accettare il rischio di esporsi alle situazioni temute occorre mettere in discussione l'illusione di controllo: tale intervento ha come scopo la perdita dell'onnipotenza, l'accettazione della propria finitezza e in sostanza l'accettazione del fatto che ciò che più si teme rientra tra gli eventi possibili. Il primo passo consiste nel rendersi conto di quanto questa idea sia pervasiva; successivamente si chiede al soggetto quanti sono gli elementi che concorrono a determinare un evento e si esamina per ciascun elemento quanto lui sia in grado di influenzarlo e quale sia il costo di questo tentativo. Occorre poi esaminare tutte le situazioni in cui il soggetto ritiene che il suo controllo sia stato decisivo nell'evitare la catastrofe, per scoprire che con tutta probabilità essa non sarebbe avvenuta ugualmente; allo stesso tempo si analizzano le situazioni in cui il suo tentativo di controllo è stato inutile e inefficace. Un'attenzione particolare va dedicata alle valutazioni secondarie che il soggetto formula sul suo stile controllante; è possibile che si dica che se non controlla si dimostra irresponsabile e dunque colpevole, oppure che si valuti dicendosi che in realtà è possibile controllare tutto, ma che è lui che non è in grado di farlo. A volte è utile ricostruire momenti centrali dell'esistenza sua e della sua famiglia per scoprire come spesso siano stati determinati dal caso e talvolta un evento giudicato negativo sia stato foriero di evoluzioni fortunate. Si tratta quindi di impegnarsi a fondo per modificare le cose che sono modificabili e saper accettare quelle che non lo sono, soprattutto di imparare a distinguere tra le due. L'auto-osservazione permette di evidenziare i costrutti che saranno al centro dell'intervento e che nel paziente fobico riguarderanno quelli relativi alla sua fragilità e a un ideale di forza che significa assenza di emozioni; nonché quelli relativi alla sua idea di essere bisognoso dell'aiuto degli altri e fatalmente costretto a dipendere da loro in contrapposizione all'idea di assoluta dipendenza e libertà. Queste operazioni di rimozione dei costrutti disfunzionali è compiuto solo quando questi costrutti siano stati identificati del terapeuta ma anche dal paziente, che ne dovrà individuare il carattere patologico oltre che quello sintomatico. Molteplici sono le strategie terapeutiche per affrontare questi costrutti. Forse la più importante è la ricostruzione della storia di apprendimento dei costrutti disfunzionali; si tratta di scoprire il contesto in cui è avvenuto l'apprendimento, come si sono verificati i successivi rinforzi e ricollocare il costrutto correttamente nel tempo nello spazio. È molto importante far comprendere al cliente che l'idea che oggi lo fa soffrire non è stata generata per caso ma che in un certo contesto aveva una ragion d'essere che ha avuto un significato adattivo: il guaio è successo quando questa interpretazione della realtà è stata assolutizzata, non più sottoposta critica e applicata in contesti diversi da quelli in cui ha senso. Il mantenimento di antiche idee sussistessi sul mondo, divenute via via sempre più disfunzionali, è ottenuta attraverso un atteggiamento in cui sono state selezionate solo le informazioni e le esperienze che rinsaldano l'ipotesi di partenza ed escluse le altre che sarebbero state falsificanti. Un'altra tattica, che è utilizzabile anche con soggetti non abituati alla riflessione sui problemi, è la falsificazione per sperimentazione. Il costrutti si generano dalle esperienze reali vissute e non c'è alcuna ragione che con esperienze diverse le stesse credenze non possano essere messe in discussione e falsificate; a meno che non si tratti di situazioni deliranti, le esperienze dissonanti rispetto ai nostri schemi non vengono solo assimilate a quegli schemi ma comportano un loro accomodamento. Il terreno migliore per la falsificazione dei costrutti disfunzionali è la stessa relazione terapeutica: il terapeuta deve osservare quanto accade tra lui e il paziente, consapevole che con il suo comportamento può validare gli schemi relazionali che il paziente gli propone. I vecchi costrutti saranno messi in discussione e abbandonati solo se se ne generano degli altri atti a sostituirli. Quest'operazione consiste essenzialmente nel costruire alternative praticabili alle vecchie modalità di pensiero e di essere. Il paziente teme di abbandonare certe idee centrali perché non immagina neppure lontanamente cosa ci possa essere oltre e in terapia è indispensabile costruire scenari di possibilità concrete dove prima il paziente non vedeva nessuna possibilità e la sua immaginazione si arrestava di fronte al terribilmente sconosciuto. In questa parte della terapia il paziente è sollecitato a inventare nuovi panorami, esplorare territori sconosciuti e immaginare possibilità in pensare e di essere percorrendo tutti i gradi possibili di libertà imprigionati nelle vecchie credenze. Lo strumento più idoneo dipende dalle capacità e dalle preferenze del soggetto e spesso è lui stesso a suggerirlo. CAPITOLO 4 IL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO Il disturbo ossessivo-compulsivo nel DSM IV Il DSM IV sottolinea due caratteristiche principali del disturbo ossessivo compulsivo: la prima è la frequenza, la ripetitività e la persistenza dell'attività ossessiva, la seconda è la sensazione che quest'attività sia imposta e compulsiva. Il disturbo ossessivo-compulsivo non si accompagna in modo significativo al disturbo ossessivo-compulsivo di personalità: numerosi disturbi di personalità si accompagnano disturbo ossessivo-compulsivo, e questo fa dubitare che esista una tipologia personologica caratteristica del disturbo, anche se il tema della colpa e del disprezzo sembrano significativamente presenti nella vita dei pazienti. II più frequente disturbo di personalità che si accompagna al disturbo ossessivo-compulsivo è il disturbo evitante. È da dubitare che il disturbo ossessivo-compulsivo, così come è descritto nel DSM IV sia una tappa che porta alla schizofrenia. Non raramente le idee ossessive presentano una resistenza alla critica simile alle idee deliranti; ma di solito questa resistenza si alterna all'introspezione critica. La critica all’idea ossessiva è oscillante e dipende dalla distanza dallo stimolo temuto, dalla durata del disturbo e dallo stato d'animo di base. L'idea ossessiva è diversa da quella delirante perché non ha per il paziente la stessa auto-evidenza e il paziente ha un rapporto più mediato con essa. Tuttavia sono possibili deliri ossessivi, ad esempio di colpa, sostenuti da gravi disturbi dell'umore. La prima questione sollevata da ossessioni e conpulsioni è la loro stessa natura: si tratta dell'espressione di un danno neurale, della conseguenza di un deficit cognitivo, della risultante di condizionamenti classici e operanti o di un'attività finalizzata raggiungimento di scopi alla soluzione di problemi? Il cognitivisti clinici attualmente propendo per questa possibilità che soleva almeno altri quattro problemi. -i determinanti dell'attività ossessiva: quali scopi e quali rappresentazioni la regolano? -il mantenimento del disturbo: se si tratta di un'attività finalizzata perché il paziente non la interrompe e non la modifica? -la vulnerabilità: quali esperienze hanno reso il paziente vulnerabile al disturbo? -lo scompenso: come e perché avviene che una persona, da uno stato di sostanziale benessere, si ritrova preda di questo disturbo? È possibile distinguere due approcci di tipo cognitivista al disturbo ossessivo-compulsivo. Il primo ricorre a spiegazioni in termini di disfunzioni neuropsicologiche e cognitive di base. Rientrano in questa prospettiva di studi sula tendenza al iper-categorizzazione dell'esperienza, i deficit delle funzioni esecutive e della memoria visuospaziale. Particolare attenzione ha ricevuto l'ipotesi del deficit mnestico; numerose ricerche hanno rilevato che nel paziente ossessivi non vi è però un deficit di memoria, quanto una scarsa fiducia nelle proprie capacità mnestiche, e che tale sfiducia si accentua drasticamente in caso di controlli ripetuti. Un secondo processo si muove sul piano delle spiegazioni che fanno riferimento alle intenzioni dell'individuo. Si ritiene che l'attività ossessiva sia finalizzata a raggiungere gli scopi del paziente e che sia regolata dalle rappresentazioni che egli ha di se stesso e della realtà. Se si usa il piano di spiegazione personale, allora è possibile descrivere il profilo interno dell'attività ossessiva e distinguere cinque parti: 1- nella prima collochiamo l'evento che innesca l’attività ossessiva: può essere un fatto concreto, oppure un pensiero o una sensazione. 2- nella seconda la valutazione che il paziente fornisce all'evento ( prima valutazione ). La valutazione è di minaccia incombente, grave, inaccettabile ma fronteggiabile. La minaccia può presentarsi in due modi: o come timore di colpa per irresponsabilità, o come timore di contaminazione da parte di sostanze disgustose. 3- nella terza vi è tutto ciò che il paziente fa, intenzionalmente o automaticamente, per fronteggiare, prevenire o neutralizzare il problema che per lui è posto dall'evento ( tentativi di soluzione di primo ordine ). Troviamo gli evitamenti, i controlli, le neutralizzazione (come i rituali di lavaggio), le richieste di rassicurazione, le ruminazioni. 4- il paziente valuta criticamente la sua preoccupazione, la sua attività e le loro conseguenze ( seconda valutazione ). La critica è per l'esagerazione delle proprie preoccupazione e provvedimenti, ma anche per i danni, o meglio per la responsabilità dei danni che la sua attività procura a sé stesso e agli altri. Anche nei casi di basso insight critico è presente la sensibilità alle accuse alla svalutazione che gli vengono rivolte dalle persone vicine a causa del suo disturbo. 5- il paziente agisce per contenere la sua preoccupazione e la sua attività ossessiva ( tentativi di soluzione di secondo ordine ). I pazienti ossessivi utilizzano diversi modi per cercare di contenere il disturbo, alcuni di essi sono funzionali, ma due sono talmente controproducenti e contribuiscono al mantenimento, sono quindi oggetto di intervento terapeutico e per questa ragione è importante riconoscerli. La prima modalità è di contrasto e consiste nel tentativo di sopprimere i pensieri ossessivi, mentre la seconda e il " più di prima ". L'evento critico L'evento critico può essere un fatto reale, un pensiero, un'immagine, una sensazione o un’emozione. Costituisce l'oggetto della prima attribuzione di significato. Nel disturbo ossessivo-compulsiva, rispetto ad altri disturbi d’ansia colpisce la frequenza e soprattutto l'imprevedibilità con cui l'evento critico può presentarsi al paziente. La frequenza e l'imprevedibilità degli eventi critici dipendono dal particolare impegno che il paziente sente di dover mettere nel prevedere-prevenire gli eventi temuti. La prima valutazione La prima valutazione è di minaccia: il paziente ritiene che l'evento critico sia il segno o la causa della compromissione di alcuni dei suoi scopi. Rispetto a quanto accade negli altri disturbi d’ansia, la peculiarità consiste nel nesso tra evento e compromissione e negli scopi compromessi. Il nesso tra evento e danno di solito è oggettivamente improbabile o inverosimile, ciò nonostante il paziente lo prende seriamente in considerazione, tanto che investe un’enorme quantità di tempo e energie per proteggersi continuando nella sua convinzione anche davanti a critiche e rassicurazioni che convincerebbero chiunque. Alcuni ricercatori hanno suggerito una risposta semplice: gli scopi coinvolti nelle paure degli ossessivi sono quelli che normalmente stanno a cuore a tutti noi. Molto spesso la vera ragione dell'ansia non è il contagio in sé, ma la responsabilità di evitare il contagio:se il problema fosse il contagio in sé, la consapevolezza dell'assoluta mancanza di un qualunque potere utile a prevenire il danno dovrebbe tradursi in un aumento dell'ansia, ma non è così. Il problema infatti non è il contagio stesso ma il timore di poter essere colpevole di non averlo prevenuto. L'idea che alla base del disturbo ossessivo-compulsivo ci sia un esagerato senso morale è antica. Nel 600 Taylor, il medico che per primo descrisse in modo scientifico il disturbo ossessivo-compulsivo, riteneva che alla radice del disturbo vi fosse una scrupolosità esagerata, un eccesso di religiosità e una spiccata attitudine alla preoccupazione morale. Altri studiosi hanno ripreso quest'idea. Freud nel famoso saggio " L’uomo dei topi " sottolineava la rilevanza del senso di colpa. Altri autori più recenti riprendono alcune osservazioni psicoanalitiche con una prospettiva cognitivista riconducendo il disturbo ossessivo-compulsivo ad una serie di convinzioni che sostengono una posizione onnipotente e di controllo, per cui il paziente si ritiene responsabile della prevenzione di possibili disastri. La tradizione cognitivista italiana fa riferimento al ruolo del rigore morale nella genesi e nel mantenimento del disturbo ossessivo-compulsivo. Ugazio ha approfondito gli aspetti relazionali del disturbo ossessivocompulsivo, tanto quelli attuali quanto quelli anamnestici, sottolineando come in questo contesto un ruolo fondamentale ha il conflitto tra una moralità desiderata, ma considerata mortifera è un'immoralità temuta, desiderata perché vitale. La letteratura cognitivista cosiddetta standard attribuisce un ruolo cruciale nello sviluppo nel mantenimento del disturbo ossessivo-compulsiva ad un senso di responsabilità particolarmente spiccato. Le prove empiriche Numerosi studi confermano il ruolo basilare rivestito dalla responsabilità nella genesi e nel mantenimento del disturbo ossessivo-compulsivo: è stata evidenziata l'esistenza di una correlazione tra responsabilità e comportamenti ossessivo-compulsivi, sia in soggetti clinici sia i soggetti non clinici o normali. Una serie di ricerche hanno dimostrato che il timore di colpa e l'elevato senso di responsabilità sono preduttivi della tendenza ad aver un'ossessione-compulsione Alcuni studi hanno confermato che la credenza di essere responsabili di ciò che potrebbe accadere è un criterio discriminante tra i pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo e soggetti normali o affetti da disturbi d'ansia. Le prove sperimentali Diversi studi sperimentali hanno dimostrato che la diminuzione della responsabilità, artificialmente indotta inl paziente ossessivi, si traduce in una diminuzione della preoccupazione e dell'urgenza di eseguire i rituali. Alcuni autori, manipolando la responsabilità percepita dai pazienti tramite consegna, hanno dimostrato che l'angoscia e l'urgenza registrate dagli stessi riguarda alle compulsioni diminuivano significativamente. Interessanti appaiono i risultati delle ricerche che prevedevano la manipolazione della responsabilità del timore di colpa in soggetti non clinici; è emerso che l'incremento del senso di responsabilità e soprattutto del timore di colpa, induce in soggetti normali comportamenti simil-ossessivi, come esitazioni, controlli ripetuti e prolungati, reazioni emotive corrispondenti a quelle riferite dai pazienti ossessivi come intollerabile senso di incertezza, dubbiosità e ansietà. La mente del timoroso di colpa per irresponsabilità Per mettere a fuoco gli ingredienti di questo stato mentale è utile paragonarlo con tre altri stati mentali ad esso vicini: il senso di colpa per buona sorte, la cosiddetta credenza del pivotal Power, il timore di un danno del quale l’agente non si sente responsabile. Nella maggior parte dei sensi di colpa che si vivono quotidianamente tendono a mischiarsi due sensi di colpa prototipici: il senso di colpa per irresponsabilità da colpa e il senso di colpa per buona sorte. L'ingrediente necessario per provare senso di colpa per la buona sorte è il riconoscimento di una discrepanza tra le proprie fortune e quelle della vittima. Il secondo ingrediente è che questa discrepanza sia contraria ad un criterio morale di equità condivisa dal colpevole e che sia valutata come iniqua, ingiusta ed immeritata. L'esagerato senso di responsabilità tipico degli ossessivi è stato ricondotto alla " convinzione che si abbia il potere cruciale di causare o prevenire esiti negativi su oggetti emotivamente molto importanti. Questi esiti sono da prevenire. Essi potrebbero avere conseguenze nel mondo reale e/o a livello morale. Dalla definizione emergono tre determinanti cognitive specifiche dell'attività ossessiva: - la previsione di un possibile esito negativo; - attivazione allo scopo di pervenire all'esito; - convinzione di avere il potere di pervenire l’esito: il potere che l'ossessivo si riconosce sarebbe addirittura pivotal ( cruciale ). L’idea che l'attività ossessiva sia regolata da questo stato mentale si presta a diverse critiche. Come si spiega l' ipersensibilità dei soggetti ossessivi rispetto al senso di responsabilità nei confronti di eventi negativi ma non di quelli positivi? Perché l'attività ossessiva è preceduta e accompagnata dall'ansia? La convinzione di avere il potere di prevenire l'esito negativo dovrebbe accompagnarsi ad un forte senso di sicurezza; perché il paziente ossessivo cerca di prevenire l'esito concentrandosi sulla ripetizione di una o poche delle attività utili questo fine? Queste difficoltà si risolvono se si considera che lo stato mentale regolatore dell'attività ossessiva è costituito da ingredienti caratteristici del timore di colpa per irresponsabilità. Ciò rende ragione della simmetria tra responsabilità per esiti negativi e positivi: l'investimento del paziente è nella prevenzione di un'azioneomissione responsabile e non nel raggiungimento di esiti di cui potrebbe essere fiero. Così si spiega l'ansia, dovuta all'anticipazione della possibilità di usare male il proprio potere e di non essere all'altezza delle proprie responsabilità. Il timore di colpa per irresponsabilità spiega anche la ripetitività e la particolarità dell'attività ossessiva: l'ossessivo e più preoccupato della correttezza della propria performance che del risultato; l'importante è prevenire la possibilità di essere colpevole di non aver fatto tutto quanto il suo dovere, più che prevenire effettivamente un danno. Per il timoroso di colpa lo scopo è diverso: più che evitare il danno il timoroso di colpa ha lo scopo di agire in modo da non avere nulla di cui essere accusato. Il focus è sulla la propria performance, che deve essere moralmente irreprensibile. Timore di colpa e sovrastima della minaccia Numerosi studi hanno dimostrato che l'induzione di un forte senso di responsabilità e di un forte timore di colpa per irresponsabilità modifica dei soggetti la percezione del pericolo le aspettative di danno. Alcuni ricercatori hanno indagato in soggetti normali e clinici gli effetti dell'incremento della responsabilità della colpa sulla stima di probabilità di accadimento e sull'attribuzione di gravità di un esito negativo. Per quello che riguarda gli studi con soggetti non clinici hanno sperimentalmente dimostrato che l'attribuzione di gravità di un esito negativo aumenta se i soggetti si ritengono i principali responsabili dell'esito stesso. La stima della gravità dell'esito diminuisce se ritengono qualcun altro colpevole. Altri autori hanno osservato che in pazienti ossessivi la diminuzione indotta sperimentalmente del senso di responsabilità percepita per un esito negativo implica la diminuzione della stima di probabilità di accadimento dell'esito stesso. Sembra che la variazione del senso di responsabilità per un esito negativo implichi, in soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo e normali, variazioni sia nella stima della probabilità che del valore dell'esito stesso. Questo contribuisce a spiegare perché i pazienti ossessivi tengono a sovrastimare la minaccia, cioè a dar credito a possibilità improbabili e a immaginare catastrofi che invece sono semplici difficoltà. Timore di colpa e processo ingenuo di controllo delle ipotesi Il processo di controllo ingenuo delle ipotesi è normalmente guidato dagli stati intenzionali attivi nella mente del soggetto. Alcuni autori hanno raccolto evidenza empirica a favore delle ipotesi secondo cui gli esseri umani, in uno stato mentale di minaccia, se posti di fronte a ipotesi di sicurezza, tendono a falsificare le stesse ricercandone contro esempi. Di solito, se si trovano a controllare ipotesi di pericolo, tendono a confermarle. Recenti studi hanno dimostrato che l'induzione di un forte timore di colpa per irresponsabilità influenza, in soggetti non clinici, le modalità di controllo di ipotesi di sicurezza e di pericolo in modo peculiare, definito prudenziale. Nel modo prudenziale i soggetti normali resi timorosi di senso di colpa, devono controllare le ipotesi circa la conseguenza tra lo stato percepito e quello prescritto dalla norma morale: - si focalizzano sull'ipotesi peggiore, sia quando l'ipotesi peggiore è implicita e solo quella favorevole è esplicita, sia quando si trovano a poter scegliere tra un'ipotesi favorevole una sfavorevole entrambe esplicite. - ricercano una conferma delle ipotesi peggiori. - richiedono molte più prove per invalidare l'ipotesi peggiore che per mantenerla e questo probabilmente perché temono più l'errore di omissione dell'errore di commissione. Il modo prudenziale di controllare le ipotesi di pericolo spiega al fatto che facilmente gli ossessivi danno credito a ipotesi inverosimili che nascono da modi di pensare tipici dei pazienti con disturbo ossessivocompulsivo, come il pensiero magico e la fusione azione-pensiero e il pensiero-evento. Il modo prudenziale di controllo delle ipotesi rende ragione dell'intolleranza per l'incertezza tipica dei pazienti ossessivi laddove questa è correttamente intesa come timore di non saper gestire le emergenze improvvise, come intolleranza per i rischi, per le minacce, per l'approssimazione della propria condotta preventiva e non come intolleranza per l'incertezza di sè, cioè come bisogno di azzerare punti interrogativi e arrivare a una risposta. Il ragionamento emozionale Non si deve sottovalutare la mediazione indiretta esercitata dagli stati affettivo-emozionali. Dalla psicologia cognitiva sappiamo che le disposizioni affettivo-emozionali influenzano i processi cognitivi in diversi modi, capaci di rafforzare le assunzioni che sostengono lo stato intenzionale alla base di quello specifico assetto affettivo. Di particolare interesse è il caso in cui lo stato emotivo funziona come fonte di informazione, particolarmente autorevole nelle persone che provano cronicamente quello stato affettivo. Nelle ricerche condotte negli ultimi anni con soggetti affetti dei disturbi di ansia di autori hanno dimostrato che i soggetti tendono a inferire la presenza di un pericolo a partire dal corpo e da uno stato affettivoemozionale negativo, cioè dall'ansia. La fallacia legata a quello che gli autori definiscono ragionamento emozionale sembra giocare un ruolo di rilievo nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi di ansia. Il ragionamento sembra attivare un circolo vizioso in cui lo stato emozionale soggettivo viene utilizzato per vagliare pensieri e credenze relative alla presenza di pericoli o impedimenti, che a loro volta amplifica l'emozione di partenza. La propensione al ragionamento emozionale, rappresenta in questo senso un fattore di rischio per lo sviluppo dei disturbi. Cosa accade in presenza di uno stato emozionale caratterizzato da timore di colpa? I dati di alcuni di esperimenti recenti dimostrano che in soggetti normali, ma che tendono a sentirsi cronicamente in colpa, l'induzione di un senso di colpa attraverso il ricordo di colpe passate fa sì che i soggetti innalzino agli standard di valutazione e preferiscano scelte certe. Il contrario accade se si induce un senso di soddisfazione morale per se stessi. I pazienti ossessivi, sentendosi cronicamente in colpa, trattano il fatto di sentirsi in colpa come un'informazione per dedurre che si verificherà l'evento temuto. In modo analogo agli stati emotivi, anche il comportamento può essere la premessa di una conferma degli stati mentali che hanno motivato quel comportamento. Alcuni autori hanno dimostrato che nei pazienti ossessivi, il fatto stesso di agire in modo da prevenire il danno temuto incrementa la misura con cui soggetti si sentono responsabili della prevenzione dell'evento stesso. Entrambi i meccanismi facilitano la drammatizzazione dell'evento critico la resistenza al cambiamento delle credenze ossessive. Timore di colpa e fiducia nella propria memoria Sono state raccolte molte prove a favore delle ipotesi secondo cui il timore di colpa influenza direttamente i processi di valutazione delle proprie capacità mnestiche, sia in soggetti ossessivi che in soggetti normali. È stato dimostrato che se i soggetti sentono aumentare la responsabilità manifestano un’evidente diminuzione di fiducia nella memoria; se sentono invece diminuire la responsabilità recuperano la sicurezza nella capacità di ricordare. Secondo gli autori il legame tra lo stato affettivo-emozionale è caratterizzato dal timore di colpa e dalla sfiducia nella memoria è di diversi generi. I dati a disposizione indicano che: -l'attivazione ansiosa legata all'emozione negativa di colpa interferisce con la memorizzazione; -in caso di colpa, l'attenzione del soggetto è indirizzata verso la minaccia; -in condizione di minaccia gli standard di incidenza del ricordo adottati dal soggetto sono molto elevati; -la ripetizione dei controlli interferisce con la memorizzazione dei risultati. Timore di colpa e disgusto Abbiamo esaminato fin qui come il timore di colpa per irresponsabilità sia alla base della prima valutazione; di seguito vedremo come si regolano i tentativi di soluzione di primo ordine. In alcuni casi nel disturbo ossessivo-compulsivo, sia la prima valutazione che i conseguenti tentativi di soluzione sembrano riconducibili al timore di contaminazione piuttosto che al timore di colpa per irresponsabilità. In alcuni casi l'evento critico è tale perché suscita nei pazienti disgusto, cioè la sensazione di essere contaminato. I risultati di diverse ricerche convergono nel dimostrare che la sensibilità al disgusto è una caratteristica specifica dei soggetti con ossessione -compulsione. Per comprendere meglio il ruolo del disgusto nel disturbo ossessivo-compulsivo è opportuno dedicare alcune righe a quella che è la sua funzione. Il disgusto non ci difende da un pericolo per la salute. Si prova disgusto per sostanze che sappiamo essere con certezza innocue; il disgusto è fortemente condizionato da fattori culturali, ad esempio la carne di maiale per gli islamici. Per capire la funzione del disgusto è utile chiedersi che cosa accade se si è esposti senza difesa alla contaminazione da parte di sostanze disgustose. La risposta è che ci sentiamo sviliti, sminuiti, impresentabili, indegni di essere accettati dal gruppo. Ci aspettiamo un disprezzo aggressivo e crudele che ci allontana attivamente. Il problema che si pone è duplice: da una parte si deve dimostrare come il timore di contaminazione si traduca in attività ossessiva, dall'altra si deve illuminare il rapporto tra il timore di disgusto e il senso di colpa. Le informazioni circa la contaminazione da parte di sostanze disgustose sono normalmente elaborate dagli esseri umani in modo del tutto analogo a quello definito prudenziale, con cui il timoroso di colpa per irresponsabilità seleziona le informazioni. 1- si assume come dato di fatto che a seguito di un contatto fisico sia avvenuta la contaminazione; per cambiare idea servono prove che la contaminazione non sia avvenuta e l'onere della prova spetta all'ipotesi più favorevole: gli standard di accettazione dell'ipotesi favorevole sono più elevati di quelli che devono essere soddisfatti al fine di mantenere quella della contaminazione. 2- non si considerano le probabilità oggettive. 3- si considera poco il possibile decadimento nel tempo della contaminazione ( permanenza ). 4- non si considerano le dosi. 5- si considera possibile la causalità retrograda: si intende con questa espressione un tipo di pensiero per cui un'azione sull'essenza si riflette sulla sua sorgente ad esempio accade che si possa provare disgusto per sostanze che ancora non sono state contaminate ma si sa che lo saranno. Il fatto che nel pensiero magico non siano considerate la probabilità, le dosi e la decadenza è spiegabile nel senso che la contaminazione viene percepita come un cambiamento nella natura del contaminato, che ne risulta svilito. La purificazione è un processo più lungo e complesso del semplice allontanamento del contaminante. Che relazione c'è tra il timore di contaminazione è quello di colpa per irresponsabilità? Da un punto di vista fenomenologico la sensazione di colpa e quella di essere sporchi e disgustosi sono molte vicine. La vicinanza e l'interscambiabilità tra colpa e disgusto possono essere giustificate, da un punto di vista cognitivo, perché entrambe rimandano alla percezione di poter essere meritatamente oggetto di disprezzo da parte di persone significative; il disprezzo è caratterizzato non solo da repulsione, ma anche da aggressività. Alcune osservazioni cliniche sembrano suggerire che il timore di colpa e il timore di contaminazione siano entrambi subordinati al timore di diventare oggetto di disprezzo rabbioso da parte di persone significative; sembra che pazienti ossessivi siano sensibili a un'espressione facciale molto precisa riconoscibile in modo immediato e dal significato inequivocabile: il disprezzo rabbioso. Sempre l'osservazione clinica suggerisce che l'esposizione a quest'espressione facciale implica un abbassamento della soglia ossessiva. Alcuni autori hanno dimostrato che i pazienti ossessivi si aspettano di essere criticati più di altri pazienti e più dei soggetti normali e che attribuiscono questa possibilità un peso maggiore. I tentativi di soluzione di primo ordine È importante identificare le risposte del paziente all'evento soprattutto nel caso in cui si decida di utilizzare una tecnica di esposizione e prevenzione della risposta: -evitamenti; -neutralizzazioni; -ruminazioni; -controlli mentali; -allenamenti; -soppressione del pensiero; -richieste di rassicurazioni. I tentativi di soluzione hanno alcune caratteristiche formali comuni: tendono ad essere ripetitivi, persistenti, spesso sono le forme del rituale e non raramente sono incongrue rispetto alla preoccupazione. Queste caratteristiche possono essere spiegate se si tiene conto del modo prudenziale con cui paziente valuta, non solo l'evento critico ma anche i risultati raggiunti, la disponibilità di ulteriori risorse da investire nei tentativi di soluzione e se ciò che ha fatto è stato fatto bene o se può essere migliorato. La presenza di un elevato senso di colpa contribuisce ad innalzare gli standard di valutazione della propria performance e assumere di essere colpevoli implica la predilezione per le scelte certe e l’avversione di quelle rischiose. Considerando tutti i meccanismi che intervengono nel rendere ripetitivi e persistenti i tentativi di soluzione, sorge la questione cerca il modo in cui essi si interrompono. I tentativi di soluzione si interrompono raramente con soddisfazione perché il risultato è stato raggiunto o perché il paziente crede di aver fatto tutto possibile, spesso perché subentra un nuovo evento critico, a volte perché paziente è assorbito da altre faccende, talvolta per la disperazione di non riuscire a essere all'altezza. Perché i tentativi di soluzione, essendo attività finalizzate e intenzionali, sono compulsivi? Una risposta possibile è che il paziente effettivamente sceglie di mettere in atto i tentativi di soluzione ma non ha scelto il dominio di scelta all'interno del quale si trova a dover scegliere. Il paziente non ha scelto di dover scegliere tra rischiare di essere colpevole di irresponsabilità e pagare il prezzo dei tentativi di soluzione. Prevenire è un'attività intenzionale finalizzata a raggiungere gli scopi del paziente e allo stesso tempo è frutto di una costrizione che il paziente subisce non accetta; Le valutazioni di secondo livello: costi percepiti dell'attività ossessivi tentativi di autocontrollo Spesso i pazienti sono critici nei confronti della produttività ossessiva: la critica può essere in termini di esagerazione o in termini di dannosità. La presenza della critica implica un conflitto e spesso i due termini del conflitto sono attivi contemporaneamente. Vi sono molti esempi che illustrano come, in qualunque essere umano, gli scopi presentino un conflitto fra loro e, come normalmente accade, viene riconosciuto il bene ma venga perseguito il male. Il punto problematico nel caso degli ossessivi è spiegare come mai falliscono così sistematicamente e a lungo nel tentativo di risolvere il conflitto. I tentativi di gestione e contenimento di ossessioni e compulsioni sono di diversi generi. Una prima classe di provvedimenti consiste nel tentare di modificare direttamente lo stato mentale, allontanando pensieri e di immagini. Quest'obiettivo è perseguito in due modi, o cercando di sostituire contenuti mentali con altri contenuti non ossessivi, o cercando di sopprimere i pensieri ossessivi. I pazienti ossessivi prediligono la seconda tattica in quanto la prima solleva in loro forti timore di distrazione colpevole. La seconda tattica ha effetti paradossali di rafforzamento dell'ideazione che si cerca di sopprimere, soprattutto in condizioni di sovraccarico cognitivo. In molti casi i tentativi di riduzione dell'attività ossessiva sono paradossali, strutturalmente simili alla strategia dell'alcolizzato che per smettere di bere vuole ridurre il desiderio di bere e per ottenere questo risultato beve. Spesso al paziente per ridurre l'attività ossessiva cerca di non essere ossessionato dal suo timore di colpa e per tenta di ottenere questo risultato proprio tramite l'attività ossessiva. Alcuni autori sostengono e dimostrano che la capacità di controllare dipende da quanto tale azione sia identificato su un basso livello, che riguarda prevalentemente come si svolge l'azione, piuttosto che ad un livello alto, che riguarda i significati più profondi e generali. Più basso è livello di identificazione, maggiore è la capacità di autocontrollo. È stato dimostrato che nei pazienti ossessivi identificano le proprie compulsioni ad un livello di significato elevato, trascurando la meccanica con cui essi si svolgono. Un ultima classe di provvedimenti porta il paziente ad una riflessione critica delle credenze che sostengono il timore di colpa, per cercare di contrastare l'attività ossessiva. Questa riflessione è fallimentare perché non arriva a mettere in discussione la necessità di evitare del tutto la possibilità della colpa. L'atteggiamento cognitivo definito prudenziale vanifica ogni tentativo di rassicurazione: tale atteggiamento dovrebbe essere abbandonato per consentire alle critiche di avere un peso effettivo ma di solito il paziente fa tutto tranne che accettare i rischi della colpa. Molti dati sperimentali e molte osservazioni cliniche convergono a sostegno dell'idea che l'attività tesa a contenere il disturbo ossessivo-compulsivo è controproducente. Lo scompenso e la vulnerabilità Non esistono dati scientifici solidi sulle circostanze e sui modi dello scompenso. La ricostruzione anamnestica è resa difficile da decorso del disturbo ossessivo-compulsivo che esordisce in modo subdolo, non chiaro e netto e peggiora in modo lento e progressivo. Sembra che nella maggior parte dei casi si riesca a rintracciare una colpa o un aumento di responsabilità o un episodio che ha minato la fiducia del paziente nella propria capacità di essere all'altezza dei suoi doveri. Quali esperienze rendono vulnerabili al disturbo ossessivo-compulsivo? Non sono disponibili dati sistematici e come molti altri domini della psicopatologia gli studi sulla vulnerabilità sono scarsi. Bisogna accontentarsi di osservazioni cliniche e studi retrospettivi. Le esperienze capaci di predisporre al disturbo ossessivo-compulsivo sono diverse, non c'è un'unica strada; certamente il tipo di relazione di attaccamento con i genitori ha un'influenza, anche se si tratta di un'influenza aspecifica. Alcuni ricercatori dimostrato che la tendenza all'ossessione e alla compulsione è correlata con una relazione di attaccamento, nei primi sedici anni di vita, caratterizzata da bassa cura e alto controllo, da parte di entrambi i genitori. Queste caratteristiche si trovano però nella sfera di soggetti affetti da una qualunque forma di psicopatologia e sembrano essere fattori aspecifici di rischio psicopatologico. Secondo alcuni autori i pazienti ossessivi hanno avuto con i progenitori un tipo di relazione riconducibile all'attaccamento ansioso-evitante o all'attaccamento resistente-ambivalente. La coppia genitoriale appare molto coesa, ma in realtà non comunica con gesti affettuosi al proprio interno: l'ambiente è estremamente verbale, carente di calore emotivo e di tenerezza, e i genitori, che appaiono sempre molto compiti, forniscono al bambino una serie di prescrizioni, sia nei confronti della vita sociale che nei confronti della vita affettiva, quasi organizzandogli la crescita. Viene posta una grande enfasi sui valori morali e sui principi etici, in un'atmosfera in cui ogni manifestazione effettiva appare fuori luogo. Tali genitori non considerano inoltre le paure e le sicurezze tipiche dei bambini, sono estremamente esigenti e richiedere loro un senso di responsabilità è una maturità assolutamente sproporzionata all'età, vedendoli come adulti in miniatura. Un'educazione severa sembra rendere ragione della tendenza a temere esageratamente le colpe per irresponsabilità; la severità tuttavia è un costrutto complesso ed articolato. Un genitore può essere severo anche perché tende sistematicamente alla colpevolizzaazione, perché non è disposto ad ascoltare scuse e giustificazioni, perché ha aspettative elevate, perché propone scopi e mete come doveri e non come strumenti o fonti di piacere e soddisfazione, perché le sue punizioni sono imprevedibili o sproporzionate. L'esperienza clinica suggerisce che la severità nel caso degli ossessivi si sia accompagnata anche ad atteggiamenti sprezzanti, aggressivi e svilenti. Partendo dall'esperienza clinica sono state identificate alcune esperienze precoci che potrebbero aver contribuito a rendere esagerato il senso di responsabilità dei pazienti ossessivi. - essere caricati in tenera età di una responsabilità eccessiva, per l'assenza o incompetenza altrui. - un incidente in cui una propria azione o ommissione ha contribuito in modo significativo ad un grave danno per sé o per gli altri; - essere stati sistematicamente sollevati da qualunque minima responsabilità; - un'educazione caratterizzata da regole di condotta e doveri rigidi ed esagerati. È cruciale l'esperienza precoce di una sostanziale ambiguità nella relazione di attaccamento. La figura di riferimento manderebbe al futuro ossessivo messaggi sistematicamente contraddittori, comunicando affetto apprezzamento sul piano verbale, ma freddezza e disapprovazione sul piano non verbale. Ciò rende centrare il dubbio sul fatto di essere o meno una persona disprezzabile da cui deriverebbe la ricerca della certezza assoluta e, successivamente, l'attitudine al dubbio che, secondo alcuni autori, sarebbe il vero motore delle ossessione delle compulsione. Secondo Ugazio un genitore sempre pronto al sacrificio ma cupo e pesante e l'altro genitore immorale ma pieno di vita, possono rendere la scelta della moralità estremamente conflittuale. Il soggetto non riuscirà a stabilizzare una linea di condotta ragionevolmente coerente rimanendo preda di dubbi e incertezze. Tutte le situazioni che, durante uno sviluppo, stimolano un modo doppio e opposto di considerare la complessità, contribuiscono all'organizzazione della conoscenza di tipo ossessivo. Quello che si trova nelle famiglie degli ossessivi è l’irrigidirsi almeno uno dei due genitori nella posizione di ambivalenza: la presenza di figure genitoriali, specialmente il padre, con una forma particolare di autoritarismo caratterizzato dall'incapacità di immedesimarsi nel ruolo del bambino e di assumerne qualche atteggiamento. La tendenza naturale ad esprimere e comunicare amore al bambino è bloccata da regole rigide e condizioni per cui i figli non si devono toccare per motivi igienici, non bisogna coccolarli troppo per non viziarli, o che devono imparare a sottomettersi all'autorità dei genitori. Il figlio che ha già vissuto una situazione di ambivalenza nei primi rapporti di reciprocità con la famiglia è propenso a stabilire un rapporto preferenziale con il genitore rigido e preciso perché coglie in lui la sicurezza di cui è alla ricerca. Si crea una reciprocità per cui quel genitore è ancor di più stimolato a proporre messaggi secondo la sua modalità razionale e affettivamente distaccata, e quel figlio a sviluppare i propri sistemi psicofisiologici ponendo vincoli concreti rigidi alla complessità. Un'altra modalità che possiamo ritrovare nella relazione di attaccamento in pazienti con organizzazione ossessiva è la richiesta continua di eseguire compiti inadeguati all'età del bambino. Tali richieste sono presentate in termini iper-razionali seguendo una logica a cui il bambino non è biologicamente preparato. I genitori abbondano le spiegazioni verbalizzate, limitano al minimo la comunicazione non verbale. Durante la fanciullezza la conoscenza di sè e del mondo continua a organizzarsi in due direttive opposte. Lo specchio ambientale, cui il fanciullo si riferisce, riflette contemporaneamente due immagini. Si è molto accuditi e seguiti dei genitori, quindi ci si sente validi e bravi, ma tramite punizioni, proibizione o incomprensioni. Gli autori pongono l'esperienza di ambivalenza alla radice di ciò che rende le persone vulnerabili al disturbo ossessivo. Il genitore tratta bambino in un modo per cui egli non comprende se è amato o odiato, se è buono, amabile, apprezzabile, oppure cattivo e disprezzabile. Questa doppia immagine di sè si costruirebbe nel corso dello sviluppo e determinerebbe un desiderio di certezza assoluta. Il sintomo ossessivo non sarebbe altro che l'espressione del tentativo estremo di trovare una risposta certa ad un dubbio fondamentalmente irrisolvibile. Gli autori di tradizione italiana pongono al centro delle esperienze cruciali del futuro ossessivo il tema dell'ambivalenza, ma un’ambivalenza con una particolare connotazione: quella etica. Pur trattandosi di osservazioni cliniche non sistematiche, si nota una sostanziale convergenza con la tesi argomentata sostenuta in questo capitolo. La terapia Si espone qui una protocollo di intervento che utilizziamo per il disturbo ossessivo-compulsivo nell'ambito dell'unità operativa per i disturbi d'ansia dell'umore della scuola di psicoterapia cognitiva. Il protocollo è fondato sulle prove di efficacia dei trattamenti psicologici disponibili; i risultati delle ricerche di esito dimostrano l'efficacia della terapia farmacologica e di quella comportamentale e cognitiva. Tra il 40 e il 60% dei pazienti ossessivi risponde alla terapia farmacologica; gli svantaggi sono le ricadute alla sospensione del trattamento, gli effetti collaterali e la minore probabilità di miglioramenti sostanziali. L'esposizione con una prevenzione della risposta migliora la sintomatologia almeno del 30% circa dell’ 80% dei pazienti e diminuisce il rischio di ricaduta. Interessante è che modifica i meccanismi di difesa: ciò significa che non è una terapia superficiale, interviene sul problema presentato ma incide sulla struttura della persona. Il punto critico è che molti pazienti la rifiutano o la abbandonano e non è di facile applicazione nei casi in cui l'evento critico e i tentativi di soluzione siano mentali. Interventi mirati direttamente alle strutture cognitive hanno dimostrato la loro efficacia in molti studi. Rispetto all'esposizione con prevenzione della risposta sia una maggior applicabilità, una più elevata stabilità dei risultati e un maggior numero di guarigioni complete. Il protocollo Fase preliminare: il profilo esterno del disturbo. Il paziente è sottoposto ad un colloquio diagnostico e gli vengono somministrati diversi test che servono per controllare la presenza di eventuali comorbilità e per misurare l'entità iniziale del disturbo. Si valuta il profilo esterno, si ricercano esperienze che possono aver determinato la vulnerabilità, si indagano i tempi, le ragioni e le modalità dello scompenso, si cerca di definire la fase esistenziale in cui si trova il paziente e i modi in cui le persone accanto al paziente interagiscono con lui rispetto al disturbo. Prima fase E’ di fondamentale importanza e consiste nella ricostruzione dello schema e nella sua condivisione con il paziente. La procedura è quella caratteristica della terapia cognitiva: 1- si definisce un evento critico recente ed esemplificativo; 2- si indaga sui significati che il paziente ha attribuito all'evento; 3- si cercano di definire le implicazioni catastrofiche che per il paziente potrebbero rivestire l'evento.Questa prima fase può essere difficile da svolgere soprattutto se è presente una lunga storia di malattia e vi è scarsa capacità introspettiva: il passaggio ai tentativi di soluzione è automatico; i pazienti dunque riferiscono semplicemente di sentire l'impulso a mettere in atto i rituali. 4- si definisce ciò che il paziente mette in atto per risolvere il problema posto dall'evento, si indaga sulla presenza di conseguenza paradossalmente controproducenti dei tentativi di soluzione attuati, delle quali spesso paziente non è consapevole. 5- si chiariscono quelli che per il paziente sono i costi del disturbo. È necessario evidenziare i vantaggi primari e secondari che conseguono all'attività ossessiva, come per esempio il controllo dei familiari. 6- si mette in luce quello che il paziente fa per contenere il disturbo e si cerca in lui di discriminare i tentativi utili da quelli controproducenti: possono essere utilizzati esperimenti comportamentai per dimostrare al paziente che i tentativi di soppressione dei pensieri implicano l'aumento della loro frequenza. Vantaggi della procedura: si ottiene un profilo esterno del disturbo che consente di pianificare razionalmente l'intervento terapeutico. Grazie alla condivisione il paziente recupera il senso del suo disturbo che spesso appariva come una follia incomprensibile e spaventosa. Si può riuscire a diminuire il senso di colpa che il paziente prova per il suo disturbo, mostrandogli come la sua attività sia indirizzata da scopi morali. Difficoltà della procedura: il paziente spesso si vergognano di rivelare i propri timori, il che è comprensibile se si tiene conto dell'aspettativa di essere accusati o disprezzati. Un'altra importante ragione di difficoltà è il timore magico di parlare di ciò che si teme. Seconda fase: dal conflitto alla scelta e la motivazione all'esposizione con prevenzione alla risposta Questa fase si fonda sull'osservazione che il più delle volte l'attività ossessiva è egodistonica e conflittuale. Esistono due valutazioni in contrasto fra loro, nella prima vi sono le argomentazioni a favore dell'attività ossessiva, nella seconda le ragioni contro di essa. Abbiamo detto che la presenza di questo secondo livello critico implica dei tentativi di contenimento del disturbo spesso controproducenti. Lo stress emotivo legato al conflitto, dalla sensazione di discontrollo che il conflitto implica e la paradossalità dei tentativi di contenimento evidenziano l'importanza di aiutare il paziente a superare il conflitto arrivando a una scelta, magari di compromesso, tra le ragioni dell'attività ossessiva e quelle contrarie. Qualunque sia il successo che si ottiene nel tentativo di portare il paziente ad una scelta, resta il vantaggio di rendere disponibili nei momenti cruciali le motivazioni per affrontare l'esposizione con prevenzione della risposta e entrare nell'ordine di idee che è inevitabile accettare almeno in parte il rischio di non essere all'altezza della propria responsabilità e così della prevenzione. La realizzazione di questa fase presuppone la ricostruzione e la condivisione dello schema e l'allenamento dei pazienti utilizzando una mappa sulla quale ritrovare i diversi elementi. Si passa allora a mettere in rilievo come il paziente stia perseguendo fini incompatibili tra loro, che il tentativo di raggiungere sia gli scopi della valutazione primaria sia di quella secondaria ha precise concrete conseguenze negative, che è impossibile raggiungere entrambi gli scopi, che una scelta si impone e che ogni scelta implica il costo di una rinuncia. Si chiede paziente di scrivere i vantaggi e gli svantaggi dell'attività ossessiva su due colonne affiancate, gli si chiede poi di confrontarli. Dopo un confronto tra pro e contro della condotta ossessiva, si individuano i momenti in cui la compulsione ad agire il rituale è meno intensa. Gli si suggerisce di annotare momenti di pausa in una sequenza ossessiva, di riesaminare vantaggi-svantaggi dell'attività e la discussione condotta in studio e di decidere se e quando mettere in atto l'attività ossessiva oppure se e quanto esporsi, in vista di quello che in quel momento gli pare onestamente più opportuno. L'obiettivo è che il paziente impari a scegliere, tenendo conto dei costi delle singole opzioni, quella che considera migliore per lui in quel momento. Il pericolo da cui guardarsi è che il paziente, invece di scegliere, tenti di imporsi il blocco o il contenimento dell'attività ossessiva. La difficoltà più frequente si presenta nel caso in cui il paziente consideri l'attività ossessiva come completamente estranea alla sua intenzionalità. La terza fase Si affronta il timore di colpa che caratterizza la prima valutazione dell'evento critico. Ci sono a disposizione almeno due tecniche di intervento. La prima è il cosiddetto metodo della torta: lo scopo non è quello di convincere il paziente che non è responsabile delle conseguenze dell'evento critico, ma di aiutarlo a porre l'attenzione sul fatto che la sua responsabilità è contenuta dalla presenza di altri fattori causali, oltre alla sua azione. Il metodo prevede di chiedere al paziente un elenco di tutti fattori che possono ragionevolmente influire sulla realizzazione della catastrofe temuta, indicando come primo elemento il proprio comportamento o l'omissione di un comportamento. Vengono di seguito elencati tutti gli altri fattori cercando di concedere tutto il tempo necessario affinché la lista possa essere il più possibile esaustiva. Successivamente viene chiesto al paziente di indicare quanto ogni fattore contribuisca all'esito temuto, seguendo l'ordine dell'elenco e partendo dall'ultimo elemento della lista in modo da aiutarlo a focalizzare la propria responsabilità, elemento che sarà l'ultimo ad essere preso in considerazione. Spesso accade che il paziente non lasci spazio per la propria responsabilità, in questo caso gli si chiede di correggere il grafico. La tecnica del doppio standard si fonda sul fatto che la valutazione morale che il paziente fa di sé stesso risente dell'orientamento prudenziale descritto precedentemente, mentre la valutazione che fornisce delle azioni-omissioni di altre persone non è influenzato da quest'orientamento, e risulta più benevola. Spostare la prospettiva dal giudizio su se stesso al giudizio che altri possono emettere della propria condotta contrasta l'orientamento colpevolizzante. La tecnica del doppio standard modificato gioca sul fatto che normalmente siamo tutti sensibili all'opinione degli altri e tendiamo a uniformarvi il nostro giudizio; la finalità della tecnica consiste nell'aiutare il paziente a considerare la propria condotta dal punto di vista più benevolo, ma socialmente accettato e condiviso. La quarta fase È la fase dell'esposizione-prevenzione della risposta. È buona norma cominciare l'esposizione con le situazioni che il paziente è più motivato da affrontare, e non le meno ansiogene. Non è necessario che l’esposizione segua soltanto un criterio di gradualità dell'ansia evocata. È opportuno incoraggiare il paziente ad esporsi anche negli intervalli fra le sedute, magari a eventi meno ansiogeni di quelli affrontati con il terapeuta. È buona norma incoraggiare il paziente a prendere l'iniziativa. È importante che le sedute di esposizione terminino con il paziente tranquillo. La quinta fase L’obiettivo della quinta fase è il più importante. Si tratta di ridurre la vulnerabilità al disturbo ossessivocompulsivo e la disposizione a sentirsi moralmente disprezzabili. È possibile distinguere due approcci: il primo è tradizionalmente cognitiviista, il secondo esperienziale. Nel primo si tratta di identificare episodi passati, meglio se precoci, in cui il paziente si è sentito colpevole, per affrontarli con una delle tecniche a disposizione. Più interessante è l'approccio esperienziale descritto da Arntz e Weertman. Nasce dalla constatazione che i pazienti sistematicamente tendono a considerare i contro-esempi delle loro interpretazioni e aspettative attuali come eccezioni, mantenendo intatte le loro idee fondanti la propria identità personale e le principali aspettative sull'esistenza. L'idea è che queste interpretazioni e aspettative siano più sensibili all'elaborazione del ricordo di episodi prototipici, di solito infantili, in cui il paziente le ha messe a fuoco e consolidate. Nel caso dei pazienti ossessivi episodi prototipici dovrebbero riguardare esperienze di accuse rabbiose o di responsabilizzazione cui il paziente non ha potuto sottrarsi, nonostante le ritenesse esagerate rispetto alle proprio capacità. Il protocollo consiste nell'aiutare il paziente a rivivere un episodio in tutti i suoi aspetti, soprattutto emotivi e sensoriali, per poi immaginare di inserire nella scena dei cambiamenti che conducono ad un finale diverso da quello reale ma plausibile e ragionevolmente sereno. Come può una fantasia sul passato aiutare a cambiare idee su se stessi e sulla propria vita? Probabilmente immaginare che i fatti sarebbero potuti tutti andare modo diverso attenua l'impressione di essere radicalmente persone disprezzabili e che vi sia un destino anch'esso inevitabile e assoluto che conduce a esperienze di disprezzo insuperabili. È anche ragionevole attribuire un ruolo importante alla legittimazione della propria sofferenza. La sesta e ultima fase: la prevenzione della ricaduta L’osservazione clinica suggerisce che le ricadute del disturbo ossessivo-compulsivo possono essere drammatiche: la ragione è presumibilmente da ricercasi nella potenza dei meccanismi ricorsivi, legati in parte il timore di colpa e in parte all'autocritica. È opportuno prevenire la ricaduta. Per farlo si può procedere innanzitutto anticipando le possibilità che ciò accada, cercando di individuare le circostanze che facilitano lo scompenso; è utile identificare i segni premonitori della ricaduta, cioè piccoli sintomi ossessivi, come sdrammatizzare l'eventuale ricaduta sottolineando il ruolo che possono avere gli automatismi ricorsivi. È opportuno aumentare il senso di autoefficacia nella gestione del disturbo ossessivo-compulsivo; a questo fine si può rintracciare ciò che il paziente ritiene sia stato efficace nella terapia e allenarlo nel suo utilizzo. Capitolo 5 Un approccio costruttivista ai disturbi del comportamento alimentare premessa L'anoressia e la bulimia hanno assunto, a partire dagli anni sessanta, la dimensione di un’epidemia sociale. Per quanto i fattori che predispongono un individuo ai disturbi alimentari siano complessi, in letteratura si evidenzia un ampio accordo tra gli studiosi nel riconoscere l'importanza delle componenti sociali e culturali. Tra questi fattori un posto di primo piano sembra riservato alla sovrabbondanza di cibo e all'ideale estetico di bellezza che è rappresentato da un corpo magro e snello in forma super-efficiente. Nel mondo occidentale esiste una considerevole pressione sociale verso la magrezza: i mass-media trasmettono messaggi legati al peso, in base all'ideale che magro è bello, e il più sensibile a tutto questo è il sesso femminile che ha dato prova di essere disposto tutto pur di conformarsi ai modelli proposti. La relazione con l'immagine corporea, che si organizza dopo la pubertà, è un fenomeno più complesso per la donna, che vive cambiamenti più bruschi e drammatici di quelli del genere maschile. L'eccessiva attenzione per l'estetica e la preoccupazione costante di essere fisicamente attraenti conducono ad una maggiore insoddisfazione per il proprio aspetto. Se si pensa che l'accettazione del corpo è strettamente correlato alla stima di sé, si comprende perché le pazienti obese presentino gravi disturbi nell'immagine corporea. Nella nostra società l'apparenza predomina nell'immaginario collettivo e l'alimentazione diviene uno degli elementi in base al quale potersi caratterizzare. Il rifiuto del cibo il suo consumo eccessivo diventano il sintomo di un disagio che ha origine dell'esperienza personale e nel modo in cui questa esperienza integra i messaggi sociali. I rapporti tra accettazione del proprio corpo, pressione sociale e disturbi alimentari hanno visto articolazioni differenti e di un certo interesse nell'ambito di studi indirizzati a cogliere gli elementi di differenziazione di genere. Alcune ricerche sottolineano come l'incidenza di questi disturbi tra i maschi aumenti nella categoria degli omosessuali e nei soggetti che vivono in modo conflittuale la definizione del ruolo sessuale. Alcuni autori hanno messo in evidenza anche una più ampia presenza di atteggiamenti e comportamenti sessuali atipici associati con le condotte alimentari. Specifica del sesso maschile è una forma di disturbo chiamata Reverse Anorexia, che esordisce di solito nell'adolescenza: l'insoddisfazione per l'aspetto fisico e la distorsione dell'immagine corporea si esprimono nell’irrealistica convinzione di essere troppo piccoli o gracili. La distorsione dell'immagine corporea, apparentemente di segno opposto a quella della paziente anoressica, conduce all'esasperata ricerca del potenziamento del volume della muscolatura. Inquadramento nosografico dei disturbi del comportamento alimentare ha subito notevoli cambiamenti. L'esperienza clinica rivela l'esistenza di una notevole variabilità all'interno di tali disturbi, sia per quello che riguarda i livelli di gravità sintomatologica sia per quello che riguarda l'espressività psicopatologica. Se all'osservazione specialistica giungono le forme più gravi di patologia, è vero che esistono forme subsindromiche, che non arrivano a soddisfare i criteri per la diagnosi. Ci sono segni e sintomi che, pur non costituendo criteri diagnostici, sono invariabilmente presenti nei pazienti con disturbi del comportamento alimentare, e ne configurano lo stato cognitivo, emotivo, comportamentale e personologico;la spinta culturale verso la magrezza e la forma fisica potrebbero interagire con queste caratteristiche dando luogo a quadri di gravità e espressività clinica variabili. La storia Benché negli ultimi decenni si stia assistendo a una sempre più vasta diffusione dei disturbi del comportamento alimentare, queste espressioni non possono essere considerate definitivamente "nuove patologie". Le prime descrizioni cliniche di comportamenti alimentari abnormi risalgono a molti secoli fa. Nell'anoressia moderna, l’elemento fondamentale è la relazione con l'immagine del corpo, il rifiuto dell'idea di pesare troppo e la sensazione di essere in sovrappeso pur non essendolo. Solo di recente questi disturbi sono stati oggetto di ricerche e di studi sistematici sul piano psicopatologico e clinico. Considerati a lungo disturbi endocrini, oppure sintomi di altre patologie come l’isteria, la nevrosi ossessiva, la schizofrenia e i disturbi dell'umore, i disturbi del comportamento alimentare vedono oggi riconosciuta la loro autonomia nosografica. La prima cronaca medica su episodi di anoressia nervosa è stata scritta nel 1689 dal medico inglese Morton; altri due casi di anoressia maschile furono documentati da Whytt e William nel 1700. Un secolo più tardi l'anoressia viene descritta in Francia dal neurologo parigino Lasègue e in Inghilterra da Gull, il medico che per primo ha dato il nome alla sindrome. Per oltre un secolo l'anoressia nervosa è stata considerata ora una malattia a sé stante, ora una variante di altre malattie. Nella seconda metà dell'800 molti clinici la consideravano un fenomeno isterico. Janet all'inizio del 900 parlava di forme isteriche e di forme ossessive di anoressia; in effetti alcune anoressiche presentano un disturbo di personalità di tipo isterico. Vari autori hanno paragonato le fluttuazioni periodiche di alcune pazienti tra anoressia e bulimia alle fasi rispettivamente di mania e depressione della psicosi maniaco-depressiva. Nella prima parte del 900 l'anoressia nervosa è stata ritenuta una malattia endocrina. Così le manifestazioni anoressiche sono state talvolta interpretate con una forma dell'isteria, altre volte come una forma di disturbo ossessivo, altre ancora come una forma dissociativa. Un pioniere degli studi sull'anoressia, Marcè, già nel 1860 l'aveva definita delirio ipocondriaco e anche altri autori psicoanalitici avevano messo in evidenza gli aspetti psicotici della struttura psicopatologica e del transfert nelle pazienti anoressiche. Nel 1940 Helene Deutsch aveva affrontato questi temi e notato le difficoltà legate alla peculiare compiacenza di queste pazienti. Al giorno d'oggi l'anoressia viene descritta e si presenta come una malattia specifica della civiltà occidentale, frutto dei nostri tempi; nel vissuto dei soggetti anoressici spesso si trovano riferimenti a comportamenti e manifestazioni che hanno un sapore antico e che riportano a figure quali l'eroe, i mistici e gli eremiti. Una prima ipotesi, denominata " principio della continuità storica " ritiene i comportamenti alimentari patologici simili sia nel corso dei secoli sia sul piano della struttura psicopatologica, e permette di tracciare una storia dell'anoressia e del digiuno. Pur sostenendo la posizione della continuità, Bemporad si distingue per il tentativo di un approccio complessivo che tiene conto sia della storia del digiuno, sia dell'interpretazione socio-culturale, poiché considera le patologie alimentari fenomeni specifici della società occidentale fin dalle sue origini giudaicacristiane. Egli sottolinea la continuità tra fenomeni del digiuno rinascimentale e l'attuale anoressia; punto forte del suo lavoro è l'idea per cui l'anoressia non sarebbe esistita nelle civiltà antiche come non esiste nelle civiltà rurali, non occidentali, ossia in quelle organizzazione sociali nelle quali è prevista una chiara sottomissione della donna nell'organizzazione sociale. Un secondo elemento determinante sarebbe la disponibilità di cibo senza la quale il digiuno volontario non è pensabile: la carestia non permette ideali corporei fondati sulla magrezza. Una seconda ipotesi, il " principio della discontinuità storica ", pur riconoscendo la continuità di alcuni comportamenti alimentari nel corso della storia, suppone che la diagnosi di anoressia sia legata allo specifico di un contesto culturale. Rappresentativa è la posizione di Habermas secondo cui la storia dell'anoressia e della bulimia non inizia prima della seconda metà del XVIII secolo quando nasce la definizione di malattie anoressica come specifica identità nosografica caratterizzata non solo dal digiuno ma anche dalla peculiarità del rapporto con il corpo, inteso nella specificità di un disturbo dell'immagine corporea. I fattori socio-culturali servono comunque a spiegare brillantemente alcune caratteristiche particolari assunte dai disturbi alimentari in seguito alla loro diffusione. Tra queste figurano svariati elementi: la grande importanza assunta da alcuni aspetti fenomenologici, come la paura di ingrassare e i conseguenti disturbi dell'immagine corporea; l'insorgere di un nuovo ideale di bellezza femminile; l'incremento della vulnerabilità psicologica delle adolescenti occidentali. Gordon suggerisce che ogni tentativo di comprensione dell'anoressia-bulimia si debba collocare in una prospettiva culturale, poiché identifica in questo tipo di problema uno dei disturbi che Deveraux definisce etnici, vale a dire caratterizzati da un modello cognitivo comportamentale deviante che esprime le contraddizioni cruciali di una particolare parte della società umana in un determinato momento storico. Più di recente Arciero ha evidenziato come ogni epoca della coscienza umana sia stata caratterizzata da un criterio di coordinamento della realtà e individua almeno due ordini di fattori, che concorrerebbero allo sviluppo del fenomeno. In primo luogo è evidente che in una civiltà preoccupata di soddisfare la fame, una patologia legata al rifiuto del cibo non può emergere su vasta scala. Il secondo fattore è l'avvento della tecnologia dell'informazione; il mutamento dell'ambiente umano, generato dalle nuove prospettive offerte dalla tecnica, ha favorito la comparsa di forme nuove di costruzione dell'identità personale. L'uomo comincia a cercare fuori di sé, nel grande palcoscenico della realtà rappresentata dai media, linee su cui modellare l'abrogazione le proprie emozioni, le fonti esterne su cui conformarsi, le immagini condivise a cui adattarsi e attraverso le quali riconoscersi. Tutto questo produce mutamenti sia a livello della struttura familiare, sia nell'allevamento dei figli. L'esteriorità comincia in tal modo ad orientare l'educazione dei bambini e le transazioni interpersonali, oltre a definire gli stati interni. Sovrappeso e obesità A partire dagli anni '80 nel mondo occidentale si è assistito al verificarsi di una vera e propria pandemia di obesità. Il problema della sovralimentazione è in costante crescita, al punto che oggi nel mondo il numero di persone sovrappeso e obese è uguale a quello delle persone sottopeso. Ma nonostante l'obesità costituisca uno dei problemi di salute pubblica più gravi, si tratta di un ambito di intervento ancora molto trascurato. L'abbondante disponibilità di cibi altamente energetici espone ad una iper-consumo di calorie: cattiva alimentazione, sovrappeso e obesità sono un portato dell'Occidente e, mano a mano che le abitudini alimentari occidentali viaggiano dai paesi ricchi a quelli poveri, in questi ultimi aumenta la proporzione di obesità. Vi è una differenza sostanziale: mentre nei paesi industrializzati le fasce a rischio di sovrappeso sono quelle più svantaggiate, nei paesi non industrializzati le fasce più esposte a questa patologia sono quelle economicamente privilegiate. Mentre l'obesità interessa in ugual misura uomini e donne, le differenze di genere sono marcate per quel che riguarda le persone soprappeso: la frequenza nei maschi è quasi il doppio rispetto a quella tra le femmine. Le cause del soprappeso e dell'obesità sono indubbiamente multifattoriali, ma quelle che più hanno contribuito all'aumento sono legate alle modifiche dello stile di vita, in particolare alla sedentarietà e alla diminuzione dell'attività fisica, accompagnate da aumentata e squilibrata introduzione calorica. Questo è tanto più vero nelle fasce più giovani della popolazione che hanno praticamente azzerato l’attività ludico-spontanea, trasformandola in lunghe permanenze davanti alla televisione, al computer e ai videogiochi. Numerosi ricercatori hanno notato che fattori sociali possono avere una gran influenza sull’ odierna prevalenza dell'obesità. Nelle culture tradizionali il grasso rappresentava un segno di salute e benessere; il sistema alimentare delle culture industrializzate offre un'ampia disponibilità di cibo a elevato contenuto energetico, rendendo più facile aumento di peso, è più difficile la riduzione ponderale. In questo contesto la magrezza ha assunto un valore progressivamente crescente come ideale culturale ed estetico, mentre il sovrappeso è divenuto oggetto di rifiuto e l'obesità subisce atteggiamenti discriminanti. In ambito psicopatologico, il DSM III nel capitolo dedicato ai disturbi dell'alimentazione, comprendeva sia l'anoressia mentale sia la bulimia, considerato un disturbo autonomo distinto dall'anoressia. Il manuale considerava l'obesità una condizione che non era da inquadrarsi come disturbo mentale. Nella versione successiva del manuale l'obesità continua non comparire nella classificazione dei disturbi del comportamento alimentare; tuttavia tra i disturbi non altrimenti specificati figura il disturbo da alimentazione incontrollata, in cui il mancato controllo sull'alimentazione, in assenza di condotta di eliminazione, conduce a un rilevante incremento ponderale. In questa categoria sono inquadrate tutte le forme di riscontro l'alimentare che conducono a livelli variabili di obesità. Per l'obesità possono essere presenti iperfagia e/ o crisi bulimiche, ma di solito mancano tutte le possibili manovre tese a prevenire gli effetti delle abbuffate sul peso corporeo, come il vomito auto-indotto, l'abuso di lassativi o diuretici, l'esercizio fisico eccessivo eccetera. Molti pazienti bulimici sono stati sovrappeso o hanno una generica predisposizione all'obesità. Alcuni autori hanno ipotizzato che nei soggetti geneticamente predisposti all'obesità esista una compromissione dei meccanismi di regolazione del sistema degli oppioidi endogeni: l'obesità individuale e familiare potrebbe costituire quindi con fattore di rischio per la comparsa di condotta bulimica. L'osservazione clinica suggerisce che pazienti con disordine da alimentazione incontrollata non trattati progrediscono nell'incremento ponderale. È legittimo sospettare che in un obeso siano presenti elementi psicopatologici riconducibili allo spettro dei disturbi della condotta alimentare quando sono presenti alcuni fattori. -anamnesi di ampie oscillazioni del peso; -intercorrenti restrizioni dietetiche; -marcata preoccupazione per il peso e per l'aspetto fisico; -indicatori di discontrollo sull'alimentazione; -atteggiamento rigido e perfezionista nei confronti della dieta; -difficoltà di calo ponderale; -difficoltà nel mantenere l'eventuale calo ottenuto; -comorbilità o anamnesi di un disturbo psicologico. Il disturbo da alimentazione incontrollata sembra relativamente raro nella popolazione generale, ma è comunemente riscontrato tra i soggetti obesi, con valori di prevalenza crescenti. Circa i due terzi dei pazienti che soddisfano il criterio sono in sovrappeso o francamente obesi: si evidenzia il ruolo di altri fattori, indipendenti dall'alimentazione, nella genesi di obesità. Al contrario di quanto riscontrato nell'anoressia e nela bulimia nervosa il disturbo da alimentazione incontrollata sembra essere solo moderatamente più frequente tra la popolazione di sesso femminile ed equamente distribuito tra gruppi etnici nei campioni di pazienti in trattamento. L'età di esordio non è conosciuta: l'età dei soggetti al momento della diagnosi varia tra i 30 i 40 anni. I pazienti riferiscono l'insorgenza dei disordini alimentari intorno ai 20-21 anni e una storia di oscillazioni di peso maggiore di dieci chili. Le complicazioni solitamente legate al disturbo da alimentazione incontrollata sono sovrapponibili a quelle dell'obesità semplice e la loro incidenza aumenta parallelamente al grado di obesità. Il trattamento del disturbo da alimentazione incontrollata comporta la difficoltà insita nel trattare contemporaneamente un disturbo della condotta alimentare e una condizione di obesità, presente nella maggior parte di questi pazienti. La sotto-tipizzazione operata dalle DSM IV in bulimia nervosa con e senza condotte di eliminazione della categorizzazione dei binge eating hanno fatto nascere molte perplessità non solo negli specialisti della materia, ma addirittura tra chi ha redatto la sezione specifica. Il dubbio concerne la possibilità che i due quadri rappresentino in effetti il medesimo disturbo con manifestazioni differenti a carico del peso dovute a fattori diversi, come di tipo genetico o matabolico. Condividiamo queste perplessità e riteniamo i due quadri clinici rappresentativi dello stesso disturbo. Verso una psicologia esplicativa Appare tutt’ora oscuro come si possa giungere ad una distorsione dell'immagine corporea che spesso assume una connotazione quasi delirante. L'esordio può essere simile a quella di un qualsiasi banale regime alimentare, ma quello che differenzia i pazienti con disturbi del comportamento alimentare dai coetanei a dieta è l'ostinazione con cui perseguono l'obiettivo di dimagrire e l'assoluta rigidità nell'osservanza delle norme dietetiche. Mentre disturbi del comportamento alimentare rappresentano un'entità diagnostica individuata in senso descrittivo, c'è minore consenso fra i clinici. La psicopatologia descrittiva consente una buona omogeneizzazione delle diagnosi che ha consentito la realizzazione di indagini fondamentali e il confronto fra diversi studi clinici. Uno degli scopi prioritari dell'intervento è la ricerca del senso del disturbo. La psicopatologia può acquisire un significato solo la luce di una cornice teorica che permetta di inserire i sintomi in una visione più ampia, che presenti una coerenza interna che possa essere riconosciuta dal paziente. Il passaggio da una psicologia descrittiva ad una di tipo esplicativo non è privo di conseguenza per il paziente e per il terapeuta. Per il paziente dare senso allo stato di sofferenza è già parte di un cambiamento terapeutico: gli permette di vivere il disturbo non più come una malattia estranea che aggredisce l'organismo, ma come un modo personale di funzionare psicologicamente e di reagire agli eventi che può essere modificato. È fondamentale rendere il paziente consapevole del senso del sintomo alimentare e della finalità di comportamenti come il digiuno o le abbuffate, il vomito o l'iper-attività fisica. I sintomi sono di solito meccanismi di auto-inganno e attività diversive che permettono ai pazienti di mantenere la continuità del senso di sé e stabilizzare la propria identità. Questi meccanismi hanno la funzione sia di regolare esperienze emotive discrepanti, sia di evitare che affiori alla coscienza un'immagine di sé negativa. In un'ottica costruttivista, i pazienti che rientrano nell’ambito diagnostico dei disturbi del comportamento alimentare vengono inquadrati in un unico continuum, in quanto condividono sia alcuni specifici meccanismi psicologici, sia le modalità di percepire la esperienze e di attribuire significati particolari. Si situano lungo questo continuum a seconda delle loro manifestazione sintomatologiche, del livello di attività-passività e di attribuzione interna-esterna. Si assiste spesso a variazioni nel tempo degli aspetti fenomenologici: alcune pazienti esordiscono con un episodio anoressico che può sviluppare quello bulimico. Nell'anoressia vi è una modalità particolarmente attiva di affrontare la vita; l'attribuzione causale di colpa è tipicamente esterna con atteggiamento di autosufficienza e di lotta a oltranza contro un mondo disconfermante. Nell'obesità psicologica la motricità è rallentata, vi è una modalità passiva di affrontare la vita, l'attribuzione causale di colpa è interna con un senso pervasivo di sconfitta. La bulimia si trova in una posizione intermedia, con ampie oscillazioni di atteggiamenti che si alternano tra lo stile tipico dell’anoressia e quello dell'obesità. A parte la esigenze classificatorie sempre più autori preferiscono parlare di sindrome anoressico-bulimica, di spettro dei disturbi dell'alimentazione, oppure, di organizzazione di significato personale di tipo disturbi alimentari psicogeni. Quest'ultimo approccio consiste in un inquadramento dei disturbi alimentari in una categoria nosografica globale, con un'organizzazione della conoscenza che si è venuta a creare all'interno della nostra cultura di matrice occidentale, pur con forme di espressione individuale che portano a manifestazioni comportamentali diverse. Il paradigma è supportato dal fatto che molti pazienti presentano una commistione delle due forme e non pochi di loro passano da una all'altra: in entrambe si rileva lo stesso terrore di ingrassare e l'apparenza estetica è determinante per lo stato psicologico. Laddove le due manifestazioni patologiche non coesistono, è importante rilevare come il disturbo di tipo anoressico si presenti nella maggior parte dei casi come egosintonico, accettato ed esibito, con una fanatica ricerca di magrezza estrema di cui vantarsi e, viceversa, la bulimia tende ad essere avvertita come un disturbo egodistonico, un impulso rifiutato e irrefrenabile che ha per conseguenza un comportamento da nascondere con un forte senso di vergogna. Il comportamento anoressico-bulimico è un sintomo ambivalente e multideterminato: è un tentativo disperato di ottenere ammirazione e conferma, di sentirsi unici e speciali, di opporsi alle eccessive aspettative genitoriali; un tentativo onnipotente di sviluppare, attraverso la disciplina del corpo e il controllo del cibo, un senso di autonomia e di individualità. Questi fattori sono accompagnati da tratti cognitivi caratteristici, che comprendono un'errata percezione della propria immagine corporea, un pensiero infantile di tipo " tutto o nulla ", centrato solo sul presente, pensieri e rituali ossessivo-compulsivi, e una percezione della realtà sociale con un pensiero di tipo magicopersecutorio. Le abbuffate e l'uso di purganti di solito non sono problemi compulsivi isolati: generalmente in questi pazienti coesistono molti altri comportamenti tendenzialmente espressamente compulsivi o auto-distruttivi, soprattutto nelle relazioni più intime e nella sessualità. Sempre più spesso si rileva anche l'abuso di molteplici sostanze psicoattive. La preoccupazione relativa al cibo e al peso è una manifestazione piuttosto tarda, emblematica di un disturbo basilare del concetto di Sé. La maggior parte dei pazienti con anoressia o bulimia nervosa riferisce di aver percepito da sempre interiormente la convinzione di essere completamente inadeguati e impotenti, incapaci di sostenere il giudizio degli altri. Le organizzazioni di significato personale Negli esseri umani le modalità di percepire e esprimere le emozioni, la capacità di attribuire significati alle proprie sensazioni e agli avvenimenti della vita, i comportamenti che ognuno di noi sceglie per affrontare una particolare situazione, si presentano con caratteristiche diversificate che rendono gli individui unici e diversi tra loro. Nella seconda metà degli anni '80 la scuola cognitivista italiana ha proposto alcuni modelli che inquadrano i disturbi alimentari in una dimensione evolutiva. Nell'osservazione di alcuni autori viene dato ampio rilievo l'influenza dell'ambiente evolutivo-familiare e socio-culturale nella genesi e nel mantenimento dei disturbi alimentari. L'organizzazione della conoscenza individuale rappresenta la risultante della maturazione del sistema nervoso centrale secondo le regole ereditate filogeneticamente, tipiche della nostra specie. Questa complessa architettura biologico-funzionale si determina prende forma in determinate situazioni di interazione che una mente in via di formazione ricerca selettivamente e attivamente con altre menti culturalmente formate. Per mezzo delle interazioni attive, dell'intersoggettività e della reciprocità emotiva, gli esseri umani elaborano una forma di conoscenza personale che si struttura in teoria e si organizza con modalità comportamentali, cognitive e affettive peculiari e originali. Attraverso i processi di adattamento e di cambiamento questa complessa articolazione permette una condizione stabile di coerenza dell'esperienza di sé in una sorta di equilibrio dinamico operando attraverso un’auto-organizzazione che ricerca l'ordine tramite fluttuazioni Una delle funzioni di base è quella di tradurre il tacito in esplicito attraverso la costituzione di modelli sempre più articolati e complessi di sé e del mondo. I livelli e i processi conoscitivi interagiscono reciprocamente in una configurazione complessiva che caratterizza ogni organizzazione di conoscenza. Le organizzazioni personologiche fin’ora individuate sono quattro: tipo fobico, depressivo, ossessivo e tipo disturbi alimentari psicogeni. Quest'ultimo è alla base di tutti disturbi di comportamento alimentare, dall'anoressia alla bulimia all'obesità. Anche se l'organizzazione di significato personale di tipo turbi alimentari psicogeni prende nome della patologia, essa non è definita semplicemente dall'associazione con un specifico tipo di disturbo. A caratterizzarla è una peculiare modalità di articolazione dell’esperienza immediata, di spiegarsela e riferirsela, ravvisabile anche in soggetti asintomatici. Questo pattern si sviluppa in stretta interdipendenza con il modello di attaccamento che un individuo sperimenta con le figure significative, soprattutto nell'infanzia e nella fanciullezza. L'orientamento interno/ esterno, l'attribuzione di causalità e la campo dipendenza/ indipendenza rappresentano dimensioni rilevanti per meglio comprendere il funzionamento e l’ articolazione delle organizzazioni di significato personale. Le organizzazioni con un orientamento esteriorizzato (inward) dell'esperienza sono quelle di tipo fobico e depressivo. Le emozioni primarie sono ben discriminate fin dal primo anno di vita, in quanto la figura di riferimento si esprime emotivamente in modo non ambiguo. Le emozioni che comunicano senso di sé in relazione agli altri e ai modelli socialmente condivisi, svolgono un ruolo fondamentale nella regolazione dell'emotività di base, volta a modulare l'immediatezza di sentire. Le organizzazioni di tipo ossessivo e disturbi alimentari psicogeni, vincolate da uno stile di attaccamento costruito su atteggiamenti di ambivalenza o ambigui della figura di riferimento, hanno una orientamento esteriorizzato (outward). Le emozioni primarie non sono espresse in modo netto e definito e l'organizzazione del dominio emotivo è basata sull'interpretazione di stimoli ambigui accompagnati da un'attivazione indifferenziata. Le emozioni autocoscienti prevalgono rispetto a quelle di base e consentono la costituzione di un senso di sé vago o impercettibile. L'individuo si definisce solo a partire da una fonte di referenza esterna. Nel caso dell'attribuzione causale esterna gli individui tendono a riferire all'ambiente la responsabilità dei propri disturbi, con una rappresentazione degli altri come ingannevoli, inaffidabili, intrusivi; nel caso di attribuzione causale interna, la percezione di sé è continuamente incentrata sull'ineluttabilità di situazioni disconfermanti, percepite come causate dalla propria incapacità e inadeguatezza. Per quanto riguarda i pazienti con personalità di tipo disturbi alimentari psicogeni, l'attribuzione causale è tipicamente esterna negli anoressici, con conseguenti atteggiamenti di autosufficienza e lotta a oltranza; l'attribuzione causale è interna negli obesi e accompagnata da un senso di sconfitta. I soggetti bulimici si trovano in una posizione intermedia con ampie oscillazioni fra i due atteggiamenti. Negli individui che sviluppano uno stile di personalità di tipo disturbi alimentari psicogeni, l'unitarietà dei processi si origina a partire da una percezione vaga e indefinita di sé e si organizza intorno a confini antagonisti fluttuanti tra il bisogno incondizionato di approvazione da parte di persone significative e la paura, altrettanto assoluta, di poter essere intrusi o disconfermanti da tali persone. La caratteristica di questo modello organizzazionale è la spiccata tendenza a reagire a ogni perturbazione dell'equilibrio tra queste polarità emotive con un'alterazione dell'immagine corporea che si esprime con un comportamento alimentare disfunzionale. L'oscillazione tra la necessità di riferirsi a un polo esterno per definire un proprio sè da un lato e la delusione che tale riferimento necessariamente comporta in termini di disapprovazione percepita o temuta, fa sì che questi individui, per costruire teorie stabili su di sé e sul mondo, articolino una complessa procedura semantica attraverso cui riordinare i dati dell'esperienza. La necessità/ timore di un riferimento esterno che può fornire approvazione e conferme si concretizza attraverso comportamenti e schemi cognitivi che permettono di esprimere le prove caratteristiche uniformandosi ad una serie di modelli considerati positivi e si determina così una costante ricerca di sintonia sulle aspettative dell'altro. L'atteggiamento ipercritico nei confronti degli altri permettere di non sentirsi troppo coinvolti o definiti: attraverso la critica si viene neutralizzare l'impatto con cui eventuali rifiuti o disconferme possono ripercuotersi sul proprio senso di identità. La capacità di valutare la propria adeguatezza è resa difficoltosa dalla scarsa competenza, durante le interazioni interpersonali, nel decodificare le comportamenti non verbali e le espressione facciali degli altri individui, con conseguente difficoltà nella comprensione degli stati emotivi altrui, nella definizione della propria pertinenza in quel contesto e nella gestione delle relazioni sociali. La percezione di un'interiorità incerta e confusa favorisce una determinante dipendenza dall'ambiente nella costruzione di una teoria su di sé e sul mondo. Le manifestazioni patologiche che ne conseguono dipendono dai livelli di organizzazione-disorganizzazione personale, di flessibilità, di adattamento e di generatività degli schemi cognitivo-emotivi. Gli elementi invarianti che caratterizzano le situazioni di scompenso sono rappresentati dall'estremizzazione dei tratti tipici di quest'organizzazione personologica: la distorsione dell'immagine corporea, la ricerca angosciosa dell'approvazione da parte degli altri significativi e il timore di un'inevitabile giudizio negativo. Per contrastare questo destino, ricorrono principalmente a due strategie: -una prima consiste nel cercare di stabilizzarsi attraverso la ricerca di un punto di riferimento esterno (ricerca di approvazione da parte di una persona significativa, adesione ad una modello ritenuto prestigioso, adeguamento alle aspettative dell'altro, protezionismo volto alla prevenzione delle disconferme). Allo stesso scopo è rivolto l'atteggiamento ipercritico che questi individui assumono nei confronti degli altri: quando avvertono il pericolo di sentirsi troppo definiti o disconfermanti, criticano in anticipo chi può essere avvertito come fonte di giudizio negativo. Rapportarsi ad un criterio esterno, per strutturare un'accettabilità personale soddisfacente nasconde numerose insidie, come la possibilità di costruire teorie che confermano il senso di non essere all'altezza delle situazioni, di non farcela a soddisfare le aspettative degli altri, di sentirsi ingannato, deluso o troppo definito dal contesto o dai desideri altrui. -La seconda strategia per contrastare il senso di inadeguatezza si fonda sulla ricerca di un criterio interno rigido, finalizzato allo sviluppo di una percezione di sé più netta e definita. Questo genera un'eccessiva difesa del proprio punto di vista da intrusioni, sostenuta da schemi cognitivi radicati sull'ingannevolezza del mondo. Questi individui assumono un atteggiamento di chiusura, evitando di esporre le proprie impressioni è ricorrono frequentemente alle bugie. Nel corso della vita gli individui con personalità di tipo disturbi alimentari psicogeni oscillano ricorsivamente fra questi due atteggiamenti. Tutto dipende da quanto si sentono in grado di rispondere alle aspettative dell'altro. Le percezione di sé che deriva dall'adesione ad un criterio interno rimane tuttavia costantemente vaga, anche quando il soggetto sente di corrispondere desideri dell'altro. Questa tendenza spiega un fenomeno piuttosto frequente anche in individui con l'organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni in fase di stabilità e in assenza di scompensi clinici: la sensazione di essere solo apparenza, di fornire un'immagine positiva ma di non essere in realtà come ci si sente di apparire. La necessità di maturare un senso di coerenza interna talvolta rende questi soggetti iperattivi, spingendoli a impegnarsi in molte attività, per evitare l'impressione di non sapere con certezza quello che vogliono dalla vita. Questa strategia comporta rischi di sentirsi vuoti, indefiniti, inattendibili, con il risultato di orientarsi sempre verso un criterio esterno. La costruzione dell'identità personale La capacità di auto-organizzazione e i processi di attaccamento sono alla base della costruzione dell'identità personale e dei relativi ruoli relazionali. La reciprocità ideo-affettiva consente nella lettura degli stati interni e orienta la strutturazione degli assetti emozionali delle modalità comportamentali; questi processi portano a caratterizzare l'identità personale che connoterà l'intero ciclo di vita soggettivo. Il confine tra unicità personale e il senso dell'alterità emerge con caratteristiche diverse da soggetto a soggetto, a seconda del dispiegarsi dei vari pattern di attaccamento. L'identità personale possiede due aspetti funzionali: l'individuazione di sé rispetto al resto del mondo e la comunicabilità intersoggettiva data dall'appartenenza a narrative socialmente e culturalmente condivise. Quest'ultimo aspetto consente a ciascun individuo di sentirsi riconosciuto e accettato dagli altri; l'identità, che svolge la funzione di contenere e modulare influssi emotivi interni, si modifica in relazione alla possibilità di regolare la sua intensità: l'individuo muta a seconda del bisogno di contenere la propria emotività. Alcuni studi sui processi di costruzione dell'identità personale hanno portato alla definizione di due tendenze di base nelle procedure di messa a fuoco di sé, tra le quali esiste sempre una continuum. Nella messa a fuoco dall'interno l'individuo dirige la costruzione dell'identità sull'interiorità e sul mantenimento del senso di sé. Poiché gli stati emotivi sono basati su configurazioni di azioni, emozioni e significati correlati a stati motivi primari ben differenziati, l'organizzazione del dominio emotivo è centrato su eventi prevalentemente interni. Nella messa a fuoco dall'esterno l'individuo polarizza la costruzione dell'identità sulla sintonizzazione a un riferimento esterno. Quest'orientamento è centrato sull'alterità e sulla variabilità del contesto relazionale e comporta la tendenza a modificare il mondo interno al fine di renderlo conforme all'esterno. Prevalgono stati emotivi autocoscienti ( vergogna, colpa, orgoglio, imbarazzo ) che orientano l'attenzione sulla corrispondenza con le figure esterne percepite come più significative. Richiedendo capacità cognitive di tipo autoriflessivo queste tonalità emotive compaiono più tardi nello sviluppo sono in genere più sfumate nelle loro espressioni comportamentali. L’identità personale, come atto riflessivo, prende forma nella regolazione reciproca fra l'esperienza vissuta e la sua ininterrotta ricomposizione in una storia coerente. Il linguaggio consente di riordinare e di comunicare la propria esperienza in modo intelligibile e di renderla, attraverso una coerenza narrativa, più consistente, stabile con la conoscenza di sé e del mondo nel quale si è immersi. L'esperienza personale può essere compresa e resa comunicabile grazie all'atemporalità che acquista all'interno del dominio linguistico. Si possono distinguere due modi di coordinamento temporale dell'esperienza: il primo fornisce un senso di persistenza nel tempo ed è indipendente dalle situazioni contingenti; il secondo è legato alla mutevolezza degli eventi e fornisce il senso di costanza di sé. La medesimezza è connessa all'assemblaggio di esperienze emotive e di configurazioni di comportamento che una individuo riconosce come ricorrenti e tipicamente personali. L'ipseità, legata alle circostanze di volta in volta messe in atto e in quanto tali imprevedibili, fornisce un senso di sé mutevole e molteplice, che necessita di essere integrato con il senso di medesimezza. L'equilibrio fra questi due processi di ordinamento dell'esperienza favorisce la flessibilità della trama narrativa e consente maggiore capacità di adattamento e di stabilità. In una trama flessibile di eventi emotivi imprevisti sono integrati nell'esperienza passata e possono modificare le aspettative future. L'identità narrativa ha origine dalla dialettica ricorsiva fra medesimezza, che garantisce senso di persistenza nel tempo, ed ipseità, che fornisce un senso di costanza legato alla contingenza e ai cambiamenti. L’identità, rappresentata come l'atto riflessivo di una narrazione autobiografica che stabilizza il senso di continuità del sé, consente di spiegare come un individuo muti nel tempo rimanendo se stesso. L'interazione tra sistemi d'attaccamento, processi di costruzione dell'identità personale e disturbi del comportamento alimentare è stata indagata fin dagli anni 70 da alcuni autori che hanno ipotizzato la centralità dei sistemi di attaccamento nell'insorgenza e nel mantenimento dei disturbi alimentari: la correlazione tra sistema d'attaccamento e disturbi del comportamento alimentare è stata successivamente sviluppata da molti altri studiosi. Una serie di ricerche evidenziano la presenza di disturbi alimentari in bambini in età preverbale e sottolineano come questi non trovino soddisfazione ai loro bisogni e comprensione dei sentimenti espressi con il pianto negli atteggiamenti di reciprocità con le figure d'accudimento. I genitori non sono in grado di cogliere il significato dei segnali emotivi dei figli; quando i genitori imparano a comprenderli il bambino acquista un senso di stabilità con la remissione della sintomatologia alimentare. Nel bambino si sviluppa precocemente una particolare abilità di adattare il proprio comportamento alle richieste dei famigliari; il bambino che strutturerà una personalità di tipo disturbi alimentari psicogeni anticipa le componenti dei genitori che avverte come discrepanti rispetto i propri stati emotivi, il che concorre a generare confusione nel riconoscimento delle proprie emozioni e difficoltà nel loro regolazione. Queste interazioni disfunzionali contribuiscono ad ostacolare lo sviluppo di processi di differenziazione somato psicologica, necessari a distinguere la varietà delle sensazioni somatiche dagli stati emozionali. Intorno alle configurazioni sensoriali esperite cominciano a comporsi quei sistemi di significato soggettivi alla base dell'identità personale e del pensiero narrativo. Quest'ultimo processo consiste nel raccontare storie su di sé a sè e agli altri. La costante inibizione dell'espressione emozionale, provocata dalla percezione confusa dei bisogni fisiologici e degli stati motivi, si rifletterà sullo stile di attaccamento, sull'identità e sull'attribuzione di significati rispetto alle percezioni somatosensoriali, alle immagini e ai pensieri che costituiscono questi vissuti emotivi. Aumenterà di conseguenza la confusione nel definire un sentimento e nell'imparare a modularlo. Il cibo diventa quindi l'ambito in cui il fanciullo può controllare il suo ambiente ed esprimere le proprie esigenze vitali. Quando i bambini rifiutano il cibo nello sforzo di rivendicare una maggiore autonomia, alcune madri, incapaci di interpretare questi comportamenti in maniera corretta, si sentono frustrate e di conseguenza rifiutano i figli. Il rifiuto provoca profondi sensi di colpa e un sentimento di inefficienza, e le porta a incrementare gli sforzi, a mercanteggiare con loro, supplicarli o cercare di distrarli. A maggiori sforzi seguono maggiori resistenze. La mancanza di sintonia reciproca conduce madre e il bambino a sperimentare livelli di frustrazione e di angoscia sempre maggiori. La famiglia in cui vige uno stile comunicativo caratterizzato dall'invischiamento non riesce a gestire il naturale cambiamento dei bisogni e della relazione durante il periodo adolescenziale; la comunicazione di bisogni e affetti viene costantemente esclusa e si strutturano complesse strategie per l’evitamento dei conflitti familiari. Le madri dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare presentano un'organizzazione rigidamente basata sulla direttività e sulle disconferme e strutturano relazioni incentrate su ripetuti tentativi di intrusione, finalizzati al controllo di ogni emozione e pensiero del figlio; anticipano costantemente la definizione del mondo, tendendo a definire i sentimenti del figlio cercando di sostituirli ai suoi sistemi di rappresentazione, aspettative e dialoghi interni. In una ricerca sulle madri di 14 pazienti con disturbi del comportamento alimentare si rilevano pattern di attaccamento prevalentemente di tipo ansioso-ambivalenza e disorientatodisorganizzato. Sì è evidenziata nelle madri una prevalenza delle stesse modalità nel loro stile di attaccamento. I padri di questi pazienti presentano atteggiamenti basati sull’evitamento delle responsabilità familiari e del coinvolgimento emotivo preoccupandosi molto dell'aspetto fisico, del rendimento scolastico o sportivo ma non degli stati emozionali, delle sensazioni e di punti di vista del figlio. L'adolescente con organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni non è in grado di riconoscere e gestire le propri sensazioni; lo schema corporeo non viene rappresentato e percepite modo coerente con le sensazioni emotive, che rimangono indefinite. Il tentativo di inserirle in un sistema di significato, per poter esplicitare se stesso agli altri, provoca fluttuazioni insostenibili al momento di metterle a fuoco e di esprimerle: l'attenzione viene quindi spostata sulla risposta dell'altro, con un'aspettativa di incomprensione e disconferma. Queste fluttuazioni provocano una sorta di disorganizzazione interna dei vari sistemi in collegamento tra loro nella strutturazione dell'organizzazione cognitiva. La spinta emotiva dell'adolescenza di solito consente di prendere consapevolezza dei propri stati interni delle proprie caratteristiche emozionali. Nei soggetti con personalità di tipo disturbi alimentari psicogeni si consolida invece un deficit di base dell'auto-consapevolezza, in cui il pattern semantici escludono odi sorgono attivamente alla traccia somatosensoriali dell'esperienza emozionale (??). Una trama narrativa su cui si articola la rappresentazione di se si contraddistingue per l'utilizzazione prevalente di dimensioni semantiche che caratterizzano la propria identità personale in termini di oscillazione tra giudizio/ noncuranza, conformità al ruolo/ inadeguatezza, superiorità/ inferiorità. Le emozioni prevalenti sono rappresentate da sentimenti di delusione e impotenza, mentre la descrizione delle propri modalità relazionali si caratterizza per fluttuazioni tra temi di adeguamento/opposizione, stima/ distima, scelta/ rifiuto, ribellione/ evitamento dei conflitti. La narrativa emozionale risulta confusa e si rileva la necessità di adeguarsi all'altro significativo ma contemporaneamente un forte bisogno del giudizio e una notevole mancanza di autonomia. I’identità personale si struttura in pattern narrativi caratterizzati da un atteggiamento verso se stessi che oscilla tra il valore assoluto e la critica spietata, e da un atteggiamento verso la realtà basato sull'ambiguità, in cui il mondo rappresenta la fonte delle possibili conferme sempre attese, ma anche delle possibili e temute delusioni. I rapporti con le persone significative sono vissuti mondo ambivalente con significati fluttuanti tra il deludere e restare delusi, evitando di definirsi attraverso indefinitezza e la superficialità nella gestione delle relazioni interpersonali. La narrativa emozionale La narrativa emozionale rappresenta quella modalità personale che ciascuno di noi utilizza per caratterizzare la propria vita affettiva e connotare emotivamente se stessi al mondo. Gli schemi emotivi e i relativi ritmi psicofisiologici sono componenti basilari della natura specificamente emozionale della coscienza dell'infante. Sulla base della qualità delle interazioni e degli scambi effettivi all'interno della relazione di attaccamento, le tonalità emozionali di base si trasformano in tratti emotivi stabili. Rispose comprensibile e prevedibili alle richieste affettive del bambino favoriscono lo sviluppo di una narrativa emozionale polarizzata in maggior misura sull'interiorità, con un predominio del senso della continuità. Quando invece il genitore risponde in modo incoerente il bambino sviluppa una scarsa capacità di discriminazione degli stati emotivi interni e prevale una narrativa polarizzata sull'esteriorità, a causa di un'attivazione neurovegetativa indifferenziata, interpretata a seconda sia della situazione, sia del significato condiviso dall'ambiente circostante. Il contesto familiare dei pazienti con disturbo del comportamento alimentare è caratterizzato da una comunicazione esplicita scarsa o distorta degli affetti: momenti di comprensione si alternano momenti di distacco e le relazioni parentali oscillano tra la piena approvazione e le critiche spietate. Lo stile affettivo della famiglia determina lo strutturarsi di modalità peculiari nella gestione dei rapporti affettivi: da un lato si assiste a una ricerca esasperata di un sentimento sincero, dall'altro l'aspettativa della delusione è sempre presente. L'esperienza di delusione, da parte di una figura percepita prima come riferimento affettivo poi inadeguata rispetto alle aspettative, attiva reazioni emozionali di sfiducia. Queste caratteristiche si presentano sia nelle fasi di scompenso che in quelle di compenso che si esprimono attraverso atteggiamenti e comportamenti tipici messi in atto nella costruzione, nel mantenimento e nella rottura dei rapporti affettivi. Al fine di confermare le proprie ineluttabili aspettative di delusione, questi individui sviluppano un interesse per oggetti d'amore impossibili o geograficamente lontani, e generalmente valutati in termini di fama, successo sociale o sicurezza personale. Le relazioni sono contraddistinte dall'angosciosa ricerca di certezza assoluta di fedeltà del partner e di sicurezza affettiva. La solidità del rapporto deve essere costantemente rafforzata. L'ossessiva ricerca di rassicurazione e conferme nei confronti del partner, se da un lato forniscono sicurezza e approvazione, dall'altro finiscono per logorare il rapporto affettivo. Viene esercitato sul partner un persistente e costante controllo mentale ed emotivo: bisogna essere sicuri di quello che l'altro prova e pensa nei propri confronti, poiché dal suo giudizio dipende la definizione della propria identità personale. Il rapporto sessuale fornisce intense emozioni che stabilizzano senso di sè positivo, ma nello stesso tempo è vissuto frequentemente come fonte di pericoloso coinvolgimento. L'intimità spesso non è sperimentata in modo spontaneo e piacevole ma viene sentita con disinteresse e noia. La percezione di un rapporto affettivo conflittuale e disconfermante provoca una fortissima delusione rispetto alle aspettative di amore e comprensione. Il tema della delusione può essere integrato nella propria narrativa emozionale attraverso due articolazioni di significato: nel caso di attribuzione causale interna verranno confermate le previsioni rispetto alla propria scarsa amabilità, nel caso di attribuzione causale esterna saranno invece gli altri essere deludenti e inadeguati. L'esclusione degli aspetti emozionali nell'esperienza personale avviene attraverso una complessa articolazione di trame narrative che oscillano tra l'iper-idealizzazione e la svalutazione di sè e dell'altro: queste tracce semantiche hanno lo scopo di modulare preventivamente le emozioni negative che si determinano nelle situazioni di confronto con gli altri significativi. La mancata integrazione tra sensazioni e significati implica l'incapacità di un’efficace identificazione e regolazione dell'emozione quando queste vengono attivate. Nella valutazione psicofisiologica dei soggetti con organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni si manifestano particolari difficoltà nel dare consistenza precisa alle sensazioni corporee. Alcuni studi sulle modalità di organizzazione psicofisiologica dei soggetti affetti da disturbo del comportamento alimentare spiegano le disfunzioni nei processi di integrazione somato-psichica ed evidenziano particolari pattern di correlazione fra attività muscolo-espressiva e risposte autonomiche. Durante le sedute di registrazione poligrafica, questi pazienti non riesco a modificare il tono muscolare. Nei pazienti con anoressia è stata notata una reazione di allarme ai primi tentativi di rilassamento muscolare a conferma del loro implicito rifiuto a lasciarsi andare in qualsiasi situazione. La mancata integrazione fra attività autonomica e componenti muscolo-espressiva della confusa percezione del proprio corpo spiegano le alterazioni sensoriali che questi individui di solito sviluppano: mostrano difficoltà nel distinguere tra stimoli di fame e sazietà, hanno una soglia della fatica alterata e di frequente mostrano alterazioni sensoriali della soglia del dolore e nella sfera sessuale. L'alta soglia del dolore contribuisce alla formazione di comportamenti autolesivi; l'alta soglia della fatica spiega l'iper-attività fisica nei pazienti anoressici. In un'ottica costruttivista la normalità, la nevrosi e la psicosi sembrano proposti come un unico continuum con dimensioni dinamiche e mutevoli i cui confini sono spesso indistinguibili. All'interno di questo spazio, la normalità sembra caratterizzata da una maggiore flessibilità dei vincoli psicofisiologici con cui un'organizzazione di significato assimila e smorza le perturbazioni interne e esterne, articolando la propria direzione nel corso del ciclo di vita. . Alcuni autori sembrano dimostrare che la flessibilità individuale dei vincoli autonomici gioca un ruolo importante nella regolazione dell'emozione e nella costruzione di una narrativa flessibile. Gli individui con uno stile affettivo rigido mostrano difficoltà a modulare l'intensità delle emozioni sgradevoli una volta che si siano innescate per non a manifestare una maggiore reattività agli eventi stressanti. Stabilità e scompensi L’incidenza dei disturbi del comportamento alimentare ha la sua massima espressione nella popolazione femminile in età adolescenziale e post adolescenziale, ma l'organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni è altrettanto frequente nel sesso opposto, sebbene si manifesti in una situazione di scompenso con modalità differenziate. I sintomi alimentari tendono manifestarsi da soli o in associazione con altri disturbi, in una continuum clinico che varia da forme lievi fino forme psicopatologiche. Le peculiarità premorbose dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare sono in genere simili: bambini o adolescenti timidi, remissivi, ubbidienti, perfezionisti e competitivi. All'origine di questo tipo di costruzione di sé vi è un attaccamento caratterizzato da inattendibilità o ambiguità della figura di riferimento e da uno scambio emotivo che non consente una discriminazione degli stati interni, se non in termini di un generico arousal emotivo. L'organizzazione del dominio emotivo è centrato su emozioni " cognitive " in genere selezionate in sintonia con quelle genitoriali. Con l'adolescenza è possibile che si crei un modello integrato e esteriorizzato delle aspettative esterne, e che l'identità si mantenga sufficientemente costante e differenziata dalla fonte di referenza esterna. Nel caso contrario l'identità si sviluppa con contorni vaghi e fluttua in base ai diversi contesti, con uno sbilanciamento a favore dell’ ipseità. In tal caso la demarcazione dall'altro, sempre avvertito come invadente e giudicante, si realizza attraverso modalità attivamente oppositive o passivamente aggressive. Nell'organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni, poiché l'identità è definita su un'alterità, prevalgono i temi di autonomia, capacità, accettazione da parte dell'altro, affettività e esteriorità. Questi temi sono presenti in varie forme, da quelle più concrete a quelle più astratte e creative. La peculiarità outward permette di comprendere meglio in che modo un'esperienza destabilizzante possa condurre a un cambiamento patologico dell'identità narrativa. La percezione di non corrispondenza alle aspettative esterne si accompagna a emozioni di colpa e vergogna, mentre all'assenza dell'altro significativo corrispondono senso di vuoto, disgregazione e frammentazione. In un'esperienza di solitudine, risulta difficile mantenere stabile l'identità, mentre una condizione di autonomia può comportare un senso di inaffidabilità personale, spesso risolto con il tentativo di conformarsi a un criterio ideale di riferimento al prezzo di un senso di non autenticità e non spontaneità. Di contro, la dipendenza dall’altro per la definizione di sé fa sì che la presenza della persona di riferimento venga percepita come intrusiva. Queste sensazioni sono spesso regolate adottando un atteggiamento oppositivo verso la persona di riferimento, atteggiamento che permette di sentirsi demarcati pur rimanendo legati. Negli individui con organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni le situazioni di scompenso si determinano in seguito a sensazioni pervasive spiacevoli attivate nei contesti di reciprocità che implicano un giudizio su di sé. I sentimenti di inadeguatezza, incapacità, inconsistenza personale, che emergono nelle interazioni sociali e affettive vengono modulati attraverso una modificazione della propria immagine corporea. In alcuni individui questa prassi si concretizza nel controllo esasperato del proprio corpo e in un'ossessiva ricerca di un'immagine esteriore perfetta. Le strategia attuate comportano dominio delle oscillazioni biologiche di fame/ sazietà e fatica/ riposo e la ricerca di continue conferme sulla propria competenza e sul potere di controllo dei bisogni del proprio corpo. La distorsione dell'immagine corporea annulla la discrepanza cognitiva tra un modello di bellezza esteriore e una corporeità che nella realtà si caratterizza per l'estrema consunzione. In altri individui prevalgono aspetti relativi alla propria incapacità di controllo: in tal caso il quadro psicopatologico è dominato da passività e discontrollo dei propri impulsi con comportamenti compulsivi e sregolati. Un colpo brutto rappresenta il tentativo di circoscrivere la propri esperienza di negatività e incapacità agli aspetti esteriori: l'eventuale rifiuto viene così ridotto ai solo aspetti estetici. L'esperienza di rifiuto, delusione o disconferme viene ricondotta alla propria inaccettabilità estetica piuttosto che all'incapacità di essere amato e approvato. Il sintomo alimentare talvolta rappresenta l'unica modalità possibile per stabilizzare un'identità che si definisce attraverso riferimenti esterni; il diverso grado di coerenza e organizzazione della propria identità personale si differenzia nell'espressività clinica. Un'emozione di intensa discrepanza rispetto alla coerenza della trama del proprio racconto biografico può costituire l'evento che impone un cambiamento dell'identità narrativa. Quando quest'esperienza non viene articolata e integrata nel senso di sé, si sviluppa un quadro psicopatologico caratterizzato da un senso di discontinuità e dalla perdita della coesione. Altrettanto perturbanti risultano le situazioni di confronto interpersonale e la possibilità di incorrere in disconferme o giudizi negativi. Si nota la tendenza ad evitare situazioni in cui è necessario confrontarsi con persone percepite come giudicanti. La necessità di essere definiti dall'esterno spinge d'altro canto alla continua ricerca di approvazione di persone più sicure o di successo. Le relazioni interpersonali sono gestite con atteggiamenti superficiali e ambigui: il soggetto si esprime per luoghi comuni e si uniforma ai diversi interlocutori nel momento di affermare le proprie opinioni o prendere decisioni. Quando le strategie di evitamento falliscono ed esporsi diviene necessario, si registra la tendenza a mettere alla prova e tenere sotto controllo le persone significative. Ad eccezione dei casi in cui l'alterità è rappresentato da un modello ideale, integrato e esternalizzato, il "personaggio" tende ad adattarsi di volta in volta alle circostanze, con una caratteristica volubilità. Il cambiamento e scompenso si presentano come rapidi, superficiali e instabili. A volte il cambiamento è reso necessario da un’ emozione incontrollabile, altre volte è indotto da una rilevante variazione nel contesto di riferimento, come l'inizio o la fine di una relazione, un cambiamento di lavoro ecc. In ogni caso perché un cambiamento si possa attuare senza discontinuità psicopatologiche, aggiornando il racconto autobiografico senza incomprensibili interruzioni, è necessario cambiare riferimento esterno e avviare una nuova lettura di sé. Proprio per la sua natura questa svolta è in genere instabile e improvvisa, e determina un repentino mutamento del racconto in base al quale si vengono a modificare o gestire gli stati interni. La psicoterapia dei disturbi del comportamento alimentare L’approccio terapeutico costruttivista situa anoressia, bulimia e obesità psicogena lungo un unico continuum, dal momento che tali disturbi presentano nella maggior parte dei casi un’etiologia essenzialmente simile. Considerare il sintomo un'attiva strategia del paziente per dare significato e coerenza alla propria esistenza consente di privilegiare temi legati alla costruzione del Sé. A causa dell'età d'esordio di queste patologie, (adolescenza e prima giovinezza) si rende necessario prestare particolare attenzione alla relazione esistente tra il tipo di struttura familiare e il processo attraverso il quale si è costruita l'identità del paziente, nonché al ruolo della famiglia nella formazione nel mantenimento dello scompenso alimentare. La strategia psicoterapeutica per i pazienti con disturbi del comportamento alimentare non si differenzia sostanzialmente da quello proposto dal modello costruttivista per le altre organizzazioni di significato personale e relativi scompensi; tuttavia, malgrado non esistano trattamenti specifici per questi pazienti, non vanno tralasciati alcuni aspetti tipici di queste personalità. Assessment e relazione terapeutica Un’attenta valutazione clinica consente di stabilire la gravità della sintomatologia, la fase del ciclo di vita in cui si trova il paziente e il suo rapporto con l'insorgenza di disturbi alimentari. È utile sapere se il paziente presenta caratteri di cronicità, se si trova nella fase iniziale ed euforica del digiuno, se riesce a mantenere un sottopeso stabile, si tratti bulimici sottostanno a un'oscillazione di peso significativa e così via. È sconsigliato tuttavia indagare troppo nel dettaglio le abitudini alimentari del paziente che considererebbe intrusivo un simile intervento e manifesterebbe atteggiamenti oppositivi. Spesso è necessario fornire anche un sostegno o un supporto terapeutico alla famiglia, mai sostitutivo di quello individuale. Negli individui con organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni la stretta correlazione tra situazioni di reciprocità e scompensi si riflette nelle fasi di formazione e gestione della relazione terapeutica. I primi incontri sono cruciali perché ci si gioca la possibilità di stabilire un rapporto di collaborazione e fiducia; la diffidenza dell'anoressico che sente minacciata l'esigenza di salvaguardare la propria autonomia, la sfiducia e il sentimento di inadeguatezza del bulimico che avverte il proprio disturbo con sentimenti di rabbia e sconforto, possono essere motivo di un abbandono precoce della terapia. È di fondamentale importanza instaurare una relazione al cui interno sia chiara la definizione dei ruoli, per costruire una reciprocità stabile e definita. Il terapeuta deve riporre la massima cura nell'evitare commenti e valutazioni personali, anche e soprattutto qualora richiesti. Questi pazienti ripongono aspettative irrealizzabili nella terapia e sul terapeuta, il che aumenta la probabilità di restare delusi e di abbandonare il trattamento. Vanno evitati contratti terapeutici finalizzati alla modificazione del peso corporeo, perché vincolano il terapeuta a una meta che è sotto il controllo del paziente. Fissare obiettivi legati all'alimentazione può fuorviare dal percorso terapeutico, impedendo al paziente l'analisi e la comprensione del reale significato dei sintomi alimentari che rappresentano la migliore strategia che ha strutturato nel suo contesto relazionale, familiare e sociale per far fronte una sensazione inconsistente di sé. Il terapeuta deve riconoscere e regolare le proprie tonalità affettive, modulando le esperienze di rabbia, noia, frustrazione, interesse verso il paziente, consapevole del proprio stile di protezione e accudimento; dev'essere in grado di entrare e uscire dalla relazione in modo da non trovarsi mai completamente distaccato né coinvolto, gestendo l'emotività propria e altrui in modo da poter operare perturbazioni strategicamente orientate che indirizzano il paziente al cambiamento. La relazione terapeutica ha come presupposto una reciprocità affettiva in cui vengono rispettate le caratteristiche individuali: questo significa condividere l'emotività disturbata del paziente attraverso una mutua comprensione e un comune coinvolgimento. Il terapeuta non assume la valenza di base sicura in quanto sempre sereno e comprensivo, ma in quanto pronto a vivere spontaneamente e a negoziare i propri vissuti motivi con il paziente. Per il terapeuta entrare in reciprocità con l'altro significa riuscire a condividere le modalità di scompenso emotivo senza assumere il ruolo di maestro di vita; la percezione di un terapeuta intrusivo o giudicante riduce la possibilità di una reale comunicazione affettiva, orientando il paziente verso verbalizzazioni e comportamenti volti all'ottenimento di conferme e approvazione. Il processo di condivisione emotiva inizialmente incrementa la possibilità di apertura del paziente verso il terapeuta e in seguito favorisce una maggiore capacità di condivisione sociale delle proprie esperienze emotive. Una reciprocità stabile con il terapeuta facilita nel paziente il riordinamento del nuovo bagaglio di conoscenza personale in un nuovo sistema esplicativo: il comportamento alimentare disregolato non viene più percepito come qualcosa di esterno ma viene integrato coerentemente nella propria dinamica affettiva. Tutto questo permette di ricavare nuove informazioni e di ri-orientare pattern di significato attribuiti alla propria esperienza mediata, operando in tal modo scelte di vite originali e imprevedibili. La riformulazione del problema La focalizzazione e il riordinamento esplicito dell'esperienza immediata Una volta stabilita una relazione terapeutica appropriata e collaborativa, si procede alla riformulazione del problema attraverso l'analisi dello scompenso psicopatologico e la dettagliata ricostruzione della storia clinica del paziente. Tale riformulazione inizia in questa fase di terapia e viene sviluppata nelle fasi successive: un tema di base sotteso al sintomo alimentare è la drammatica sensibilità all'esposizione del giudizio altrui. Questo assunto rappresenta un aspetto basilare su cui impostare il processo di cambiamento, in quanto costituisce un ingrediente fondamentale del senso di sé costruito interamente sulle conferme esterne. Il terapeuta guida il paziente da un contesto in cui l'esterno sembra spiegare l'interno ad un contesto più soggettivo. La difficoltà di questi individui a riconoscere i propri stati interni fa si che l'interno resti delimitato da aspetti principalmente corporei, tanto che solo attraverso l'analisi delle questioni relative all'immagine corporea paziente riesce a dare forma ai problemi affettivi, professionali, sociali, sempre all'interno del tema dell'inadeguatezza corporea. Al fine di facilitare la riformulazione del problema il terapeuta indirizza il paziente alla focalizzazione e al riordinamento dell'esperienza immediata, facendogli rilevare gradualmente la differenza tra l'esperire e lo spiegare. Ciò gli consente, percependo con maggior chiarezza gli stati emotivi, di riconoscerli come tali e di attribuirseli. L'incremento di consapevolezza determina una maggiore demarcazione dall'esterno e un miglioramento nella discriminazione tra i propri punti di vista e le aspettative dell'altro, fra le opinioni personali e altrui, in precedenza assunte come proprie. L'espressività della sintomatologia permette al paziente di modulare il senso di vuoto e di incapacità che emerge nelle situazioni di confronto, evitando contemporaneamente una definizione di sé in termini negativi. La riformulazione viene operata attraverso il processo di progressiva identificazione delle perturbazioni emotive e il loro successivo confronto con la sequenza di eventi che le precedono, le accompagnano e le seguono. Questo lavoro permette l'emergere progressivo di una discrepanza fra l'esperienza immediata e il riordinamento narrativo del paziente: ciò genera una perturbazione a cui il paziente deve far fronte riorientando i propri pattern narrativi e la sua attenzione si sposta dal sintomo alle caratteristiche personali che lo generano e lo mantengono. I sintomi perdono man mano d'importanza in un processo di progressiva consapevolezza delle proprie caratteristiche cognitive, emotive e relazionali. Il paziente può strutturare una diversa prospettiva nel modo di porsi di fronte allo scompenso in atto. Il tema del confronto del giudizio degli altri, i sentimenti di inadeguatezza e di incapacità, vengono focalizzati e progressivamente integrati nel proprio senso di identità, che diventa sempre più soggettivo, esteriorizzato è meno dipendente dall'esterno. Nel processo psicoterapeutico uno degli obiettivi basilari consiste nell'individuare i pattern di significato tramite cui l'individuo cerca di dare forma e coerenza alla propria esperienza emozionale. Il paziente deve sperimentare nel corso della terapia, situazioni o eventi e emotivamente rilevanti capaci di determinare un’espressione emozionale orientata verso la riorganizzazione. Fluttuazioni affettive intense rappresentano un segnale, che costringe l'individuo ad un processo di riorganizzazione del sistema di conoscenza, in cui la ricerca di una diversa integrazione fra gli schemi senso-motori e rappresentativi eviti una crisi profonda del sistema di conoscenza individuale. Nel setting clinico il terapeuta assume il ruolo di perturbatore emotivo. Un utile strumento operativo è la tecnica della " moviola " descritta da Guidano: questo metodo facilita il riordinamento narrativo rispetto a situazioni vissute come perturbanti, permettendo di focalizzare e integrare meglio esperienze altrimenti confuse disorganizzate. La rievocazione di eventi emotigeni durante la seduta produce una serie di attivazioni emotive: queste variazioni neurovegetative possono essere registrate mediante l'acquisizione di parametri psicofisiologici e quindi utilizzate strategicamente nell'identificazione e nella ricontestualizzazione dei vissuti del paziente. La definizione di un sé più interiorizzato e articolato facilita nel paziente una migliore definizione dell'altro nella relazione. L'osservazione di altre persone in situazioni sociali permette di comprendere il comportamento e le espressioni altrui in relazione a sé e di acquisire una serie di nuove e inattese informazioni. Successivamente, queste osservazioni vengono discusse con il terapeuta per valutare e integrare la sequenza di informazioni sensopercettive e confrontarle con la propria modalità narrativa. Il lavoro di osservazione e raccolta delle informazioni nelle interazioni significative viene proposto nelle situazioni di vita del paziente. La discrepanza tre esperienza sensopercettive e modalità individuali di attribuzione di significato lo conduce ad una necessità di riorientamento dei propri pattern narrativi, in un contesto semantico maggiormente integrato e coerente con l'esperienza immediata. Viene implementata in questo modo la capacità di riconoscere gli stati emotivi e mentali propri e dell'altro, in una dinamica in cui è il paziente a definire se stesso degli altri, non più attraverso modalità vaghe o ambigue, ma secondo una personale attribuzione di stati emotivi e mentali propri di ogni individuo, relativamente indipendenti e derivabili dall'esperienza sensoriale. Rielaborazione dello stile affettivo Alla riformulazione del problema segue la ricostruzione dello stile affettivo, durante la quale il terapeuta fa rilevare al paziente come i disturbi alimentari abbiano sottolineato l'intero andamento dei suoi rapporti affettivi. Il tema della delusione regola la formazione, il mantenimento e la rottura dei legami affettivi. Alla fine di questa fase generalmente si assiste ad un graduale miglioramento della sintomatologia alimentare. Il terapeuta assiste il paziente nel riesame delle relazioni affettive che si sono succedute nella sua vita sentimentale, con attenzione alle caratteristiche invarianti attraverso cui vengono strutturati, mantenuti e conclusi i legami sentimentali. Sono centrali i temi dell'aspettativa massimale rispetto ai rapporti affettivi, la continua ricerca di approvazione e conferma e l'inevitabile delusione legata al distacco. L'aspettativa di delusione implica una continua necessità di segnali di approvazione e di conferma da parte del partner. Quando questi segnali non arrivano si verifica come in caso di conflitti, delusione delle aspettative e critiche. Quando il livello di coinvolgimento emotivo si fa più intenso, la scarsa capacità di integrare le esperienza affettive in una pattern narrativo coerente con il proprio senso di identità, provoca perturbazioni emotive mal riconosciute e modulate unicamente attraverso comportamenti di continuo monitoraggio e controllo su di sé e sull'altro. Il controllo del proprio corpo rappresenta l'unica possibilità di controllo su di sé,, mentre la continua ed esenuante messa alla prova del partner ha lo scopo di ottenere feedback di approvazione e di adeguatezza personale. La definizione degli aspetti soggettivi invarianti che regolano l'organizzazione dello stile affettivo favorisce un distanziamento progressivo dalle caratteristiche personali che il paziente riconosce come causa di disagio o di scompenso. Questo distanziamento si determina con un processo di acquisizione e consolidamento di un senso di sé maggiormente individualizzato, la cui stabilità risulta relativamente indipendente dall'andamento delle relazioni affettive. Ricostruzione della storia di sviluppo La ricostruzione della storia di sviluppo viene generalmente proposto nella fase conclusiva della psicoterapia, quando i sintomi si sono fortemente ridotti o sono scomparsi. L'obiettivo è quello di rielaborare i temi basici di significato all'interno di una dimensione in cui il paziente sia più consapevole degli stati interni e più demarcato dall'esterno e dal giudizio degli altri. Data la difficoltà nel distinguere tra ricordi derivanti da esperienze dirette e ricordi derivanti dal racconto di altri familiari, la possibilità di ricostruire una storia di sviluppo personale a partire dalle proprie memorie contribuisce a sviluppare un senso di sé più stabile e definito. La rievocazione e la successiva discussione degli eventi che hanno caratterizzato il proprio percorso evolutivo hanno lo scopo di integrare nella storia personale del paziente i processi con cui si sono strutturate le sue sensazioni e le spiegazioni e i significati attribuiti loro nell'arco della vita. L'esclusione delle strutture di conoscenza emozionale dalla definizione di sé orienta i sistemi di memoria verso una caratterizzazione prevalentemente semantica dei ricordi, con la conseguente difficoltà nella rievocazione di memorie specifiche legate ad eventi emotivamente rilevanti. Il riordinamento delle esperienze critiche nell'ambito del proprio ciclo di vita è connotato da un continuo "reframing" di quegli eventi, che conduce progressivamente il paziente ad una migliore capacità di identificazione, integrazione, decentramento e distanziamento dalle componenti cognitivo-emozionali che fanno parte della percezione di sé in corso. La possibilità di rileggere la propria storia operando un'integrazione coerente tra ricordi, vissuti emozionali ed esperienza attuale, si riflette in una maggiore capacità di organizzare un senso più differenziato della propria individualità. Conclusioni Il decorso dei disturbi di comportamento alimentare è variabile: nei casi di anoressia, talvolta si presenta caratterizzato da una remissione più o meno completa, in seguito a un episodio singolo, in particolare nei pazienti più giovani e con miglior adattamento sociale e lavorativo preesistente; altre volte l'andamento pare irregolare con remissione o riesacerbazioni. Benché la risposta alla psicoterapia correttamente programmata e condotta sia buona a breve termine, non ci sono dati sufficienti sugli effetti del trattamento nel tempo. Fattori pronostici sfavorevoli sono l'appartenenza al sesso maschile, la comorbilità con altri problemi psicopatologici, una marcata entità del calo ponderale, un grave disturbo dell'immagine corporea, l'ostinata negazione della malattia. Fattori favorevoli sono l'età più giovane, che implica una più breve durata di malattia, la presenza di un buon adattamento sociale e lavorativo preesistente. In circa la metà dei casi trattati rimangono però sintomi residui o sequele psicopatologiche, come la presenza di sintomi depressivi, tratti ossessivo-compulsivi di personalità e dipendenza da farmaci. Le più frequenti cause di morte sono la denutrizione e gli squilibri elettrolitici, più raramente il suicidio. Malgrado la normalizzazione del peso corporeo possono rimanere anomalie del pattern alimentare e il rapporto con il cibo può rimanere alterato a lungo, con restrizioni caloriche, costante preoccupazione per il peso, crisi bulimiche. L'amenorrea si risolve in buona parte dei casi, anche se rimangono varie irregolarità mestruali. È stato osservato che per circa un terzo delle pazienti trascorre più di un anno tra il recupero di un peso corporeo adeguato e la ricomparsa del ciclo mestruale. Il peso rimane al di sotto dei valori medi in circa un quarto dei pazienti. Nella maggior parte dei casi si ha ritorno ad un valore normale, talvolta si determina una condizione di sovrappeso, raramente di obesità. L'adattamento sociale risulta generalmente compromesso soprattutto nell'area socio-lavorativa e sessuale. Attualmente non si hanno dati attendibili circa il decorso a lungo termine della bulimia. Generalmente anche dopo la scomparsa delle crisi bulimiche permangono la polarizzazione ideativa sul cibo, sul peso e sull'aspetto fisico e un aumentato rischio di patologia psichiatrica. La cronicizzazione del disturbo sembra verificarsi in meno di un quarto dei pazienti; nella maggior parte dei casi viene riportata una completa remissione della sintomatologia bulimica. Si osservano ricadute in circa la metà dei casi, a seconda del periodo di follow-up studiato e dei parametri considerati. Il tasso di mortalità associato alla bulimia non è definito, ma sembra essere superiore rispetto a quello della popolazione generale. Fattori prognostici positivi sembrano essere la minore durata della malattia e l'assenza di disturbi di personalità; contrariamente alle aspettative, una storia familiare di abuso alcolico sembra costituire un fattore pronostico favorevole. La maggior parte dei trattamenti fin’ora impiegati del disturbo da alimentazione incontrollata ha dato risultati modesti, peraltro solo in circa la metà dei pazienti e nel breve termine. In assenza di linee guida specifiche, pare ragionevole fondare il trattamento di questi pazienti su un approccio integrato, indirizzato sia al disturbo della condotta alimentare sia alla condizione di sovrappeso, visto anche l'effetto reciproco di potenziamento delle abbuffate e dell'incremento ponderale. Un approccio combinato, sostenendo la spinta motivazionale al dimagrimento e favorendo l'adesione alla terapia dietetica, potrebbe migliorare nel lungo termine la prognosi del disturbo. Capitolo 6 l'organizzazione cognitiva psicosomatica I disordini alimentari psicogeni sono un caso particolare di disturbo psicosomatico; ci pare importante confermare ed evidenziare le caratteristiche comuni di questi due disturbi. Esiste un'ampia organizzazione comune che rende conto del modo in cui le persone in equilibrio psichico costruiscono il proprio se-nelmondo. All'interno di quest'organizzazione si specificano in senso patologico disordini alimentari e disturbi psicosomatici. Il concetto di “psicosomatica” ha una lunga tradizione che inizia con la psicoanalisi. Quello che si osserva all'interno del paradigma cognitivista è il radicale cambiamento di prospettiva: si passa da una lettura del sintomo come meccanismo di difesa, ricco di significati psicologici e spesso sostenuto da una personalità narcisistica, a qualcosa di più esteso, al modo che un individuo ha di riorganizzare il proprio fluire esperienziale in base al proprio corpo. Per comprendere meglio cosa questo voglia dire partiremo dalle considerazioni sulla strutturazione di questo tipo di organizzazione cognitiva, prendendo in considerazione l'infanzia e lo sviluppo di uno stile di conoscenza di tipo psicosomatico e analizzando i significati e i vissuti di quest'organizzazione. La strutturazione dell'organizzazione Nell'infanzia della persona con organizzazione psicosomatica troviamo frequentemente esperienze di attaccamento di tipo insicuro, soprattutto sul versante dell’evitamento, con stato mentale distanziante, incoerente e normalizzante rispetto ai bisogni di accudimento dell'infanzia, o sul versante dell'ambivalenzaresistenza con stato mentale invischiato. Spesso nella storia infantile del bambino che svilupperà un'organizzazione di tipo psicosomatico si osserva una discontinuità nell'accudimento e nella vicinanza da parte della figura di riferimento. Nell'esperienza infantile dello psicosomatico, si osserva un'incongruenza fra i messaggi della figura di attaccamento e le sue sensazioni interne, e questo porta ad una difficile acquisizione di competenze nella comprensione di sé. Il genitore tende a disincentivare la comprensione delle sensazioni interne perché è lui stesso che attribuisce significati suoi e li consegna al figlio. Quest'attribuzione esterna fa sì che non venga favorita l'acquisizione di una competente lettura sui propri stati interni. Tutto ciò porta ad un faticoso sviluppo del pensiero riflessivo e quindi ad una debole metacognizione di sè. La consapevolezza di sé è fragile, la lettura dell'altro è spesso eccellente. Lo psicosomatico sin da piccolo è impegnato nell'impresa di riuscire a capire l'altro, e mano a mano questo quotidiano tentativo diventa una consolidata e fine capacità. Vi è un'infinita sproporzione tra la capacità di lettura dell'altro e l'impossibilità di leggere se stessi: la personalità psicosomatica si riferisce costantemente all'altro per orientarsi nel mondo, è più facile per lei capire che cosa pensa l'altro e riportarlo a sé. La figura genitoriale dominante è solitamente la madre, che sebbene iperprotettiva nei confronti del figlio sembra non ricavare piacere dall'accudirlo: il controllo generalmente prevale sulla tenerezza e sul calore emotivo: l'attenzione è posta sul benessere fisico del bambino, sulla gradevolezza dell'aspetto corporeo e sul buon rendimento scolastico. Il padre sta più sullo sfondo, in secondo piano, passivo e poco presente: spesso viene idealizzato. La famiglia dello psicosomatico è impeccabile in superficie, l'enfasi sull'apparenza pone la coppia genitoriale nella condizione di non rendere evidenti conflitti e rivendicazioni, i problemi vengono tenuti nascosti non solo agli altri ma anche a se stessi. Frequentemente l'adolescenza degli psicosomatici è descritta come piuttosto tranquilla, senza problemi di sorta: in perfetta sintonia con le regole familiari, gli adolescenti psicosomatici sono bravi a scuola, hanno una buona competenza sociale e riescono ad aderire all'idea di protezione dei genitori. Durante questo periodo inizia ad emergere quella confusione rispetto al senso di sé che accompagnerà in seguito lo psicosomatico. Confusione che vede la sua origine nella lettura di sé che l'altro gli fornisce. Questa confusione con il tempo diventa insostenibile e la strategia che verrà adottato sarà quella di allontanarsi in modo sempre più marcato dal proprio sentire, fino a non riconoscere le emozioni esperite e i propri desideri. I tratti caratteristici Lo psicosomatico non ha un vocabolario mentalistico adeguato: non padroneggia le credenze, i desideri, le intenzioni. Non è allenato a trovare le parole per descrivere quello che sente e così accade che il suo agito preceda il pensato. Gli psicosomatici stanno nell'azione e da ciò che fanno cercano di inserire quello che pensano e quello che sentono. L'azione è apparentemente priva di pianificazione: o meglio le determinanti dell'azione ci sono ma non raggiungono la soglia della coscienza. Nella persona con organizzazione cognitiva psicosomatica l'interpretazione di cosa il corpo esprima è molto difficile, sia per il paziente sia per il terapeuta. La lettura dell'emozione degli stati mentali presenta un’ impossibilità di decodifica anche soggettiva, che costituisce un possibile problema, ricorrente specialmente all'inizio della terapia, quando lo psicosomatico può giudicare inadeguato il terapeuta che " non capisce ". Non è un problema di comprensione del terapeuta e neanche di incapacità del paziente ad esprimersi: il deficit di auto-consapevolezza dello psicosomatico va ridotto progressivamente tramite uno sforzo comune di attribuire significato intenzionale a quello che gli accade. L'unico strumento che lo psicosomatico ha per capire qualcosa di sé è il corpo, ma a loro volta significati espressi fisicamente non sono di così facile comprensione in quanto possono essere dovuti da situazioni molto diverse. Tra le emozioni tipiche dell'organizzazione psicosomatica vi sono quella di vergogna, senso di inferiorità e di inadeguatezza. Un'altra emozione ricorrente è la delusione. A questo vissuto è spesso legata una precedente idealizzazione dell'altro. Alla ricerca di approvazione lo psicosomatico può avvicinarsi molto all'altro, affezionandovisi, salvo poi, non appena percepisca qualcosa di negativo, assistere ad un repentino crollo dell'immagine idealizzato. È una dinamica piuttosto ricorrente nelle relazioni con gli psicosomatici, dove in tempi estremamente veloci possono allacciarsi strette amicizie e amori appassionanti che si consumano rapidamente: il terapeuta cercherà di evitare un'idealizzazione della propria figura, pericoloso preludio a una rovinosa caduta. Un'altra caratteristica della persona psicosomatica è la sospettata dipendenza dal contesto. Il contesto determina le mosse, la possibilità di sintonizzarsi sulla figura di riferimento di quel particolare ambito. La capacità di riconoscere il contesto e di adeguarvisi è un importante tratto di efficacia sociale; quello che succede allo psicosomatico è che viene posta enfasi su questa operazione, la sua abilità e indiscussa, e i passaggi molto rapidi. Lo psicosomatico si sintonizza inizia muoversi come il suo interlocutore, se non addirittura meglio, ha una straordinaria capacità di capire e fare quello che l'altro si aspetta che lui faccia. Si muove sul desiderio dell'altro e abbiamo infatti già visto come per lui sia più facile scoprire quello che l'altro vuole piuttosto che il proprio bisogno. Si comprende l'importanza che per lo psicosomatico ha il giudizio dell'altro. Non essendo possibile un accesso diretto alle proprie emozioni e ai propri desideri, la fatica nel domandare una valutazione su di sé all'altro è minore di quella che proverebbe dovendo esprimere un'opinione personale. Il giudizio altrui diventa una bussola indispensabile ma indica una direzione che il soggetto fa fatica a riconoscere perché non sua. Nonostante chieda disperatamente all'altro di essere orientato, lo psicosomatico si sente inesorabilmente invaso da chi lo asseconda. Dal momento che la definizione di sé parte dall'altro ed è affidata all'altro, troviamo spesso in questi pazienti una costante attenzione rivolta a coloro che rivestono amori socialmente significativi: lo psicosomatico si occupa dell'altro perché teme di non esistere se l'altro non ha pensieri per lui: ha una motivazione tesa non tanto conquistare la stima o l’amore, ma il proprio diritto ad esistere. Data la sua estrema sensibilità all'esterno, lo psicosomatico ottiene di solito spettacolari successi con gli altri in termini di pubbliche relazioni; sono spesso relazioni che lo sfiancano, e da cui non riceve mai le conferme definitive che potrà trovare solo dentro di sé. Il terapeuta deve ricordarsi di non accudire mai troppo il paziente psicosomatico, per non attivare in lui una reciprocità di accudimento che può ricondurlo ai meccanismi di sbilanciamento verso l'altro che sta cercando di tarare modo più funzionale. Il rischio di collusione è alto. Diagnosi differenziale tra disturbo psicosomatico e ipocondria L'ipocondria è un'espressione somatoforme di un disturbo fobico. L'ipocondriaco concentri i suoi timori sulla paura di ammalarsi, presentando sia un vissuto di propria debolezza, sia un’apparente irragionevolezza del timore di malattia rispetto alle rassicurazioni, sia un ascolto addirittura eccessivo dei segnali provenienti dal corpo. Lo psicosomatico comunica attraverso il corpo, ma senza rendersi conto dei segnali che il suo corpo manda, e si riscontra una caratteristica bassa attenzione verso ciò che è somatico senza essere di rilevanza estetica. Lo psicosomatico tipicamente può passare ore in palestra ma è anche pronto ad ingurgitare cocktail pseudo-vitaminici che farebbero inorridire chiunque. La preoccupazione estetica si focalizza sull'esterno, sul visibile, e trascura l'interno, i cui segnali vengono completamente trascurati, non enfatizzati come fa invece l'ipocondriaco nella costante preoccupazione di una salute che sente costantemente in pericolo. Caratterizzare l'ipocondria come un disturbo fobico non significa che tale sintomo non possa presentarsi anche in altre organizzazioni e infatti abbiamo incontrato ipocondriaci con tratti ossessivi o depressivi. Non si può invece dare uno psicosomatico ipocondriaco. L'alessitimia L'interesse per le emozioni, per la loro regolazione e per le conseguenze cliniche che un deficit di tale regolazione può avere, spiega l'attenzione posta con sempre maggior impegno teorico sul concetto di alessitimia. Il termine è stato introdotto da Sifneos, e deriva dalle parole greche alexis ( mancanza di parole ) e Thymos ( emozione ) e fa riferimento a un insieme di caratteristiche cognitive ed emotive osservate in un numero significativo di condizioni cliniche, in particolare nei disturbi psicosomatici e del comportamento alimentare. L’alessitimia può essere considerata come un deficit dell'elaborazione cognitiva e della regolazione delle emozioni. Presenta alcuni tratti principali: 1 - una ridotta capacità di identificare e descrivere le proprie emozioni; 2 - un'accentuata difficoltà a distinguere tra le proprie emozioni e le proprie sensazioni corporee; 3 - una limitata capacità immaginativa; 4 - uno stile cognitivo orientato verso l'esterno. Le caratteristiche delineate evidenziano come l'alessitimia sia una condizione clinica che porta ad una riduzione dell'esperienza emozionale sia a livello soggettivo sia a livello interpersonale. L'incapacità di riconoscere le proprie emozioni, oltre a impedire una loro adeguata regolazione ostacola anche la possibilità di condividere verbalmente il vissuto emozionale. Tratto caratteristico è quindi una scarsa capacità di rappresentarsi mentalmente le emozioni, con il risultato di focalizzasi principalmente sulle sensazioni somatiche che accompagnano l'attivazione emotiva. L'alessitimia è considerata un fattore di rischio in diversi disturbi clinici e viene considerata come un potenziale ostacolo per il processo psicoterapeutico. La ricerca scientifica condotta su questo tema negli ultimi dieci anni ha permesso di dare supporto empirico e teorico al concetto di alessitimia e di esplorarne la frequente associazione in persone affette da disturbi medici e psichiatrici. Alcuni autori hanno sottolineato il fatto che questo costrutto sia stato integrato ormai all'interno del più ampio ambito della ricerca sulle emozioni e che con ciò ha permesso lo studio sistematico a diversi livelli di analisi, come quello psicofisiologico, quello neurobiologico, cognitivo e quello della patologia dello sviluppo. Un grande impulso allo studio e alla compressione dell’alessitimia è stato dato dalla costruzione della TAS, Toronto Alexiyhymia Scale. Questa scala ha dimostrato un'alta attendibilità e validità transculturale ed è oggi lo strumento più utilizzato nella ricerca sull’ alessitimia. Di particolare interesse sono i lavori che hanno cercato di comprendere quali fattori possono essere responsabili del eziologia dell' alessitimia. Vi sono sempre più prove scientifiche del fatto che lo sviluppo fisiologico di numerose aree cerebrali e tra queste in modo particolare quelle prefrontali responsabili della nostra intelligenza sociale, dipende in modo critico dalla qualità delle interazioni affettive che le figure significative hanno con il bambino. Una questione ancora dibattuta è la natura della relazione esistente tra l'alessitimia e i vari disturbi mentali ai quali questa condizione clinica sembra correlata. Potrebbe essere un effetto secondario della manifestazione di uno stato di disagio psicologico, oppure potrebbe avere un effettivo ruolo causale nella comparsa del disturbo psicopatologico. Non sono molti i lavori che hanno adottato una prospettiva longitudinale; tra i pochi è importante citare il lavoro di un gruppo di ricerca che ha dimostrato come l'alessitimia sia una tratto stabile nel tempo non influenzato dal livello mutevole di disagio prodotto da un disturbo psicosomatico. Il fatto che l'alessitimia non possa essere considerata come una semplice reazione al disagio emotivo, ma come un fattore di rischio premorboso troverebbe conferme in un lavoro di Todarello, Casamassima e altri, che ha dimostrato come in donne con alti livelli di alessitimia sia più probabile l'occorrenza di displasie dell'apparato genitale. Considerando la complessità del concetto stesso di alessitimia è la molteplicità di tratti che la caratterizzano, alcuni autori hanno proposto di distinguere tra due principali forme di alessitimia: quella di tipo I, caratterizzata dall'assenza di esperienza emotiva e quindi di elaborazione cognitive relative alle proprie emozioni, e quella di tipo II, caratterizzata da una deficit selettivo della capacità di mentalitzzare e condividere verbalmente le proprie emozioni. In questo secondo tipo vi sarebbe una preservata capacità di esperire le proprie emozioni. Questa distinzione è tutt'oggi oggetto di discussione: è importante il monito di questi autori a non considerare più l'alessitimia necessariamente come un singolo fenomeno omogeneo, ma come l'insieme di diversi tratti ognuno dei quali degno di specifica attenzione. Il trattamento Con lo psicosomatico è importante chiarire fin dall'inizio che la terapia ha come obiettivo la comprensione, mai il cambiamento. Il punto cruciale è riuscire ad arrivare a una compressione di sé a fronte del grave problema di incomunicabilità interna di cui soffre. Una comprensione deve essere sganciata dall'azione, altrimenti la preoccupazione del proprio comportamento inibirà un'analisi delle emozioni, delle credenze e dei desideri. Ogni comportamento nel mondo è i inevitabilmente sottoposto a giudizio sociale, e questo ha un potere paralizzante su una persona che venera e teme il giudizio altrui. L'esercizio base, prima all'interno del setting e poi trasferito all'ambiente esterno, è quello di disincentivare il " cosa faccio " per favorire il " cosa voglio ". Il paziente psicosomatico non deve necessariamente fare qualcosa, la questione è accedere ai suoi stati interni, dalla scelta del gusto del gelato a quella del compagno per la vita. Questa può essere una questione difficile da affrontare all'inizio del percorso terapeutico, dato che lo psicosomatico arriverà più con l'obiettivo di guarire l'ulcera o farsi ricrescere i capelli. Al terapeuta è demandato il compito di condividere con il paziente la consapevolezza che il sintomo osservato non sarà necessariamente l'obiettivo su cui lavorare: la mena è invece quella di comprendere i bisogni di cui i sintomi sono espressione. Tutto questo non è facile perché inizialmente il paziente potrà prendere le distanze da una terapia dato che il suo disegno è diverso da quello che terapeuta gli prospetta. Il corpo ha ritmi lenti e il primo risultato terapeutico non potrà essere quello della remissione del sintomo quanto la possibilità di prevedere come il corpo reagirà la prossima volta. Al paziente che arriva in terapia la prima cosa da comunicare e che ci sono scarse probabilità che suo disturbo fisico possa essere modificato in tempi brevi. Se il lavoro è rivolto alla comprensione ci si può aspettare una volta dato un senso al sintomo sia possibile un allineamento del disturbo, o quanto meno che aumenti la probabilità di prevenirlo. Il giovane psicoterapeuta deve resistere alla tentazione di fare un contratto in cui l'obiettivo sia la remissione del sintomo fisico, in quanto le aspettative potrebbero essere deluse. I sintomi vanno interpretati attraverso il costante lavoro di lettura dei segnali che il corpo manda; c'è un aspetto pedagogico che consiste nell'aiutare il paziente a comprendere in modo sempre più fine quello che sente, consolidando il segnale e rafforzando la sensazione. Grazie a questo lavoro lo psicosomatico potrà iniziare a percepire una linea di confine tra sé e l'altro che si consoliderà con l'esercizio e gli permetterà di esprimere sé stesso avendo sempre meno timore del giudizio altrui. Al sintomo va attribuito un senso che solo paziente può riuscire a trovare, analizzando la sua vita, le attribuzioni di significato, il momento di prima insorgenza del disturbo, le ragioni che lo portano a mantenerlo anche a distanza di anni. La scelta dell'organo bersaglio diventa molto interessante da analizzare. Se è la parte esterna del corpo a risultare danneggiata, è tipicamente la funzione estetica o interpersonale a venire compromessa. Se è una parte interna del corpo essere sofferente, diventa importante capire come rappresenti per il paziente sia l'organo specificato sia la corrispondente funzione. Si comprende intuitivamente il diverso significato di una disfunzione a livello cardiaco, polmonare, genitale o gastrico. L'obiettivo finale sarà quello di dare senso ogni momento della giornata. La relazione Il terapeuta si trova davanti una persona inconsapevole di sé; il suo obiettivo è aiutare il paziente a costruire il proprio sé, sviluppandone pian piano un nucleo centrale e confini precisi. Il terapeuta si deve sottrarre alla ripetizione dello schema patologico di richiesta-invasione-delusione, ma senza far sentire al paziente di essere rifiutato come persona. Il terapeuta non deve mostrarsi perfetto: resta costantemente e apertamente imperfetto. L'eventuale immagine del terapeuta come esente da difetti va interpretata in terapia in termini di una lettura personale del paziente che non si concilia con il dato di realtà dell'umana imperfezione del terapeuta; con questi esercizi i pazienti iniziano ad avere la possibilità di differenziare sè stessi dall'altro significativo,costruendo un proprio sistema di valori e significati a partire dalle sue emozioni un tempo impossibili da riconoscere. Quindi se lo psicosomatico trova qualcosa che non va nel terapeuta o nell'interazione con lui, il terapeuta lo accoglie come un passaggio positivo perché viene esperita la possibilità di rimanere in relazione con una persona pur riconoscendone i difetti. Il terapeuta dello psicosomatico deve rimanere stabile, accettante, mai evitante. La stabilità è garantita nella misura in cui riesce ad offrire un messaggio di presenza, forte e ferma. Il paziente si allontana e poi ritorna e il terapeuta sarà sempre lì ad aspettarlo. Quella con il terapeuta potrebbe essere per il paziente la prima relazione non giudicante; bisogna tenere in considerazione che l'assenza di valutazione va mantenuta anche nel caso di un giudizio positivo nei confronti del paziente. L'apprezzamento può essere fonte di ansia per lo psicosomatico e può fornirgli pressione rispetto all'aspettativa del terapeuta. Uno dei problemi del terapeuta del paziente psicosomatico riguarda proprio la dimensione del giudizio. Disapprovazione e approvazione non devono mai emergere nell'incontro con il paziente. Con i pazienti psicosomatici occorre avere un costante contatto emotivo: percepiscono e sono sensibilissimi a ogni minima distrazione del terapeuta: il paziente psicosomatico è un paziente che per certi versi ha capacità di leggere nel pensiero del terapeuta. Parallelamente al contatto emotivo occorre che il terapeuta tenga una distanza cognitiva adeguata. Ci può essere il rischio che il paziente si avvicini troppo al terapeuta in un senso inadeguato al gioco della terapia, e questo va chiarito e va spiegata la ragione clinica del mantenere una certa distanza come strategia terapeutica non invasiva. Il paziente psicosomatico può esercitare una seduzione molto marcata nei confronti del terapeuta: questa seduzione è mossa del suo bisogno di ricevere l'apprezzamento di chi a sua volta stima. Motivato da questa spinta può arrivare a desiderare di essere esattamente come pensa che il terapeuta lo voglia. Un buon terapeuta conosce e sa monitorare le sue reazioni di fronte a questi tentativi. Quella dello psicosomatico è una seduzione inconscia, non è da confondersi con quella del fobico che la riconosce e la usa in mondo pienamente consapevole. Tra i punti di forza che quest'organizzazione può vantare vi è sicuramente la ricerca estetica. Quello dello psicosomatico è un mondo all'insegna del culto della bellezza, fuori e dentro di sé. Ha un modo di pensare non ortodosso, un'intelligenza fatta di idee originali ed innovative che deviano dal binario del pensiero standard. Lo stile dello psicosomatico è quello di andare fuori tema, allargare il discorso. Questo può rappresentare l'occasione per avere uscite di ingegno anche in situazioni di interazione di gruppo; la sintesi operativa non è nelle maglie dello psicosomatico, l'idea eccentrica è sempre in agguato ma, se bilanciata da quelle più lineari degli altri, diventa utile e preziosa in una dimensione allargata. Capitolo 7 I disturbi dissociativi della coscienza La clinica dei disturbi dissociativi della coscienza Appare ancora attuale far riferimento alle categorie diagnostiche del DSM IV per collocare nosograficamente i disturbi dissociativi della coscienza. Tutto questo nonostante gli ovvi limiti di un inquadramento categoriale in un contesto clinico articolato, prevalentemente dimensionale. Definizione del DSM IV: " La disconnessione delle funzioni, solitamente integrate, della coscienza, della memoria, dell'identità o della percezione dell'ambiente. Le alterazioni possono essere improvvise o graduali, transitorie o croniche. " Queste funzioni nell'uomo non sono rigidamente e implacabilmente connesse. La coscienza è una proprietà emergente; le memoria inevitabilmente fallace; l'identità discontinua e frammentata; la percezione mutevole. Il DSM parla di una distribuzione di questi disturbi tra la popolazione seconda del sesso. Studi in questo senso testimoniavano una netta prevalenza nel genere femminile, a cui si contrapponeva l'acuta osservazione di Bliss, secondo quale la maggior parte dei pazienti di sesso maschile affetti da disturbi dissociativi della coscienza andava cercata negli istituti di detenzione. Quello su cui il DSM non si pronuncia con chiarezza è la collocazione di questa categoria nosografica sull'asse uno o sull'asse due. Disturbo di tratto o disturbo di stato? I disturbi dissociativi della coscienza sembrano collocarsi trasversalmente anche nel DSM. I disturbi dissociativi della coscienza possono abbracciare un ampio spettro di gravità, configurando un sovvertimento globale dell'identità come quello riconducibile alla disturbo dissociativo dell'identità, caratterizzato dall'esperienza di depersonalizzazione e di derealizzazione, un aspetto sintomatico che sappiamo essere molto frequente nelle patologie fobiche. Il DSM pullula di altre categorie correlate con i disturbi dissociativi della coscienza. I disturbi somatoformi, i disturbi fittizi, i disturbi del sonno, i disturbi sessuali, i disturbi di personalità, alcuni disturbi affettivi sono sicuramente espressione di una discontinuità, di una frammentazione che può riguardare prevalentemente l'aspetto corporeo, quello psichico in generale, quello dell'identità di genere o quello affettivo. Con il disturbo borderline di personalità (BPD ) è poi presente una frequente comorbilità oltre che una vera e propria sovrapposizione di criteri diagnostici. Sembrerebbe che il DSM non riesca a fornire criteri chiari, specifici e selettivi per una diagnosi dei disturbi dissociativi della coscienza. In accordo con le ipotesi formulate da Liotti più di una decina di anni or sono, facciamo riferimento alla definizione di dissociazione così come questo autore la riprende dal contributo di James, che utilizzava il termine dissociation per tradurre il termine dèsagrègation utilizzato da Janet. Con questi termini i due autori descrivevano quei quadri psichici a causa dei quali complessi fenomeni ideo affettivi, per cause prevalentemente traumatiche, portavano però alla costruzione di una seconda o di un ulteriore personalità disgiunta da quella abituale cosciente. Come sappiamo il termine dissociazione è poi divenuto pressoché sinonimo di psicosi. Liotti utilizza la definizione " patologie da disorganizzazione " proprio per sottolineare l'aspetto di discontinuità, frammentazione e instabilità di questi quadri clinici rispetto a quelli mostrati dalle organizzazioni cognitive, dando luogo alla definizione di paziente disorganizzato. In genere il problema del comportamento autolesivo si associa alla diagnosi del disturbo borderline di personalità, ma anche il paziente affetto da un disturbo dissociativo della coscienza, pur presentando inusuale mitezza nei periodi intercritici, può manifestare violenti comportamenti autolesivi quando il proprio sistema di conoscenza si incanala in una direzione di estrema distruttività personale. In questi quadri clinici la diagnosi di disturbo dissociativo della coscienza può scivolare verso quella del disturbo borderline di personalità fino a sovrapporsi a queste due diagnosi, più che essere due poli estremi uniti da una soluzione di continuità, vanno collocate su un continuum circolare. La conseguenza è che, in presenza di variabilità ambientali, incluse quelle rappresentate dal processo terapeutico, possa presentarsi un disturbo borderline di personalità con un disturbo dissociativo della coscienza a seconda delle circostanze. Nella classica nosografia cognitivista, si osserva qualcosa di analogo nei pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare: cibo e vomito rappresentano spesso elementi di un progetto messo in opera con lucida determinazione, con l'obiettivo di martoriare il proprio corpo. Questo pensiero è un'ossessione e al tempo stesso un sollievo al senso di vuoto e alla solitudine emotiva ed esprime non di rado il tentativo disfunzionale ma soddisfacente di definire il confine della propria territorialità attraverso il corpo. La patogenesi Il modello cognitivo-evoluzionista e sistemi motivazionali la coscienza è una proprietà emergente che compare nella storia dell'uomo in modo concomitante allo sviluppo del linguaggio e del pensiero. Il contributo più originale di questo modello sembra proprio la grande uniformità in tutti gli umani dei sistemi di controllo del comportamento, universali e quindi uguali per tutti, che si plasmano e si modellano nell'assoluta originalità e irripetibilità del comportamento individuale. Liotti descrive cinque sistemi motivazionali interpersonali: - sistema della cooperazione; - sistema dell'accudimento; - sistema dell'attaccamento; - sistema agonistico; - sistema della sessualità. Ad ognuno di questi sistemi è riconducibile una localizzazione evolutivamente selezionata nel sistema nervoso centrale, espressione del grado di complessità, in un continuum gerarchico. Questi sistemi, cablati nel sistema nervoso centrale dei mammiferi, dei primati e dell'uomo, rappresentano un insieme degli algoritmi che guidano l'espressione e la rappresentazione dei comportamenti osservabili. Il concetto di disorganizzazione La psicoterapia cognitiva, nel tentativo di comprendere i processi disfunzionali del paziente, focalizza il proprio campo di osservazione sulla modalità con cui egli organizza i suoi costrutti concettuali. Gli umani non hanno sempre pensate modo organizzato come oggi: non è un caso che la storia dell'umanità, intesa come capacità organizzata di narrazione, coincida con l'emergenza del processo della coscienza. Tutto questo è verosimilmente databile a partire da una decina di migliaia di anni fa, il che non sta a indicare che prima di questo periodo gli umani non pensassero: lo facevano secondo una modalità discontinua e frammentata, alla quale la formalizzazione nella strutturazione del linguaggio non aveva ancora portato il suo contributo definitivo. Possiamo immaginare i pensieri degli uomini di allora sotto forma di immagini, emozioni, rappresentazioni poco strutturate, più vicine all'immediatezza sintetica di una poesia che a una definizione sintattica. Lo psicoterapeuta cognitivista usa il linguaggio e le parole come strumento di cura, evocando immagini e rappresentazioni narrative, in un processo congiunto di costruzione di significati al quale il paziente fornisce un contributo insostituibile. Ma tutto questo accade in una continuità fortemente emotiva, nella quale i sistemi motivazionali interpersonali intesi come bisogni strutturali, svolgono un ruolo assolutamente centrale, insieme alla modalità attraverso la quale il paziente ha organizzato i suoi costrutti. Nella nostra esperienza clinica non ci siamo mai imbattuti in pazienti che non presentassero problematiche connesse all'esperienza di attaccamento, alla modalità di gestire conflitti, alle difficoltà di essere accudenti con la parole, che non presentassero una disarmonia sul piano del comportamento sessuale o che non mostrassero difficoltà nell'assumere un atteggiamento cooperativo: questo è segno evidente del fatto che i sistemi motivazionali interpersonali operano nella loro armonica integrazione per consentire la rappresentazione organizzata che è alla base del comportamento osservabile. Questo non vuole dire che il paziente appaia stabilmente o ineluttabilmene disorganizzato: lo è a volte, in alcuni contesti accompagnati da un'elevata connotazione emotiva comunque non organizzbile e non rappresentabile. Si può provare a definire il nucleo del disturbo dissociativo della coscienza come espressione di un'impossibile rappresentazione di sé organizzata sulla base delle esperienze condotte all'interno di sistemi di controllo del comportamento. Ne consegue che il focus di questo contributo deve necessariamente disporsi in un complesso equilibrio tra sistemi motivazionali interpersonali e organizzazioni personali di significato. Il rapporto con le organizzazioni cognitive o organizzazioni personali di significato Le organizzazioni cognitive rappresentano ormai da un quarto di secolo il più diffuso, geniale e fruibile contributo nosografico prodotto del cognitivismo italiano. Guidano e Liotti hanno riproposto in chiave sostanzialmente clinica il modello e epistemologico di Lakatos, formulato pochi anni prima. Questo modello prevedeva che qualunque programma di conoscenza si strutturasse a partire da un nucleo centrale indicato come " metafisico " ,cioè immodificabile, intorno al quale venivano costruite ipotesi concettuali definite come " euristiche”, intorno alle quali, a loro volta, veniva assemblata una " cintura protettiva " di queste ipotesi. Applicando questo modello all'osservazione clinica collocarono nello strato più esterno, ossia nella " cintura protettiva”, il comportamento osservabile dei pazienti, il loro prodotto sintomatico; in quello di mezzo ossia nelle “euristiche”, la loro e lavorazione concettuale, correlata al comportamento osservabile e, infine, nel " nucleo metafisico”, il nodo epigenetico psicopatologico. Si trattava di un modello assolutamente geniale di grande fruibilità clinica. Le quattro organizzazioni cognitive che ne derivarono, frutto delle osservazioni cliniche compiute da questi due autori, rappresentano oggi un punto di riferimento imprescindibile per esaminare la modalità con la quale i nostri pazienti e gli umani in generale costruiscono la loro rete di conoscenza. Il concetto di organizzazione stabile, instabile, rigida e flessibile. Parlando di patologia della coscienza, e più in dettaglio di disturbi dissociativi della coscienza è naturale che ci si imbatta in un'area non completamente pertinente con quella delle organizzazioni cognitive. Non bisogna pensare che il paziente affetto da un disturbo dissociativo della coscienza non possieda un'organizzazione cognitiva. Gli esempi clinici sono eloquenti. È tutt'altro che infrequente trovare nella storia di un paziente affetto da un disturbo dissociativo della coscienza la presenza di diagnosi di organizzazione di significato molto diversi tra loro. Il problema è che il paziente affetto da un disturbo dissociativo della coscienza non ha un'organizzazione cognitiva stabile, oppure se ce l'ha è troppo rigida. Questo è evidente sia durante lo sviluppo della propria storia personale, nel corso di quelle che possiamo definire vere proprie " tappe ontologiche ", sia in un arco di tempo che tende al presente, al " qui e ora ", nel quale il paziente appare inevitabilmente disorganizzato o organizzato troppo rigidamente. Organizzazione stabile e organizzazione rigida diventano allora criteri ulteriori da inserire nella diagnosi di organizzazione, in contrapposizione all'organizzazione stabile o flessibile propria degli individui che non presentano di norma disturbi psicopatologici. È probabile che queste ulteriori qualità possano aggiungersi ai criteri di compenso e di scompenso delle organizzazioni anche all'interno di patologie diverse da quelle rappresentate dai disturbi dissociativi della coscienza. La modalità instabile può configurare una condizione di autentica disorganizzazione. La modalità rigida, come spesso accade, si sussegue in fasi differenti di sviluppo del paziente. A volte queste due modalità coesistono in modo devastante. Altre volte il paziente si riorganizza nella sua instabilità in relazione al rapporto che vive in quel momento, così come è anche possibile che si destrutturi in relazione a un rapporto particolarmente disorganizzante. È molto probabile, affrontando il problema dell' epigenesi della disorganizzazione, che esistano fattori biologici soggettivi oltre che ambientali che rendono l'individuo più o meno instabile o rigido rispetto alla modalità con la quale costruisce la sua organizzazione di significato personale. Epigenesi della disorganizzazione e ruolo dell'attaccamento Si può provare a formulare un'ipotesi patogenetica sull'insorgenza della disorganizzazione e sui disturbi dissociativi della coscienza. Quest'ipotesi riprende quella formulata in tempi abbastanza recenti da Liotti. L'attaccamento assume un ruolo centrale, perché rappresenta un sistema di controllo del comportamento su base innata con il quale ogni individuo ha a che fare nel corso della sua vita in particolare nei primi anni di esistenza. Liotti classifica disturbo dissociativo della coscienza, il disturbo borderline di personalità e i disturbi dello spettro impulsivo all'interno di quella che definisce patologie da disorganizzazione. La definizione appare doppiamente evocativa: da un lato è evidente il riferimento all'attaccamento disorganizzato, il pattern D della strange situation, dall'altro il termine disorganizzazione si pone in modo volutamente antitetico rispetto al modello delle organizzazioni cognitive. Questo approccio si interessa poco dell'aspetto categoriale. La sua ipotesi prevede che l'emozione di paura all'interno della relazione di attaccamento, dovuta all'interazione con le figure o con la figura genitoriale, comporti una disorganizzazione dell'attaccamento stesso. Questa circostanza prevede che l'esperienza di quest'emozione nel bambino ostacoli l'espressione di una capacità di organizzare il suo modello operativo interno in modo sufficientemente strutturato da essere riconoscibile in un pattern. Un bambino che viva l'emozione di paura nei primi mesi di vita all'interno di una relazione di attaccamento significativa come quella con le figure genitoriali si trova in possibilitato a rappresentarsi secondo una modalità organizzata riconoscibile in un pattern. La disorganizzazione dell'attaccamento nel bambino non è sinonimo di patologia da disorganizzazione nell'adulto. Devono verificarsi una serie di altri elementi nel corso della vita del bambino, dell'adolescente e dell'adulto, perché questi sviluppi una patologia da disorganizzazione. La disorganizzazione dell'attaccamento è solo un primo tassello nella costruzione della patologia. Provando a vedere il problema dall'altra prospettiva potremo affermare che l'attaccamento organizzato è un buon fattore protettivo per il bambino perché questo non sviluppi nelle fasi successive una patologia psichica in particolare una patologia da disorganizzazione. Quest'ipotesi sembra verosimile prendendo in considerazione la modalità con la quale il bambino costruisce il suo modello operativo interno sulla base di interazioni reiterate e sufficientemente coerenti con le figure di attaccamento. Un attaccamento disorganizzato non riesce in questo progetto così precocemente quanto un pattern organizzato. Nel corso dei successivi anni di vita bambino si organizza comunque un modello operativo interno; eloquenti in questo senso sono gli studi longitudinali sulle varie fasi di sviluppo del bambino all'interno del sistema di attaccamento. La disorganizzazione dell'attaccamento sembra predisporre il bambino, nel periodo successivo della sua vita, a una propensione all'instabilità che, in presenza di altri fattori ( ad esempio esperienza traumatica ) o di variabili biologiche, o a volte anche in assenza di ulteriori fattori, facilita l'ingresso in stati alterati di coscienza. Potremmo dire che non facilita l'acquisizione della funzione psichica rappresentata dalla coscienza in modo sufficientemente stabile, configurando una propensione a indugiare in uno stato alterato di coscienza. Nell'ipotesi proposta da Liotti viene contemplato il ruolo di altri sistemi motivazionali oltre l'attaccamento come il sistema agonistico o il sistema della cooperazione a modulare e indirizzare l'esistenza dell'individuo in un senso psicopatologico o non psicopatologico. Certamente esistono variabili sociali, culturali o ambientali contestuali che intervengono nell'espressione della patologia. È possibile capire come il disturbo dissociativo della coscienza, il disturbo borderline di personalità e il disturbo dello spettro impulsivo siano tre espressioni differenti di un momento patogenetico identico che si sviluppa secondo diversi percorsi esistenziali. Un ulteriore contributo è individuabile nel concetto di " mappatura rientrante " formulato da Edelman, per comprendere lo sviluppo della coscienza di ordine superiore: si tratta della coscienza linguistica e verbale, che consente ai nostri pazienti di raccontarci i loro vissuti, anche se in modo poco organizzato e frammentario, e a noi terapeuti di esercitare l'atto della cura. Il concetto di " mappatura rientrante " prevede che il nostro sistema di significati sia sottoposto ad un continuo e incessante processo di riformulazione e articolazione intorno al nucleo di valori-categorie, evolutivamente selezionati, che rappresentano la coscienza primaria ( probabilmente i sistemi motivazionali interpersonali di Liotti ). Quest'ipotesi sembra applicabile per tutti gli esseri umani. La struttura del nostro sistema nervoso centrale e la grande rilevanza che hanno le fibre associative nella corteccia consentono questa possibilità. Diventa comprensibile come parole quali rassicurazione, protezione, sicurezza, cambiamento assumano, nella loro comune accezione, valenze assolutamente soggettive nella vita di tutti. Tutto questo comporta una sconfinata variabilità che può assumere toni vertiginosi, compatibili con il concetto di " conoscenza come costrutto autoreferenziale ", ma che consente di capire perché a volte un intervento che ha funzionato su un paziente è del tutto inefficace su un altro. Uno degli scopi di questo contributo consiste nel far riflettere il terapeuta anche sulle sue caratteristiche di funzionamento. A questo progetto concorrono sia la formazione sia un percorso psicoterapeutico individuale. Il significato del trauma Nelle varie formulazioni che nel corso di un secolo hanno attraversato la psicoanalisi e la psicoterapia, il ruolo del trauma ha assunto una posizione sempre significativa. In questa sede si sottolineerà l'esperienza assolutamente soggettive che conferisce significato al trauma. Quest'esperienza non va ricercata nell'evento traumatico in sé, nell’efferatezza o nell'impatto dell'evento, quanto nell'impossibilità che questo venga condiviso e di conseguenza elaborato. La mancata condivisione, sia reale che evocata, probabilmente non consente all'individuo di costruire un insieme di significati inseriti in un continuum narrativo, intrecciandosi con la stessa epigenesi del disturbo dissociativo della coscienza e favorendo costrutti instabili o rigidi. Le procedure terapeutiche non possono essere standardizzate e finalizzate in un itinerario semplicemente rievocativo. Abreagire il trauma all'interno del setting, che un tempo sembrava rappresentare un ragionevole obiettivo terapeutico, non offre particolari garanzie sulla capacità che il paziente possa gestire le relative emozioni anche al di fuori di questo contesto. Altre volte patente sembra citare l'evento traumatico con un'esperienza di routine apparentemente elaborata e metabolizzata. È necessario che in questi casi il terapeuta si muova con grande cautela, attingendo a tutti gli strumenti che ha per costruire un contesto nel quale accogliere il paziente. Il disturbo borderline di personalità Bliss affermava che la maggior parte dei disturbi dissociativi della coscienza nel sesso maschile si potevano ritrovare negli istituti di pena. Molti soggetti di sesso maschile affetti da un disturbo dissociativo della coscienza di lieve entità vengono inquadrati in altre categorie nosografiche oppure non vengono presi neppure in osservazione. Un inquadramento dimensionale restituisce frequenza comparabile a entrambi i sessi che avvicina queste due patologie fin quasi farle coincidere. Alcuni autori, utilizzando i criteri del DSM per fare la diagnosi, rilevano che nella maggior parte dei casi, un pz. che presenti un disturbo dissociativo della coscienza può essere visitato anche come disturbo borderline di personalità e viceversa. Sono opportune alcune precisazioni. Per quanto riguarda la diagnosi differenziale, sembra utile soffermarsi sulla diversa modalità di esordio. Il paziente che presenta un disturbo dissociativo della coscienza all’inizio della psicoterapia appare smarrito, sorpreso, rassegnato, passivo, spesso subordinato nel sistema motivazionale interpersonale agonistico. Comunica un incessante bisogno di aiuto che non è in grado di trasformare in una richiesta esplicita. In questa situazione spesso il terapeuta sperimenta impotenza e frustrazione rispetto alle attese confuse e globalizzanti del paziente, alle quali non è in grado di rispondere in modo adeguato. Nei casi di minore gravità e compromissione, il paziente appare disorganizzato solo entrando in temi specifici come l'affettività o la condivisione, che spesso funzionano come attivatori che innescano la destrutturazione. Il paziente, in questa fase iniziale della terapia, ha bisogno soprattutto di sentirsi accolto. Nelle fasi successive, quando il paziente riesce a ricostruire la sua storia personale e attribuire finalmente significato all'esperienza di attaccamento, può andare incontro a un viraggio psicopatologico disregolativo che ricorda il disturbo borderline di personalità e che il terapeuta deve riconoscere ed essere in grado di contenere. In posizione simmetrica sembra trovarsi il paziente affetto da un disturbo borderline di personalità. Nelle fasi iniziali della psicoterapia chiede soprattutto di essere contenuto nella sua vitalità distruttiva, compito che richiede a volte uno staff terapeutico; il paziente non comunica necessariamente l’inessante e disperata richiesta di aiuto tipica del paziente affetto dei disturbi dissociativi della coscienza. In questa fase appare meno frammentato: in modo grossolano e incompleto, e sufficientemente organizzato dall'essere in grado di ricostruire la propria storia con un'accettabile coesione. È l'aspetto disregolativo ad essere più evidente e a richiedere gran parte dell'energia del terapeuta. In una fase successiva il paziente può apparire paradossalmente destrutturato, a volte spaventato e confuso, come il paziente affetto dei disturbi dissociativi della coscienza all'esordio. Schematicamente si può dire che il paziente con disturbo dissociativo della coscienza deve essere prima accolto, poi integrato e infine contenuto. Il paziente con un disturbo borderline di personalità dev'essere invece prima contenuto, poi accolto e infine integrato. Per entrambi è ipotizzabile una disorganizzazione dell'attaccamento, aspetto che rende problematico il vissuto relazionale, anche terapeutico, di entrambi. Il percorso clinico con il paziente affetto da disturbi dissociativi della coscienza L'inizio della psicoterapia: il contatto e la co-terapia In linea di principio il modello cognitivista classico è sufficientemente dimensionato per affrontare questa patologia. La definizione del contratto terapeutico può essere di difficile formulazione: Liotti considera così l’iniziale difficoltà esplicativa della problematicità del paziente e della difficoltà del trattamento. Recentemente ha avanzato l'ipotesi che la difficoltà del paziente nel formulare l'obiettivo della terapia e la conseguente impossibilità di identificarne gli ostacoli, insieme ad alcune esperienze traumatiche siano di per sé fattori indicativi della presenza di una patologia da disorganizzazione, quindi della diagnosi, nonché della difficoltà di procedere nella terapia. Una buona modalità per affrontare le difficoltà consiste nell'avviare da subito un trattamento in co-terapia, con un setting doppio, a volte triplo, e l'obiettivo di consentire una maggior facilità di integrazione delle rappresentazioni dissociative del paziente, un miglioramento delle su capacità metacognitive e una diluizione dell'investimento affettivo attuato nei confronti del terapeuta. Il paziente, percependo l'atteggiamento cooperativo che anima i terapeuti, si troverebbe nella condizione di fruire di questa risorsa con benefici personali. In linea di principio sembrano considerazioni sensate che però richiedono alcune precisazioni: la relazione è un fattore di cura molto potente ma è anche un fattore patogenetico di grande importanza. È infatti possibile che la frammentazione del setting induca nel paziente una maggiore disorientamento e colluda con le sue aree problematiche. Forse è il terapeuta a trarre benefici della presenza di un collega o di uno staff che lo sostenga, e da questo certamente il paziente può trarre a sua volta beneficio. In questo senso si potranno leggere anche quelle suggestive osservazioni che descrivono l'incremento della metacognizione in seguito alla comparsa di un intervento co-terapeutico. Una condizione di maggior sicurezza per il terapeuta, rassicurato dalla percezione di non essere solo nell'affrontare le sofferenze del paziente, può produrre analoghi risultati. Ma tutto questo non sembra però una necessità del paziente, quanto un bisogno del terapeuta, o meglio di quella diade paziente-terapeuta che intraprende il percorso. Avanziamo l'ipotesi che anche il terapeuta, oltre al paziente, possa avere delle difficoltà a effettuare la sua formulazione, confuso dalla frammentarietà a volte ipnotica proposta del suo interlocutore. Per quanto riguarda la patologia borderline, appare evidente come in una fase iniziale esistano delle oggettive difficoltà ad attuare il contenimento del paziente: in questo caso sembra assolutamente sensato ricorrere a più terapeuti e a più interventi articolati su diversi piani, ed è bene che il terapeuta non sopravvaluti le sue possibilità di contenere il paziente. Diverso sembra l'approccio con il paziente affetto da disturbi dissociativi di coscienza: in questo caso il paziente può trarre beneficio proprio dall'unitarietà del setting per effettuare l'opera di integrazione. Sarà importante, in questa fase preliminare di ascolto, contenimento e impostazione, che il terapeuta effettui un attento esame delle sue competenze e delle sue risorse personali. In base a questi parametri si potrà stabilire quale contratto proporre, e se ricorrere o meno a un setting più articolato. Soprattutto per il paziente affetto da un disturbo borderline di personalità, sembra efficace la modalità di intervento noto come terapia residenziale, all'interno della quale il paziente è portato a riassestare la globalità delle sue esperienze. Il costante monitoraggio del percorso terapeutico I pazienti di cui ci stiamo occupando non sono, di regola, totalmente ristrutturati come si è ritenuto in passato. L'organizzazione di significati nella maggior parte delle situazioni è adeguata per affrontare con successo il percorso dell'esistenza. Dobbiamo immaginare l'individuo in costante riformulazione di costrutti sulla base dei bisogni percepiti. Questo processo sembra ben evidenziato, come già indicato dalla modalità di rimappatura secondo il modello di Edelman. Se si accetta l'ipotesi dell'estrema flessibilità o rigidità delle rappresentazioni di sé dei pazienti, diviene lecito attivare nel percorso terapeutico un processo di mappatura e di riscrittura di significati personali che si articola sull'area di costrutti. I processi funzionali saranno quelli in cui la riorganizzazione di significati avviene con criteri di stabilità e/o flessibilità:i processi disfunzionali, quelli in cui non si verifica una riorganizzazione. I pazienti che presentano una modalità rigida sono collocati geograficamente nelle organizzazioni cognitive fobiche, possessive e depressive, quelli con una modalità instabile nell'organizzazione di tipo disturbo alimentare psicogeno o meglio nelle patologie da disorganizzazione. Non si può escludere che modalità particolarmente rigide nascondono aspetti disorganizzativi, così come modalità relativamente instabili possono sfumare nel criterio della flessibilità. È il criterio di instabilità o rigidità ad essere centrale. Ne consegue che serviranno elementi di monitoraggio di particolare specificità e di immediata applicazione. Un primo livello può essere offerto dalle organizzazioni cognitive. Osservare il paziente passare da un'organizzazione all'altra nel corso della terapia non rappresenta l'espressione di un problema diagnostico, ma di un instabile rimappatura di significati. Alla fine della terapia è possibile che il paziente si stabilizzi in modo funzionale e costruisca la sua struttura di significati secondo una modalità originale. Avere questo modello sullo sfondo ci consente di disporre di una chiara indicazione sui bisogni che motivano il comportamento dei nostri pazienti istante per istante. Se proviamo collocare secondo il modello di Lakatos i bisogni e i sistemi motivazionali interpersonali evolutivamente selezionati nel nucleo metafisico, e le rappresentazioni costruttiviste che riguardano la coscienza di ordine superiore nel livello euristico, forse troviamo anche una nuova chiave di lettura del modello formulato da Guidano e Liotti venticinque anni fa. Altri classici contributi possono essere utilizzati. Il vissuto emotivo del terapeuta e del paziente nel processo della relazione può essere gestito dalle procedure del cognitivismo standard. La terapia relazionale-emotiva utilizzata all'interno della relazione terapeutica e non solo come procedura di sintesi tra i pensieri e l'emozione del paziente, è un’ eccellente sistema di monitoraggio del processo terapeutico. Su un piano pragmatico nella valutazione degli interventi e nelle indicazioni fornite alla terapia delle risposte del paziente, sembra insostituibile per il terapeuta il modello della Control Mastery Theory. Valutare le risposte del paziente sulla base degli interventi agiti dal terapeuta in relazione ai test di tenuta della relazione consente al terapeuta di muoversi nel processo terapeutico con la velocità e la determinazione che ritiene più appropriati. Riconoscere e inseguire, nella loro variabilità, i sistemi motivazionali che si succedono nella relazione rappresenta un insostituibile strumento di terapia. La prima fase: l'ascolto. Il terapeuta di fronte al paziente E’ ancora attuale proporre questa modalità tripartita dell'inquadramento della terapia con il paziente affetto da disturbi dissociativi della coscienza. Spesso il paziente appare spaventato, stupito, perplesso, con un'intensità variabile a seconda della gravità sintomatica. Questo senso di disorientamento e di stupore può ricordare la prima fase dell'elaborazione del lutto, evenienza frequente nella storia di questi pazienti e di grande rilevanza patogenetica. Al terapeuta viene chiesto di esserci senza proporre particolari riflessioni o interventi sui quali paziente non sarebbe pronto a sintonizzarsi. Questi ha bisogno di sentirsi accolto e riconosciuto e il terapeuta può limitarsi a essere rassicurante ed empatico senza dar luogo a eccessivi coinvolgimenti, espressione della sua impotenza di fronte al paziente. Questa è la prima fase, definita di " attesa ". È difficile formalizzare degli indicatori che informino del passaggio alla seconda fase: il più affidabile risiede in un vissuto del terapeuta riconducibile alla sensazione di impotenza, inutilità e frustrazione che avverte nei confronti del paziente. La diminuzione di questi vissuti ci informa che è possibile dar luogo a una fase più operativa. In questa prima fase paziente e terapeuta possono stabilire quella che sarà la distanza più opportuna da mantenere nel corso della terapia, viene quindi costruita l'alleanza. Sarà fondamentale ricordare che tanto maggiore è la capacità empatica da parte del terapeuta, tanto maggiore dev'essere la sua capacità di sentirsi differenziato rispetto al paziente, nell'obiettivo che quest'ultimo riesca a sentirsi pensato come un individuo, come una persona. È possibile che un ruolo analogo lo svolga il doppio setting nel quale può essere inserito il paziente. Due terapeuti in queste condizioni possono trovare più facilmente la giusta distanza nei confronti del paziente, senza forzare la relazione in maniera poco tempestiva. Soprattutto in questa prima fase sarà meno confondente per i pazienti trovarsi di fronte un solo terapeuta purché sufficientemente addestrato. La seconda fase: la condivisione. Il terapeuta con il paziente. Modalità di validazione dell'esperienza congiunta La capacità di empatia si arricchisce in questa seconda fase di interessanti aspetti tecnici. In questa fase il paziente sperimenta la validazione dei suoi vissuti emotivi all'interno di una relazione che possiamo definire di attaccamento. Egli porta in seduta vissuti contestuali non ancora legati alla sua storia. Con grande sorpresa del terapeuta il paziente sembra molto in grado di collocare agevolmente questi vissuti in un'integrata rappresentazioni di sé, una conquista che però non tarda ad apparire effimera: il paziente non ha ancora la capacità di inserire stabilmente nella sua organizzazione di significato quanto emerge nel corso della seduta. Queste sedute si concludono con grande soddisfazione sia da parte del terapeuta che da parte del paziente, ma nella seduta successiva è possibile che non si trovino tracce di quanto elaborato nella precedente. Lo stesso paziente informa il terapeuta di percepire che la struttura impiantata nel dialogo terapeutico talvolta si dissolve non appena uscito dalla seduta. Il paziente, attento e lucido nel setting, al di fuori di questo contesto sembra non disporre di adeguate strutture concettuali e mnestiche. Molte sono le ipotesi che si potrebbero formulare; una di queste prevede che il paziente presenti un deficit operativo nella sua memoria di lavoro, cosa che lo rende dotato di buone capacità metacognitive nella relazione terapeutica, ma sprovvisto di esse in un contesto differente. È qui che il terapeuta deve costruire delle alleanze efficaci. Un intervento che sembra aver dato buoni risultati prevede l'utilizzo della relazione come contesto all'interno del quale effettuare una rievocazione congiunta. Dopo aver attuato un buon inquadramento del suo vissuto esperienziale, il paziente può essere invitato a ricostruire con il terapeuta quanto appena formulato. Sul piano pratico può essere sensato dedicare la seconda parte della seduta a una sorta di riassunto di quanto avvenuto nella prima parte. Nelle fasi più avanzate del processo terapeutico si può tentare di suggerire al paziente di riassumere tra una seduta l'altra quanto emerso nella seduta precedente e di immaginare di portare questo materiale in discussione durante la seduta successiva. Quest'operazione sembra in sintonia con il concetto di rimappatura proposto da Edelman. Possono essere utilizzati supporti cartacei e audio-visivi. Sembra opportuno comunque lasciare al terapeuta la più ampia creatività in questo senso: gli interventi più proficui sono quelli nati dalla spontaneità e della consapevolezza dell'operato del terapeuta, compatibilmente con quello che si sente in grado di fare, cosa che risulta assolutamente soggettiva. In questa fase appare vantaggioso anche l'utilizzo di interventi di self disclosure da parte del terapeuta, espressione della fondamentale autenticità della relazione con il paziente. Quest'intervento propone la rivelazione di alcuni vissuti personali del terapeuta o del processo terapeutico. La possibilità di attuare una violazione del setting sembra elevata e sarà prudente consigliare l'applicazione di questa procedura a quei terapeuti che abbiano avuto modo di riflettere sui propri vissuti all'interno di un lavoro personale. Un'altra buona possibilità è guidare l'esplorazione del paziente in contesti relazionali relativamente semplici dotati di un'implicita rappresentazione motivazionale, per esempio un contesto ludico, in grado di far sperimentare al paziente la percezione di “appartenere” consentendogli una modulazione dell'investimento affettivo. Qualcosa di analogo è possibile ottenere in questa fase, inserendo il paziente in un gruppo di terapia. La terza fase: la ricostruzione della storia Dopo un lungo periodo caratterizzato da test reiterati, fallimenti e procedure che permettono al dialogo terapeutico di consolidarsi, la psicoterapia sembra improvvisamente procedere con insospettata rapidità. Questa è la fase più classicamente cognitiva, durante la quale è possibile ricostruire la storia del paziente. Questa fase è possibile soltanto dopo una lunga paziente attesa, unica a un lavoro di costante cucitura, attuato durante le due fasi precedenti: a volte il processo che permette al paziente di formulare una esplicita organizzazione di significato personale non si attua in modo del tutto stabile. Spetta al terapeuta trovare la modalità più idonea per consentire il mantenimento nella memoria della relazione che permette al paziente una buona tenuta dei risultati conseguiti. Il concetto di confine e la violazione del setting E’ importante aggiungere un elemento attraverso il quale modulare il percorso terapeutico. Le prime fasi della terapia consentono un presupposto adeguato per una buona formulazione del concetto di confine. Questo termine richiede una breve digressione alla teoria della motivazione formulato dal Liotti e descritta nei primi paragrafi. La delimitazione dello spazio personale può trovare una collocazione al pari di un sistema di controllo del comportamento evolutivamente selezionato, pur trattandosi di un sistema non necessariamente interpersonale. Se pensiamo alla modalità con la quale i mammiferi e i primati marcano il loro territorio, possiamo ipotizzare una localizzazione topografica di questo sistema non distante dalla sessualità del sistema agonistico. Al pari degli altri sistemi di controllo del comportamento, la delimitazione dello spazio è suscettibile di essere rimappata e inserita in strutture di significato personale. Il protrarsi della prima fase della terapia può essere funzionale alla costruzione di una distanza compatibile con le strutture di significato a disposizione del paziente in quel momento relativamente alla possibilità di essere aiutato e curato da quel terapeuta. La distanza sarà l’espressione della diade paziente-terapeuta impegnata in quel momento nella costruzione della relazione. Non esistono distanze standard, come non esiste un'empatia standard. Queste due caratteristiche devono essere costruite in modo assolutamente originale, sulla base delle caratteristiche dei componenti della relazione. Si può definire un terapeuta come una persona in grado di stabilire la giusta distanza con il paziente. Anche la co-terapia può consentire tacitamente al paziente e al terapeuta di trovare la distanza adeguata nella relazione. La terapia con il paziente affetto da un disturbo dissociativo della coscienza propone al terapeuta lunghe fasi di attesa che a volte si accompagnano ad un grande senso di frustrazione. Appare comprensibile la grande efficacia che riesce ad ottenere l’intervento residenziale integrato con il paziente borderline di sesso femminile che attua un comportamento autolesivo. L'intervento residenziale comporta una totale ridefinizione degli spazi personali e delle relazioni interpersonali. Se questi processi vengono attentamente monitorati certamente il paziente ne trarrà un grande beneficio. Questo non ci rassicura comunque sulle capacità di tenuta del paziente al di fori dell'intervento. Se l'esperienza del ricovero si colloca molto lontana dalla realtà del paziente il comportamento disfunzionale sarà destinato a ripetersi. Un intervento analogo con soggetti di sesso maschile richiede ulteriori procedure per essere ugualmente efficace. La rappresentazione dello spazio della distanza, pur nella loro struttura archetipica, presenta forse modalità diverse nei generi maschile e femminile. Capitolo 8 I disturbi personalità Premessa Il DSM IV definisce i disturbi di personalità come modalità costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell'ambiente e di sé stessi; modalità che si manifestano in modo rigido e non adottivo, causando una compromissione funzionale significativa o una sofferenza soggettiva. Il manuale specifica che la caratteristica essenziale di un disturbo di personalità è un modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell'individuo. - criterio A: si manifesta in almeno due delle seguenti aree: cognitività, affettività, funzionamento interpersonale, controllo degli impulsi. - criterio B: risulta inflessibile e pervasivo in un ampio spettro di contesti personali e sociali. - criterio C: determina disagio o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre importanti aree. - criterio D: il quadro è stabile e di lunga durata e se ne può far risalire l'esordio almeno all'adolescenza o alla prima età adulta. - criterio E: il quadro non risulta giustificato come una manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale. - criterio F: non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica. I disturbi di personalità sono classificati sull' Asse II del DSM: non vengono considerati come malattia ma come modalità di funzionamento abituali, seppure rigide. Sono distinti in tre cluster: - Cluster A: individui che spesso appaiono strani o eccentrici; - Cluster B: soggetti che frequentemente appaiono amplificativi, emotivi o imprevedibili; - Cluster C: disturbi i cui portatori appaiono ansiosi e paurosi. Spesso si riscontra la compresenza di disturbi appartenenti a cluster diversi nello stesso soggetto. Secondo la prospettiva cognitivista i disturbi di personalità costituiscono una categoria eterogenea; la costituzione dell'Asse II nasce dall'esigenza di classificare modalità di pensare, sentire e comportarsi non classificabili né come normalità, né come malattia. Si viene a delineare una categoria particolare che assume la funzione di contenitore, in cui vengono collocati elementi di varia natura senza che vi sia una teoria in grado di dar loro coerenza. Di fatto non esiste una codifica unanime e la mancanza di una teoria eziologica ha indotto a utilizzare le variegate manifestazioni cliniche per la descrizione delle malattie. Alcuni disturbi sembrano essere riconducibili a modalità non flessibili di funzionamento di certe organizzazioni cognitive di personalità: il disturbo di personalità ossessivo-compulsivo appare come l'irrigidimento disfunzionale delle modalità di funzionamento dell'organizzazione cognitiva di personalità ossessiva; altre categorie di disturbi, come l'Evitante o il Dipendente, richiamano alcune caratteristiche rigide dell'organizzazione di personalità di tipo fobico. Nei disturbi borderline di personalità, prevalgono aspetti che ricordano organizzazioni tipo disturbo alimentare psicogeno (DAP), pur essendo presenti alcune difficoltà di gestione delle emozioni caratteristiche di altre organizzazioni di personalità. I disturbi schizoide e schizotipico di personalità ( cluster A ) non presentano la tipologia di cognizioni e strategie comportamentali che si osservano nelle organizzazioni cognitive di personalità: il funzionamento individuale e interpersonale è riconducibile a disturbi classificati sull'Asse I. La nosografia del DSM-IV-TM viene considerata scarsamente utile, nell'ottica cognitivista, relativamente a questo genere di disturbi mentali. Appare un interessante tentativo di analizzare gli aspetti del funzionamento cognitivo, emozionale e relazionale tipici di ciascun disturbo. Può essere utile pensare agli obiettivi terapeutici nel trattamento dei disturbi di personalità in termini di livelli: nel primo livello vi sono i sintomi, nel secondo le caratteristiche di personalità legata all'ambiente, nel terzo quelle legate al carattere e nel quarto quelle legate al temperamento. I primi due livelli risultano più facili da modificare; l'ambito di maggiore efficacia si colloca sul terzo livello, mentre l'ultimo è forse il più difficile da modificare. Differenziando tra stile di personalità ( riferito al comportamento ad attivo ) e disturbo di personalità ( riferito a un tipo di funzionamento inadeguato ) Sperry individua l'obiettivo del trattamento dei disturbi di personalità nel facilitare lo spostamento del funzionamento da quello tipico del disturbo a quello caratteristico dello stile di personalità. Vi è un acceso dibattito sulla validità di un assessment che si radica in modo esclusivo su categorie determinate come nel caso del DSM, relativamente alla necessità di una revisione dell'approccio categoriale a favore di uno dimensionale nella definizione dei disturbi di personalità. Un ulteriore aspetto problematico concerne la definizione dei disturbi di personalità come modalità costanti, inflessibili e pervasive di funzionamento: di fatto trattamenti cognitivi adeguati possono condurre a modificazioni significative e stabili della personalità in senso positivo, sia nel Cluster B che nel Cluster C, contraddicendo il criterio B del DSM. L'approccio cognitivo-relazionale ai disturbi di personalità si fonda su alcuni presupposti base per la formulazione delle linee guida di intervento: in primo luogo come presupposto di una visione olistica dell'individuo e dei suoi comportamenti che non possono essere semplificati o ricondotti a singoli fattori discreti; in secondo luogo si preferisce parlare di probabile propensione allo sviluppo di questi disturbi, piuttosto che di determinazione genetica o ambientale; si sottolinea la costante modificabilità del disturbo. Quest'ottica si propone di considerare disturbi come schemi di adattamento disfunzionale della persona rispetto all'ambiente esterno, caratterizzati da disturbi comportamentali persistenti nelle relazioni interpersonali e derivati dalla costruzione di modelli operativi in termini di Sè e dalle relazioni con il mondo di tipo disfunzionale. È utile adottare nell'analisi di questi disturbi il concetto di vulnerabilità individuale, cioè l’ipersensibilità derivata dall'interazione tra fattori biologici e psico -sociali, che ha portato all'interiorizzazione di modelli operativi poco funzionali. Il disturbo è considerato all'interno di un processo di costruzione di modelli operativi in termini di sé e di sé con l'altro di tipo disfunzionale, che concorrono a generare la vulnerabilità sviluppata dell'individuo nel corso della sua vita. Dal disturbo di personalità al paziente difficile Nell'ottica operativa dell'intervento psicoterapeutico diventa inevitabile abbandonare la classificazione descrittiva a favore di un altro tipo di approccio ai pazienti difficili, che predispongono lo psicoterapeuta cognitivo ad un intervento efficace, mirato alla maniera disfunzionale tipica di questi pazienti di pensare, sentire ed essere. Parlare di paziente difficile, invece che di paziente con disturbo di personalità, consente di porre l'accento su aspetti comportamentali e relazionali che rendono necessaria una presa in carico globale di queste persone. Le peculiarità relazionali di queste persone rendono complesso l'intervento di chi si prende cura di loro: bassa compliance, trascuratezza, opposizione, richieste di iper-accudimento. I sistemi motivazionali sociali della cooperazione paritetica e dell'attaccamento-accudimento si presentano con caratteristiche che ostacolano la creazione e il mantenimento di una relazione di aiuto stabile. Il concetto di paziente difficile è prettamente relazionale. Tale prospettiva viene adottata da Perris che propone di considerare questi disturbi patologie del comportamento interpersonale fondate sull'assetto di personalità. La problematicità può essere considerata un fallimento in termini di adattamento; questo fallimento può esprimersi in tre modi fondamentali: 1 - il ritiro dalle relazioni o il controllo intrusivo dell'altro ( disturbo evitante di personalità ); 2 - la tendenza a instaurare relazioni di dipendenza ( disturbo dipendente di personalità ); 3 - la creazione di relazioni caotiche e instabili ( disturbo borderline o disturbo istrionico di personalità ). Dimaggio e Semerari propongono un modello in cui i disturbi di personalità sono presentati come sistemi che si auto-organizzano e mantengono la patologia nel momento presente; gli autori meno interessati a rintracciare le modalità con cui il disturbo si è attivato, indagano le dinamiche interne di mantenimento, sulle quali intervenire. Gli elementi costitutivi dei disturbi sono identificabili come: - un insieme rigido di stati mentali che risultano disfunzionali in termini di adattamento in quanto non si modificano in relazione al contesto. - alcune caratteristiche alterazioni della narrazione riconducibili a due categorie: povertà e disorganizzazione narrativa. - disfunzioni stabili socialmente invalidanti, definiti in termini di deficit delle capacità metarappresentative.. - cicli interpersonali disfunzionali, che agiscono nel concreto delle relazioni modo tale che determinati schemi interpersonali si automantengano. Essi spingono l'altro a comportarsi in modo corrispondente allo schema di relazione interpersonale negativa che il soggetto ha consolidato. - disfunzioni nei processi di valutazione e scelta. - problemi nella regolazione dell'autostima. Un aspetto è essenziale per il mantenimento del disturbo di personalità: la carenza di abilità psicologiche che potrebbero invalidare le aspettative relazionali sviluppate in senso patologico. Questa abilità costituiscono sotto-funzioni della funzione metarappresentazionale che può essere suddivisa in tre aree costantemente impiegate nella comprensione degli stati mentali: 1 - processi autoriflessivi. Si tratta della sottofunzione che consente di avere la consapevolezza del possesso e dell'attuale condizione dei propri stati interni e di formulare ipotesi su quanto li ha determinati o può modificarli. 2 - comprensione della mente altrui. Questa funzione permette di riconoscere nell'altro una mente personale e distinta dalla propria, di ipotizzare lo stato interno e le variabili che lo potrebbero influenzare. 3 - mastery: sotto funzione che permette di assumere un atteggiamento volto alla risoluzione di problemi intrapsichici e interpersonali. Becke e Freeman hanno condotto la loro analisi sulla base dei profili cognitivi distintivi di questi disturbi: questi profili comprendano il concetto di sè, il concetto degli altri e le convinzioni negative disfunzionali che promuovono le strategie di base comportamentali e relazionali. Vengono individuati gli schemi che risultano iper-sviluppati e quelli che al contrario sono ipo-trofici. Ogni schema orienta la lettura degli eventi assegnando a questi di volta in volta un particolare significato. Si innesca una reazione a catena che approda all’ insieme di comportamenti considerati come manifestazione esterna dei tratti di personalità. Il concetto di schema è stato utilizzato da Beck anche per l'analisi dei disturbi dell'Asse I ; secondo questa concettualizzazione in questi disturbi divengono pervasive alcune strutture di conoscenza che tendono a sostituire schemi che sarebbero più appropriati perché promuoverebbero comportamenti più adattivi. Mentre nell' Asse I questi schemi si manifestano in modo imponente solo a partire dall'esordio sintomatico e nelle fasi acute, nei disturbi di personalità avrebbero un'operatività continua, che procede per tutta la vita dell'individuo. Quando gli schemi sono sopra determinati e pervasivi la loro soglia di attivazione è molto bassa e gli schemi che dovrebbero compensare l'azione vengono inibiti. Ogni disturbo può essere descritto nei termini di un cambiamento cognitivo. La formulazione di Beck mostra una serie di limiti che riguardano il ruolo delle emozioni e riguardo al processo di costruzione della conoscenza personale dei rapporti con l'area sociale e culturale in cui quell’ individuo è immerso. Queste teorizzazioni si focalizzano sugli aspetti specifici del funzionamento del soggetto trascurandone alcuni, come quelli relativi al contesto interattivo. L'adozione di un approccio costruttivista nell'analisi dei disturbi di personalità consente di avanzare alcune considerazioni per orientare gli interventi terapeutici. Secondo questa prospettiva l'esperienza della realtà è costruita da soggetti orientati dal bisogno di dare senso e rendere controllabile e prevedibile il mondo che li circonda. Ogni conoscenza è auto-referenziale, quindi non rappresenta una realtà esterna ma la relazione tra un soggetto e l'oggetto della sua osservazione. Ogni individuo non solo è guidato da strutture di conoscenza sviluppate nella sua storia, ma è ancorato alla cultura cui appartiene, ai gruppi sociali cui fa parte, dunque a sistemi di valori e di conoscenze storicamente determinati. Per la costruzione dell'identità personale appaiano centrali la dimensione simbolica della mente e la capacità di ridescrivere l'esperienza vissuta a un livello astratto. La riscrittura della propria storia avviene grazie a un processo di circolarità senza fine tra l'esperienza immediata di sé ( io ) e il senso di sé più astratto che deriva dal riferire a se quella stessa esperienza ( me ). In quest'ottica il principale strumento di intervento è costituito da processo di auto-osservazione. Poiché i disturbi di personalità hanno un'importante impatto sociale è necessario sviluppare concettualizzazioni e tecniche per affrontare le situazioni micro e macro sociali. L'adozione di questa prospettiva ha notevoli indicazioni per l'analisi dei disturbi di personalità, che possono essere riassunte come segue: 1 - disturbo di personalità è una categoria conoscitiva, una descrizione generata dagli osservatori per finalità mediche e condivisa dalla comunità. Questa definizione non identifica un oggetto con una precisa natura che determinerebbe ciò che l’individuo pensa e fa; 2 - se le modalità di funzionamento mentale e relazionale del paziente vengono descritte come sintomi, come conseguenze in qualche modo osservabili della sua personalità, tenderanno a orientare alla conferma della diagnosi di disturbo di personalità in un circolo vizioso. È più utile considerarle come comportamenti messi in atto in relazione a specifiche circostanze: contestualizzare consente di mettere in luce il senso di un comportamento socialmente inadeguato. E’ utile quindi parlare di inibizioni cognitive, piuttosto che di deficit metacognitivi 3 - una parte fondamentale dell'intervento terapeutico consiste nel cercare di decostruire le narrazioni disfunzionali che il paziente ha consolidato e le descrizioni di sé e con cui si presenta, per costruire narrative alternative più funzionali. L'impegno consiste nel rintracciare un nuovo significato condiviso delle esperienze vissute che apra prospettive evolutive visibili. La diagnosi è utile come comunicazione fra specialisti, in alcuni casi può contribuire a orientare l'iniziale l'assetto relazionale del terapeuta. Una panoramica sui diversi disturbi di personalità ( pag. 259 vedi tabelle ) Ci si può chiedere come mai i disturbi di personalità siano esplosi negli ultimi anni: una parte di questo fenomeno può essere ricondotto alla modifica dei sistemi di classificazione; inoltre nel giro di pochi anni si sono verificati fenomeni di trasformazione sociale che hanno inciso direttamente sull'espressività del disagio psichico e sul senso dell'identità personale. I disturbi di personalità verso certi versi rappresentano uno specchio della nostra società. Disturbo paranoide di personalità MANCA Disturbo schizoide di personalità per il DSM IV è un quadro caratterizzato da distacco dalle relazioni sociali e freddezza emotiva, descritta come riduzione della gamma di espressività sia fisica che preverbale. L'obiettivo sembra essere l'isolamento e il raggiungimento di un'assoluta indipendenza dalle relazioni sociali, considerate invischianti caotiche e pericolose: l'altro viene considerato come un intruso che mette a rischio la libertà di azione individuale. L'idea di sé come persona fondamentalmente sola e autosufficiente si accompagna a questa rappresentazione dell'altro. Le situazioni di allarme sono quelle di convivenza e raffronti forzati con gli altri, gestite mediante l'adozione di visibili atteggiamenti di chiusura. L'atteggiamento è generalmente impassibile, distaccato, indifferente ai complimenti e alle critiche, chiaramente disinteressato nei confronti del giudizio altrui. La compagnia degli altri non viene ricercata spontaneamente, non c'è coinvolgimento in attività di gruppo e si osserva una spiccata preferenza per le attività solitarie, poche amicizie spesso ridotte alla cerchia familiare. Va posta attenzione alla diagnosi differenziale rispetto al disturbo evitante, che dà luogo a comportamenti simili ma dovuti da presupposti diversi. Disturbo schizotipico di personalità E’ stato distinto da quello schizoide e da quello evitante nell'ultima versione dal DSM. Il disturbo schizotipico presenta una vicinanza evidente alla schizofrenia; sulla base di alcune caratteristiche, come la pervasività e la stabilità, sì è scelto di mantenerlo tra i disturbi di personalità in Asse II anziché spostarlo in Asse I. Il disturbo schizotipico si colloca su un continuum che va dalla schizofrenia al disturbo schizoide di personalità. Ogni tentativo di suddivisione netta appare arbitrario. Questo disturbo è caratterizzato da un quadro di relazioni sociali e interpersonali deficitarie, evidenziate da disagio acuto e ridotta capacità di relazione e da distorsioni cognitive e percettive ed eccentricità del comportamento. Le persone con questo disturbo mostrano modalità di funzionamento eccentriche e stravaganti, e un eloquio particolare che non è incoerente; a livello lavorativo questi pazienti riescono difficilmente mantenere un'occupazione nel tempo così come a livello interpersonale si registra una tendenza all'isolamento sociale. Disturbo antisociale di personalità Viene descritto dal DSM come un quadro pervasivO di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, si manifesta in forma di attacco più o meno diretto nei confronti del prossimo. Secondo Beck e Freeman la rappresentazione di sé come individuo solo e forte, che ha subito delle ingiustizie ed è stato maltrattato (se vittima), si accompagna una visione degli altri come sfruttatori, che meritano di essere a loro volta sfruttati, ma anche come soggetti vulnerabili di cui approfittare. Il soggetto sente di aver bisogno di diventare l'aggressore per non essere la vittima e di poter sfruttare gli altri visto che gli altri vogliono sfruttare lui. La personalità antisociale giustifica comportamenti di infrazione delle regole a danno degli altri: la sua rappresentazione è una giusta opportunità di rivalsa, un'occasione per ottenere ciò che si meriterebbe. A questa rappresentazione si accompagna un'emozione di intensa rabbia, lo stato affettivo caratteristico e più frequente. È utile sottolineare come vi siano aspetti del disturbo in cui la sovrapposizione con certi aspetti del disturbo borderline di personalità non si esaurisce nella classificazione all'interno del medesimo cluster. Le sovrapposizioni riguardano in particolare l'impulsività e l'aggressività. Disturbo borderline di personalità La personalità borderline si contraddistingue per alcuni tratti; nessuno di questi è necessariamente sempre presente in quanto il disturbo mostra un'estrema variabilità delle manifestazioni. A fronte di comportamenti inadeguati problematici in alcuni settori dell'esistenza, i soggetti con disturbo borderline di personalità presentano un funzionamento efficace in altri ambiti e questi aspetti rendono la diagnosi complessa. Il disturbo borderline di personalità è considerato una delle maggiori forme di disturbo a livello del sé, insieme disturbo di personalità antisociale e schizoide. La caratteristica centrale è la forte instabilità, che si ritrova nelle relazioni interpersonali, nella rappresentazione di sé a livello emotivo. Le relazioni, in particolare quelle in cui il sistema motivazionale dell'attaccamento è centrale, sono rappresentate con modalità caratteristiche estreme e scarsamente integrate: il soggetto tende a vivere aspettative irrealistiche, estreme e smisurate. Il concetto di sé è definito modo poco chiaro e coerente e questo si riflette nella scarsa coordinazione delle azioni e nell'assenza di obiettivi costanti precisamente definiti. Di fronte ad un problema manca la capacità strategica e di pianificazione che consentirebbe di affrontarlo e il soggetto si trova in balia di emozioni disturbanti connesse all'incapacità. La regolazione delle emozioni è difficoltosa e caratterizzata da una marcata impulsività che dà luogo a reazioni non commisurate alle situazioni e intensamente drammatiche. Nella storia dei soggetti ricorrono precoci esperienze di rapporto con figure di accudimento tendenti a sminuire l'importanza delle esperienze emotive. Spesso il paziente assume a sua volta un atteggiamento denigratorio o punitivo nei confronti delle proprie emozioni. I modelli operativi interni della relazione sé-altri comprendono la rappresentazione del mondo come malvagio e pericoloso, e di sé stessi come individui indifesi e vulnerabili, inaccettabili e destinati ad essere abbandonati. Nella relazione con i pazienti borderline va posta particolare attenzione ai confronti della gestione degli aspetti motivi, in particolare quelli legati all'attivazione del sistema dell'attaccamento che fa emergere rappresentazioni di sé e dell'altro estremizzate, contraddittorie e non integrate che possono favorire una precoce interruzione della terapia. Una parte rilevante dell'intervento ha come obiettivo l'acquisizione delle capacità di regolare gli impulsi in modo che l'emozione non siano agite in modo immediato ma possono diventare guida all'azione. L'intervento mirato a far acquistare la capacità di riconoscere differenziare le emozioni di modularne l'intensità. Disturbo istrionico di personalità Le personalità istrioniche possono essere descritte a partire dalla loro caratteristica modalità di espressione, definita come stile impressionistico. Le emozioni sembrano dominare il funzionamento mentale di questi soggetti che paiono inclini a farsi guidare dagli aspetti emotivi più che da sistemi di tipo logico-razionale nell'indirizzare la propria vita. La personalità istrionica presenta la tendenza a drammatizzare l'espressione delle emozioni, che vengono rappresentate intensamente e appaiono molto instabili: quest'aspetto si manifesta nello stile dell'eloquio, eccessivamente impressionistico e privo di dettagli. Lo stato emotivo e il livello di autostima sono in relazione diretta con il grado di approvazione ricevuta dagli altri, considerati come fonte di consenso, apprezzamento e ammirazione: per ottenere l'attenzione questi individui che investono una notevole impegno nelle relazioni, cercando di intrattenere l'altro, suscitarne l'interesse e affascinarlo. La relazione prevede che i soggetti occupino un ruolo centrale e che gli altri svolgano al compito di attenti e affettuosi spettatori. L'apparente rappresentazione di sé come persona affascinante contrasta con la convinzione centrale di queste personalità di essere prive di fascino e bisognose del consenso altrui per essere felici. Sedurre significa provare il proprio valore. Le convinzioni che fanno da corollario a questo atteggiamento riguardano il sicuro abbandono e il fallimento personale laddove il soggetto si dimostri incapace di affascinare gli altri e tenerli vicini. Individui con questo disturbo tendono a idealizzare o svalutare in modo esagerato le persone della propria famiglia e a ritenere alcune relazioni più intense e significative di quanto siano. Disturbo narcisistico di personalità Viene descritto nel DSM come un quadro di personalità caratterizzato da un senso pervasivo di grandiosità e dalla pressoché totale mancanza di empatia. Il concetto di sé è centrato su una sensazione di eccezionalità, una rappresentazione personale come individuo fuori dal comune e superiore alla media. A questo si accompagnano l'idea di meritare più degli altri e l'aspettativa di ottenere successi eclatanti sia nel campo professionale che nelle relazioni affettive. Il paziente ritiene di possedere uno status speciale che lo pone al di sopra della massa: da qui il suo particolare rapporto con le regole: in quanto fuori dalla norma coltiva la convinzione di potersi porre al disopra delle regole che tutti gli altri sono chiamate a rispettare, e meritare eccezioni e deroghe. Si aspetta le particolari attenzioni e i privilegi che considera dovuti e la cui assenza provoca reazioni di collera e rivendicazione, in quanto corrisponde a un mancato riconoscimento della propria superiorità. Il rapporto con gli altri presenta caratteristiche coerenti con le fantasie di grandezza personale: sono considerati inferiori e perciò disprezzati. A differenza della personalità antisociale, che vede gli altri come individui spregevoli, nel caso della personalità narcisistica il disprezzo nasce non tanto dalla negatività dell'altro, quando dall'eccezionale valore di sé. Le relazioni si contraddistinguono per la scarsa empatia e capacità di farsi coinvolgere o prestare attenzione alle emozioni altrui, unite ad un'abilità molto sviluppata di manipolare l'altro. Beck e Freeman indicano come schemi ipertrofici nella personalità narcisistica quelli relativi all'autoesaltazione e alla competitività, quest'ultima messa in gioco con persone che pretendono di porsi su un piano di parità; d'altro canto si evidenzia un iposviluppo degli schemi che dovrebbero compensare i primi due, quelli della collaborazione paritetica (partecipazione e identificazione col gruppo). L'emozione prevalente è la rabbia, dovuta all'assenza degli attesi riconoscimenti di superiorità: il mancato raggiungimento degli obiettivi si accompagna a reazioni di tipo depressivo, da un marcato senso di fallimento, sconfitta, e soprattutto vergogna: queste emozioni segnalano la centralità assoluta del sistema motivazionale agonistico-competitivo. Le emozioni problematiche sono collegate al sistema dell'attaccamento: ogni debolezza e ogni richiesta di aiuto sono giudicate inaccettabili in quanto corrispondenti a sottomissione, sconfitta e inferiorità. Vengono attivamente coltivati aspetti di distacco superiore, legati all'idea che l'altro non possa fornire l'aiuto e le attenzioni richieste, in quanto non ne è capace. Gli aspetti cognitivi e affettivi vengono ricondotti da Semerari ad alcuni tipici stati mentali: uno stato grandioso, corrispondente a temi di eccellenza e superiorità rispetto alla media, accompagnati da emozioni di euforia, alta auto-efficacia, o freddo distacco rispetto agli altri; uno stato depresso-terrifico, legato al fallimento e accompagnato da vergogna e paura; uno stato di vuoto devitalizzato, in cui ogni esperienza emotiva appare sospesa, assente, in cui si compie il distacco dagli altri e l'autostima si mantiene inalterata; uno stato di transizione legato alla percezione del rischio di invalidazione o di mancato riconoscimento. Disturbo evitante di personalità E’ caratterizzato da vissuti di estraneità nelle relazioni interpersonali, di non appartenenza e impossibilità di condivisione. Questi vissuti si legano a una particolare concezione di sé e delle relazioni: il soggetto considera sé stesso incapace e incompetente e si vede predisposto a subire esperienze di rifiuto e umiliazione da parte delle persone che possono scoprire la sua profonda inadeguatezza. L’evitamento è una strategia efficace per tenere a distanza l'altro, così da ostacolare l'emergere ai suoi occhi dei difetti che lo porterebbero a essere ferito e rifiutato. Questa strategia lo induce a sottrarsi a ogni situazione in cui sia potenzialmente in gioco una valutazione: il soggetto tende a non assumersi ruoli visibili o di responsabilità, nei quali si profili il rischio di un insuccesso; tende a ridimensionare le proprie aspettative e ambizioni e a mantenersi in ruoli modesti. Alcuni autori mettono in luce la difficoltà di decentramento dal proprio punto di vista che caratterizza queste persone. Mentre per i soggetti con disturbo schizzoide esiste un'oggettiva difficoltà nello stabilire relazioni interpersonali e a esse viene preferita la solitudine, negli individui evitanti si riscontra un profondo desiderio di appartenenza e legame, l’evitamento si instaura per la certezza dell'umiliazione che accompagna le relazioni. Beck e Freeman evidenziano come l’emozione centrale la disforia, descritta come ansia insieme a tristezza, connessa alla continua rinuncia a obiettivi razionali di vicinanza e condivisione fortemente desiderati. Viene sottolineata anche la difficoltà di monitoraggio degli stati interni sgradevoli e dolorosi, descritta come evitamento cognitivo. Disturbo dipendente di personalità L'elemento più evidente consiste nella ricerca costante di figure protettive, accudenti e incoraggianti, con cui stabilire un legame significativo e stabile nel tempo. Il soggetto persegue questo come suo principale obiettivo sulla base della convinzione di essere un individuo debole e bisognoso, incapace di badare a sé stesso, la cui felicità dipende completamente dalla vicinanza di una persona forte e supportiva. Il sistema motivazionale dell'attaccamento è attivo in modo costante: non si innesca in relazione a situazioni di pericolo né si disattiva una volta ottenuto l'aiuto. Il bisogno di protezione costituisce il tema di fondo principale e nel momento in cui viene soddisfatto lascia spazio alla preoccupazione per la perdita della figura che ne garantisce la soddisfazione. Il paziente teme rifiuti e perdite in modo esagerato e vive la possibilità della rottura dei legami affettivi con estrema ansia. Tende a essere accondiscendente per non dispiacere, sperimenta sensazioni di ansia e risentimento se criticato o disapprovato e per essere accettato spesso si presta a sottomettersi. Accanto alla convinzione centrale di questo disturbo ( sono completamente indifeso ), Beck e Freeman menzionano alcune convinzioni condizionate, connesse all'idea dell'impossibilità di sopravvivere da soli, e le conseguenti convinzioni strumentali che più direttamente orientano il comportamento interpersonale ( non offendere che si prende cura di te ). Si nota la tendenza a non assumere la responsabilità delle decisioni relative ai diversi settori della propria vita e a richiedere il supporto altrui per riuscire a compiere qualsiasi scelta. Progetti autonomi vengono intrapresi con fatica a causa della sfiducia nel proprio giudizio o nelle capacità personali. La strategia principale consiste nel seguire la maggioranza. Secondo Carcione e Conti una personalità dipendente oscilla tra due stati mentali principali: 1 - uno stato di auto-efficacia, in cui prevale un'immagine di sé come adeguato, forte e competente; questo stato mentale positivo non coincide però con il raggiungimento dell'autonomia ma è legato alla vicinanza rassicurante della persona forte. 2 - uno stato di vuoto terrifico disorganizzato, dovuto alla rottura della dipendenza in cui prevale l'opposta immagine di sé; in questi casi si può presentare una sintomatologia di tipo depressivo o dissociativo. A livello metarappresentativo gli autori evidenziano la difficoltà di questi soggetti nell'identificare in modo cosciente i propri desideri e obiettivi, esistenti ma poco accessibili, se non in presenza di una figura di supporto: a ciò è connesso il senso di incapacità nel prendere decisioni e la necessità di un coordinamento interpersonale costante. Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità Gli aspetti centrali possono essere così descritti: 1 - perfezionismo; 2 - ostinazione; 3 - freddezza relazionale; 4 - dubbio; 5 - rigore morale. Il bisogno di controllo meticoloso e di attenzione nel fare le cose in modo perfetto è connesso a una rappresentazione di sé come persona incapace di agire, disorganizzata e disorientata, che appellandosi a un ordine rigoroso riesce a sopravvivere, evitando di sbagliare. Beck e Freeman identificano, tra gli schemi sviluppati in modo eccessivo quelli del controllo, della responsabilità e della sistematizzazione, non bilanciati da spontaneità e giocosità. Una delle credenze centrali è che le cose debbano essere fatte perfettamente, in modo corrispondente alle giuste procedure, improvvisazione e spontaneità portano sempre a cattivi risultati. Gli altri sono considerati eccessivamente indulgenti verso loro stessi, irresponsabile o incompetenti, e per questa loro superficialità e trascuratezza vengono criticati e puniti. Le situazioni più problematiche che creano allarme riguardano la perdita del controllo sugli eventi: il soggetto tende a irrigidire ulteriormente le sue consuete strategie in situazioni nuove e impreviste: verificare, riverificare, pianificare, dubitare, rimuginare. Le emozioni sono connesse alla percezione dell'imperfezione propria e altrui ( pentimento, senso di colpa, depressione, disprezzo, delusione ) nonché alla continua aspirazione a standard di perfezione assoluta, vissuta con ansia. Disturbo di personalità non altrimenti specificato In questa categoria il DSM IV include le alterazioni del funzionamento della personalità che non soddisfano i criteri per alcuno specifico disturbo di personalità.In questa categoria sono inclusi i disturbinon inclusi nella classificazione: -- Disturbo passivo-aggressivo di personalità: Il DSM indica come caratteristiche la tendenza negativistica e la resistenza passiva a richieste di prestazioni congrue con il ruolo e i compiti del soggetto. L'atteggiamento verso le autorità è ostile ma alcuni autori evidenziano come l'ostile oppositivo nasconda una ricerca di riconoscimento. Risulta centrale il conflitto tra il desiderio di mantenere la vicinanza con l'autorità, fonte di conferme e approvazione, aspetto che spinge ad assumere un atteggiamento sottomesso e passivo, e il bisogno di mantenere la propria autonomia, vista minacciata dalle medesime figure. La difficoltà principale consiste nel riuscire a bilanciare il bisogno di attaccamento e il timore di intrusione e perdita di autonomia connesso alla soddisfazione di questo bisogno. Il concetto di sé come individuo autosufficiente ma potenzialmente bersaglio del controllo e dell'interferenza da parte dell'autorità si accompagna alla visione di un altro esigente e impulsivo, ma anche capace di dare sicurezza. Le strategie adottate perseguono l'obiettivo personale di accrescere la propria autonomia opponendosi alle autorità e alle loro regole. La personalità passivo-aggressiva resiste in maniera diretta trascurando le esigenze degli altri, discutendo esageratamente gli ordini, criticando le figure di autorità: oppone una resistenza indiretta quando fa trascinare le cose, è volutamente inaffidabile, scontroso, si compiange. Lo stato affettivo prevalente è la rabbia inespressa che si alterna all'ansia connessa alle situazioni in cui possono venir a mancare riconoscimenti e le conferme desiderate. -- Disturbo depressivo di personalità: La personalità depressiva presenta una serie di caratteristiche tipiche della corrispondente organizzazione cognitiva di personalità, che paiono poco flessibili e disfunzionali sul piano adattivo. Un aspetto saliente è rappresentato dal pessimismo che pervade la visione della realtà; il tema della responsabilità, che rende i soggetti affidabili e li porta a valutare gli eventi come risultato delle proprie azioni, nel disturbo depressivo di personalità si declina nei termini di una tendenza all' iper-responsabilizzazione. Il tono dell'umore è in prevalenza triste e conduce ad assumere atteggiamenti scontrosi, le attività considerate abitualmente gradevoli destano poco piacere e scarso interesse. L'atteggiamento verso di sé è di marcata autosvalutazione e difficilmente questi individui chiedono un aiuto per una serie di convinzioni consolidate: 1 - non considerano la loro condizione come una malattia, ma pensano che sia una questione di carattere. 2 - arrivano a far fronte ai loro obblighi professionali e familiari (il loro dovere) ma non sentono un altrettanto forte impulso ad affrontare i propri problemi personali. 3 - credono al potere della volontà per stare meglio. 4 - pensano che la medicina o la psicologia non siano utili per loro, che il loro sia un caso particolare. 5 - pensano che i farmaci non servono a nulla, che siano droghe e creino dipendenza. 6 - sono talmente abituati a sentirsi male che non arrivano a immaginare di potersi sentire bene. 7 - arrivano a valorizzarsi dando un'immagine di sé forte rispetto alla malattia, cosa che contrasta con la richiesta di un farmaco che agisca al loro posto. xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx Personalità ansiosa Gli individui tendono a preoccuparsi troppo frequentemente e con intensità eccessiva in rapporto ai rischi della vita quotidiana che essi stessi o altri significativi possono correre. A questo stato d'animo si associa una componente di attivazione somatica molto evidente, che i pazienti riferiscono come una forte tensione fisica. La strategia comportamentale ritenuta da loro efficace consiste nell'innalzare il livello di allarme, in modo da prestare attenzione ai rischi, controllare le situazioni, comprese quelle che presentano una pericolosità lieve, come eventi poco probabili. Personalità di tipo " A " Questa definizione indica il tipo di personalità che presenta alcuni atteggiamenti caratteristici: 1 - lotta contro il tempo: il soggetto è impaziente, preoccupato, fa più cose possibili in un tempo limitato, è intollerante nei confronti della lentezza altrui. 2 - senso di competizione: tende a voler vincere nelle situazioni di vita quotidiana, nella conversazione, in attività sportive. 3 - Impegno nell'azione: lavora molto, prende le sue attività a cuore, trasforma i suoi svaghi in lavori orientati ad uno scopo. Questo tipo di atteggiamento presenta una considerevole serie di vantaggi sul piano sociale, che si manifestano in ambito lavorativo o in aree orientate al compito. L'intensità con cui si presentano questi aspetti si accompagna facilmente ad alcuni svantaggi: compiuta una scelta difficilmente questo tipo di soggetto è disposto a tornare indietro e ridiscutere quanto deciso. Spesso è molto difficile rallentare i ritmi, cosa che comporta una sottrazione di tempo e di energie alla vita familiare. L'estrema determinazione, che gli fa assumere atteggiamenti autoritari, rende più probabili scontri e conflittualità. Un modello di intervento: il Centro al Dragonato -- L’invio l’inviante e il primo colloquio Questo modello è una delle possibilità di approccio in chiave costruttivista, sì è sviluppato in un contesto socio-culturale definito: con altri contesti, risorse, vincoli e uomini si applicheranno altri modelli. Il modello e il linguaggio dell'impianto in quanto persona significativa sono indicatori importanti delle aspettative e degli atteggiamenti che possiamo attenderci dalla famiglia inviata. Se l'inviante è il medico curante, le informazioni rifletteranno le sue idee sulla situazione problematica, il suo livello di ottimismo, oppure la presenza di un'ipotesi consolidata riguardo al grado di reversibilità del problema. Nel primo caso le richieste riguardano le possibilità di formazione e lavoro: il supporto alla famiglia del segnalato da parte dello psicoterapeuta, una richiesta di coinvolgimento del soggetto in attività di tempo libero di fuori della rete assistenziale. Potrebbe esserci anche una richiesta di collaborazione per scalare gli psicofarmaci. Nel secondo caso la richiesta di solito consiste nel contenere il paziente e fargli trascorrere del tempo durante il giorno, in modo da alleviare l'impegno della famiglia. La richiesta è di non pretendere troppo dal paziente e di fargli svolgere qualche attività protetta. Viene spesso chiesto di controllare l'assunzione dei farmaci nell'ambito di una terapia a vita. In entrambi i casi queste informazioni si rivelano preziose e entrambe le ipotesi vanno rispettate in quanto soluzioni che presumibilmente sono funzionali per tutte le persone coinvolte. Si accetta il linguaggio diagnostico o qualsiasi altra ipotesi fornita per evitare di entrare in simmetria con idee che hanno comunque una loro funzione tranquillizzante ed esplicativa. Il primo colloquio è un momento fondamentale. Deve avvenire in un setting il più possibile neutrale, in cui il linguaggio deve evitare preconcetti e favorire le relazioni funzionali al cambiamento; viene condotto dall'assistente sociale che si avvale di una terminologia più normalizzante rispetto quella psichiatrica o psicologica, influenzando la relazione con le persone presenti nel senso della normalità. Il ruolo dell'assistente sociale consiste nell'agganciare le persone significative evitando di minacciare i loro preconcetti già consolidati rispetto alla malattia. Laddove si imbatte in attribuzioni di significato o idee distruttive, tenta di riconnotarle e di capire la sofferenza e le esigenze di tutte le persone significative coinvolte. In seguito propone soluzioni pratiche e concrete alle richieste indicando le persone competenti a soddisfarle. Nel descrivere il centro si spiega come questo si occupi di coloro che sono andati in crisi sotto il peso di specifiche difficoltà, hanno subito uno scompenso con ricovero psichiatrico e oggi si trovano in uno stato di dipendenza dalla rete assistenziale, dalla farmacoterapia, dalle tensione ecc.. Queste persone hanno due scelte possibili: la prima consiste nel mantenere invariata la loro situazione, la seconda consiste nell'intraprendere un cammino verso una maggiore autonomia. Nel primo caso il paziente può frequentare il laboratorio protetto durante il giorno, dove non esistono pretese e dove il malato ha il diritto di comportarsi da invalido rispetto la situazione di lavoro qualificato. Nel laboratorio protetto non si pretendono puntualità, affidabilità e serietà professionale. Nel secondo caso la strada è più ardua, si inizia da una posizione di svantaggio, nel tentativo di recuperare il potenziale, con tutti rischi connessi al cambiamento con la relativa perdita di vantaggi secondari già acquisiti. Si concorda il programma si fissano gli appuntamenti relativi alla scelta effettuata. L'assistente sociale fornirà le spiegazioni che servono ad anticipare le regole del gioco nei vari contesti; evita di trattare il soggetto come incapace di intendere o di scegliere e interpreta gli atteggiamenti anomali del paziente come una strategia che ha appreso in un ambito di adattamento alle difficoltà del contesto e alla rete assistenziale. -- La co-creazione di una realtà socialmente praticabile Non ci si limita a fornire risposte terapeutiche e psichiatriche utili nella fase di sofferenza acuta, ma vengono messe a disposizione soluzioni sociali e lavorative per orientare la persona verso livelli evoluti più autonomi. La dipendenza assistenziale viene co-creata nel tempo in modo complesso, dall'interazione di più fattori: per questo è necessario affrontare questi problemi nell'ambito di un'équipe interdisciplinare, con spazi relazionali e luoghi ben differenziati, al fine di evitare il rischio di creare una istituzione totale con commutazioni unicamente terapeutiche. Per questo motivo tutte le sedi del centro devono collaborare per contribuire alla co-creazione di una realtà più praticabile a livello sociale. -- La sede terapeutica La sede terapeutica, se viene riscontrata la necessità di una presa in carico terapeutica, ha il compito di favorire l'autonomia psicologica ed emozionale della persona e di rendere alle persone significative la serenità necessaria per una qualità di vita soddisfacente per tutti. La sede svolge la funzione di integrazione dei vari interventi, creando le condizioni necessarie all'eventuale inserimento sociale della persona. Nel caso di presa in carico globale, il tipico tragitto attraverso le strutture del centro è rapresentato dall'iniziale assunzione terapeutica dell'utente: in presenza di una situazione di grave crisi, le prestazioni psichiatriche psicoterapeutiche saranno prevalenti. Una volta superata questa fase può subentrare l'assistente sociale, per affrontare problemi più pratici, fino al momento in cui la persona si senta pronta ad affrontare il primo passo verso le realtà lavorative sociali. I terapeuti già in questa fase devono affrontare il discorso del graduale distacco dalle modalità relazionali proprie della fase di scompenso, e questo compito viene facilitato mentre la persona procede verso le altre sedi e fa ricorso alle altre realtà costituite da operatori che possiedono sempre meno il taglio terapeuticoassistenziale. -- La psicoterapia Anche nell'ambito della psicoterapia il lessico e la relazione sono fondamentali per superare il contesto di una sede con psicologi e psicoterapeuti che operano in un setting con specchio unidirezionale, microfoni e videoregistratori. Lo scopo di ogni seduta è co-creare, con le persone significative, dei significati o delle ipotesi funzionali al cambiamento. È importante che il terapeuta sappia guardare al percorso dell'utente al di là del proprio contributo contingente, orientandolo verso una maggiore autonomia rispetto alla relazione terapeutica stessa. Il compito della sede terapeutica consiste nel valutare i tempi dell'utente e della sua famiglia nell'affrontare determinati cambiamenti. Nel caso di una condizione definita cronica il processo di sostituire i significati attuali con ipotesi più ottimistiche è un lavoro delicato, che richiede una continua valutazione circa l'idoneità e i tempi del soggetto nell'affrontare una nuova strada. In questo caso si rispetta l'equilibrio raggiunto, frenando le richieste di cambiamento: la psicoterapia serve a coinvolgere e a tranquillizzare le persone significative per l'utente, permettendo maggiori possibilità di cambiamento nel percorso che egli ha intrapreso. Saranno i fatti che gradualmente emergono a cambiare o stimolare nuovi significati intorno al potenziale di recupero. Non si minacciano le idee consolidate, esiste un maggiore spazio di manovra a livello delle azioni quotidiane. -- Lo studio dello psichiatra Rappresenta un'ulteriore palestra per l'utente, un'occasione di apprendimento della gestione adeguata dei diversi servizi. Lo psichiatra serve per definire il momento di crisi e come tale, per fornire aiuto farmacologico, se necessario e per ridurlo quando possibile, ma soprattutto per far recepire al cliente i confini del suo intervento. -- I luoghi di lavoro Le diverse attività lavorative, gestite da professionisti del rispettivo settore, sono coordinate dal responsabile dell'ufficio di coordinamento delle attività lavorative che assume la funzione di datore di lavoro. Gli atelier di lavoro servono sia per l'apprendimento di tecniche di lavoro specifiche, sia come " palestra " nella quale la persona può esercitare il ruolo di impiegato e operaio, limitando il ruolo che ha acquisito il paziente. Il fatto che siano operatori professionali e non sanitari a gestire i posti di lavoro favorisce questo aspetto, che rispecchia il più possibile la realtà lavorative esterna. La loro presenza inibisce la tendenza da parte dei lavoratori a utilizzare strategie da malato e consente di creare la qualità delle prestazioni erogate, una ambiente di lavoro serio e professionale. -- Il laboratorio protetto Questo spazio serve a tutte le persone che non sono pronte o non sono decise ad affrontare la strada verso la normalità e verso l'autonomia. Si tratta di situazioni cronicizzate in cui la dipendenza assistenziale dell'utente è consolidata. La richiesta fatta al centro in questi casi non è di reintegrazione professionale o sociale, ma di presa in carico occupazionale. L'utente si trova in una fase confusionale profonda, è impossibilitato ad adeguarsi a una situazione lavorativa vera e propria, ma ha bisogno di un'attività giornaliera. Nel laboratorio la persona non ha nessun impegno ne è sottoposta alla pressione delle regole lavorative, ma può fruire della possibilità di familiarizzarsi gradualmente con un contesto di lavoro. Il lavoro in se non ha un valore produttivo, le paghe sono simboliche. In questa situazione si verificano dei piccoli cambiamenti che nel tempo hanno l'effetto di stimolare l'utente richiede l'aiuto necessario a fare un passo in più. Parallelamente alla frequenza presso il laboratorio, continuano il lavoro con la famiglia, i colloqui individuali e i tentativi di agganciare l'utente da parte dell'animatore del centro ricreativo. Se in questo periodo il soggetto riesce a stabilire delle relazioni sociali, aumenta la probabilità che si motivi verso l'altra strada, quella dell'integrazione. -- I luoghi del tempo libero Sotto il profilo delle relazioni sociali un ruolo importante è svolto dal centro ricreativo "why not? Spazio per il tempo libero ", la cui funzione consiste nel facilitare il contratto iniziale con la persona e nell'offrire una modalità di rapporto differente da quella terapeutica o lavorativa. Il centro ricreativo è un luogo di incontro che offre la possibilità di partecipare a numerose attività e rimane un punto di riferimento non assistenziale anche per coloro che hanno terminato il programma presso il centro. L'atteggiamento e le modalità di gestione dell'animatore non sono di tipo assistenziale e l'organizzazione è priva di connotazioni psichiatriche. L'animatore deve stare attento a non cadere nella trappola di comunicare come se fosse un terapeuta. Se vogliamo che una persona impari a gestirsi correttamente nella società senza ricorrere al biglietto da visita di paziente psichiatrico, dobbiamo chiederci se i nostri spazi sono riabilitativi oppure se non stimolino le persone ad adeguarsi alla rete assistenziale. Uno sguardo al futuro nell'ottica di fornire risposte complesse a problematiche complesse nasce il Progetto Il Volo, che si esprime con la metafora del tridente. In termini generali è costituito da una punta che rappresenta un'azione preventiva volta ad affrontare il disagio giovanile, un supporto clinico-sociale e ambulatoriale alle famiglie e ai giovani a rischio, nonché un'attività di conoscenza e inserimento nel territorio in cui si opera. Una seconda punta è rappresentata dalla Comunità residenziale, intesa come tappa nel percorso terapeutico-riabilitativo. La terza punta è rappresentata dalla conoscenza dei fenomeni affrontati e dalla valutazione dell'attività esplicata. Questi aspetti generali sono calati in una specifica realtà socio-culturale. Nell'ottica costruttivista, il modello di riferimento è quello cognitivo-relazionale che si rifà a esperienze e approcci teorici in ambito cognitivista. Tuttavia il modello cognitivista tende a privilegiare l'intervento sull'individuo senza affrontare direttamente gli aspetti più marcatamente relazionali. Per questa ragione il modello cognitivo-relazionale proposto comprende anche tecniche di tipo sistemico, l'approccio narrativo e più in generale l'approccio della psicologia culturale. Il ruolo della psicologia culturale risulta utile nel momento in cui si vogliono comprendere le dinamiche di tipo micro e macro sociale, come il funzionamento di un'équipe terapeutica o alle interrelazioni con le differenti articolazioni del territorio. Capitolo 9 il disturbo borderline di personalità i disturbi di personalità sono per definizione stabili e durevoli nel tempo. Il DSM IV ne definisce come elementi distintivi: l'insorgenza nella prima età adulta, la stabilità nel tempo e il carattere inflessibile e pervasivo nelle diverse aree di vita. Paradossalmente la stabilità si manifesta nelle disturbo borderline di personalità in un quadro di permanente instabilità, la cui natura si presenta variabile ed eterogenea. Variabile in quanto nessun tratta sempre presente, periodi di sofferenza si alternano a fasi di benessere e buon adattamento sociale; eterogeneo perché la stessa diagnosi può riguardare quadri clinici notevolmente diversi. Questo ha messo in discussione l'esistenza del disturbo come unità nosografica autonoma. Alcuni autori hanno sottoposto al vaglio della ricerca empirica la relazione tra i criteri diagnostici del disturbo per verificarne la coerenza, l'omogeneità interna e il potere discriminatorio per la diagnosi. Da queste ricerche emerge un quadro meno eterogenea del previsto. Il disturbo mantiene la sua identità nosografica fondata su tre assi: il disturbo dell'identità delle relazioni, il discontrollo degli impulsi e la disregolazione affettiva. La variabilità è l'aspetto patognomonico di questa entità clinica, non una prova della sua inconsistenza. Il problema diventa quindi la costruzione di un modello psicopatologico che descriva questa stabile-instabilità e spieghi come essa si mantenga nel tempo. Un disturbo di personalità non è un'entità monolitica, ma è scomponibile elementi di natura psicologica differente; questi elementi interagiscono tra loro, rinforzandosi e mantenendo il disturbo. Quello che ci interessa è come tale interazione generico organizzazioni stabili e stili riconoscibili funzionamento intrapsichico e sociale. Un primo passo per la scomposizione del disturbo nelle sue componenti psicopatologiche fondamentali è la distinzione tra contenuti e funzioni mentali. Nel primo caso ci riferiamo ai contenuti che costituiscono gli stati problematici, nel secondo a quelle che sono chiamate abilità autoriflessiva, metacognitivi o metarappresentative. Oltre ai contenuti ideativi ed emotivi degli stati problematici e ai disturbi delle funzioni metarappresentative, una componente riguarda i cicli interpersonali disfunzionali: un ciclo interpersonale disfunzionale è un processo interpersonale in cui previsioni negative riguardo le proprie relazioni si autodeterminano e auto confermano, inducendo nell'altro il tipo di comportamento temuto. Metarappresentazione, stati mentali problematici e cicli interpersonali disfunzionali costituiscono l’insieme degli elementi da indagare per ricostruire l'anatomia dei disturbi di personalità. Dalla loro interazione reciproca si generano circuiti disfunzionali che mantengono in equilibrio le diverse variabili e creano le condizioni perché si stabilìzzi il disturbo. Le funzioni di metarappresentazione del disturbo borderline di personalità Il deficit di integrazione i pazienti con disturbo borderline di personalità incontrano difficoltà a fornire descrizioni coerenti di stati mentali, sia propri sia altrui. Pur essendo a volte brillanti lettori dei contenuti di pensiero e delle emozioni appaiono carenti di un punto di vista integrativo che conferisca a tali contenuti un ordine e una gerarchia di rilevanza. Il disturbo può evidenziarsi sia rispetto ai contenuti di singoli stati mentali, sia rispetto alle relazioni tra stati mentali diversi. Le emozioni pensieri vengono descritti modo caotico. Il problema non è l'accesso agli stati interni, ma l'ordine. Le emozioni si accavallano una dopo l'altra e si perdano i nessi tra le sequenze. La sensazione che suscitano i racconti dei pazienti non è quella di opacità ma di confusione. In questo caso il deficit assume la forma che Dimaggio e Semerari definiscono di iperproduzione delle narrazioni e deficit di gerarchizzazione. Questa descrizione risulta assimilabile a ai fattori del disturbo di identità. In alcuni casi la caoticità può accompagnarsi a disturbi dissociativi, o a sintomi di ansia, o a un umore disforico da sensazione soggettiva di incoerenza. In altri casi, il deficit di integrazione si manifesta con la presenza simultanea caotica di rappresentazione di se-con-l'altro multiple contraddittorie. La coerenza è maggiore e si rileva un tema di fondo ma risulta difficile formarsi una rappresentazione chiara del paziente della sua relazione con l'altro. Se da una parte viene descritta una sensazione di benessere subito dopo le viene riportata una di paura da giudizio negativo. Manca un punto di vista che colga e cerchi di spiegare questa incoerenza. Il risultato è quello comune a tutti deficit di integrazione: una paralisi del comportamento. Quando la non-integrazione riguarda le relazioni tra diversi stati mentali, i pazienti non sono in grado di descrivere e comprendere le transizione tra di essi che possono oscillare tra descrizioni opposte, tutte buone o tutte cattive, di sé, dell'altro e della relazione. Anche in questo caso l'accesso ai propri stati interni è conservato ma c'è incapacità di rappresentare e comprendere le transizioni tra essi con un alternarsi di descrizioni opposte di sé e dell'altro e della relazione, prive di un punto di vista integrativo. È nella coerenza del comportamento che sta il risultato adattivo fondamentale della capacità di integrare stati mentali diversi: questa capacità ci consente di soppesare diversi stati, attribuire a ciascuno la sua rilevanza, prevedere le loro variazioni e elaborare strategie di padronanza. Possiamo definire la capacità integrativa come la capacità di riflettere sui propri stati mentali, di attribuire a ognuno la sua rilevanza, prevedere le loro variazioni e elaborare strategie di padronanza in modo da raggiungere il livello minimo di coerenza che consente di dare una direzione comportamento. Il deficit di regolazione emotiva e il deficit di differenziazione il secondo deficit è comune a molti disturbi, ma nei soggetti borderline si manifesta in modo più evidente, coinvolgendo quasi tutto il repertorio emotivo. La tesi centrale della Linehan è che questi pazienti soffrirebbero tanto di una particolare vulnerabilità emotiva, quanto di una difficoltà a regolare le emozioni: la vulnerabilità risente di fattori genetici e temperamentali e consiste nella tendenza a reagire in modo intenso e immediato a stimoli emotivi anche minimi. La disregolazione consiste nell'incapacità una volta attivata l'emozione, di mettere in atto strategie necessarie per ridurne l'intensità e ritornare al tono emotivo di base. Tra le cause di sviluppo della disregolazione vi sarebbe la crescita in un ambiente invalidante, caratterizzato da risposte caotiche, contraddittorie ed estreme. Il deficit di modulazione e regolazione delle emozioni determinerebbe nei pazienti borderline una tendenza pervasiva a entrare e rimanere in circuiti viziosi emotivo-cognitivi che si auto-alimentano: i processi ideativi finiscono per dipendere strettamente dallo stato affettiva in corso, per cui il soggetto selezionerà l'informazione, rievocherà episodi, formulerà giudizi e previsioni congruenti con quello stato affettivo che a sua volta indirizzerà i temi di pensiero e viceversa. Questi pazienti non sono in grado di utilizzare processi cognitivi per regolare e ridurre intensi stati emotivi negativi, ma creano circoli viziosi che amplificano e mantengono lo stato mentale problematico. Il terzo deficit funzionale del disturbo borderline di personalità è quello di differenziazione, inteso come difficoltà nel saper distinguere tra le classi diverse di rappresentazioni in base al vincolo di referenza che si attribuisce loro rispetto alla realtà. Diventa impossibile differenziare tra fantasia, ipotesi, aspettative, previsioni eccetera. Si perde la capacità di distanza critica rispetto alle proprie visioni del mondo che vengono trattate come specchio del reale e non più come rappresentazioni ipotetiche. È nei contributi di Fonagy e Target che questo deficit trova la sua segnalazione più chiara. Nella nostra esperienza del disturbo esso non appare primario, come del disturbo paranoide di personalità, ma dipendente dalla disregolazione emotiva. La relazione tra i deficit la capacità di distanziarsi criticamente dal proprio pensiero dipende strettamente dal contesto interpersonale e dallo stato emotivo. In un clima sereno i pazienti borderline appaiono in grado di differenziare tra rappresentazione soggettiva e realtà. Questa modalità di funzionamento ci introduce a un importante problema: quali sono le relazioni tra il deficit di metarappresentazione? Una prima considerazione e che il deficit di integrazione e quello di disregolazione emotiva si influenzano reciprocamente, senza che sia possibile stabilire relazioni gerarchiche. In assenza di meccanismi di regolazione il mood congruity effect, implica che lo stato emotivo in corso induce ideazione congruente, che a sua volta induce un’emozione congruente e così via o altrimenti una rappresentazione attiva, uno stato emotivo che orienta l'ideazione verso altre rappresentazione dello stesso tipo, che alimentano sempre la stessa condizione emotiva. Si può ipotizzare che rappresentazioni opposte o non integrate possono generare stati emotivi di intensità proporzionata al carattere totalizzante delle rappresentazioni. Il ragionamento può essere rovesciato: l'assenza di strumenti di regolazione può generare un'ideazione completamente orientata da uno stato emotivo in corso di crescente intensità, fino a rappresentazioni estreme. Una seconda considerazione è che la posizione del difetto di differenziazione appare più subordinata. È probabile che il deficit di regolazione emotiva porti, attraverso i circoli viziosi emotivo-cognitivi, all'esclusione progressiva di dati incongruenti, fino a sospendere transitoriamente la capacità critica. La caoticità e contraddittorietà dell’ideazione e la mancanza di punti di vista che integrino le diverse rappresentazioni rendono difficile la riflessione critica sul proprio pensiero. Pur essendo influenzata dalle capacità di integrazione e di regolazione la differenziazione non sempre dipende da queste. Nel disturbo paranoide di personalità possono essere presenti una grande coerenza nelle rappresentazioni, un controllo emotivo che può arrivare alla capacità di simulare gli affetti, insieme un grave deficit della capacità di differenziare. Vedi pagina 294: i deficit di integrazione e regolazione sono collocati in una posizione gerarchicamente primaria e il deficit di differenziazione è considerato come il risultato degli altri due. Stati problematici, cicli interpersonali e modello del disturbo con stato mentale problematico si intende un'associazione ricorrente di temi di pensiero, emozioni e sensazioni somatiche segnate da sofferenza soggettiva o ricercate compulsivamente per evitare l'insorgenza di altri stati problematici. Gli stati mentali problematici del disturbo borderline sono estremamente eterogenei perché la gamma degli stati mentali è molteplice. Sono variabili perché nessuno di questi stati è sempre presente per lunghi periodi potendo anzi accadere che non ve ne sia alcuno e perchè la compresenza di alcuni di essi è spesso caotica e non integrata, caratterizzata da processi di transizione rapidi e imprevedibili. La variabilità è mantenuta e amplificata dai deficit metarappresentativi. Vedi pagina 295: è presentato il modello degli stati mentali dei cicli interpersonali: questi ultimi vengono descritti a partire da due elementi nucleari, il Sé indegno e il Sè vulnerabile. Questi nuclei non vanno considerati come stati mentali veri e propri, ma come schemi basici di sé che organizzano l'esperienza del soggetto e l’aggregarsi di cognizioni e emozioni in stati discreti. Il sé indegno si caratterizza per la percezione che vi sia qualcosa di profondamente sbagliato, mostruoso, folle o ridicolo nel soggetto; può accompagnarsi a alterazioni nella percezione dello schema corporeo, sintomi di somatizzazione, dismorfofobie, disturbi del comportamento alimentare, soprattutto crisi bulimiche. Secondo Kernberg da tale schema ha origine un senso di minaccia personale per cui l'altro è percepito come minaccioso, sentimento che il paziente gestisce transitando da uno stato di controllo sadico, ovvero in un circuito di idealizzazione dell'altro che deve fornire protezione o soddisfazione, in mancanza delle quali il paziente prova una rabbia da torto subito. Lo stato auto-invalidante il sé indegno si manifesta nell'esperienza soggettiva dello stato auto invalidante, caratterizzato da una attenzione selettiva ai propri fallimenti, limiti e inadeguatezze assunti a conferma della propria difettività che così si auto mantiene. Ne conseguono emozioni dominanti di disprezzo e rabbia verso se stessi, espresse con sarcasmo e spietata autocritica. Prevale un senso di passività che si può manifestare con disturbi del comportamento alimentare o in sintomi di somatizzazione. L'umore di base è disforico con prevalenza di sintomi depressivi intensi con possibili comportamenti autolesivi. lo stato di rabbia-ingiustizia subita e il ciclo invalidante l'umore disforico dello stato auto invalidante, amplificato dal deficit di disregolazione emotiva, predispone il paziente a reagire con rabbia immediata e intensa a contrarietà o frustrazioni, anche minime. Da uno stato di passività si transita nello stato di rabbia dà ingiustizia subita, alimentato da un'ideazione centrata su reali o immaginari torti ricevuti, con prevalenza di temi persecutori e tendenza ad atti di aggressività etero-diretta. Quando questo stato viene agito in una relazione, il paziente per pararsi dall'accusa reale o immaginaria di essere indegno accusa l'altro in modo da farlo sentire una persona sbagliata. Si attiva così il ciclo interpersonale invalidante: l'altro tenderà a reagire in modo analogamente contro-accusatorio e se il paziente mantiene la propria posizione, si alimenterà lo stato di rabbia e ingiustizia subita; se soccombe, aumenterà il senso di indegnità. La letteratura concorda nel considerare lo stato di rabbia come un elemento centrale del disturbo; non tutti gli autori tuttavia ritengono che il fondo psichico di questo stato sia improntato dal senso di indegnità personale. Per esempio sia Kernberg che Ryle lo riconducono sì a un torto subito, ma da rottura dell'idealizzazione. Secondo altri questo stato è la conclusione diretta degli schemi di indegnità personale e vulnerabilità: l'impossibilità di essere amati generano un circolo vizioso cognitivo in cui le strategie di evitamento delle relazioni, confermando l'assunto di partenza, provocano intense sensazioni di rabbia per la soppressione di sentimenti e bisogni. Ne deriva profonda infelicità e gravi sintomi depressivi o promiscuità sessuale. stato di pena, colpa, danno arrecato la sensazione di malvagità personale, nonché la ripetuta esperienza di cicli invalidanti e la tendenza a vivere tutto il repertorio emotivo intensamente fanno sì che il soggetto possa percepirsi come fonte di danno e di dolore infinito per un altro amato e vittima. Il ruolo di persecutore è esecrato e accompagnato da intensi sensi di colpa. L'umore è orientato verso polarità depressive con possibilità di atti autolesivi a scopo espiatorio. L'ideazione dello stato di pena, colpa, danno arrecato è in grado di mantenere e perpetuare il senso di indegnità personale. Questo stato è poco descritto in letteratura; Searles ritiene che proprio la paura di recare danno sia la forma principale in cui si esprime il senso di indegnità personale: questa proposta è più vicina al nostro modello, anche se il senso di indegnità è inteso esclusivamente nei termini di distruttività. Il sé vulnerabile ha le sue radici nella percezione di poter essere facilmente ferito, annientato o di essere esposto senza difesa, aiuto e capacità di fronteggiamento ad aggressioni o eventi catastrofici sia esterni che interni alla persona. Il sé vulnerabile è una condizione di fondo ben descritta che si organizza in specifici stati mentali in cui spesso è rinvenibile anche l'influenza del sé indegno. Tale rappresentazione può tradursi in sintomi di ansia, disturbi dissociativi, ideazione paranoide e strategie di coping disfunzionali (abuso di sostanze)big8. Nella letteratura la descrizione del sé vulnerabile risulta spesso commista e/o secondaria al senso di indegnità personale. Anche nel DSM-IV risulta espresso solo indirettamente, nei criteri di: sforzi frenetici per evitare abbandoni, ideazione dissociativa paranoide transitoria e collegata a stress. La si trova come dimensione di base specifica in Beck e Freeman che descrivono come l'assunzione di base " io sono debole e vulnerabile " rispetto a un mondo minaccioso determini una attenzione selettiva ai segnali di pericolo, perpetuandosi sia la visione del mondo come minaccioso sia la percezione di essere vulnerabile. Stato di minaccia, solitudine e perdita il fondo psichico del sé vulnerabile si manifesta innanzitutto nella percezione soggettiva di essere in pericolo, che può assumere nella mente del paziente forme diverse. Il contenuto della minaccia è vario: un pericolo interno o esterno. Spesso l'influenza del sé indegno fa sì che la minaccia sia rappresentata da critiche feroci, capaci di umiliare. L'emozione dominante è la paura. Costante è l'idea che non si potrà ricevere aiuto, a volte a causa della propria indegnità. Lo stato di minaccia si configura allora come una condizione di assoluta solitudine, espulsione dal gruppo e condanna universale. Diversi autori sono concordi nell'attribuire a questo stato l’esperienza di depressione intensa con mancanza di speranza, paura e senso di perdita. Queste esperienze possono determinare strategie di coping disfunzionali come atti suicidari o parasuicidari. Lo stato aggressivo abusante uno dei modi in cui è possibile gestire il senso di minaccia consiste nel rovesciamento dei ruoli, per cui il soggetto si trasforma da vittima in aggressore. Prevalgono atteggiamenti di controllo prepotente. Gli stati di rabbia e ingiustizia subita e lo stato aggressivo abusante possono apparire simili ma il vissuto soggettivo è ben diverso: nel primo, il paziente si sente vittima che reagisce a soprusi, nel secondo assume consapevolmente un atteggiamento di dispotica aggressività da cui trae un temporaneo senso di sicurezza. In questo caso la disregolazione emotiva si esprime con il discontrollo della rabbia e conseguenti atti di aggressività etero-diretta. Stato di vuoto e di anestesia emotiva e loro gestione disregolata il sé indegno e il sé vulnerabile possono sottoporre pazienti a un intollerabile pressione fatta di pericolo, precarietà, difettività. A volte ricorrono come strategia di coping disfunzionale al distacco emotivo da tutto e tutti, entrando in uno stato di vuoto e anestesia emotiva. Non riteniamo che la sensazione di vuoto sia cronica e pervasiva; in alcuni momenti questo stato può essere percepito piacevolmente come quiete o come uno stato di controllo onnipotente. È questa la condizione in cui si verificano più frequentemente gesti suicidari o autolesivi che rappresentano sia l'effetto di uno stato di distacco assoluto dal mondo sia un modo per evocare tale distacco. Altre volte il vuoto viene descritto come la sensazione intollerabile del nulla, dove tutto perde senso. In questi casi pazienti tendono a reagire con comportamenti atti a provocare un'attivazione elevata, come attività sessuale promiscua, compiere azioni pericolose o stordendosi con l'uso di alcol o crisi bulimiche. La gestione disregolata del vuoto finisce invariabilmente con l'alimentare il senso di indegnità-vulnerabilità. Occorre tener presente che il circuito indegnità-vulnerabilità-vuoto gestione disregolata indegnitàvulnerabilità è quello che genera i comportamenti più a rischio per l'incolumità del paziente. Ciclo validante e ciclo protettivo i pazienti borderline dispongono di molte risorse personali che favoriscono, pur nella loro caoticità, relazioni intense e significative. Sono in grado di instaurare cicli interpersonali positivi in cui ottenere almeno temporaneamente validazione di sé e senso di protezione. Esiste perciò un potenziale circuito terapeutico: l’instaurarsi di cicli invalidanti e di cicli protettivi sintonici allo stato del paziente, all'interno di una relazione di fiducia, permette l'emergere di un senso di sé positivo, degno ed efficace. Questi cicli tendono però a essere brevi e fragili in quanto i difetti metarappresentativi fanno sì che l'investimento sull'altro sia spesso idealizzato con aspettative irrealistiche. Anche quando si ottiene validazione il sé indegno genera la sensazione di aver ingannato e di aver recitato un ruolo. Tanto l'aiuto quanto la validazione sono richiesti modo disregolato e questo può spaventare, allontanare o infastidire l'altro trasformando il ciclo protettivo in un ciclo d'allarme reciproco e il ciclo validante in un ciclo invalidante. Il problema è di stabilizzare cicli positivi, trasformando l'idealizzazione in un realistico senso di fiducia. Alcuni problemi nel trattamento del disturbo borderline di personalità la complessità della patologia richiede un'attenzione particolare alla gestione flessibile del caso. Alle competenze del terapeuta individuale vanno spesso aggiunte quelle del farmacologo e/o del terapeuta familiare o di gruppo, in un lavoro di équipe che comprende spesso collaborazioni con operatori dotati di altre competenze e con le risorse disponibili nel contesto di vita del paziente. Il setting individuale a volte non si rivela sufficiente, altre addirittura impossibile. Cicli interpersonali disfunzionali la caratteristica principale della relazione con un paziente borderline è la tendenza all'iper-coinvolgimento con pressioni di difficile gestione emotiva e relazionale. L'attivazione dei cicli interpersonali è più intensa, rapida e caotica e ogni volta risulta difficile prevedere l'andamento della seduta. In questa variabilità è tuttavia possibile rinvenire cicli interpersonali che si manifestano con maggiore regolarità. Diventa possibile individuare i segnali anticipatori, prevedere gli schemi di sé e dell'altro in gioco, e conseguentemente il terapeuta può tendere ad agire e approntare strategie di padroneggiamento. La consapevolezza del terapeuta di questa tendenza può aiutarlo nella comprensione dello Stato del paziente, in particolare della natura delle sue aspettative e nel passaggio dal ciclo interpersonali disadattivo a un circolo virtuoso di valore terapeutico. Per contrastare la pressione che spinge il terapeuta verso atteggiamenti anti-terapeutici è necessario ricorrere a quella serie di operazioni mentali definite operazioni di disciplina interiore. Si tratta di operazioni mentali che possono essere sintetizzate così: -il terapeuta deve riconoscere la propria disposizione problematica; -ne deve individuare le ragioni di fondo; -deve considerare se le stesse ragioni del proprio stato problematico non siano anche alla base della disposizione disfunzionale del paziente; -può percepire, a questo punto, di avere un problema in comune con il paziente. Questo riconoscimento favorisce da una parte l'uscita dal ciclo, dall'altra può essere segnalato al paziente e aprire una discussione. Riteniamo di aver individuato quattro cicli interpersonali disfunzionali prototipici del disturbo borderline: il ciclo invalidante e il ciclo d'allarme (caratteristici), il ciclo validante e il ciclo protettivo (da considerare parzialmente). -il ciclo invalidante: la possibilità che si attivi è legata alla convinzione di questi pazienti di avere qualcosa di irrimediabilmente sbagliato che prima o poi il terapeuta scoprirà e giudicherà, attaccando paziente e rimandandogli un’immagine completamente negativa. Per evitare di sentire il senso di indegnità il paziente ricorre a una sorta di perfezionismo difensivo in cui è costretto a provare continuamente a se stesso e agli altri di essere perfetto e senza limiti. Per non sentirsi mostruoso non può permettersi di sbagliare. Si tratta di uno scopo destinato a fallire e ne deriva la tendenza di molti pazienti a entrare in una sorta di tribunale mentale immaginario che punta a dimostrare l'indegnità totale della persona. Una possibile linea di difesa è quella del rovesciamento di ruoli: di fronte a qualche problema nella relazione terapeutica il paziente per difendersi dal sentimento di indegnità attacca il terapeuta con un'intensità emotiva e argomenti tali da suscitare due sensazioni in quest'ultimo: da un lato il terapeuta prova una sensazione di indegnità e colpa per non aver aiutato in modo efficace il paziente, dall'altro senso di rabbia per essere stato accusato ingiustamente. Il problema non è più di sconfermare lo schema disfunzionale ma si trasforma nell'interrogativo di chi tra i due contendenti sia più sbagliato. La reazione immediata è o quella di giustificarsi con il paziente con totale autocritica o quella di contrattaccare per dimostrare che se qualcuno sbagliato, quello è lui. Entrambe le reazioni aggravano il ciclo: la prima fa sì che il paziente provi paura e smarrimento, la seconda conferma senso di indegnità. La terapia deve aiutare il paziente da una parte, a sentire e capire che avere dei limiti o fallire non vuole dire essere mostruoso, dall'altra a comprendere tali limiti e a padroneggiarli. -il ciclo d'allarme: in momenti di acuta sensazione di vulnerabilità e perdita di controllo il paziente può entrare in uno stato d'allarme disregolato con possibilità di comportamenti autolesivi e pericolosi. Può apparire così fuori controllo da generare nel terapeuta un’uguale senso di urgenza e in seguito immagini catastrofiche inerenti sia al paziente sia alla sua persona o alla sua posizione professionale. Il clima emotivo viene dominato dalla paura e dall'angoscia, ci si trova desiderare di non aver mai preso quel paziente in cura e soprattutto a pensare una serie di interventi dettati più da urgenza caotica che da decisioni cliniche ponderate. Questo stato, se agito, conferma al paziente lo schema disfunzionale e le sue aspettative catastrofiche, fa perdere fiducia in se stesso e nella terapia peggiorando il ciclo. Il primo passo delle operazioni di disciplina interiore comincia col terapeuta che si focalizza sulla propria tendenza a reagire in modo caotico a una situazione di emergenza emotiva. In questo caso la conoscenza del paziente e di casi simili rende agevole il passo successivo: il terapeuta riconosce che questa disposizione problematica è analoga a quella del paziente del quale è una caratteristica abituale, presente in quel momento specifico. L'obiettivo diventa quello di dimostrare al paziente come ragionare, valutare la situazione e considerare le possibili soluzioni in modo non caotico nonostante la pressione emotiva. L'intervento avverrà a sua volta in due tempi: condivisione dello stato perché non si senta svilito, discussione delle strategie di padroneggiamento. Queste ultime possono essere di quattro tipi: si può aumentare il sostegno della psicoterapia, si può ricorrere al sostegno di persone vicine al paziente, si può introdurre o modificare una terapia farmacologica, si può ricorrere a un ricovero. Qualunque sia la strategia, fondamentale è che essa sia applicata in un clima di regolazione emotiva e che sia dettata da una decisione clinica ponderata su costi-benefici, e che sia contrattata con il paziente. La gestione di questo ciclo presenta due fondamentali vantaggi: consente un'esperienza in vivo di padroneggiamento di una situazione d'allarme e emotiva e favorisce la transizione in un ciclo protettivo. -ciclo validante e ciclo protettivo: Cicli rappresentano un potenziale circuito terapeutico. Sono caratterizzati da uno stato mentale di idealizzazione dell'altro, di sé e della relazione, tale da fare esperire al paziente validazione e protezione. Queste esperienze rappresentano il tentativo costante da parte del borderline di gestire sentimento di indegnità e vulnerabilità. L'idealizzazione non è di per sè un evento psicopatologico. È una condizione terapeuticamente necessaria senza la quale il paziente abbandonerà la terapia. Gran parte delle terapie con i borderline possono essere descritte come una tentativo di mantenere il paziente il più a lungo possibile all'interno del circuito ciclo protettivo-idealizzazione, fiducia-ciclo validante. Le transizioni in questi cicli e in questi stati, per quanto positive, avvengono secondo le modalità funzionali di questi pazienti: i deficit metarappresentativi fanno sì che l'altro sia idealizzato con aspettative irrealistiche, che si prestano all'invalidazione. Le richieste d'aiuto sottendono i sentimenti di indegnità e vulnerabilità per cui non cessano alle prime risposte positive ma tendono a diventare pressanti. Anche se si ottenesse validazione o protezione, il sé indegno genera nel paziente la sensazione di aver ingannato e di aver recitato un ruolo. Tutto questo genera nel terapeuta reazioni oscillanti, spesso contraddittorie: da una parte può sentirsi affascinato da un'immagine di sé come salvatore totalmente buono e agire per cercare di adeguarsi a tale aspettativa. Dall'altra può percepire con preoccupazione quanto la situazione sia precaria ed irrealistica e desiderare di sottrarsi a una responsabilità avvertita come troppo impegnativa. Entrambe le tendenze, se agite, confermano le aspettative disfunzionali del paziente. Nel primo caso il paziente entra in cicli invalidanti disregolati in cui le richieste di aiuto diventano incalzanti: i pazienti stessi possano avvertire di aver sottoposto il terapeuta a richieste pressanti e percepire di essere fonte di danno per l'altro con aumento della sensazione di allarme e d’indegnità. Nel secondo caso se il terapeuta tratta le aspettative idealizzanti come illuisioni legate alla psicopatologia rinforza la sensazione di essere sbagliati davanti a un terapeuta assente, giudicante e impotente nell’aiutarlo. La speranza di una cura è inoltre minacciata da transizione repentine o nel circuito auto invalidante o in quello di allarme. Dato che l'obiettivo è quello di far sostare il paziente il più possibile all'interno del circuito protettivo-validante la questione assume un valore di strategia terapeutica. Questa consiste nel favorire la trasformazione progressiva degli aspetti più estremi dell'idealizzazione in una fiducia via via più realistica; un punto cruciale di questa impostazione è dato dal richiamo esplicito e costante all'impegno e ai limiti personali del terapeuta: va spiegato che mantenere i confini che evitino al terapeuta di sentirsi invaso dalla terapia non significa sottrarsi all'impegno e all'aiuto ma un modo per prevenire il rischio che il terapeuta possa non desiderare di continuare il trattamento. La regolazione del setting la regolazione del setting presenta almeno due tipi di problemi: entrambi si presentano con ugual carattere di gravità ed importanza e sono interconnessi. Il primo è dettato dalla necessità di intervenire immediatamente e a caldo, nelle situazioni di crisi e riguarda direttamente la salvaguardia dell'incolumità del paziente. Il secondo riguarda la gestione da parte del terapeuta della pressione a cui sottoposto, ed è maggiormente legato alla salvaguardia della relazione terapeutica. Nel setting si impone una mediazione costante fra questi due aspetti. La rapidità e l'imprevedibilità dell'aggravamento sintomatologico si affacciano fin dai primi momenti della terapia; la maggior parte dei tentativi di suicidio avvengono in stati dissociati non sono prevedibili in base all'umore, tanto che i pazienti spesso dichiarano che in quei momenti non ricordano la terapia che vivono in uno stato di distanza emotiva. È necessario usare tutte le pressioni e gli accorgimenti possibili così che il paziente chiami il terapeuta nel momento in cui si accorge di entrare in uno stato a rischio, per trattare in vivo lo stato mentale. Ciò rende più probabile che la volta successiva il paziente abbia memoria del terapeuta che favorisce la capacità di riflettere su questi stati nel momento in cui si verificano, di mantenere la consapevolezza del loro carattere transitorio e di padroneggiarli senza atti pericolosi. La gravità sintomatologica genera una pressione tale nel terapeuta da diventare spesso insostenibile. È difficile che il terapeuta discerna tra preoccupazioni realistiche e timori indotti dai cicli d'allarme, la transizione rapida di stati mentali caratteristiche di questi pazienti possono creare nei curanti alternativamente la sensazione di lavorare alla " tela di Penelope ", generare una tendenza all'ipercoinvolgimento per evitare situazioni temute. Dato che non c'è rischio peggiore per una terapia di quello del rifiuto del terapeuta, nel trattamento dei borderline diventano necessarie due condizioni: la prima è che il terapeuta sia validamente supportato da ogni tipo di curanti, la seconda consiste nella necessità di regolare l'accesso al terapeuta mediante un accordo di cui vengono discussi gli impegni reciproci insieme al paziente. Il problema del contratto una delle misure necessarie è la regolazione dell'accesso al terapeuta. Si ricorre ad un accordo verbale il cui contenuto varia a seconda delle situazioni cliniche che si verificano nel corso della terapia. Una prima tappa di quest'impostazione si svolge nelle prime sedute, quando si comincia a regolare un aspetto fondamentale del setting: le telefonate al terapeuta il terapeuta dedica una seduta per parlare al paziente della sua difficoltà a regolare le emozioni; discutere le diverse strategie con cui è possibile interrompere un circuito vizioso emotivo-cognitivo. Tra queste strategie vi è la richiesta d'aiuto. L'intervento tipico con cui viene affrontato problema della regolazione delle telefonate inizia con il sottolineare come la richiesta di aiuto non sia passiva, ma richieda una partecipazione attiva e intelligente che tenga conto delle risorse del punto di vista della persona cui si chiede aiuto. Si spiega che come tutte le strategie può essere usata in modo controproducente e va sottolineato che non è una strategia efficace eseguire le risorse di chi aiuta con richieste continue quando è possibile farne a meno, o scoraggiarlo facendogli continuamente notare l'insufficienza dell'aiuto. Si discute insieme al paziente delle modalità corretta della richiesta d'aiuto: è necessario evidenziare l'importanza del paziente chieda aiuto nei momenti acuti di sofferenza, quando gli altri sistemi di auto-regolazione emotiva non funzionano. A questo punto si può entrare nello specifico della regolazione delle telefonate, sottolineando due aspetti. Il primo è che la chiamata terapeuta rappresenta un contributo attivo del paziente alla cura, un'occasione preziosa per intervenire in vivo in una situazione di crisi. È importante che il paziente aiuti il terapeuta nel capire quale sia il livello di urgenza. Il secondo concerne il richiamo ai limiti del terapeuta cioè l'impossibilità per motivi personali o professionali di essere sempre immediatamente disponibile. Il paziente è libero di chiamare il terapeuta, il terapeuta è libero di non essere a disposizione in quel momento. In questo quadro si prospettano al paziente le altre strategie di regolazione emotive, raggruppabili in tre grandi categorie: l'azione diretta sul corpo o sul contenuto ambientale (evitare situazioni problematiche e chiedere aiuto); l'azione diretta sullo stato mentale e sul comportamento (concentrarsi su un altro, bloccare volontariamente la tendenza all'azione); il ricorso all'autoriflessione cosciente (e riconoscere distanza critica da una credenza problematica). Gli interventi in vivo perché una psicoterapia funzioni è necessario che il paziente si ricordi le sedute, abbia una rappresentazione integrata della mente del terapeuta e sia in grado di riflettere sui propri stati mentali. Nel caso del disturbo borderline di personalità il paziente nei momenti di grave crisi non ricorda né il terapeuta ne le sedute, e le transizione negli stati mentali problematici sono rapide, caotiche e apparentemente imprevedibili. La difficoltà principale consiste nell'andamento discontinuo del funzionamento metacognitivo di questi pazienti. Il deficit di auto-regolazione emotiva fa sì che il ricordo degli eventi della seduta e il significato attribuito sia necessariamente influenzato dallo stato emotivo presente al momento della rievocazione. Se l'emozione prevalente è di allarme il paziente tende a rievocare, decontestualizzandoli, solo gli eventi della seduta che possono alimentare tale stato. Il deficit di integrazione fa sì che anche la rappresentazione della terapia della mente del terapeuta risulti frammentata ed incoerente con oscillazioni rapide caotiche anche all'interno della stessa seduta. Ne derivano problemi di working memory, con distorsioni cognitivo-emotiva della seduta o della rappresentazione della mente del terapeuta. Nel trattamento dei deficit metarappresentative valgono due principi generali. Il primo consiste nell'imprescindibilità degli interventi in vivo: il trattamento dei deficit metacognitivi e/o negli stati mentali problematici e insieme al terapeuta rappresentano una memoria cruciale e un inizio di conoscenza procedurale per far appello nei momenti difficili. Il secondo riguarda le strategie di regolazione della memoria della seduta, ad esempio l'uso di memorandum. L'intervento Esistono disturbi i cui stati problematici possono essere padroneggiati parlandone in terapia, senza che debbano manifestarsi all'interno del setting. Questa possibilità è molto remota per i pazienti borderline a causa del disturbo di regolazione emotiva. Pensare di aiutare un paziente con un disturbo di regolazione emotiva a modulare uno stato mentale problematico solo parlandone è impossibile: ciò che occorre ricordare non è solo il contenuto cognitivo in sé, ma il contenuto cognitivo marcato dalla memoria sensoriale del tono emotivo della sedutao dell’intervento. Per aiutare questi pazienti a fronteggiare e padroneggiare gli stati mentali problematici è necessario evocarli in seduta in un clima emotivo nel quale sia percepibile la possibilità di capirli, fronteggiarli e padroneggiarli. Se un paziente presenta in seduta uno stato di allarme disregolato, è importante creare un clima emotivo in cui qualsiasi misura venga vissuta come ragionata strategia di padroneggiamento e non come risposta caotica a una situazione che sta sfuggendo di mano. Quando uno stato viene riferito dal paziente, ma non si è mai presentato, e il paziente non riesce padroneggiarlo , il terapeuta deve incoraggiarlo a telefonargli nel momento in cui lo stato è attivo, anche se non è una condizione di rischio per il paziente. Lo scopo è quello di far sì che il paziente riesca a rievocare il clima rassicurante della seduta: se questo avviene è facilitato anche il ricordo del contenuto cognitivo del colloquio e delle osservazioni del terapeuta che possono favorire il padroneggiamento. La memoria delle sedute Nel disturbo borderline di personalità si passa da condizioni di rabbia intensa a depressioni profonde, dal senso di colpa inaudita a momenti esaltanti di validazione, da minacce terrifiche al vuoto disregolato. In ognuno di questi stati il paziente vive la realtà che si rappresenta in quel momento come se fosse unica e assoluta; i mondi interiori del paziente borderline possono vivere giustapposti, l'uno accanto all'altro, susseguirsi vicendevolmente senza influenzarsi. Questi pazienti non riescono a utilizzare i processi cognitivi per regolare e ridurre stati emotivi intensi. I processi ideativi finiscono con il dipendere dallo stato affettivo in corso, per cui nel rievocare gli eventi selezioneranno solo l'informazione o episodi coerenti con tale stato affettivo, creando circoli viziosi che amplificano lo stato problematico. Uno degli aspetti più sconcertanti e che, sebbene si finisca la seduta con l'idea che sia stata efficace, alla successiva il paziente sembra avere dimenticato gli interventi, o di averli distorti. Non appare in ogni caso in grado di utilizzare nel momento di acuta sofferenza della vita quotidiana. Quando si evidenzia questa difficoltà occorre concordare misure efficaci. La più semplice è quella di scrivere per il paziente un promemoria in cui il terapeuta sintetizza i punti del colloquio apparsi più efficaci, raccomandando paziente di leggerlo quando avverte l'insorgenza dello stato problematico. La costruzione del promemoria deve seguire due principi: -deve riprendere gli argomenti che in seduta sono sembrate efficace al fine del padroneggiamento di stati problematici; -deve contenere incoraggiamenti e rassicurazioni in modo da rievocare anche il clima emotivo del colloquio. Capitolo 11 Sindromi psicotiche e dissociative Concettualizzazione delle problematiche dei pazienti Inadeguatezza dei sistemi di classificazione ufficiali per la psicoterapia. 2 problematiche sembrano dominare lo scenario della psichiatria contemporanea: l'interesse per la diagnosi e la spinta alla ricerca di fattori causali, spesso assunti come unici e lineari, dei quadri morbosi che pazienti presentano. Dalla terza edizione del DSM sì è assistito a un aumento esponenziale dell'interesse per esercitazioni diagnostiche basate sull'uso dei criteri del manuale. La necessità di agire in fretta sotto lo stimolo di vincoli economici, unita all'idea che una diagnosi di tipo categoriale permetta senz'altro di mettere in atto trattamento più indicato per una determinata diagnosi clinica, spingono ad agire con sempre minor considerazione dell'individualità del paziente per il quale una tale diagnosi viene formulata. Le categorizzazione del DSM sono descrizioni di uno stato di fatto al momento in cui la diagnosi viene fatta, senza ulteriori implicazioni né per quanto concerne ipotesi etiopatogenetiche, né per quanto concerne il decorso futuro. In pratica però il ricorrere di denominazioni diagnostiche non libera curante da influenze preconcette sulla prognosi dei vari disturbi, né lo stimola a una riflessione approfondita circa le scelte del trattamento. Inoltre l'applicazione stereotipata di criteri diagnostici tende a disumanizzare il rapporto tra paziente e terapeuta. Questi rischi sono ancora più accentuati nel caso di disturbi della personalità. Indipendentemente dal fatto che le loro categorizzazioni non sono completamente sovrapponibili in sistemi diagnostici diversi, resta il fatto che le categorie comprese nei vari sistemi diagnostici e trattate come se fossero entità discrete rappresentano più l'eccezione che non la regola. Molto spesso per descrivere un determinato paziente si è costretti a ricorrere all'uso di clusters diagnostici piuttosto che a etichette diagnostiche singole. Anche se una classificazione descrittiva di disturbi della personalità e dei vantaggi pratici, tende a far perdere di vista il fatto che la personalità umana e molto più differenziata e ha sicuramente molti di aspetti di quelli che possono essere compresi nelle definizioni di gruppi discreti e quindi ben distinti. Mentre i moderni sistemi di classificazione concordano nel considerare le disposizioni caratteriali e le manifestazioni comportamentali che contraddistinguono i disturbi della personalità come legate allo sviluppo dell'individuo, è ancora evidente che esistono incertezze circa la loro autonomia rispetto ai disturbi patologici cosiddetti " maggiori " come quelli dell'affettività e quelli di tipo schizofrenico. Disturbi di tipo distimico e ciclotimico della personalità sono classificati tra i disturbi dell'affettività e il disturbo della personalità schizotipico rientra nell' ICD-10 nel capitolo dei disturbi schizofrenici, mentre nel DSM IV in quello dei disturbi della personalità. Per quello che riguarda il disturbo di tipo borderline, che tutti e due i sistemi prendono in considerazione si discute ancora se debba considerarsi nell'ambito dei disturbi schizofrenici o in quello dei disturbi dell'affettività. Inadeguatezza della ricerca di fattori causali lineari e semplici per comprendere la genesi dei disturbi psicopatologici, e l'emergere di concezioni alternative se l'influenza di fattori determinanti fosse esclusivamente unidirezionale si dovrebbe presupporre l'esistenza di una certa regolarità e costanza nell'insorgenza delle sindromi. Come espressione del senso di scontento rispetto a tale stato di fatto si assiste allo svilupparsi di un clima culturale che lascia spazio a considerazioni multifattoriali sulla genesi dei disturbi psicopatologici. Sono andate sviluppandosi concezioni basate sul concetto di vulnerabilità individuale. L'assunto che sta alla base di tutte le proposte di modelli fondati sulla vulnerabilità individuale è che ogni individuo sviluppa, per ragioni che gli sono intrinseche, una sensibilità idiosincratica all'influenza di eventi esterni, acuti o di lunga durata. L'occorrenza di tali eventi porta a svariate reazioni comportamentali patologiche, alle quali è stato assegnato lo status di " malattie ". Uno dei assunti chiave dei modelli fondati sulla vulnerabilità è che quando l'impatto di eventi esterni supera la soglia di tolleranza corrispondente al livello di vulnerabilità di un dato individuo, si verifica un disturbo mentale, le cui caratteristiche cliniche sono determinate ampiamente dalla vulnerabilità specifica individuale. Successivi sviluppi del modello della vulnerabilità individuale una delle caratteristiche fondamentali è che il modello prende in considerazione le influenze esercitate dall'interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali nel determinare il grado di vulnerabilità di ogni singolo individuo, e sottolinea l'interazione dell'individuo con tale complesso di fattori. Il modello non solo sottolinea che fattori multipli e diversi da individuo a individuo, interagiscono tra loro piuttosto che semplicemente sommarsi, ma mette in evidenza che lo stesso individuo partecipa dialetticamente a tale interazione. Singer ha richiamato l'attenzione sul fatto che l'autoorganizzazione del cervello sulla base dell'esperienza deve intendersi come un dialogo attivo fra il cervello e l'ambiente circostante. Questo concetto di partecipazione attiva contraddistingue il modello qui proposto rispetto ad altri modelli in cui la vulnerabilità è intesa esclusivamente nell'accezione di predisposizione genetica o di influssi psicosociali. Un'altra differenza importante sta nel rilievo dato al contesto culturale e alla dimensione temporale: l'importanza di considerare il contesto culturale sta nella necessità di prenderlo in considerazione come determinante patoplastico dello sviluppo della vulnerabilità. In una prospettiva che vede la soglia di vulnerabilità costante nel tempo si hanno serie difficoltà a spiegare le variazioni della soglia di vulnerabilità che per esempio si osservano nel caso del ripresentarsi di eventi traumatici. Variazioni della soglia di tolleranza in rapporto alla dimensione crono biologica o alla dimensione temporale sociale o storica, non sono difficili da documentare. Qui si preferisce considerare il concetto di vulnerabilità in un'accezione più universale, come una caratteristica di tutti gli esseri umani, indipendentemente da un particolare quadro morboso. Mentre i modelli proposti da molti altri autori si limitano a considerare di volta in volta la vulnerabilità essenzialmente in ragione di un determinato disturbo psichico, il modello qui proposto ha una portata più vasta e può essere presente considerazione per cercare di capire non solo l'insorgenza dei disturbi mentali più diversi, ma anche la loro gravità e le probabili caratteristiche del loro decorso. L'aspetto più importante della continua interazione dialettica tra diversi fattori che si assume possono essere determinanti, sta nel superamento del dualismo tra biologico e psicosociale. Il concetto di vulnerabilità è altrettanto importante per cercare di comprendere il decorso successivo e l'esito di un episodio morboso acuto. Alcuni autori sono convinti sostenitori dell'idea che il decorso dei disturbi schizofrenici non sia univoco e predeterminato, come tradizionalmente si è ritenuto, ma estremamente variabile in conseguenza di un'interazione tra una vulnerabilità premorbosa e variabili ambientali attuali, piuttosto che in relazione a fattori biologici e genetici. L'assunto che un'interazione di fattori culturali, biologici e psicosociali ha un'importanza determinante anche per quanto riguarda la terapia: gli interventi terapeutici sono spesso diretti alla correzione di situazioni disfunzionali a livello biologico, psicologico e sociale che possono essere presenti in un dato paziente (questo è ovvio), ma tali interventi, anche quando sembrano indipendenti uno dall'altro, inevitabilmente si influenzano. Due ulteriori considerazioni sono necessarie per quanto riguarda la psicoterapia cognitiva: la prima riguarda la necessità per il terapeuta di conoscere fino a che punto l'uso concomitante di farmaci influenza negativamente la capacità di elaborare un'informazione o di esprimere emozioni; l'altra si riferisce alla necessità di adattare il proprio stile terapeutico ai valori culturali di ciascun paziente. Accanto alle peculiarità biologiche costituzionali che caratterizzano ciascun individuo, si sottolinea lo sviluppo di schemi cognitivi-emotivi che possono essere più o meno disfunzionali o disadattativi e che, insieme alle variabili biologiche e in interazione con esse, determinano il livello della vulnerabilità individuale. Tali schemi rappresentano il filtro attraverso il quale noi vediamo noi stessi e le nostre relazioni con la ambiente esterno. Tali schemi nucleari inconsci (core schemata) determinano il modo in cui noi organizziamo la nostra conoscenza, soprattutto quella attinente alle relazioni interpersonali, e il nostro comportamento nei confronti dell'ambiente che ci circonda. Dato che la problematica dell'attaccamento e quella dello sviluppo del sé e delle organizzazioni cognitive sono state già autorevolmente trattate, basterà ribadire alcuni punti caratteristici del modello: 1-è di impostazione esplicitamente evoluzionista e costruttivista che tiene conto della reciprocità che esiste tra l'individuo e i suoi contesti sociali; 2-prende in considerazione una gerarchia di strutture di significato del sé come elemento cruciale della vulnerabilità individuale, tenendo conto della loro inconsapevolezza per l'individuo; 3-prende in considerazione i vari tipi di organizzazioni personali di significato restando aperto al possibile presentarsi di organizzazioni miste; 4-mette a fuoco interazione determinante di fattori contestuali diversi nello sviluppo della vulnerabilità evitando il riduzionismo biologico e il sia in un riduzionismo psicosociale. 5-permette di prendere in considerazione il verificarsi di avvenimenti reali che possono limitare lo sviluppo della conoscenza o farlo deviare da un percorso più ordinario e ad attivo, entro certi limiti indipendentemente dalla ricostruzione narrativa autobiografica che ne fa poi il paziente. 6-permette di avvicinarsi a ciascun paziente rispettandone la singolarità; 7-riduce a distanza fra terapeuta e paziente, dato che si basa sull'assunto che le differenze tra normale e patologico sono più differenze di grado che non differenza di qualità; 8-è euristico, in quanto permette di generare ipotesi che si prestano all'indagine empirica e che possono condurre a un suo successivo affinamento. Modificazioni della terapia cognitiva standard che si sono rese necessarie per il trattamento di pazienti gravemente disturbati Viste in una prospettiva storica tutte le psicoterapie possono considerarsi il risultato di un processo di successiva evoluzione e integrazione basato sui noti principi piagetiani dell'assimilazione e dell'accomodamento. Sia la psicoanalisi che le terapie comportamentali testimoniano un continuo sforzo di revisione e riorganizzazione, in corrispondenza delle sempre nuove metafore a cui si ispirano. Anche la psicoterapia cognitiva ha subito un processo di trasformazione, soprattutto per l'estensione della sua applicazione a pazienti gravemente disturbati. Un tale processo deve considerarsi più evolutivo che non rivoluzionario. Prendere atto dell'evoluzione della terapia cognitiva non comporta automaticamente che tutte le strategie terapeutiche concepite nell'ottica razionalista debbano essere bandite. Clark respinge alcune delle critiche che sono state dirette alla terapia cognitiva standard, mettendo in evidenza alcune delle modificazioni che sono state incorporate quando l'applicazione di tale terapia è stata estesa ai disturbi della personalità. L'autore sostiene però che la psicoterapia cognitiva standard rimane fermamente radicata nella tradizione comportamentista. Infatti, nonostante Beck si sia professato costruttivista e abbia guardato alla terapia comportamentista come a un sottoinsieme della terapia cognitiva, il nucleo della sua teoria rimane l'ipotesi di un'elaborazione erronea della realtà esterna assunta come valida e degli errori cognitivi a essa connessi, quindi un modello dell'elaborazione dell'informazione fermamente radicata nell'empirismo inglese classico. Il ruolo del terapeuta cognitivo, secondo Clark è limitato a offrire al paziente informazioni correttive che gli permettono di rimettere in linea le proprie erronee interpretazioni con una comprensione più adattativa della loro realtà personale. L'insistenza sul presente rimane essenzialmente nella tradizione del comportamentismo. Clark ammette però che l'occorrenza di eventi traumatici nel passato del paziente può avere un’ influenza significativa sul funzionamento cognitivo attuale e che è necessario metterla a fuoco nel corso della terapia. L'autore sembra essere d'accordo nel riconoscere che la relazione terapeutica ha avuto un ruolo e essenzialmente di secondo piano nella terapia cognitiva standard. Nella loro presentazione generale della terapia con pazienti con disturbi di personalità però, Beck e Freeman accennano a reazioni di transfert che possono verificarsi nel trattamento di tali pazienti, ammettendone il valore per una comprensione di significati e delle convenzioni che si possono ipotizzare a monte delle reazioni ripetitive e del paziente, e trattano in modo più esaustivo il problema della resistenza al cambiamento, che preferiscono concettualizzare nell'ambito di una non-collaborazione. Modificazioni necessarie per un approccio terapeutico finalizzato a una ristrutturazione dei modelli operativi interni del sé e dell'ambiente non si vuole qui negare del tutto un approccio standard basato sul concetto di un'elaborazione erronea dell'informazione; tale approccio non va inteso nel senso di voler convincere il paziente delle unità della sua valutazione della realtà, quanto nel senso di aiutarlo a rendersi conto, nel contesto di una razionalismo critico, di quali regole lo guidano nella propria valutazione e di come tale realtà possa essere costruita da angolature diverse. Soprattutto con pazienti con sintomatologia di tipo delirante, ma anche con alcuni con disturbo della personalità, un tale approccio può essere addirittura necessario per vincere la loro diffidenza iniziale; è però evidente che un tale approccio è impraticabile quando il quadro morboso è dominato da una marcata insufficienza della capacità di metapensiero. Modificazioni concettuali a livello concettuale la modifica più essenziale consiste nello spostamento dell'accento da schemi cognitiviemotivi relativamente periferici a quelli più centrali ( core schemata ), geneticamente organizzati, e essenzialmente taciti e fuori dalla consapevolezza, che si ritiene abbiano la funzione di organizzare la conoscenza di sé e delle proprie relazioni con gli altri. Una tale distinzione fra gli assunti disfunzionali fondamentali periferici e quelli più nucleari sottolinea il ruolo centrale che l'organizzazione della conoscenza del sé svolge, sia nello stato di salute sia nei disturbi affettivi. Un prerequisito essenziale per la corretta identificazione di schemi disfunzionali nucleari è che si deve dedicare una particolare attenzione alle problematiche dello sviluppo per poter raggiungere una concettualizzazione degli schemi e emotivo-affettivi interpersonali che ci si propone di modificare. Da una prospettiva evoluzionista costruttivista numerosi autori si avvalgono dei concetti della teoria dell'attaccamento di Bowlby. Si deve necessariamente considerare che nel successivo processo di evoluzione, differenziazione e maturazione del sé l'organizzazione dell'esperienza cognitivo-emotiva più precoce si memorizza a livello preverbale, probabilmente come memoria procedurale anoetica, durante lo stadio sensomotorio dello sviluppo cognitivo postulato da Piaget, e come rappresentazioni interne generalizzate, come descritto da Stern. Successivamente tali esperienze vengono organizzate come memoria episodica (neoetica) , e solo molto più tardi riorganizzate e rivedure nell'ambito della memoria semantica (autonoetica). Diventa necessario imparare a lavorare con la memoria del paziente se ci si propone di realizzare una modificazione più adattativa di core schemata. Modificazioni strutturali le modificazioni strutturali riguardano in primo luogo la durata della terapia che deve protrarsi assai più a lungo di quanto possa richiedere il trattamento di disturbi acuti in una persona relativamente bene integrate. Bisogna sottolineare che anche se la terapia con pazienti gravemente disturbati si protrae per qualche anno rimane sempre limitata nel tempo e non assume mai le caratteristiche di interminabilità di alcuni trattamenti psicoanalitici. Altre modifiche strutturali riguardano non solo il numero, la frequenza e la durata delle sedute terapeutiche, per le quali è necessaria una grande flessibilità, ma anche l'uso di strategie meno convenzionali che possono essere addirittura inventate per l'uso con un particolare paziente. Tali modificazioni si rendono più necessarie in tutti quei casi in cui si riscontrano una marcata accentuazione dell'egocentrismo e un mancato sviluppo del metapensiero. Sia pazienti con gravi disturbi della personalità, sia pazienti con disturbi di tipo schizofrenico possono presentare spiccate difficoltà nel regolare le emozioni e nel controllo degli impulsi. Tali difficoltà implicano che tentativi non adeguatamente dosati nel tempo di accedere agli assunti di base possono aggravare il malessere psichico e bloccare il processo di pensiero. Una conseguenza pratica è che bisogna prestare particolare attenzione a convalidare le esperienze emotive del paziente, prima di tentare l'accesso agli aspetti cognitivi legati a tali esperienze emotive. È anche necessario che il terapeuta aderisca quanto più possibile alla struttura della terapia per ottenere più facilmente che il paziente incorpori una struttura interna e sia in grado di porre limiti il più possibile ben definiti. L'equilibrio tra un'empatica convalida delle emozioni e il porre limiti a comportamenti disfunzionali facilita nel paziente la possibilità di confrontarsi con esperienze emotivamente restitutive che contribuiscono a invalidare i modelli operativi disfunzionali su cui prima basava la propria conoscenza di sé e degli altri. Modificazioni relative agli aspetti processuali. La relazione terapeutica sembra esistere un consenso unanime sul fatto che lo sviluppo e il mantenimento di un efficace relazione fra terapeuta e paziente è il prerequisito indispensabile per poter lavorare con pazienti gravemente disturbati. Nel caso di pazienti con problematiche di tipo borderline l'accordo su questo punto sembra essere unanime sia tra gli autori di orientamento psicoanalitico che tra quelli di orientamento cognitivo-comportamentale. La maggior parte di tali pazienti hanno una fondamentale difficoltà nell'entrare in relazione. Un modo di concettualizzare la relazione di fiducia che ci si aspetta debba svilupparsi e consolidarsi fra terapeuta e paziente è riferito alla teoria dell'attaccamento e al concetto di base sicura. Il concetto di base sicura implica da un lato che il paziente possa sviluppare la sicurezza che, accostandosi al terapeuta in qualsiasi momento ne senta il bisogno, riceverà una risposta empaticamente appropriata; da un altro che il terapeuta sia efficace nello stimolare il paziente l'esplorazione sempre più approfondita favorendo un grado sempre più alto di autonomia. Nell'assumere il ruolo di base sicura il terapeuta deve rendersi consapevole del modello di attaccamento con paziente può avere sviluppato e dei possibili cicli interpersonali disfunzionali che possono verificarsi nell'ambito della relazione, in modo da poter rispondere adeguatamente. È necessario essere sensibili alla possibile attivazione di altri sistemi motivazionali, come quelli descritti da Liotti, in modo da poter essere coerenti nella risposta. Ad esempio, danneggierebbe la relazione, l'attivazione nel terapeuta del sistema agonistico come risposta all'ostilità del paziente. La condotta terapeutica nella pratica in linea di massima si possono considerare quattro momenti principali: 1- l'aggancio (sviluppo/consolidazione); 2-l'analisi e la ristrutturazione delle concezioni disfunzionali del sé e delle relazioni; 3-la riedizione guidata della propria storia personale; 4-la preparazione al distacco (elaborare la perdita). l'aggancio: nell'ambito della relazione terapeutica, soprattutto con pazienti con disturbi schizofrenici, ha una particolare importanza il concetto della distanza: quando si parla di distanza, secondo le teorie dell'attaccamento, ci si riferisce essenzialmente all'obbligo da parte del terapeuta, soprattutto nella fase iniziale, di lasciar stabilire al paziente il grado ottimale di vicinanza nel suo tentativo di stabilire un contatto per non confrontare troppo precocemente il modello di attaccamento del paziente. In pratica, la regolazione della distanza non si riferisce esclusivamente alla distanza fisica, anche se alcuni pazienti la esprimono in tale forma. l'analisi dei modelli operativi disfunzionali e della riedizione dell'autobiografia: i confini tra queste due fasi del percorso sono fluidi e spesso l'analisi dei modelli operativi di significato e la riedizione dell'autobiografia si intrecciano. Il traguardo finale è aiutare il paziente a divenire consapevole dei modelli operativi del sé e delle proprie relazioni con gli altri, sviluppati precocemente, che hanno contribuito a condizionare in modo disfunzionale il mondo fittizio in cui ha vissuto negli anni di malattia, così da poterlo aiutare a modificarli. Identificazione dei modelli operativi di significato del paziente si basa su tre elementi: 1) il comportamento del paziente nell'ambito della relazione terapeutica, che si assume rifletta il pattern di attaccamento originario; 2) il modo in cui il paziente racconta la propria biografia; 3) l'uso eventuale di scale di autovalutazione (AAI). La modificazione dei modelli operativi disfunzionali che rappresenta il traguardo che si vuole raggiungere, sarà facilitato dall'esperienza e motiva correttiva che il terapeuta fornisce al paziente nell'ambito della relazione terapeutica e dall'uso appropriato del colloquio “socratico” che mira a favorire il decentramento e a permettere al paziente di riesaminare la propria storia personale da prospettive diverse. Al termine di tale processo ci si aspetta che il paziente sia in grado di formulare la propria storia personale in maniera più coerente e completa, integrando in tale racconto anche gli eventi traumatici che possono aver contribuito a farlo deviare da un percorso di normalità. (pag 366 a 368 casi clinici vattilli a viriri) La fase finale e l'elaborazione della perdita: quando si è avuta la fortuna di poter aiutare qualcuno ha lasciarsi alle spalle un'intera vita di malattia, rimane il terapeuta uno dei compiti più difficili perché il paziente vive un senso di vuoto che non sa come riempire. Tale difficoltà è ancora maggiore quando si lavora con pazienti che hanno vissuto gran parte della loro vita in un mondo psicotico o di " falso sé " che ha impedito loro di avviare relazioni funzionali con altri. Il decentramento, una componente necessaria del percorso terapeutico, richiede di sapersi adattare alle esigenze della vita quotidiana tenendo in conto le prospettive e le opinioni degli altri con i quali l'approccio basato sulla psicoterapia cognitiva ha indubbiamente un vantaggio su quello di orientamento psicoanalitico, in quanto comprende una verifica quotidiana dell'affidabilità delle consapevolezza acquisite nel corso del trattamento. Se il rapporto terapeutico sì è articolato sullo sfondo di una attaccamento sicuro la fine della terapia non implica automaticamente che anche tale rapporto sui tronchi del tutto. Molti dei pazienti mantengono contatti più o meno sporadici con il terapeuta, spesso contenuti nell'ambito di un ordinario attaccamento a una persona di cui si sa di potersi fidare. Una separazione graduale successiva durante gli ultimi 3-4 mesi di trattamento, e la consapevolezza per terapeuta non scomparirà, facilitano il processo di separazione. La competenza acquisita dal paziente alla fine della terapia deve comprendere, non solo una ristrutturazione della conoscenza del sé e dei propri rapporti con gli altri e lo sviluppo di un'abilità di stabilire e mantenere relazioni interpersonali adattative, ma anche una visione realistica del futuro che presenterà inevitabilmente gli alti e bassi della vita tutti noi. Un compito importante del terapeuta nella fase iniziale è quello di aiutare il paziente a elaborare la perdita degli anni passati in malattia, durante i quali è stato come se non esistesse. Le strategie da usare sono quelle con le quali di solito si affrontano le crisi acute tipiche di un lutto recente. - PATOLOGIE capitolo 1 Assessment È importante che l’assessment venga svolto attraverso una concezione olistica e globale dell'individuo. Ogni comprensione è sempre comprensione con e implica una dimensione dialogica, una fusione di orizzonti, in cui l'orizzonte del paziente e l'orizzonte del terapeuta si incontrano. Spiegare significa costruire professionalmente il paziente e di problemi che presenta. La spiegazione deve utilizzare come punto di partenza i significati del paziente, così come il terapeuta è riuscito costruirli. Parlando di assessment ci riferiamo a un'operazione di valutazione che ha inizio al momento del primo contatto con il paziente e prosegue durante tutta la terapia. È opportuno distinguere due momenti del processo: la fase iniziale delle prime sedute, dedicata alla raccolta dei dati necessari per costruire una prima ipotesi, e una seconda fase in cui il terapeuta effettua una continua verifica della propria comprensione e delle proprie costruzioni professionali. Le ipotesi costruite dal terapeuta sono esclusivamente al suo uso e consumo; ammettendo che siano buone rappresentazione del sistema conoscitivo del paziente comunicargliele non ha alcuna utilità. Oltre a essere informazioni difficilmente integrabili negli schemi conoscitivi che il paziente sì è costruito, rischierebbero di inibire una sua autonoma ricerca di nuovi significati rispetto alle proprie problematiche. Nel corso della terapia il paziente dovrà riuscire a comprendere autonomamente le proprie modalità di funzionamento, cogliere quelle che possono essere le regole del proprio sistema di conoscenza e la sua logica interna. Per poterlo aiutare in questo lavoro il terapeuta dev'essere in grado di costruirsi e ricostruirsi continuamente le proprie ipotesi sul sistema-paziente, avendo presente in ogni momento che rappresentano soltanto la migliore costruzione dell'altro che egli è riuscito ad effettuare. Struttura, obiettivi e funzioni del assessment un possibile percorso delle prime sedute prevede una primo colloquio di accoglimento, di analisi della domanda e definizione iniziale di un contratto terapeutico, seguito da 2-4 incontri esclusivamente dedicati alla raccolta delle informazioni sulla storia di vita del paziente. La psicoterapia ha inizio solo dopo che questa raccolta iniziale termina con una definizione più specifica degli obiettivi e del contratto. Altri autori preferiscono cominciare a lavorare da subito in termini terapeutici sulle problematiche del paziente e il processo di assessment in questo caso non è temporalmente distinguibile del processo terapeutico. Altri ancora utilizzano fino a 3-4 sedute iniziali per arrivare a decidere insieme al paziente se è opportuno intraprendere insieme il viaggio della psicoterapia. In questi incontri viene comunque raccolta una serie di informazioni utili a un inquadramento delle caratteristiche del sistema cognitivo del paziente e delle sue strutture personali di significato. La funzione principale del processo di assessment è rappresentato dal tentativo di comprendere il paziente e il suo mondo di significati di spiegarsi in che cosa consiste, come può essere nato e come si mantiene il problema che ci viene presentato. Si tratta di: 1-cercare di capire problema del paziente, la valenza che esso assume ai suoi occhi e rispetto alla sua immagine, all'immagine della sua relazione con gli altri e del proprio futuro. 2-cercare di costruire una modello delle modalità di funzionamento del sistema-paziente e delle sue caratteristiche strutturali e di identificare quali siano i sistemi di conoscenza da lui più utilizzati cercando di comprendere la logica interna al sistema. 3-tentare di ricostruire i processi, le tappe e i momenti critici dello sviluppo. 4-comprendere e spiegarsi la funzione che la sintomatologia svolge ai fini del mantenimento della massima coerenza interna. Organizzazioni cognitive ed originalità organizzativa dei sistemi cognitivi individuali i modelli delle organizzazioni cognitive possono risultare estremamente utili se considerati con la dovuta elasticità, quando il terapeuta comincia costruire una serie di ipotesi per ordinare i dati che sta raccogliendo a partire dalla presentazione del problema, dall'andamento della relazione in corso e dalla storia evolutiva del paziente. Il terapeuta non è un osservatore oggettivo e distaccato ma viene guidato dalle sue proprie ipotesi, ed è opportuno che queste siano formulate a partire da precisi schemi professionali. Possedere modelli sintetici rappresenta una notevole vantaggio per lo psicoterapeuta, perché consente di focalizzare l'indagine, in maniera più mirata e selettiva, su aspetti specifici. Sé è utile avere ben presenti i modelli delle organizzazioni cognitive per poterlo utilizzare in funzione esplorativa, è anche necessario evitare nel modo più assoluto di utilizzarli come pure e semplici etichette diagnostiche; è opportuno considerare che l'utilizzo di questi modelli può assumere una valenza rassicuratoria sul terapeuta impegnato ordinare una realtà clinica complessa, densa di discrepanze, e che una loro utilizzazione eccessiva tradisce lo spirito per il quale sono stati formulati. È facile osservare che la rigidità al ricorso a queste categorie è inversamente proporzionale all'esperienza clinica del terapeuta. Il paziente dovrà essere guidato durante processo di assessment, nella narrazione della sua storia di sviluppo, della sua immagine di sé, del mondo e dei suoi problemi, in maniera da permettere al terapeuta di comprendere il significato che gli attribuisce diversi aspetti della sua esperienza, e di formulare delle ipotesi precisa su diversi ambiti: -gli schemi di attaccamento attuali, l'evoluzione che hanno avuto nel corso della sua vita e i sistemi di conoscenza che di conseguenza egli utilizza. -gli schemi prevalenti che il paziente utilizzare la costruzione di sé e del mondo e le loro relazioni strutturali gerarchiche. -le dimensioni di flessibilità, lassità e rigidità che caratterizzano strutturalmente sistema cognitivo del paziente. -gli schemi di compenso che hanno svolto e svolgono la funzione di equilibrare il sistema, i processi di scompenso che hanno determinato la situazione attuale per la quale viene richiesto aiuto. Schemi di attaccamento e sistemi di conoscenza Fra gli schemi prevalenti di ogni sistema individuale di conoscenza, gli schemi di attaccamento rivestono un ruolo di particolare importanza. Il sistema dell'attaccamento è il primo a essere attivato in termini ontogenetici e la definizione delle prime strutture di attaccamento influisce, oltre che sullo sviluppo di questi stessi schemi nella vita adulta, anche sull'evoluzione di altre strutture schematiche e sulle modalità con cui ciascun individuo organizza le informazioni. Fin dalla nascita i bambini possiedono la capacità di trasformare e integrare le informazioni sensoriali in modelli sensomotori, e immagazzinandoli nella propria conoscenza procedurale. Nella prima infanzia imparano quale significato attribuire all'informazione attraverso l'interazione con le loro figure di attaccamento. Quando tali figure di attaccamento rispondono in maniera coerente e prevedibile segnali di loro figli (attaccamento sicuro), questi sono in grado sia di apprendere le relazioni causali e spazio temporale fra i eventi, sia di connettere le informazioni sensoriali relative al contesto con le troppe sensazioni di benessere o di ansia: costruiscono i propri significati sia mediante modelli rappresentativi procedurali, sia mediante l'informazione affettiva. Se le figure di attaccamento tendono ad essere costantemente rifiutanti (ansioso/evitante), a evitare il contatto corporeo e a ignorare o punire segnali di richiesta di conforto, i bambini imparano utilizzare l'informazione cognitiva in maniera efficace e contemporaneamente imparano ad inibire le loro manifestazioni affettive per ridurre la probabilità di essere rifiutati o puniti. Quando le figure di attaccamento si mostrano incoerenti e imprevedibili (ansioso/resistente) i bambini non riescono a organizzare in alcun modo loro comportamenti in funzione dell'informazione cognitiva e affettiva, e manifestare maniera intensa il loro disagio attraverso l'irrequietezza, il pianto, i disturbi psicosomatici. Con la maturazione mentale tipica dell'età prescolare, i bambini acquisiscono la coscienza, il linguaggio e la capacità di effettuare generalizzazioni e ordinamenti temporali; ciò permette di cominciare a organizzare i dati anche in forma dichiarativa ed episodica. Le loro conoscenze dichiarativa sono influenzate prevalentemente da ciò che viene detto loro dai genitori e relativamente alle esperienze che stanno vivendo o hanno vissuto, e la corrispondenza tra la codifica linguistica genitoriale e la loro esperienza personale può essere maggiore o minore. Nella memoria episodica le informazioni possono essere immagazzinate in modi diversi in funzione del modo in cui la realizzazione dei bisogni di protezione e sicurezza viene determinata dai differenti modelli di attaccamento. A quest'età i bambini sicuri, che hanno imparato a dare valore sia all'informazioni affettive che a quelle cognitive, riescono a integrare i diversi tipi di conoscenza e a porsi in termini contrattuali ed espliciti nel proporre e ricercare il raggiungimento dei propri scopi. I bambini evitanti, che hanno appreso che la manifestazione dei loro le ali stati effettivi è disfunzionale all'ottenimento dell'accudimento genitoriale, tendono a inibire la manifestazione di questi stati affettivi e a manifestare verbalmente al loro posto i sentimenti che verranno apprezzati dai genitori; il sistema di conoscenza privilegiato diviene quello dichiarativo, influenzato dalla razionalità e dalla ridefinizione linguistica genitoriale. I bambini resistenti hanno imparato tenere in scarsa considerazione le informazioni dichiarative e a enfatizzare l'affettività, che risulta più efficace per il soddisfacimento dei bisogni di protezione. Con lo sviluppo di strategie coercitive acquisiscono una specifica abilità procedurale nell'utilizzazione strumentale delle loro manifestazioni emotive, riuscendo a condizionare il comportamento dei genitori e a rendere per loro prevedibile ciò che in precedenza non lo era. Nell'età scolare aumentano le capacità mentali di confrontare le informazioni codificate in ciascuno dei diversi sistemi di conoscenza, di rappresentare le discrepanze esistenti fra i diversi sistemi e di operare integrazioni. Questi processi risultano relativamente più agevoli solo con individui sicuri, che hanno un accesso diretto i propri sistemi di conoscenza e che possono fare affidamento sull'aiuto dei genitori nell'operazione di revisione e aggiornamento dei propri modelli mentali. Sia i individui evitanti sia quelli resistenti troveranno invece notevoli ostacoli in questo percorso, poiché tenderanno a considerare vere le informazioni provenienti da uno solo sistema di conoscenza e false quelle provenienti dall'altro. Rispetto alla memoria episodica, l'adolescente e l'adulto sicuri (bilanciati) possono essere in grado di coordinare la loro conoscenza affettiva con la conoscenza dichiarativa, così che gli episodi ricordati possono risultare ben articolati e strutturati, ricostruiti mediante definizioni semantiche chiare che risultano coerenti con gli eventi, l'immagine le sensazione affettive riportate. Gli individui evitanti (difesi), avendo un accesso privilegiato la conoscenza dichiarativa e a una conoscenza affettivo-immaginativa scarsamente articolata, possono riuscire a costruire pochi episodi o episodi incompleti con poche immagini e scarsa affettività. Gli individui resistenti (preoccupati) possono avere un'ampia memoria episodica caratterizzata da immagini affettive che emergono in maniera confusa ed enfatizzare gli aspetti minacciosi e vividi del contesto, non riuscendo a operare un adeguato coordinamento temporale e un'adeguata discriminazione semantica. I pattern di attaccamento non rimangono necessariamente costanti per tutta la vita: possono verificarsi dei cambiamenti in parte grazie alla maturazione delle capacità cognitive, in parte per la disponibilità di nuove esperienze di attaccamento. Con la crescita, i pattern si articolano e diventano più complessi in maniera notevole, lo sviluppo delle capacità cognitive comporta un'articolazione complessa dei sotto-pattern, che rende i modelli adolescenziali e adulti meno puri di quelli infantili e permette di identificare configurazioni miste. Ai fini del processo di assessment, la dimensione di attaccamento può essere analizzata partendo da diversi tipi di interrogativi: ci si può chiedere quale sia il pattern di attaccamento del paziente nella relazione con le sue figure primarie, quale sia il suo pattern attuale e, nel caso non coincida con quello infantile, come si sono verificati i cambiamenti; ci si può chiedere quale siano i sistemi di conoscenza sui quali tende a fare più affidamento. Nell'analizzare la narrazione della sua storia di sviluppo gli indicatori utilizzabili per rispondere queste domande sono essenzialmente di due tipi: ci si può soffermare prevalentemente sugli aspetti di contenuto del racconto o sulle caratteristiche della sua struttura formale. L'analisi del contenuto può portare a costruire ipotesi che rispondono prevalentemente il primo a seconda dei tre interrogativi suddetti; l'analisi strutturale potrà fornire dati utili a integrare la risposta secondo interrogativo e a costruire una risposta per il terzo. Gli schemi cognitivi prevalenti il concetto di schema ha un'ampia tradizione nella psicologia cognitiva. È stato introdotto da Bartlett come organizzatore di ricordi e utilizzato da Piaget per descrivere le modalità con cui il bambino costruisce il proprio mondo. Lo schema cognitivo è stato proposto come uno dei modelli euristicamente più efficaci per rappresentare l'unità elementare di conoscenza. Il concetto di schema è stato adottato anche in psicoterapia, ma come afferma Safran i clinici hanno importato questo termine della psicologia cognitiva senza definire in modo chiaro il significato dell'uso che ne fanno. Safran afferma che lo schema del sé è è la struttura maggiormente presenti considerazione da lì psicoterapeutico cognitivi, sottolineando come questo costrutto non sia impiegato in modo uniforme dei numerosi autori. Gli schemi cognitivi prevalenti non sono strutture che organizzano processi psicologici e individuali, ma costrutti professionali utilizzabili dello psicoterapeuta per costruire le caratteristiche cognitive dei suoi pazienti. Gli schemi cognitivi prevalenti non vengono intesi come strutture cognitive possedute dalle persone, ma come modelli utilizzati dal professionista per dare significato a ciò che il paziente sta narrando e per costruire ipotesi professionali delle sue caratteristiche funzionali e strutturali; tali schemi possono essere definiti come un numero limitato di costrutti professionali utilizzabili nel processo di costruzione degli aspetti della conoscenza personale del paziente specificatamente connessi con aree particolarmente rilevanti rispetto al Sè: elementi connessi con l'identità personale, con le relazioni interpersonali, con il proprio ambiente, con gli scopi e i valori prioritari e con tutti gli aspetti rispetto al quale soggetto effettua un investimento affettivo. Nonostante ogni schema cognitivo prevalente sia dotato di un nucleo fondamentale di significato, questo non lo definisce e esaustivamente: il significato specifico di ciascuno schema emerge dalla configurazione complessiva che si ipotizza descriva ciascun individuo. Ciò che conta sono le relazioni fra gli schemi che lo psicoterapeuta ipotizza nella sua costruzione del sistema cognitivo del paziente. Le etichette linguistiche che contraddistinguono ogni schema prevalente hanno un significato che non sempre corrisponde a quello comunemente utilizzato dal linguaggio quotidiano. Il fatto che un paziente utilizzi determinate etichette linguistiche non porta necessariamente il terapeuta a utilizzare il corrispondente schema cognitivo prevalente nella costruzione ipotetica del suo sistema di conoscenza. L'utilizzazione professionale di uno degli schemi nella costruzione delle caratteristiche del paziente non implica che quest'ultimo abbia utilizzato ne suo racconto la corrispondente etichetta. È lo psicoterapeuta che applica l'etichetta professionale in funzione di aver ripetutamente osservato nella narrazione del paziente processi di attribuzione di significato. Scorrendo la lista degli schemi cognitivi prevalenti possono sorgere perplessità circa la loro eterogeneità. Alcuni di questi si riferiscono alla percezione del sè, altri alle relazioni interpersonali, altri ancora a modalità di percepire il mondo. L'eterogeneità è dovuto al fatto che questi costrutti professionali non sono stati scelti astrattamente a partire da una teoria, ma sulla base dell'esperienza clinica. 1-accudimento compulsivo: lo schema può essere definito come la disposizione compulsiva a prendersi cura degli altri di solito connessa a una percezione di sé in termini di bassa amabilità personale o di Io deludente e della conseguente anticipazione di dover pagare un prezzo a priori per poter essere considerato. 2-agonismo compulsivo: riguarda la tendenza a un'attivazione compulsiva del sistema agonistico nella maggior parte delle relazioni interpersonali e delle situazioni di vita. Mettersi continuamente alla prova diviene una modalità per dare senso alla propria esistenza. 3-bassa amabilità personale: sulla costruzione del amabilità personale incidono in modo significativo le esperienze precoci di interazione e di accudimento con le figure di attaccamento. Lo schema dell’amabilità definisce una delle strutture più nucleare del sè e corrisponde a un insieme di sensazioni che sono difficilmente esprimibili in termini espliciti mediante canale linguistico-dichiarativo. Costruirsi all'interno di un quadro di non amabilità comporta la previsione che un'altra persona non può amare il paziente. Parzialmente indipendente da questo schema è quello dell'osservazione di dati esterni del sè, definibile come una diversa dicotomia: io come persona amata/non-amata. È possibile costruirsi come amato pur continuando a percepirsi come non-amabile. La differenza tra io non amabile e io deludente consiste nel fatto che la costruzione di non amabilità personale è basata su aspetti del Sè tendenzialmente più definiti, le connotazioni del Sè deludente sono più lasse e negative. L' Io non amabile è più facilmente associato alla colpa, l'Io deludente è associato allo schema di sensibilità al giudizio. 4-bassa autonomia personale: lo schema della bassa autonomia personale comporta la tendenza a costruire rapporti di dipendenza nei confronti di persone considerate più forti a cui delegare scelte, giudizi e decisioni. La costruzione di sé come persona non autonoma può derivare da una percezione di debolezza personale, ma può avere anche origine da altre dimensioni che comportino la sensazione di non essere del tutto in grado di definire autonomamente i propri criteri valutativi, le proprie regole comportamentali ed etiche. 5-controllo delle situazioni e delle emozioni: la dimensione del controllo è collegata con la necessità di dare un ordine a una realtà percepita come imprevedibile e/o caotica, difficile da costruire in modo stabile e unitario. La persona tenta di imporre a sé e al mondo un proprio ordine che lo renda costantemente prevedibile: assumono rilievo sia il controllo delle situazioni che il controllo delle emozioni. 6-controllo delle situazioni: tendenza attiva a tenere sotto controllo l'ambiente e le relazioni per evitare situazioni impreviste. Le persone è il mondo esterno sono costruiti come ostili, imprevedibili o potenzialmente dannosi. Questo schema può implicare la tendenza al controllo dei propri comportamenti. La sensazione di pericolosità del mondo può essere connessa alla percezione di sé come persona debole. 7-controllo delle emozioni: riguarda la propensione a escludere la dimensione emotiva nella costruzione delle proprie esperienze nella gestione delle proprie scelte. Le emozioni non vengono percepite come una modo per entrare in relazione con il mondo ma come entità che possono divenire invasive e pericolose. Questo schema può articolarsi a diversi livelli. Si può avere un distanziamento totale, una sorta di anestesia emotiva che impedisce la costruzione delle emozioni di base a livello cosciente; si può avere la percezione di una perturbazione anche in assenza di capacità di discriminarne la qualità; vi può essere il controllo delle manifestazioni emotive in cui l'emozione è avvertita e riconosciuta ma non esibita. Quest'ultima modalità di controllo delle emozioni e frequente negli schemi di sensibilità al giudizio e/o valore personale. 8-costrizione: lo schema si riferisce alla tendenza a costruire in modo pervasivo molte situazioni di vita come estremamente limitanti. L'attivazione porta a non considerare la possibilità di operare scelte personali diverse da quell'unica considerata e percepita come obbligata. La percezione è sempre quella di dover fare determinate cose perché costretti. 9-delusione: questo è definito come la tendenza ad anticipare l'invalidazione delle proprie aspettative positive nella relazione con gli altri. È da mettere in relazione con una difficoltà costruttiva più comunemente riscontrabile in sistemi cognitivi caratterizzati da lassità strutturale. Questo schema si articola in due modalità che possono essere attive singolarmente o insieme: - gli altri deludenti: gli altri sono costruiti come inaffidabili, soprattutto rispetto alle loro dichiarazioni di interessamento affettivo. L'aspettativa è che sia pericoloso fidarsi dell'immagine costruiti, perché prima o poi finiranno per deluderci. -L'Io deludente: riguarda la tendenza costruire il sé come inadeguato e insoddisfacente, valutare in modo confuso e indefinito la propria efficacia. Questa costruzione di sé in termini di nullità personale porta ad anticipare la delusione e il conseguente abbandono da parte di potenziali partner affettivi. In entrambi i casi è importante minimizzare i propri investimenti affettivi per ridurre la sofferenza provocata dalla delusione anticipata come certa. Le strategie possono presentarsi con due modalità: evitare qualsiasi avvicinamento-coinvolgimento nei confronti di persone percepite come potenzialmente significative, oppure restare coinvolti in relazioni superficiali e di breve durata con persone che fin dall'inizio hanno destato un interesse modesto. 10-dipendenza affettiva: riguarda la tendenza costruire relazioni affettive strette, esclusive, tendenzialmente funzionali e a considerarle indispensabili per dare senso alla propria vita e per realizzare la propria felicità. Questa modalità può essere adottata come strategia per fronteggiare una sensazione di bassa amabilità personale. La dipendenza affettiva si differenzia dalla bassa autonomia in quanto quest'ultima è connessa con la gestione dei dilemmi decisionali e/o pratici di rapporto con il mondo e con gli altri. 11-dovere: quando lo schema del dovere assume rilevanza particolarmente significativa all’interno di un sistema cognitivo tende a irrigidire la contrapposizione fra dovere e piacere. Il proprio comportamento è governato da un sistema di regole che vanno rispettate in modo rigido, ma che assumono comunque un valore prioritario rispetto agli interessi personali, ai desideri, al piacere. Il sistema di regole-doveri è vissuto come proprio, anche quando deriva da insegnamenti, in quanto tale insegnamenti sono stati introiettati, divenendo parte integrante del sè. Talvolta lo schema del dovere si lega a quelli del valore e dell'amabilità personale e la percezione di non essere stati all'altezza dei propri doveri può comportare l'attivazione di sensi di colpa. 12-forza/ debolezza personale: la costruzione del sé reale com'è debole si contrappone a un sé ideale definito forte: il sé debole può essere connesso a una dimensione fisico-corporea e/o a una dimensione psicologica. Per questa ragione lo schema implica quasi sempre lo schema sotto-ordinato della bassa autonomia personale. 13-impotenza: porta la sensazione di non riuscire a influenzare il corso degli eventi esterni o interni all'individuo, costruiti come immodificabili, nella consapevolezza dell'inutilità di qualsiasi sforzo. Reazioni consuete sono rabbia, blocco dell'azione e apatia finalizzata a ridurre la possibilità di dover fronteggiare situazioni problematiche. Lo schema di impotenza non deve essere confuso con quello di locus esterno. L'impossibilità di modificare una situazione esistente può essere determinata da un'attribuzione di causalità esterna. 14-locus of control: corrisponde al noto costrutto individuato da Rotter che ha a che fare con l'attribuzione causale di accadimenti. Si distingue in locus interno, tendenza a costruire gli eventi della propria vita come determinati dalle proprie azioni e locus esterno, tendenza a costruire gli avvenimenti come determinati da fattori sui quali la persona non ha possibilità di incidere. Questa dimensione può avere rilevanza rispetto dei processi di cambiamento in psicoterapia e incide sulle modalità con le quali il paziente si pone nei confronti della relazione terapeutica e della terapia stessa. 15-predisposizione allo sforzo: indica la previsione di non poter contare sulla presenza e sull'aiuto di altri, ma solo su se stessi sul proprio impegno per affrontare difficoltà della vita. L'impegno e lo sforzo diventano modalità fondamentali e necessarie per affrontare i propri compiti e i possibili strumenti per costruire un'immagine di sé in termini di efficienza personale. Questo schema può servire a compensare un eventuale percezione di basso valore personale ed l'eventuale attivazione dello schema di impotenza rispetto situazioni percepite come problematiche. 16-sensibilità al giudizio: presuppone lassità nella definizione del sé. In mancanza di criteri personali sufficientemente definiti si cerca di utilizzare come punti di riferimento criteri come le opinioni o le valutazioni che si ritiene gli altri abbiano su di noi. Questa modalità eterodefinitoria tende a incrementare le difficoltà costruttiva del sé. La vaghezza di criteri personali di valutazione del sé comporta facilmente aspettative negative riguarda giudizio altrui e una tendenza a evitarlo mediante strategie di non esposizione e di mascheramento. Questo schema è associato più facilmente quello della delusione piuttosto che al basso valore personale. 17-basso valore personale: lo schema del valore occupa una posizione gerarchicamente sovraordinata in qualsiasi sistema individuale di conoscenza. Assume interesse clinico nel momento in cui il processo di autovalutazione tende a essere a-prioristicamente negativo. Si osserva la tendenza valutare costantemente inadeguate le proprie performance in relazione a standard che quando vengono raggiunti vengono progressivamente innalzati: è spesso connesso a schemi di amabilità e dovere. Lo schema del valore personale si differenzia da quello della sensibilità al giudizio, più legato alla lassità strutturale del sistema e alla conseguente difficoltà di finire i propri standard. Caratteristiche strutturali del sistema di conoscenza nella conduzione del assessment, un ulteriore criterio di analisi riguarda alcuni dimensioni strutturali del sistema di conoscenza del paziente. I parametri fondamentali che possiamo considerare sono: la lassità, la rigidità e la flessibilità. Queste dimensioni svolgono un ruolo essenziale nel determinare la capacità del sistema di costruire a anticipazioni funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi di vita. Nell'ottica del costruttivisino radicale l'efficienza di un sistema conoscitivo non è definibile nei termini della verità/ falsità delle sue costruzioni, quanto nella capacità di costruire modelli praticabili di sé e del mondo. Tale capacità è connessa alla maggior o minore complessità del sistema e alle sue potenzialità nell'utilizzare le informazioni disponibili nell'ambiente e nell'accogliere le invalidazioni, utilizzandole per attivare un proprio processo di crescita. Un sistema è caratterizzato da elevata lassità quando sia la struttura dei suoi schemi sia le relazioni esistenti fra essi sono internamente definite in maniera vaga e ambigua. Mancando di criteri di riferimento stabili il sistema incontra difficoltà a costruire in maniera certa le proprie esperienze. Può essere difficile decidere quale sia lo schema più utile da attivare per costruire un evento e quale sia il significato più generale che può essere attribuito a tale evento. In tali condizioni può essere arduo effettuare costruzioni stabili di significato. Un sistema è definibile come caratterizzato da elevata rigidità quando sia la struttura interna degli schemi sia i nessi di implicazione fra di essi sono definiti in maniera unica e certa. A queste condizioni un sistema è in grado di accettare solo l'informazione strettamente congruente con le sue previsioni, non riuscendo ad adattarsi a una realtà mutevole, costruire le novità e l'imprevisto e ad accogliere le invalidazione. Le informazioni non congruenti tendono essere escluse selettivamente, poiché la rigidità dei nessi di implicazione gerarchica fra gli schemi comporta che l'invalidazione di uno schema possa ripercuotersi con troppa facilità sulle strutture schematiche di livello superiore ed arrivare a minacciare le strutture centrali dell'identità personale. Gli schemi relativi al sé non possono essere falsificati in assenza di alternative, e il sistema si trova a dover disconoscere l'invalidazione attraverso un'esclusione selettiva delle informazioni invalidanti. Un sistema conoscitivo può essere definito flessibile quando è costituito da schemi chiaramente definiti nella loro struttura interna e nelle loro implicazioni gerarchiche, e quando è articolato in sotto-sistemi coordinati che possono essere attivati in maniera vicariante in funzione di diversi obiettivi e delle diverse informazioni raccolte nel mondo esterno. Un sistema così strutturato è più facilmente in grado di costruire previsioni soggettivamente certe, e contemporaneamente di modificarle quando risultino invalidate. In condizione di flessibilità l’invalidazione può facilitare una ulteriore arricchimento del sistema, poiché il sistema può riuscire a sottoporre a revisione solo gli schemi direttamente invalidati ed eventualmente i loro diretti sotto-ordinati. A volte i nessi precedenti possono non essere semplicemente abbandonati, ma integrati come casi particolari, dando luogo a nessi di tipo condizionale. L'analisi delle caratteristiche di lassità o rigidità del sistema di conoscenza del paziente, nel corso del assessment, può influire sulle decisioni che il terapeuta deve assumere rispetto alle modalità di conduzione dell'intervento. Se il sistema del paziente è lasso, l'obiettivo prevalente del terapeuta sarà quello di utilizzare procedure di restringimento finalizzate a produrre una maggiore definizione delle sue strutture di conoscenza. Se il sistema è rigido il terapeuta potrà proporsi di ricorrere prevalentemente a procedure di allentamento che inducano il paziente a riconsiderare fatti da sempre ritenuti evidenti. Processi e schemi di compenso/ scompenso ogni sistema conoscitivo evolve gradualmente verso livelli di maggiore complessità e ordine interno, cercando di mantenere il proprio equilibrio dinamico, la propria coerenza sistemica. Questo equilibrio non può considerarsi raggiunto una volta per tutte, perché deve ristrutturarsi continuamente in rapporto alle validazioni e invalidazioni, mantenendo integro il senso della propria identità personale. I processi di invalidazione previsionale producono una discrepanza tra le proprie anticipazioni e i dati dell'esperienza immediata. Il continuo confronto induce la necessità di processi più o meno estesi di riordinamento del sistema; l'invalidazione di uno schema e il conseguente accomodamento determinano la necessità di rivedere non solo la sua struttura, ma anche i nessi che lo collegano ai suoi schemi sottoordinati e alcune caratteristiche degli schemi sotto-ordinati stessi. Talvolta però il riordinamento indotto può produrre effetti più ampi nella struttura del sistema, ripercuotendosi anche sui livelli sovra ordinati. Così sé in alcuni casi questi processi di riordinamento possono condurre a una riduzione del livello di incoerenza interna, in altri possono determinare un irrigidimento, definendo una situazione di scompenso che si manifesta come blocco delle possibilità di movimento del sistema. Il concetto di scompenso viene utilizzato nell'ottica cognitiva e costruttivista per riferirsi alla psicopatologia. Questa concezione si accompagna: -a un'utilizzazione di modalità stereotipata di costruzione dell'esperienza con la tendenza ad attivare schemi peculiari in una gamma di situazioni diverse, con limitazione della capacità di discriminare differenze potenzialmente percepibili; -a la tendenza a costruire esperienze critiche in maniere difformi nei suoi domini di conoscenza e a diversi livelli di consapevolezza. La percepita incapacità di costruire alternative soggettivamente percorribili può produrre una livello di sofferenza emotiva i cui limiti di accettabilità sono solo soggettivamente definibili. In ogni sistema di conoscenza di solito sono presenti alcuni schemi specifici che svolgono una funzione particolare come meccanismi di equilibrazione adattativa e di compenso, limitando il tasso di incoerenza interna e proteggendo le strutture dell'identità personale. Ogni sistema struttura gradualmente nel corso del suo sviluppo alcuni schemi specifici, che assumono un ruolo centrale per impedire che possibili invalidazioni previsionali comportino accomodamenti tanto estesi da incrementare oltre i limiti accettabili i suoi livelli di incongruenza interna. Contemporaneamente ogni schema di compenso reca in sé un'intrinseca paradossalità perché, pur risolvendo da un lato l’incoerenza di fondo, pone nuovi vincoli dell'esperienza del soggetto. La funzionalità equilibratrice degli schemi di compenso è strettamente dipendente dalle caratteristiche strutturali complessive del sistema. All'interno di un'organizzazione conoscitiva che presenta una buona articolazione e integrazione gerarchica delle sue strutture, i meccanismi di compenso possono arricchirsi nel corso dello sviluppo acquisendo flessibilità e capacità previsionali. Se queste condizioni strutturali non sono presenti nel sistema gli schemi di compenso possono irrigidirsi e mostrare apertamente la loro paradossalità. Gli schemi di compenso possono quindi essere attivati non solo di fronte a momenti particolarmente critici, ma in modo massivo e obbligato a fronte di situazioni percepite come invalidanti anche solo marginalmente. Ciò che dobbiamo chiederci durante il processo di assessment è quali siano i meccanismi che hanno permesso al sistema di conoscenza del paziente di mantenere una relativa stabilità nel corso dello sviluppo, e quali quelli che a un certo punto hanno determinato quella perdita di equilibrio interno che si è tradotta nel disagio e nella sintomatologia. Alcuni schemi prevalenti tendono, talvolta, a svolgere una funzione di schemi di compenso. Gli schemi di controllo, di predisposizione allo sforzo, di delusione possono svolgere in modi diversi la funzione di compenso per individui con caratteristiche organizzative diverse: il controllo può svolgere funzioni di compenso in organizzazioni individuali fobiche e ossessivo-compulsive; la predisposizione allo sforzo in organizzazioni depressive; la delusione in quelle psicosomatiche. Questi stessi schemi, quando vengono attivati in maniera massiva rispetto a eventi di vita costruiti come particolarmente perturbanti, possono essere responsabili anche dei processi di scompenso. Le stesse considerazioni si possono fare rispetto alle caratteristiche di lassità o rigidità che possono svolgere una funzione equilibrante limitando la costruzione del significato invalidante di alcuni eventi, ma possono anche facilitare processi di scompenso quando il sistema non riesce a evitare l'invalidazione e questa comporta la necessità di un riordinamento complessivo talmente ampio da superare le sue capacità di ristrutturazione. Nell'ottica empirista si ritiene che sia possibile identificare oggettivamente una serie di eventi psicosociali stressanti classificabili in base alla loro gravità. Dal punto di vista costruttivista è impossibile parlare di eventi di vita oggettivamente stressanti che possono determinare, per la loro intrinseca oggettività, uno scompenso individuale. Le potenzialità perturbative di un particolare evento sono dipendenti dalla struttura del sistema, dai suoi vincoli, delle sue possibilità conoscitive. Solo quando ci sembra di aver compreso come il paziente abbia costruito un determinato evento potremmo cercare di metterlo in rapporto con i cambiamenti avvenuti nel suo sistema. Il primo colloquio gli obiettivi: 1) comprendere il paziente. 2) spiegarsi il problema presentato costruendo una prima ipotesi esplicativa. 3) valutare la presenza delle indicazioni per una psicoterapia, la coerenza fra richiesta e lo specifico approccio terapeutico. 4) definire le regole del contratto terapeutico. 5) proporsi nella relazione in modo che il paziente possa costruirci con una persona competente e affidabile ponendo le basi per la costruzione della relazione terapeutica. Comprensione del problema. È opportuno limitare al massimo gli interventi in modo da lasciare al paziente il modo e lo spazio per esporre il motivo per cui ha chiesto l’appuntamento. Questa fase può avere una durata variabile. È opportuno iniziere a tenere sotto controllo la narrazione del paziente soltanto quando l'elaborazione spontanea si esaurisce o si fa ripetitiva; a questo punto è possibile proporre alcune domande per comprendere meglio il problema e il punto di vista del paziente. È necessario disporre di un insieme di dati descrittivi inserendo i diversi aspetti delle problematiche all'interno dei possibili contesti situazionali e interpersonali nei quali più comunemente si esprimono. Al termine di questa fase è opportuno chiedere in modo diretto ed esplicito al paziente quale significato egli attribuisca al suo problema e quali spiegazioni si sia dato rispetto alla sua genesi. Il presupposto di base dovrebbe essere considerare tutto ciò che il paziente narra come dotato sempre e comunque di un significato coerente e di una logica interna: questa logica talvolta può sfuggire sia al terapeuta che al paziente, ma che deve essere colta nella sua specificità. È indispensabile che lo psicoterapeuta sia consapevole dei propri presupposti così da poter mettere da parte proprio schemi, personali e professionali, e calarsi all'interno dei significati che il paziente propone. Come è possibile decidere se si è raggiunta una comprensione sufficiente? Non esiste nessun metodo certo per giungere a questa conclusione; la nostra comprensione può tuttavia essere valutata usando come criterio il livello di condivisione dei significati raggiunto con il paziente. Analisi di eventuali precedenti trattamenti. Talvolta i pazienti presentano lunghe storie di interventi psicoterapeutici più o meno fallimentari che dovranno essere analizzati sia rispetto alle aspettative che possono avere determinato nei confronti di qualunque ulteriore tentativo, sia rispetto alle caratteristiche e le modalità del lavoro che si sta per intraprendere. È opportuno che vengano spiegate le differenze esistenti fra il nostro stile di conduzione e quella delle esperienze precedenti, per definire le particolarità che possono configurare come nuovo e diverso il processo che si sta per intraprendere e attivare le aspettative positive che sono necessarie. L'aspetto di trattamenti farmacologici, in corso o pregressi, dovrebbe essere affrontato in questa fase: l'obiettivo è comunque esclusivamente informativo. Comprensione delle motivazioni al processo terapeutico e delle aspettative di cambiamento. La modalità con cui il paziente è giunto fino a noi può rispecchiare, oltre al tipo di consapevolezza che egli possiede sul lavoro che deciso di intraprendere e sulla natura e sulle caratteristiche del problema, anche le aspettative che si è costruito rispetto al cambiamento. Se le aspettative sono casuali, non consapevoli, magiche richiederanno una riformulazione in una direzione più realisticamente funzionale allo svolgimento del lavoro terapeutico. Può capitare che la scelta della terapia venga effettuata in base all'aspettativa che questo approccio rientri nelle terapie brevi, centrate sul sintomo. È possibile che l'invio sia avvenuto a seguito di insistenze di familiari e che il paziente stia vivendo questa scelta in termini più o meno sottilmente coercitivi e non come personale e autonoma, cosa che determina una probabilità di insuccesso estremamente elevata. Può capitare che il paziente nella prima seduta arrivi con un familiare e chieda il permesso di farsi accompagnare nella stanza di terapia. Può essere affrontata o specificando da subito che il lavoro terapeutico riguarda esclusivamente il paziente ed è opportuno che sia solo lui a entrare, o iniziando la prima seduta in presenza del familiare. Nel secondo caso può essere interessante osservare come si svolgono le interazioni durante i primi scambi comunicativi: chi si rivolge per primo al terapeuta, chi risponde alle domande, chi mostra di considerare problematica la situazione ecc. Le prime ipotesi esplicative. Insieme dei dati raccolti dovrebbe servire a formulare un'ipotesi preliminare del problema del paziente, delle sue aspettative, delle sue caratteristiche organizzative, delle sue potenzialità di cambiamento, della logica interna del suo sistema. Ai fini della costruzione professionale, il terapeuta deve attivare propri schemi professionali. È essenziale che questi vengono considerati solo come modelli probabilistici che possono aiutare a porre le domande più utili e a formulare delle ipotesi di lavoro che devono essere ritagliate per ogni singolo individuo. Le ipotesi esplicative non possono essere che abbozzate: è sufficiente che alcuni argomenti siano appena toccati, rimandandone un approfondimento ai colloqui successivi, poiché la costruzione di ipotesi esplicative e più articolate sarà rimandata al termine dell'intero processo di assessment. Indicazioni della psicoterapia e decisione sulla presa in carico del paziente. Le decisioni sono diverse. Un primo aspetto riguarda la richiesta del paziente: bisogna capire se le sue aspettative sono congruenti con ciò che una psicoterapia può offrirgli e se il suo problema si presta a essere affrontato mediante il tipo di intervento che possiamo attuare nei suoi confronti. Possono esserci condizioni di vario tipo che rendono inadeguata l'indicazione di una terapia cognitiva orientata alla promozione di cambiamenti delle strutture sovraordinate del sistema. Alcuni esempi sono un’età e una conseguente rigidità troppo elevata, una povertà cognitiva, la probabilità di uno scompenso psicotico a fronte di interventi perturbativi, la valutazione di uno scompenso psicotico in atto ecc.. Nel caso in cui si valuti adeguata una psicoterapia cognitivo-costruttivista, dobbiamo porci anche un altro interrogativo: ce la sentiamo di svolgere il ruolo terapeutico con quello specifico paziente? Ogni psicoterapeuta deve sapere quali sono i casi che per lui è bene non seguire. Definizione preliminare e implicita della relazione terapeutica. Per decidere se affidarsi a lui, il paziente deve riuscire a costruire fin dall'inizio il terapeuta come "persona competente in grado di comprenderlo" ed è fondamentale la qualità dei primi scambi comunicativi, verbali e non verbali. L'impressione di essere capito nasce dalla capacità di ascolto del terapeuta, dalla congruenza dei suoi interventi. È importante che, nel condurre il primo colloquio, il terapeuta faccia attenzione anche al proprio modo di interagire con il paziente e alla congruenza emotiva fra i messaggi che riceve e le risposte che invia. Il contratto terapeutico nell'ottica congnitivista, per definire i ruoli che ciascuno dei due membri della relazione dovrà svolgere all'interno del setting, una delle metafore a cui può essere utile ricorrere è quella proposta da Kelly dell'uomo come scienziato. Il lavoro terapeutico può essere presentato come un processo di ricerca all'interno del quale paziente e terapeuta svolgono ruoli diversi e complementari come quello di ricercatore e di supervisore della ricerca: il paziente è l'esperto rispetto all'oggetto della ricerca, il terapeuta è l'esperto rispetto al metodo. Può essere utile descrivere brevemente i presupposti generali all'interno dei quali si muoverà il lavoro terapeutico. L'obiettivo è la ricostruzione delle caratteristiche degli schemi prevalenti del suo sistema di conoscenza e dell'influenza che essi esercitano sul suo comportamento. Può essere utile far presente che il processo di autoconoscenza richiede spesso il tentativo di ricostruire, a posteriori e in termini inferenziali, processi che vengono messi in atto dall’individuo al di fuori della sua consapevolezza. È importante che il paziente abbia presente che dovrà essere lui a ricostruire le conoscenze relative a sè e non dovrà cercare o aspettarsi l'interpretazione del terapeuta. Devono essere definiti gli elementi normativi della relazione: la frequenza e durata delle sedute, durata prevista e obiettivi di fondo della terapia, eventuali altre sedute di assessment, modalità di pagamento, eventuale utilizzazione di strumenti di audioregistrazione. L’assessment comportamentale la necessità di effettuare una assessment comportamentale è legata alla presenza di comportamenti sintomatici specifici rispetto ai quali si presume possa essere utile ricorrere anche a tecniche sintomatiche. Nella terapia cognitiva a indirizzo costruttivista il sintomo non viene trattato direttamente, ma letto in termini di significato. Talvolta la strategia terapeutica può prevedere l'opportunità di iniziare il trattamento occupandosi direttamente anche dei sintomi. Possono presentarsi situazioni nelle quali una intervento iniziale, che allevi rapidamente la sofferenza, costituisca una buona premessa anche per un trattamento i cui obiettivi siano stati formulati nei termini di un cambiamento strutturale. Condizione necessaria è la previsione di una reale possibilità di miglioramento sintomatico in tempi brevi e di una difficoltà del paziente a lavorare sul piano del significato. Non esiste un momento ottimale per effettuare il assessment comportamentale, ma è preferibile condurlo al termine dell'intero processo di assessment. L’assessment comportamentale può servire per sintetizzare e riordinare i dati in nostro possesso, riproponendoli al paziente per integrare quelli ancora mancanti. Le informazioni utili per impostare un trattamento sintomatico sono: -un elenco specifico delle situazioni ambientali che innescano comportamenti sintomatici. -le possibili varianti ambientali che determinano un peggioramento dei comportamenti sintomatici e quelle che determinano un miglioramento. -comportamenti motori di evitamento o fuga messi in atto come meccanismi di controllo dell'ansia. -pensieri di controllo dell'ansia o pensieri che determinano un peggioramento delle situazioni ansiogene. -reazioni fisiologiche nelle situazioni di ansia. -immagini mentali sulle conseguenze relative a una mancata messa in atto di comportamenti di evitamento o fuga. -conseguenze ambientali, interpersonali e sociali. La storia di vita per cogliere il senso dei processi dell’oggi e comprendere le modalità che il paziente utilizza per mantenere la propria coerenza interna, l'analisi della storia di vita può svolgere un ruolo essenziale. Nel raccogliere il racconto della storia di vita, non ha senso porsi il problema di quale sia la realtà oggettiva dei fatti narrati. Ciò che interessa è il modo in cui il paziente ricostruisce la sua storia, la coerenza che all'interno della sua ricostruzione possiamo identificare tra i fatti ricordati, le valutazioni di questi fatti, il modo in cui si spiega perché è avvenuto ciò che ricorda sia avvenuto, il fatto che non riesca a ricostruire alcuni periodi. È importante sapere che viene valutata non una storia, ma il prodotto dell'attività mentale del paziente posto di fronte al compito di ricostruire alcuni aspetti significativi della sua vita. Sulla costruzione di questo prodotto influiscono le modalità con cui gli eventi sono stati interpretati e memorizzati al momento in cui si sono verificati, e soprattutto le caratteristiche attuali del suo sistema di conoscenza. Nel guidare il paziente durante il suo racconto è necessario considerare che modi diversi di formulare le domande possono indurre l'attivazione di diversi sistemi di conoscenza. Da questo punto di vista possiamo distinguere quattro tipi di domande: quelle che attivano la conoscenza semantico-dichiarativa del paziente, quelle che attivano la conoscenza affettivo-immaginativa, quelle che attivano la conoscenza episodica e quelle che attivano processi integrativi fra tipi diversi di conoscenza. Questi quattro tipi di domande dovrebbero essere utilizzati in questa fase del assessment, in relazione ai diversi argomenti trattati, in modo da poter valutare quali sistemi di conoscenza paziente utilizza più frequentemente, e con quale livello di coerenza interna gli stessi eventi di vita vengono costruiti dai diversi sistemi di conoscenza del paziente. È importante tenere conto del fatto che: -le memorie affettivo-immaginative risentono dell'esperienza immediata, del modo in cui i dati sono stati costruiti dal paziente nel momento in cui ha vissuto quegli specifici episodi. -nell'età prescolare le conoscenze dichiarative risentono dell'influenza genitoriale; i bambini assumono facilmente il punto di vista dei genitori, fanno propria generalizzazioni dichiarativa offerte dalle figure di attaccamento anche quando risultano non congruenti con la modalità con cui gli stessi episodi sono stati vissuti a livello affettivo-immaginativa. -nella memoria episodica vengono memorizzati prevalentemente gli eventi affettivamente significativi. La ricostruzione episodica risente contemporaneamente del modo in cui gli eventi sono stati costruiti nel momento in cui si sono verificati, delle ridefinizioni linguistiche che i genitori hanno eventualmente offerto al figlio e di tutte le successive trasformazioni che hanno subito nel corso del tempo gli schemi del paziente applicabili a quella tipologia di episodi. Nella raccolta della storia di vita è opportuno focalizzarsi sui ricordi, cercando di farsi raccontare nella maniera più diretta possibile così come sono stati memorizzati e sulle interpretazioni dei significati del paziente a loro attribuito nel passato e nel presente. Per integrare racconto e valutare la relativa significatività dei diversi elementi che lo compongono, dovranno essere utilizzati tutti gli indicatori non verbali che lo accompagnano durante la narrazione che possono essere messi in relazione sia con i diversi contenuti trattati, sia con l'andamento della relazione in corso. Il terapeuta deve porsi in posizione di ascolto, intervenendo il meno possibile, lo stretto necessario per incanalare il racconto del paziente nella direzione desiderata. È bene limitare gli interventi ai momenti in cui l'esposizione tende a diventare ripetitiva o fuori tema. Saper ascoltare significa anche saper utilizzare il silenzio. Può rappresentare un momento in cui vengono ricercati ricordi, ricostruite sensazioni, rielaborate immagini; può essere un veicolo per comunicare emozioni, per permettere al linguaggio non verbale di esprimersi; può essere un modo per dare coraggio e raccontare esperienze e fatti particolarmente dolorosi della propria vita. È necessario discriminare questo silenzio, il " silenzio pieno ", dal " silenzio vuoto ". In quest’ultimo caso il paziente semplicemente non so più cosa dire e può avere bisogno di essere stimolato. Durante l'ascolto il terapeuta deve muoversi come un ricercatore che si trova a osservare un fenomeno a lui sconosciuto. I temi della storia di vita prima infanzia e periodo prescolare. Dopo aver raccolto un primo insieme di ricordi spontanei, è necessario passare a un'analisi più dettagliata del periodo di vita. Gli argomenti che usualmente è opportuno toccare sono: -la composizione del nucleo familiare e le caratteristiche dell'ambiente fisico, sociale e culturale di appartenenza; -le esperienze di relazione con le figure di attaccamento e con fratelli e sorelle. -le esperienze della scuola materna. -i rapporti extrascolastici con i coetanei. In questa fase è opportuno approfondire la relazione con le figure genitoriali e per ciascuna figura sarà probabilmente necessario aggiungere domande, che integrino quelle precedenti, in maniera d'avere informazioni sufficienti relativamente ai seguenti aspetti: -atteggiamenti espliciti e impliciti riferibili alla sfera dell'autonomia-distacco e all'incoraggiamento o all'inibizione dei comportamenti o dei tentativi di esplorazione dell'ambiente esterno; -manifestazioni affettive esplicite offerte e richieste dei genitori dal paziente e congruenza tra tali manifestazioni e bisogni di accudimento; -atteggiamento relativo alla manifestazione o al controllo delle emozioni. -atteggiamento nei confronti dei bisogni del figlio, delle sue sensazioni corporee e delle sue emozioni; -tempo dedicato al figlio; -regole educative, doveri e richieste di prestazioni; -stile della comunicazione familiare; -tipo di relazione fra i genitori e immagine che ciascuno dei due trasmette dell'altro al figlio; -atteggiamenti genitoriali nei confronti del mondo esterno, delle persone estranee alla famiglia; -modalità di relazione fra i genitori e agli altri figli. Età scolare. Gli aspetti di maggior rilievo sono quelli relativi all'inizio della scuola e all'ampliamento dei processi di socializzazione. Gli argomenti principali da trattare sono: -esperienze relative all'inizio della scuola primaria. -relazioni con i coetanei all'interno e all'esterno della scuola e con quelli di sesso opposto; -successi e insuccessi scolastici e reazioni emotive e comportamentali; -atteggiamenti dei genitori nei confronti delle performance scolastiche; -attività extrascolastiche e modalità di organizzazione della propria giornata. preadolescenza e adolescenza. L'acquisizione delle capacità formali sul piano logico insieme alla crescita fisico-sessuale, permettono all'individuo di distanziarsi dal nucleo familiare e iniziare la costruzione del sé come entità autonoma. Assumono maggiore rilevanza le relazioni affettive con l'altro sesso, accompagnate dai primi interessi e dalle prime esperienze. Oltre all'ingresso nella scuola media e relativi adattamenti sul piano delle relazioni e delle performance saranno dall'analizzare: -le modificazioni fisiche sessuali e le eventuali problematiche. -le reazioni dei genitori rispetto allo sviluppo sessuale del figlio; -le modificazioni degli atteggiamenti nei confronti dei genitori e del modo di porsi in relazione con loro; i rapporti con coetanei dell'altro sesso, primi innamoramenti e desideri sessuali; -le relazioni con il gruppo di coetanei; -la scelta della scuola media o l'inserimento nel mondo del lavoro; -le prime esperienze di innamoramenti e la storia delle relazioni affettive significative. -gli atteggiamenti dei genitori nei confronti delle richieste di autonomia; -ingresso nel mondo universitario o lavorativo. La vita adulta. I temi sono più differenziati e numerosi, e il paziente, essendo generalmente più consapevole di quali siano gli eventi più rilevanti, ha meno bisogno di essere guidato. Dovrà toccare: -esperienze di distacco dal nucleo familiare; -storia della relazione coniugale; -vita sessuale all'interno e al di fuori della coppia stabile; -esperienze di maternità-paternità, relazioni con i figli; -relazione esistente con le figure genitoriali; -esperienze lavorative; -relazioni interpersonali; -esperienze rilevanti di perdita. A conclusione dell'intervista può essere utile porre alcune domande integrative finalizzate ad analizzare il livello di consapevolezza e la coerenza interna delle spiegazioni che il paziente si è costruito rispetto alla propria storia, al proprio sviluppo, e alle relazioni che ha avuto con le figure di attaccamento. Criteri di analisi della storia di vita per poter comprendere ed elaborare appieno le informazioni raccolte è opportuno che le prime sedute di assessment vengano registrate e trascritte integralmente. L'impegno per il terapeuta che decida di adottare questa procedura è notevole ma ampiamente ripagato dai possibili risultati. L'analisi delle trascrizioni può essere effettuata concentrando prevalentemente la propria attenzione su aspetti di contenuto o sulle caratteristiche della struttura formale del racconto: può essere utile effettuare una doppia lettura del materiale. Quello che il terapeuta deve evitare è di costruirsi una teoria rigidamente strutturata del sistema-paziente che limiti la sua intuizione e gli impedisca di accorgersi di cogliere informazioni non ovvie o non previste nelle sue ipotesi iniziali. Il processo di assessment prosegue di fatto per tutto il corso della terapia; inizialmente si può costruire solo una cornice ipotetica, mentre una definizione più specifica di questo quadro potrà emergere solo più avanti. Comunque, se adottati con le dovute cautele, i criteri di analisi di contenuto e di analisi formale della narrazione possono fornire una guida generale per il terapeuta che comincia a orientarsi nella costruzione dell'altro e che deve effettuare alcune scelte per impostare la direzione nella strategia del lavoro terapeutico. Manca da pag. 64 a 78 La sintesi Finito l’assessment, può essere opportuno cercare di sintetizzare in forma scritta i dati raccolti e le ipotesi costruite per poterli meglio utilizzare ai fini della definizione degli obiettivi e della strategia del trattamento. La sintesi rappresenta la definizione della teoria che il terapeuta ha cominciato a costruirsi del sistema-paziente, teoria che dovrebbe permettergli di cogliere la logica interna e il suo funzionamento mentale e di programmare il proprio intervento. In linea di massima può essere utile organizzare i dati in tre aree: definizione del problema, caratteristiche del sistema conoscitivo del paziente, obiettivi e strategia terapeutica: 1-prima seduta e definizione del problema. Le problematiche e i sintomi che il paziente ha presentato e quelli che sono emersi nei successivi incontri possono essere dapprima descritti e quindi raggruppati e concettualizzati in categorie significative. 2-caratteristiche del sistema conoscitivo del paziente. La formulazione delle ipotesi sulle caratteristiche strutturali e funzionali del sistema di conoscenza del paziente, sui meccanismi di auto-mantenimento e sui processi di compenso-scompenso dovrebbe essere sostanziata attraverso l'utilizzazione dei dati descrittivi che il paziente ha fornito relativamente alla propria storia di sviluppo. 3-obiettivi e strategia. La conclusione di tutto il processo di assessment dovrebbe condurre alla definizione della strategia del trattamento mediante la formulazione di: -obiettivi generali di cambiamento: si riferiscono a quali cambiamenti strutturali e funzionali dovrebbe andare incontro sistema-paziente per potersi costruire un diverso e più funzionale equilibrio interno; -obiettivi strategici del cambiamento: si riferiscono a quale potrebbe essere il percorso terapeutico per rendere più probabile una gradualità di sviluppo in direzione degli obiettivi generali definiti precedentemente. -procedure tecniche iniziali: a partire dall'ipotesi e dalle considerazioni formulate, le procedure specifiche che si ritiene sia il caso di utilizzare, durante le fasi del trattamento, per raggiungere i primi obiettivi fissati. Capitolo 2 il bambino la conoscenza della psicopatologia infantile è articolata su una prospettiva descrittiva, racchiusa in opere di classificazione come il DSM IV, il cui scopo è quello di ridurre la complessità e la variabilità dei segni con cui il disagio del bambino può manifestarsi, inquadrandoli in un elenco di categorie diagnostiche indispensabili per la condivisione e comunicazione in ambito clinico. Se ci si accosta al disagio con l'intento di promuovere i livelli significativi di cambiamento nel rispetto della complessità cognitiva, emotiva e comportamentale del bambino e dell'equilibrio del suo sistema familiare, occorre dotarsi di una metodologia di analisi capace di muoversi verso modelli più esplicativi. Psicoanalisi ha proposto modelli basati sulla teoria dello sviluppo passionale e sulla teoria delle relazioni oggettuali. La prospettiva sistemico-relazionale ha orientato la sua ricerca di senso sul significato comunicativo del sintomo nel contesto equilibri complessivi del sistema familiare. I cognitivi clinico ha rivolto solo in tempi relativamente recenti e propria attenzione e il proprio interesse ai disturbi dell'età evolutiva. L'approccio comportamentale aveva dedicato già a partire dagli anni 60 uno spazio non indifferente al trattamento delle problematiche infantili, con l'elaborazione di dettagliate procedure di assessment e un variegato repertorio di tecniche terapeutiche basate sulla tecnica del condizionamento operante e del condizionamento classico. I cognitivismo clinico ha segnato una battuta d'arresto: il sistema conoscitivo del bambino, il cui senso di sé e la cui percezione del reale tendono a esprimersi principalmente per vie procedurali e emotive, mette in risalto i limiti di un modello basato in larga misura sulle capacità autoriflessive del soggetto, relativamente ai propri processi percettivi, inferenziali e valutativi. Sì è determinata una confluenza di tutti questi approcci entro la definizione condivisa di approccio cognitivocomportamentale, come modello integrato, che attualmente rappresenta uno degli approcci più riconosciuti e di dimostrata efficacia. Un impulso ed un motivo di interesse verso il mondo dell'infanzia si è determinato da quando il modello cognitivista è stato in grado di acquisire quello spessore evolutivo che caratterizza i suoi più recenti sviluppi: da un lato, un filone di ricerca cognitivo-evolutivo saldamente ancorato all'etologia e all'analisi dei sistemi motivazionali umani; dall'altro, gli elaborati sviluppi costruttivisti e sistemico-processuali. L'essere umano, dalla prospettiva evoluzionista, è visto come un sistema conoscitivo complesso che evolve nel tempo mantenendo una propria coerenza interna, un senso di sé e una corrispondente percezione della realtà che trovano origine nella qualità delle relazioni primarie di attaccamento. Dal sintomo al senso questa cornice teorica rappresenta la nuova trama esplicativa con la quale il terapeuta può avvicinarsi al bambino e alla sua famiglia tentando di restituire un senso alla loro sofferenza e di orientare verso modalità di relazione con maggiori potenzialità evolutive. Diventa stimolante rileggere riconsiderare le varie categorie della psicopatologia descrittiva dell'età evolutiva, correlandole ai diversi pattern di attaccamento in atto e ai relativi modelli operativi interni. Ampie potenzialità esplicative possono aprirsi qualora i pattern vengano riconsiderati in un'ottica sistemicoprocessuale. I modelli operativi del sé e dell'altro caratteristici dei diversi pattern di relazione possono essere considerati sia sulla base dei contenuti rappresentativi che veicolano, sia in relazione alla maggior o minore coesione interna che può caratterizzarli. In una relazione di attaccamento sicura il bambino è in grado sia di apprendere tacitamente relazioni causali e spazio-temporali tra gli eventi atte a un ordinamento “cognitivo” dell'informazione, sia di connettere le informazioni sensoriali relative ai contesti di pericolo di sicurezza con le proprie sensazioni di ansia o benessere e di organizzare “affettivamente” l'informazione. Quando le figure tendono a essere costantemente rifiutanti le informazioni causali e spazio temporale appaiono stabili e coerenti ma vengono inibite le manifestazioni affettive che minacciano lo stato di relazione. Nelle diadi ansioso-resistenti il bambino sperimenta che lo stato di relazione può essere minimamente mantenuto solo attraverso una abnorme attivazione affettiva, senza possibilità di ordinamento sequenziale degli eventi. I modelli operativi interni che il bambino va interiorizzando nel corso della prima infanzia sono di tipo sensomotorio, un tacito saper fare nel mantenimento dello stato di relazione con il genitore, unitamente a una memoria dell'immagine che non ha necessità del linguaggio, svolge la funzione di facilitare l'identificazione di condizioni pericolose e consiste di informazioni sensoriali sotto forma di immagini percettive di esperienze passate, di carattere uditivo, visivo, olfattivo o censtesico (immagini somatiche relative a stati corporei di attivazione ). I sistemi di memoria che si rendono disponibili a partire dall'età prescolare strutturano la conoscenza dichiarativa, articolata in regole linguistiche e corrispondente alla capacità di narrare ciò che si conosce di sé e del mondo. Questa può prendere la forma di memoria semantica (generalizzazioni concettuali) e di memoria episodica (rappresentazioni mentali di eventi specifici). Possiamo ipotizzare che nel funzionamento adattativo, cosiddetto normale, i modelli procedurali taciti e immaginativi trovino un'equilibrata espressione e articolazione in modelli semantici ed episodici congruenti; c'è anche un'adeguata integrazione tra le componenti dichiarativa del sistema. Il soggetto è sufficientemente in grado di sostanziare le sue rappresentazioni semantiche generalizzate sul sé e sulle proprie figure di attaccamento, con coerenti rappresentazioni episodiche sufficientemente impregnate di affettività. Le più gravi manifestazioni psicopatologiche infantili si connettono a modalità di funzionamento connotate da complessi e cospicui deficit integrativi. Questi bambini recidono in maniera netta il legame tra azione e stati interni: gli schemi procedurali non trovano adeguata espressione e possibilità di modulata regolazione in modelli semantici articolati e ricchi, e le vivide immagini sensoriali non trovano possibilità di sequenzializzazione in una memoria episodica dinamica e relazionale. In queste organizzazioni del sé derivanti da situazioni relazionali pericolose per l'integrità personale, l'opera difensiva dei meccanismi di disconnessione tra cognitività e affettività non è sufficiente: il bambino non può correre il rischio di considerare la mente altrui e propria per il dolore e l'angoscia che ciò comporta. Dato questo deficit nell'autoriflessività e nei processi di mentalizzazione, a gestire la relazione con il mondo rimangono drammatici agiti auto protettivi o angoscianti immagini sensoriali, senza possibilità di un'adeguata regolazione. Si possono sintetizzare i processi fondamentali che in un'ottica cognitivista determinano la capacità di regolazione di uno stato emotivo in questi termini: -ha capacità di riconoscerlo; -ha capacità di ricollegarlo a specifici antecedenti relazionali; -le capacità di attribuirgli un'etichetta semantica, cioè dargli un nome; -la capacità di differenziarlo e articolarlo; -la capacità di esprimerlo adeguatamente. I disturbi della condotta sono particolarmente frequenti nelle consultazioni per l'infanzia. Sono caratterizzati da modalità ripetitiva e persistenti di condotta aggressiva, provocatoria e antisociale, e da violazioni delle aspettative sociali in rapporto all'età. Possono essere limitati o meno al contesto familiare, associarsi o meno a una ridotta socializzazione, assumere la forma del disturbo oppositivo-provocatorio con modalità negativistiche e ostili. Su un piano esplicativo tali quadri possono assumere funzione significati molto diversi qualora esprimono la componente comportamentale di un pattern evitante o di un pattern resistente. Nel primo caso prendono la forma di condotta di ritiro e isolamento cui possono alternarsi episodici scoppi di ira,; in un itinerario ansioso/resistente tendono ad assumere la forma di comportamenti tirannici e drammaticamente vincolanti nei confronti del genitore, che sente di aver perso la propria autorevolezza e il controllo educativo sul figlio. Analoghe considerazioni possono essere fatte per i disturbi da deficit dell'attenzione e da comportamento dirompente, condizioni caratterizzate da un esordio precoce, dalla combinazione di un comportamento iperattivo scarsamente modulato con una mancanza di perseveranza nell'esecuzione di un compito, dalla presenza di tali comportamenti in diverse situazioni e dalla loro persistenza nel tempo. Entro questi quadri clinici l'osservazione clinica mostra in modo chiaro come in un itinerario di sviluppo ansioso-resistente sia presente una maggiore situazionalità e una più stretta connessione con l'atteggiamento genitoriale: l'iperattività e la distraibilità hanno una funzione coercitiva di controllo del genitore. In un itinerario evitante appaiono come esasperazione dell'utilizzo dell'esplorazione continua quale distrattore: l'iperattività viene utilizzata come difesa difesa attiva rispetto alla disperazione, all'impotenza e alla solitudine e come gestione e scarica della rabbia: non è mai giocato dal bambino in maniera coercitiva. Tra i disturbi della sfera emozionale con esordio caratteristico nell'infanzia la sindrome ansiosa da separazione e le diverse manifestazioni fobiche dell'infanzia occupano una posizione centrale. Una sindrome ansiosa da separazione viene diagnosticata quando è presente nel bambino un ansia eccessiva e specifica che concerne la separazione dai familiari a cui il bambino è maggiormente legato, e non è semplicemente parte di un'ansia generalizzata estesa a più situazioni. Si osservano preoccupazioni irrealistiche circa incidenti che potrebbero coinvolgere i familiari. Vi è una persistente paura di rimanere solo, riluttanza o rifiuto ad andar a scuola, più legato alla paura di separazione che il timore di ciò che può accadere. Nelle sindromi fobiche l'ansia è focalizzato su situazioni o oggetti specifici. Tendenzialmente sul piano relazionale tali quadri clinici e esprimono un pattern ansioso-resistente nella sua componente emozionale, con un'organizzazione del sé ancora sufficientemente integrata e coesa. I disturbi psicosomatici, come disturbi dell'alimentazione, andrebbero letti in rapporto alla funzione specifica che svolgono nella relazione con la figura di attaccamento. Sul versante ansioso-resistente è facile osservare come sintomo somatico venga costruito, amplificato e utilizzato dal bambino con lo scopo di ancorare una madre discontinua che scopre sensibile e reattiva al disagio fisico e alla malattia. Ritroviamo su questo versante gran parte dei quadri somatici in assenza di chiare alterazioni organiche su cui è focalizzata una fetta considerevole del lavoro dei pediatri di base: coliche addominali, cefalea, vomito, sindrome dolorosa di varia natura e lamentele somatiche non chiaramente definite. Una semplice analisi funzionale del sintomo, nei suoi antecedenti e nelle sue conseguenze ambientali, e spesso sufficiente a mettere in luce la valenza di ancoraggio dei sintomi nei confronti delle figure di attaccamento: la loro funzione di controllo della relazione è immediata e diretta. L'aspetto più sorprendente è la capacità del bambino di mettersi al passo con alcune priorità emotive peculiari del genitore, al fine di mantenere saldamente uno stato di relazione con lui. Un esempio esplicativo è rappresentato dalle cosiddette apnee affettive respiratorie che possono insorgere tra i sei mesi e il 5 anni di età. Si tratta di crisi anossiche, precedute da una frustrazione o da un limite energico posto al bambino cui seguono in genere pianto, cianosi o pallore, revulsione dei globi oculari, perdita di coscienza con alterazioni del tono muscolare, e quindi sonno e intorpidimento alla ripresa dalla sincope. Tali crisi sono vissute in un clima di particolare drammaticità e emotività espressa. Va esclusa una diagnosi di epilessia. Ciò che colpisce maggiormente, nell'osservazione clinica dei genitori di questi bambini, è la presenza di una loro spiccata sensibilità all'esperienza di morte, legata a particolare situazione traumatiche. È su tali priorità genitoriali che il piccolo si sintonizza, a fronte di discontinuità avvertite nell'adulto. In un itinerario evitante o difeso i disturbi psicosomatici appaiono spesso più gravi e persistenti nel tempo, scarsamente ancorati al comportamento contingente dei genitori, in un contesto relazionale di scarsa emotività espressa. Sembrano l'esito di un precoce pervasivo meccanismo di inibizione degli stati effettivi e dell'azione: il mantenimento dello stato di relazione è presumibilmente subordinato all'inibizione massiccia di componenti comportamentali ed emotive del sistema motivazionale dell'attaccamento. La disregolazione si esplica su un piano corporeo, l'unico possibile, e cioè come disregolazione fisiologica. Spesso la malattia somatica viene inserita e utilizzata come spiegazione semantica delle reciproche difficoltà nella costruzione di un'adeguata intimità interpersonale. Per il bambino, un processo di retribuzione centrato sulle proprie caratteristiche fisiche, pur sacrificando pezzi superficiali della propria autostima, lo salvaguarda dal prendere atto di emozioni critiche più profonde e vitali: salva il genitore, idealizzandolo, per salvare qualche pezzo di se stesso. Nei quadri finora descritti la capacità autointegrativa del sé è ancora relativamente conservata, mentre si sfalda irrimediabilmente nelle cosiddette patologie limite o borderline, connotate da una sintomatologia più varia e complessa: disturbi del sonno, dell'alimentazione, dell'acquisizione del controllo degli sfinteri, agitazione, chiusura, aggressività, ritardo del linguaggio, difficoltà scolastiche, permanenza dell'instabilità, imprevedibilità dei comportamenti e frequenti crolli regressivi. Risultano evidenti le modalità di regolazione affettiva, negoziazione e organizzazione strategica del comportamento tipiche delle configurazioni difese e coercitive a più alto indice, con le loro caratteristiche e drammatiche limitazioni nelle funzione autoriflessiva, solitamente non dovute a specifici vincoli biologici. Nei disturbi generalizzati dello sviluppo è più spesso possibile incontrare importanti vincoli neurobiologici che rendono impossibile per alcuni bambini l'acquisizione di un'adeguata teoria della mente e quindi l'espressione delle relative competenze metacognitive e comunicative. Sono quadri caratterizzati da anomalie qualitative delle interazioni sociali e delle modalità di comunicazione, oltre che da un repertorio limitato stereotipato di interessi e attività. Anormalità che rappresentano una caratteristica preminente del funzionamento dell'individuo in tutte le situazioni di vita. Tra queste sindromi, l'autismo infantile è una delle più importanti. Fermo restando le forti incertezze relative all'etiologia e le frequenti implicazioni organiche rinvenibili in questi quadri clinici, non c'è dubbio che le evoluzioni più gravi si determinano quando la vulnerabilità innata di questi bambini si incontra con relazioni e stati mentali genitoriali particolarmente complessi: in questi casi il sistema terapeutico viene travolto da un incremento esponenziale di tutto il repertorio sintomatologico tipico del quadro autistico. Le scarse competenze del genitore in termini di autoriflessivatà, a prescindere dagli inevitabili sentimenti di frustrazione e dolore che si possono avvertire di fronte ai deficit comunicativi e comportamentali di questi bambini, rendono difficoltoso il riconoscimento e l'elaborazione di questi sentimenti così come della sofferenza percepita dal figlio, determinando una ulteriore abbattimento delle sue già compromesse capacità metarappresentative. Il comportamento autistico può apparire come una delle modalità più estreme di evitamento attivo e di ritiro dalla relazione con l'ambiente umano; l'ipercinesia massiccia e pervasiva nella quotidianità del bambino può mostrarsi nella sua funzione più estrema di esplorazione come distrattore, tipica dei pattern difesi; i comportamenti autolesionistici o la masturbazione compulsiva, come estreme condotte auto-stimolatorie, un tentativo di sentirsi entità fisiche, se non come identità; le stereotipie finiscono per ampliarsi, nella loro intensità e frequenza, come modalità efficaci nell'evitare il rischio dell'intimità interpersonale o nel riempire il vuoto percepito nalla relazione. La psicosi simbiotica rappresenta la modalità più estrema e meno integrata di resistenza angosciosa. Lo scompenso sembra derivare da una qualche causa esterna vissuta come minaccia al rapporto reciprocamente e potentemente vincolante tra madre bambino: si evidenziano nel bambino reazioni di panico con evidente angoscia e collera rivolta verso la madre, qui segue una condizione di totale dipendenza e chiusura ansiosa rispetto alla minacciosità della realtà esterna. L'esasperazione dell'ambivalenza tipica di questo pattern risulta evidente dalla mescolanza o nell'alternanza di sentimenti di desiderio del genitore fino all'eccitamento, e di rabbia fino alla collera. Questi tentativi di correlazione fra costellazioni sintomatologico tipiche dell'infanzia e i vari percorsi di sviluppo possono essere utili nell'orientare il clinico verso un primo livello di ipotesi diagnostico-esplicativo. In ogni caso l'importante è che l'interazione diadica si risolva nel mantenimento di uno stato adeguato di relazione e quindi di uno stato ottimale di regolazione affettiva per entrambi; in questo senso, le configurazioni di attaccamento costituiscono il meglio che quella diade può sviluppare relativamente alle caratteristiche del sistema di accudimento di quel genitore specifico, del contesto ambientale in cui quell'integrazione ha avuto luogo e delle caratteristiche biologiche del bambino. È quella la loro specifica e adattativa forma di reciprocità. In questa prospettiva il sintomo e ogni manifestazione e emotive comportamentali del bambino, va considerato solo all'interno di quella particolare della relazione di attaccamento-accudimento. I segni che siamo abituati a definire come sintomi trovano una loro precisa significazione come specifiche modalità volte al mantenimento di un'adeguata stabilità e coerenza del senso di se e della percezione della realtà. Il sintomo svolge quindi sempre una funzione regolatrice positiva, conservando una sorta di miracolosa reciprocità genitore-bambino, a dispetto delle discrepanti condizioni ambientali. È il meglio che quella diade, in quel particolare momento, può esprimere. La teoria dell'attaccamento è una teoria diadica che offre comunque spunti per formulare ipotesi esplicative con valenza sistemica. Nel triangolo familiare costituito dalla coppia genitoriale e dal figlio, ognuno dei genitori è impegnato su più fronti, in cui coerentemente si ripropone il fondamentale stile affettivo: relazione di accudimento e cura sul figlio, la relazione affettiva con il partner, la relazione con la famiglia d'origine e con la propria storia. Una crescente mole di studi fa supporre che gran parte dei genitori di bambini con attaccamento insicuro abbiano relazione di tipo ansioso sia con i propri genitori sia con i propri partner. Il funzionamento dei due coniugi come coppia genitoriale acquisisce una qualità globale che va al di là del loro funzionamento come figure singole di accudimento: essi tendono a costruire gradualmente intorno al proprio figlio una sistema complesso di accudimento-cura in cui vengono più o meno unicamente integrate le competenze genitoriali di ognuno, complementandosi nelle proprie risorse nei propri vuoti affettivi. Padre e madre tendono a organizzare il loro comportamento di relazione con il figlio costituendosi nei suoi confronti come una vera propria polarità integrata di attaccamento, che il figlio riconosce come tale e tende a confermare e a stabilizzare nel tempo con il proprio comportamento. Al di là delle apparenze altri approcci psicoterapeutici tendono a leggere i sintomi del bambino in termini di conflitto relativamente a istanze sessuali o aggressive, oppure come espressione o risoluzione di dinamiche di potere all'interno del sistema familiare di cui il bambino è parte. L'approccio cognitivo-evolutivo riconosce l'importanza di altri sistemi motivazionali interpersonali come quello agonistico e quello sessuale; tuttavia ribadisce l'assoluta centralità del sistema comportamentale dell'attaccamento nell'infanzia, in cui i rischi di vulnerabilità sono massimi e pressoché costanti, e quindi la centralità e la sovraordinazione degli schemi cognitivi interpersonali che si originano a partire dall'attivazione di tale sistema. Nell'organizzazione di conoscenza del bambino prima, e del fanciullo poi, gli schemi relativi agli altri sistemi comportamentali sociali sono sussunti dalle costruzioni relative alle esperienze di attaccamento, e possono svilupparsi e articolarsi solo all'interno dei limiti posti da tale impalcatura di fondo. Al di là delle sue più esplicite apparenze, che spesso si configurano in termini di conflittualità, sfida, manipolazione reciproca, le dimensioni più profonde del sintomo sono sempre di tipo affettivo. Come per il sistema motivazionale di dominanza-subordinazione è importante mantenere chiari anche i rapporti sovra e sotto-ordinati fra attaccamento e sessualità se si vogliono comprendere a fondo i significati di alcune manifestazioni cliniche infantili apparentemente connotate in termini sessuali. Il conflitto può verificarsi tra due sistemi comportamentali entrambi fondati biologicamente, quello dell'attaccamento e quello sessuale, in cui le richieste del primo, più precoce e sovraordinato, sono in grado di orientare e plasmare lo sviluppo del secondo. Al di là delle diverse disposizioni che i vari sistemi motivazionali mettono in campo, la matrice più genuina e profonda del comportamento interpersonale del bambino rimane quella affettiva. La terapia è quindi da intendere come un processo graduale di ricostruzione, insieme ai genitori e al bambino, del senso affettivo che il sintomo cerca di veicolare. Generalmente l'approssimarsi a tale riscoperta di senso ha sui genitori un impatto emotivo piuttosto potente, legato alla ristrutturazione positiva della percezione del figlio. Tali ridefinizioni dell'immagine dei bisogni del bambino hanno sul genitore un effetto perturbante perché implicano una qualche riorganizzazione dell'immagine di sé e quindi una necessità di crisi personale. Il processo psicoterapeutico l'ottica con cui ci avviciniamo al bambino alla sua famiglia è un'ottica trigenerazionale. La coppia genitoriale viene posta al centro dell'attenzione terapeutica, da un lato nel suo rapporto con il bambino e dall'altro con la propria organizzazione conoscitiva e con la propria storia. Il lavoro prende le mosse dall'analisi della gestione diretta della relazione di attaccamento-accudimento in atto tra genitori e bambino, tentando di connetterla ad aspetti significativi della storia di attaccamento dei genitori nei confronti delle loro famiglie di origine. I formati per strutturare il setting possono essere molto diversi. Possono prevedere momenti di interazione con l'intero sistema familiare ( soprattutto in fase di assessment ); percorsi individuali con il bambino; interventi sulla relazione madre-bambino; sedute con entrambi i genitori sia come coppia genitoriale, sia come coppia coniugale. Per quello che concerne il piano anamnestico in un itinerario di sviluppo evitante possiamo trovare madri che provengono da complesse esperienze familiari, da cui si sono difensivamente distanziate in uno sforzo di accantonamento delle emozioni connesse alla loro storia. È il genitore che viene definito “distanziante”. Puntualmente tende a riferire la propria infanzia come felice, idealizzando i genitori o demonizzandoli, in modo sempre piuttosto distaccato e generico, senza riuscire a sostanziale le affermazioni con ricostruzioni episodiche. A volte si osserva un distanziamento precoce della famiglia d'origine; la gravidanza è spesso raccontata in termini piuttosto distaccati.C'è una spiccata disposizione allo sforzo, un'attenzione esasperata gli aspetti pratici, una scarsa propensione all'intimità fisica ed emotiva con il bambino. Lo stabilirsi della reciprocità affettiva madre-bambino risulta difficoltoso ma raramente viene riferito come tale in modo esplicito dal genitore. Gli eventuali episodi di separazione non evidenziano in genere reazioni emotive particolarmente intenso nella diade, in una graduale processo di restringimento nel bambino dei propri segnali di bisogno.L'inserimento del bambino ai vari livelli scolastici può risultare semplice e agevole, successivamente però si manifestano problemi di isolamento a cui possono alternarsi scoppi improvvisi di collera, uniti a problemi di apprendimento. In un itinerario di sviluppo ansioso-resistente o coercitivo è possibile osservare padri e madri che tendono a descrivere una relazione infelice e difficile con i propri genitori, spesso con toni lamentosi o drammatici, relazioni familiari in cui appaiono ancora manifestamente coinvolti e invischianti. È frequente la convivenza alla prossimità abitativa, anche se conflittuale, come una delle famiglie di origine. Questi genitori, definiti come invischianti o preoccupati, sono spesso ipercoinvolti e ansiosi anche durante la gravidanza del figlio, con un'esasperazione delle problematiche tipiche della gravidanza, spesso con modalità di comunicazione e richiesta indiretta di protezione e conforto nei confronti del coniuge o della propria madre. Può essere riferito un parto difficile, lamentele di scarsa sensibilità verso il personale ospedaliero. Nel rapporto di reciprocità con il bambino vengono riferiti apprensione è allarme verso ogni minima difficoltà nell'organizzazione del contesto di cura. Gli episodi di separazione sono mal tollerati sia dalla madre che dal bambino, con intense modalità di segnalazione e difficoltà di inserimento ai diversi livelli scolastici. Questi genitori tendono ad accedere spontaneamente al servizio di consultazione, ma spesso sono " voraci " fruitori di servizi psicologici. In generale l'attenzione nel selezionare e coordinare i dati è posta sulle specifiche modalità di segnalazione affettiva del bambino nelle situazioni di vulnerabilità fisica ed emotiva che si incontrano tipicamente nel corso dello sviluppo e dell'interazione quotidiana, analizzandole nella loro tonalità, intensità, durata e funzione; dall'altro sulle reciproche modalità del genitore di accogliere e gestire tali segnali. Può essere fruttuosamente utilizzata la Adult Attachment Interview che può rappresentare un eccellente guida procedurale e/ o concettuale nella raccolta-analisi della storia, stimolando il terapeuta o focalizzare la propria attenzione da un lato sui contenuti espressi, dall'altro sulla forma del discorso. Dal dipanarsi dei dati anamnestici il genitore può cominciare a estrarre connessioni utili a una crescente comprensione della qualità della sua relazione con il figlio, e a una qualche significazione del sintomo. Uno strumento che può arricchire in termini di consapevolezza famiglia e terapeuta è l'analisi funzionale del sintomo, una procedura di valutazione comportamentale che aiuta a comprendere sintomo in funzione degli stimoli antecedenti che lo elicitano e delle conseguenze ambientali che lo seguono, rinforzandolo. All'occorrenza si può chiedere ai genitori un'osservazione più sistematica attraverso diari quotidiani o schede di osservazione. La famiglia prende il comportamento del bambino e lo costruisce come malattia, disancorandolo progressivamente dal suo contesto, attraverso una serie di generalizzazioni. Procedendo con l'analisi si comincia a ricollocare il sintomo all'interno del suo specifico contesto relazionale. Un'analisi situazionale fondata su una motivata e attenta osservazione condotta dai genitori risulta più efficace nel ristrutturare tali spiegazioni totalizzanti sul sintomo, che non lunghe argomentazioni razionali sulle quali, in genere, la famiglia ha già interagito con vari specialisti. Si avvia un'implicita ridefinizione del sintomo che gradualmente comincia a rivestirsi di significato. Anche analizzando le conseguenze del sintomo genitori cominciano a percepire e a prendere consapevolezza del ruolo che essi svolgono nel suo mantenimento, recuperando la propria responsabilità personale in rapporto ai dati sintomatologici portati. Una volta ricollocato il sintomo all'interno del tessuto relazionale attuale, il terapeuta cerca di introdurre la dimensione temporale attraverso una analisi storica del sintomo: la ricostruzione della fase di insorgenza, la sua connessione con eventi familiari o ambientali, l'evoluzione e le modificazioni che ha subito. Per quello che riguarda l'osservazione diretta della relazione genitori-bambino l'ottica cognitivo-evolutiva stimola alla costruzione di setting particolarmente attivi. Le sedute di osservazione possono prevedere la presenza di entrambi i genitori nel rapporto, del bambino da solo, del bambino con uno dei due genitori; tutto ciò nel rapporto diretto o indiretto con il terapeuta. Uno dei problemi centralista nel costruire, in funzione dell'età del bambino delle caratteristiche dei familiari, situazioni che sollecitino più o meno intensamente il sistema motivazionale dell'attaccamento nel bambino e sistema di accudimento nei genitori. Ai diversi componenti della famiglia dovrebbe essere offerta l'opportunità di essere attori e spettatori delle interazioni in corso. In genere durante il processo di osservazione psicologica sì è molto concentrati sui contenuti, anche simbolici, che vengono veicolati nelle interazioni del bambino con l'ambiente, con il materiale di gioco, con i genitori e con il terapeuta. Occorre sottolineare che l'approccio cognitivista è molto più interessato alla forma della comunicazione emotiva e al suo fluire all'interno del setting. La teoria dell'attaccamento ci suggerisce una serie di criteri utili a guidare l'ordinamento dei dati conservativi: criteri che saranno maggiormente orientati all'individuazione dei modelli procedurali della prima infanzia, per arricchirsi nella fanciullezza includendo le strategie di gestione del rapporto con la figura di attaccamento. Un'altra importante area da esplorare già in fase di assessment riguarda le teorie naif della sofferenza e in particolare del sintomo portato in consultazione, sostenute dal bambino e dai genitori come elemento prognostico indispensabile e variabile, cruciale, nella definizione del contratto terapeutico. Quando si ha un sintomo è in atto nel sistema uno sbilanciamento affettivo che sollecita fluttuazioni emotive su un'area emozionale scarsamente riconosciuta, articolata e comunicabile per il bambino. Le parti di sé non integrabili devono necessariamente essere spiegate in termini esterni per colmare il deficit integrativo presente. È interessante notare che tanto più grave e bizzarro è il modo in cui il disturbo viene concettualizzato e spiegato dal sistema, maggiore è il deficit integrativo da sanare quindi la difficoltà soggettiva ad attribuire un significato coerente ai quei segni. Il terapeuta deve puntare a collocarsi rispetto ad esse, più che in termini di contrasto, in una posizione ortogonale, in parte accogliendole, in parte promuovendo occasioni di integrazione tra sintomi, stati interni e relazione. Quando l'osservazione la raccolta anamnestica vengono condotte in forma non statica e fotografica, ma dinamica sul piano emotivo, sia per la famiglia sia per il terapeuta non si pone alcuna discontinuità tra diagnosi e terapia. Non è possibile tracciare una linea netta di demarcazione fra questi due momenti; il procedere terapeutico va inteso come un continuo processo di consapevolezza sulla costruzione di sé del bambino, sul suo stile relazionale, sul significato rivestito dai segni sintomatologici. Potersi osservare in relazione, all'interno di un contesto inusuale e dinamico come quello descritto per l'osservazione, consente ai genitori la consapevolezza di alcuni aspetti del proprio comportamento interattivo con il bambino. In itinerari di sviluppo insicuri, non solo risultano insoddisfacenti le relazioni attuali, ma la stessa organizzazione di conoscenza già strutturata nel bambino rende il processo di raccolta e integrazione delle informazioni scarsamente flessibile. Al di là delle tecniche specifiche, un obiettivo generale dell'intervento è rappresentato dalla creazione di contesti in cui sforzo mentale del bambino di genitori possa essere diretto a creare modelli di esperienza che: -siamo aperti a nuove informazione; -permettono agli individui di sperimentare mentalmente interpretazioni e rispose alternative; -incoraggino i genitori e i bambini a integrare e usare tutte le informazioni che hanno a disposizione. Questi contesti richiedono scambi interattivi che integrino l'informazione affettiva con altre informazioni, così da rispecchiare processo che caratterizza le relazioni sicure. Le linee strategiche dell'intervento vengono definite e riaggiornate nel corso della terapia in funzione della qualità specifica del pattern di attaccamento emergente nella relazione e della sua connessione con i sintomi. All'interno di tali linee strategiche verranno di volta in volta selezionate, create, inventate nel rapporto con la famiglia, le tecniche più adeguate in vista di questi obiettivi. Il ruolo del terapeuta è quello di introdurre nel sistema perturbazioni che risultino strategicamente orientate alla riorganizzazione del pattern di attaccamento e all'articolazione e differenziazione dei relativi schemi cognitivi interpersonali attivati attraverso i quali il bambino tende ad assimilare la sua realtà. Quando la sintomatologia è sostenuta da schemi interpersonali coercitivi attivi o passivi, cioè quando risultano evidenti uno spiccato deficit mediazionale cognitivo e una regolazione affettivo-emotiva precaria, sarà opportuno introdurre, nuove capacità di problem-solving cognitivo, aiutando il bambino a utilizzare il pensiero ai fini di un più adeguato controllo comportamentale ed emotivo. Tipicamente il processo di cambiamento degli schemi di relazione genitori-bambino passa attraverso una ciclo di esperienza in cui si succedono: sperimentazioni attive in seduta, dove il piano comportamentale e l'attivazione emotiva dominano il campo; elaborazione sul piano semantico delle esperienze effettuate; condivisione di obiettivi da portare avanti tra una seduta l'altra con finalità esplorative e conoscitive riguardo alle proprie potenzialità e propri limiti nella relazione di attaccamento-accudimento. All'interno di un itinerario evitante incontriamo temi di non amabilità personale e incapacità a sollecitare risposta amorevole nell'altro, legata modelli rappresentativi dell'altro come non accessibile o rifiutante verso i propri bisogni di attaccamento. Il terapeuta sarà molto attivo dal punto di vista emozionale e tendenzialmente lavorerà nella zona di sviluppo prossimale della funzione materna in fase di ricostruzione. In queste situazioni è opportuno puntare a un'adeguata differenziazione nei ruoli genitoriali in cui il padre viene valorizzato nel suolo di tutela della nuova relazione emergente fra madre e bambino, scoraggiandolo da sostituirsi alla madre nelle sue funzioni. Analoghe esperienze possono essere riproposte casa. Lo strumento della videoregistrazione può rendere tale percorso di osservazione più efficace, approfondito e emotivamente coinvolgente. Soprattutto nella prima infanzia può risultare utile la visione congiunta di videoregistrazioni relative a interazioni madre-bambino, padre-bambino, in situazioni di gioco, alimentazione, apprendimento eccetera. I genitori saranno aiutati a conoscere e esplorare le proprie competenze comunicative quelle del bambino focalizzando l'attenzione su gli effetti che il comportamento genitoriale esercita sul bambino, e sulle reazioni che il comportamento del bambino provoca nella madre. Ponendosi alternativamente dal punto di vista della madre e del bambino verranno esplorate le varie sequenze comportamentali connettendole alle relative sensazioni, emozioni, scenari immaginativi e pensieri. Tutto ciò unendosi al genitore in un atteggiamento empatico di comune ricerca e di promozione della consapevolezza, evitando posizioni pedagogiche che veicolino nei suoi confronti connotazioni colpevolizzanti o svalutative. In situazioni psicopatologiche in cui le relazioni siano organizzate in termini ansioso-resistenti non si pongono per il bambino problemi di amabilità, ma problemi di sicurezza nella relazione con le proprie figure di riferimento. La realtà è dipinta con tonalità ansiose di imprevedibilità e minacciosità, e il sé è percepito come debole e fragile in un contesto di relazione in cui l'esplorazione non è mai stata resa possibile. Tale situazioni si gioveranno di operazioni terapeutiche atte a introdurre confini più definiti e maggiori capacità di demarcazione tra i genitori da un lato e il bambino dall'altro, in una graduale stimolazione all'esplorazione e alla costruzione di nuovi spazi, risorse di autonomia gli uni per l'altro. La carenza nella funzione affettiva ed educativa paterna, che spesso caratterizza queste situazioni, deve orientare il terapeuta verso un progressivo coinvolgimento del padre, stimolandole un ruolo più attivo. Mentre nel pattern evitante si pone un problema di ricostruzione affettiva della reciprocità primaria nella diade madre-bambino, qui sembra porsi un problema evolutivamente successivo, di distanziamento e allentamento di un intenso e ansioso legame, in cui al padre si richiede di svolgere la sua funzione di mediazione, facendosi carico del bambino e stimolandone la motivazione e la capacità esplorativa. Un bambino che avverte la discontinuità nella propria figura di attaccamento è portato ad amplificare i propri segnali di bisogno per massimizzare la probabilità che quel genitore sia sufficientemente orientato nei suoi confronti. Diviene vincolante e coercitivo, sviluppando in forma sempre più articolata quello che rappresenta lo schema cognitivo interpersonale centrale in un'organizzazione cognitiva di tipo fobico, un meccanismo di compenso dell'intera struttura: lo schema del controllo. Questo meccanismo diventa vitale nel mantenere un adeguato stato di relazione con il genitore. Nel corso dell'interazione quotidiana la diade può ingaggiare lotte sfibranti sulle questioni più svariate in cui il contenuto del contendere diventa assolutamente irrilevante: il problema di fondo è rappresentato dalla relazione. Per il bambino avvertire un senso minimo di controllo della relazione con il genitore è vitale per sentirsi protetto e rassicurato. Tutto ciò implica una consistente difficoltà a decentrarsi ponendosi dal punto di vista dell'altro, per capire sui bisogni, le sue emozioni e le sue opinioni;e quindi difficoltà a provare genuina empatia con l'altro e a costruire dei piani condivisi nel rispetto reciproco dei bisogno di entrambi. In un tale contesto relazionale il ruolo del terapeuta può essere quello di costruire con entrambi ( genitore e bambino ) una relazione in cui sia possibile sperimentare fiducia, in qualunque occasione di negoziazione dei bisogni reciproci si determini all'interno del setting terapeutico. Una volta acquisito questo ruolo di fiducia, il terapeuta potrà utilizzarlo riflettendolo sulla relazione genitorebambino e ponendosi come regolatore della comunicazione come garante dei pezzi di fiducia mancanti. Interventi basati sul paradigma operante, cioè su tecniche di rinforzo, possono essere di grande aiuto per fare sperimentare alla diade forme di relazione meno coercitive, più libere, equilibrate e rispettose dei bisogni di entrambi. Un aspetto rilevante dal punto di vista terapeutico nel trattamento di situazioni cliniche fondate su relazione di tipo ansioso-resistente è costituito dalla graduale prese di consapevolezza, da parte del genitore, della sua discontinuità di risposta verso i bisogni del bambino. Questo si accompagna a un graduale riconoscimento dei vissuti e delle tematiche affettive irrisolte che producono episodici disorientamenti e indisponibilità nella relazione con il figlio: problematiche relative al rapporto con il coniuge o con la famiglia di origine. C'è da aspettarsi che schemi relazionali di tipo genitoriale o compiacente vengono attivati e riproposti dal bambino nella relazione terapeutica dove potranno trovare uno spazio di revisione e di modulazione più adattativa. Con il bambino definito coercitivo, eventuali momenti di lavoro terapeutico individuale possono essere orientate alla graduale stimolazione delle sue ricerchee di autonomia personale facilitando l'esplorazione autonoma. Nelle situazioni cliniche più complesse può risultare difficile produrre livelli apprezzabili di cambiamento soltanto agendo direttamente sugli schemi di attaccamento-accudimento tra genitore bambino. In questi casi emerge la possibilità di affrontare con il genitore i nodi irrisolti della propria storia recuperandone e rielaborandone le esperienze più dolorose. Occorre che genitori siano aiutati a connettere in maniera significativa i due piani del proprio stile affettivo, e ciò rappresenta uno dei passaggi terapeutici cruciali nei casi più complessi. Dopo essersi a lungo osservato sul versante delle capacità di accudimento verso il figlio e nel rapporto con i suoi sintomi, il genitore può cominciare a incuriosirsi su quesiti di fondo che riguardano la sua propria storia. Quando si realizza questo passaggio solitamente inaugura una fase terapeutica in cui il bambino e i suoi sintomi recedono sullo sfondo per lasciare spazio al genitore e alla sua storia. La relazione terapeutica tutto il percorso terapeutico descritto è reso possibile e ampiamente influenzato in ogni fase dalla qualità della relazione costruita con il bambino e con la famiglia. Uno dei principali elementi di salvaguardia, capace di promuovere l'empatia verso il bambino che soffre e i suoi genitori, sta nel mantenere viva l'idea della reciproca funzionalità del significato adattativo per la loro relazione, di tutto ciò che creano sul piano comportamentale, cognitivo e emotivo. È necessario ricordare che il senso relazionale dei segni e dei sintomi è sempre di qualità inesorabilmente affettiva. Le difficoltà di integrazione fra parti affettive e parti cognitive, tra memoria semantica e memoria episodica, che caratterizzano le vie di sviluppo insicure, non sono semplicemente una spiacevole e disfunzionale conseguenza di tali pattern di relazione. Sia nelle diadi evitanti, sia in quelle ansioso-resistenti, i bambini lavorano attivamente per non arrivare a un'integrazione delle loro esperienze, che vivrebbero come dolorose. I primi cercando di salvare sul piano semantico le loro figure genitoriali, i secondi continuando a vagabondare emotivamente su una quantità di rappresentazioni episodiche contrastanti. La non-integrazione consente loro di tenersi in piedi, e i sintomi stessi rappresentano mezzi vitali attraverso i quali cercano di non produrre integrazioni dolorose. Mantenere la consapevolezza di tutto ciò rappresenta la migliore forma di tutela della qualità della nostra relazione con loro. Tutti i membri del sistema familiare al momento della consultazione vivono una condizione di profonda sofferenza e il terapeuta dovrà sapersi costituire per loro come base sicura. Possiamo trovare l'operatore con stile emotivo dismissing (o accantonante): questi avrà la tendenza a negare il dolore e la sofferenza che nasce dall'essere testimoni del disagio di un bambino le cui figure di attaccamento appaiono non resposive. Nel suo agire clinico, quest'operatore probabilmente sarà portato a sottovalutare alcuni aspetti di gravità del problema presentato e forse bisogni di tutela del minore coinvolto. Opererà valutazioni fotografiche e destrittive piuttosto che dinamiche, dove sia riconoscibile un adeguato coinvolgimento personale con le relative assunzioni di responsabilità. Offrirà interventi blandi e superficiali, spesso connotati in senso pedagogico e razionale nei confronti dei genitori. L'operatore enmeshed, preoccupato o coinvolto, nel suo slancio protettivo potrà avere la tendenza a castigare il genitore mostrandosi nei suoi confronti fortemente valutativo e realizzando interventi punitivi. Ognuna di queste prospettive di intervento è legittima e praticabile ma deve essere giustificata da un'equilibrata analisi della complessa situazione di vita del bambino e calibrata su modalità e tempi il più possibile rispettosi dei vincoli emotivi di ogni membro familiare, piuttosto che determinata dal disagio degli operatori. Per quello che riguarda la centralità offerta ai genitori lungo tutto il processo terapeutico, è necessario evitare operazione relazionali con il bambino che possano porci in contrapposizione al loro ruolo genitoriale o metterlo in qualche modo in discussione. La madre il padre andrebbero posti in una posizione di autorità e di competenza riguardo al proprio figlio e il terapeuta dovrebbe cercare di unirsi a loro nell'esplorare modalità utili a una trasformazione del comportamento e delle reazioni emotive del figlio. All'interno della relazione terapeutica, sia i genitori che figlio dovrebbero sentire riconosciuti i propri bisogni di salute e le proprie ferite in una prospettiva che ponga costantemente l'attenzione su quello spazio intermedio denso di significati rappresentato dalla relazione. Capitolo 3 adolescenza: fra crisi e cambiamento Tutti quelli che si occupano di adolescenti si trovano inevitabilmente ad aver a che fare con cambiamenti bruschi, imprevedibili, inattesi, contraddittori sempre destabilizzanti. L'adolescente è il primo ad esserne turbato. I cambiamenti Modifiche fisiche: corpo e sessualità. L'essere umano si distingue per la durata dell'infanzia: se si sviluppasse come gli altri mammiferi a quattro anni potrebbe riprodursi e circa sei anni raggiungerebbe l'età adulta. Da un punto di vista evoluzionistico tutto quel tempo è necessario a qualcosa di così essenziale alla sopravvivenza che persino la riproduzione passa in secondo piano: l'apprendimento. Ogni cellula cerebrale crea connessioni che hanno bisogno di tempo per consolidarsi per aumentare la loro complessità. La rivoluzione biologica è messa in moto dal cervello, in particolare dall'ipotalamo. Intorno agli 11-12 anni per i maschi iniziano le modificazioni dei genitali esterni. Più tardi crescono i peli ascellari e la barba. La voce cambia, compare il pomo di Adamo, la statura la massa muscolare aumentano. Anche nelle femmine l'intero processo che portò alla maturazione dell'apparato genitale dura circa quattro anni: l'inizio delle modificazioni può essere individuato tra i nove e i quindici anni con lo sviluppo delle mammelle. In seguito i genitali si modificano, compaiono i peli; la statura aumenta la forma si modella. Il raggiungimento della maturità sessuale degli organi genitali corrisponde alla comparsa del menarca. Modificazioni psicologiche. Emozioni: riconoscerle e regolarle Se consideriamo le emozioni come uno strumento fondamentale di conoscenza di sé e dell'altro, appare chiaro come averne consapevolezza e saperle riconoscere è indispensabile per l'individuazione di percorsi adattativi. Spesso nell'adolescenza sono sufficienti i rapporti significativi con i coetanei per aiutare integrare aspetti che sono stati sacrificati a causa di esperienze di attaccamento insicuro, prima che si manifestino comportamenti disadattativi. Talvolta certe esperienze di attaccamento insicuro causano un irrigidimento tale da non permettere di sfruttare i rapporti significativi con i coetanei per correggere sistemi di azioni e credenze distorte, collegati a emozioni inappropriate per intensità o tipologie. In questi casi la psicoterapia costituisce una risorsa preziosa per consentire la remissione di comportamenti disfunzionali quando essi si siano manifestati: l'empatia del terapeuta le garanzie offerte dal setting favoriscono la possibilità di soffermarsi su emozioni che spaventano e non verrebbero altrimenti registrate. Cognizioni: pensiero riflessivo e abilità metacognitive Grande novità dell'adolescenza è il pensiero riflessivo che permette di liberare il pensiero dei vincoli dell'esperienza immediata per formulare ipotesi che consentono un ampliamento della percezione del mondo. L'affiorare di una dimensione riflessiva della coscienza consente l'autoconservazione di se stessi; attraverso il pensiero astratto è possibile identificare obiettivi da raggiungere, individuando i modi e i tempi per farlo. Il pieno sviluppo delle competenze legate alla teoria della mente sostiene la facoltà di cogliere il punto di vista dell'altro. La relativizzazione della visione del mondo dà l'opportunità di allargare i confini, comportando anche una temporanea destabilizzazione, che porta a dover fare i conti con incertezze e confusione. Le abilità metacognitive consistono nell'acquisire capacità di costruire un modello del proprio funzionamento cognitivo ed emotivo. La metacognizione sulle cognizioni si fonda sulla possibilità di applicare il pensiero a sé stesso, acquisendo consapevolezza sulle proprie principali modalità di organizzare la conoscenza. La metacognizione sulle emozioni permette di auto osservare e tentare di regolare il proprio stile emotivo diventa importante in un momento di grande confusione come l'adolescenza, grazie all'opportunità di osservare il pattern stabili di emozione, e in particolare di emozione cosciente, i sentimenti (Damasio). Modifiche relazionali Nei confronti della famiglia e nell'adolescenza la spinta è verso l'allontanamento, l'autonomia e l'indipendenza, sostenuta dall'esigenza di sviluppare un senso di se fondato sull'autonomia e sull'individualità per sviluppare la propria personalità. Il compito che la famiglia si trova svolgere non è di accudire, quanto di contenere, nel senso di fornire le necessarie sponde quando la sensazione di disorientamento di confusione è molto intensa, come accettare di fare palestra con il figlio adolescente affinché possa esercitarsi a lottare e riappacificarsi. Se il genitore non accetta di mettersi in gioco assentandosi (permissivismo) o irrigidendosi dietro dogmi e divieti assoluti, sarà difficile se non impossibile l'integrazione degli aspetti sperimentati di un'identità adulta: autonomia, indipendenza, responsabilità, sessualità. In ruolo significativo è attribuito al gruppo di coetanei, con i quali si sperimentano le nuove emozioni legate alla sessualità, alla cooperazione e alla competizione amorosa, sportiva e scolastica. Compito di coetanei è offrire altri modelli di comportamento di pensieri diversi dal proprio, con i quali confrontarsi. Un'ulteriore separazione è quella che avviene quando si sperimentano le prime importanti relazioni affettive. Il conflitto può essere interno o esterno: l'innamoramento può far sperimentare emozioni contrastanti sia verso se stessi che verso il gruppo di amici. L'innamoramento può suscitare emozioni piacevoli ma anche paura di essere travolti o di poter perdere la felicità, accompagnata da una sensazione di vulnerabilità nel realizzare che il proprio benessere è in mano un'altra persona. La nascita di un legame affettivo implica la separazione, o meglio una ridefinizione, del proprio essere nel gruppo di amici. Il gruppo può ostacolare il bisogno di concedersi spazi di intimità, vivere la relazione come un tradimento un abbandono. Le relazioni affettive permettono di mettere alla prova il proprio senso di amabilità personale. È da considerare come il ruolo delle figure genitoriali e il loro stile relazionali influenzino in modo significativo il modo di proporsi dell'adolescente o di non proporsi, evitando la relazione con l'altro sesso. Una madre con uno stile iper protettivo o ansioso trasmette al figlio maschio un forte stabile senso di amabilità, che gli permette di proporsi alle figure femminili con il supporto di una sicurezza di base. Un padre con uno stile di attaccamento evitante, in fonderà alla figlia femmina uno scorso senso di amabilità e un pervasivo sentimento di inadeguatezza. Unicità e continuità L'adolescenza è un periodo specifico della storia di vita: talvolta le lacune sono dovute a fatti traumatici come lutti, abusi, maltrattamenti, malattie, incidenti che accadono durante tale periodo e ne segnano il percorso. Ascoltando la narrazione di una serie di vita di un modo di notarne l'unicità e la continuità: per l'unicità si intende che ogni fase della vita è singolare nei tempi e nei modi; per continuità si fa riferimento al senso di non frammentarietà, di non interruzione, che tuttavia permette di individuare la fine di una fase l'inizio dell'altra. Abbiamo connotato come crisi questi momenti di passaggio nell'accezione di pericolo e opportunità insieme: pericolo inteso come destabilizzazione variabile nell'intensità e nel tempo, ma anche come opportunità di aggiustamenti di rotta. L'adolescenza è un passaggio chiave dall'una all'altra età della vita, rappresenta il prototipo delle crisi. Si ha la possibilità di costruire un modello di come in futuro si affronteranno altri cambiamenti. Assenza di crisi L'assenza di crisi è un segnale d'allarme; se i genitori dell'adolescente affermano con un certo compiacimento che il ragazzo non dà loro problemi, sottintendono tre affermazioni: 1-quanto sono fortunato; 2-quanto sono bravo come genitore; 3-quanto è bravo mio figlio. In riferimento al primo punto notiamo che una significativa percentuale di adulti in psicoterapia ripercorre la loro storia di vita scoprendo di non aver vissuto l'adolescenza; riferendosi alla seconda affermazione può accadere che ci sia una sorta di cecità difensiva per la quale genitore non vede alcun disagio, fino a quando il sintomo non esplode; considerando la terza affermazione, l'inganno sta nell'ingiunzione sottintesa del genitore: <<non ti permetto alcuna forma di ribellione>>, pena la perdita dell'amore. Occorre considerare che se sì è genitori non si può attraversare indenni l'adolescenza dei propri figli: è necessario chiedersi che cosa sta accadendo, voltarsi indietro per ripensare alla propria storia, all'adolescente che si è stati, alle fatiche fatte per diventare adulti. Crisi normale Fino a quando la crisi è sana? Quando si parla di adolescenti, è necessario abbandonare la prospettiva dell'adulto: molti comportamenti che si riscontrano frequentemente nell'adolescenza sarebbero indici di grave disagio o patologia nell'adulto. Il comportamento dell'adolescente riguarda la violazione continuativa delle norme sociali solo occasionalmente, diventando delinquenza minorile o patologia della condotta. Il più delle volte il fine è quello di confrontarsi con i limiti stabiliti dalla famiglia delle istituzioni, mettendo alla prova se stessi e il mondo degli adulti. Si può assistere a un'altalena tra senso di onnipotenza e sensazione di non essere in grado di affrontare problemi e le difficoltà della vita, con l'aggravante di non essere esperto nel tarare i livelli di difficoltà e le proprie risorse, oscillando da una sopravalutazione imprudente a una sottovalutazione altrettanto pericolosa. Per quanto riguarda gli adulti di riferimento, sono frequentemente sottoposti a testo di coerenza e di resistenza. Le emozioni generate dai comportamenti degli adolescenti sono spesso negative: paura, rabbia, ansia, in sofferenza, fastidio, sconforto. Compito degli adulti è quello di gestire tali emozioni, offrendo sponde di contenimento resistenti ma amorevoli, capace di dare un senso anche a ripetute battute d'arresto, trasmettendo la fiducia che l'adolescente si possa rimettere in linea di volo, anche dopo aver attraversato una prolungata turbolenza. I comportamenti trasgressivi sono indice di patologia solo quando la frequenza con cui si manifestano si esaspera, rendendoli intollerabili anche al contesto sociale. Crisi patologica Come indice di patologia può essere individuata la comparsa di sintomatologia specifiche e persistenti nel tempo, come disturbi alimentari, fobie, ossessioni, atti autolesivi e eterolesivi. Consideriamo segnale di patologia il prendere scorciatoie ingannevoli per crescere più in fretta e sentirsi uguale agli altri: ecstasy, acidi, cocaina ecc.. L'illusione è di non percepire paura, disagio, imbarazzo. Quasi nessuno si ritiene tossicodipendente, poiché il soggetto si sente integrato nel gruppo a cui desidera appartenere, non emarginato e rifiutato dalla società. È legittimo individuare come indicatore di patologia, la sofferenza acuta che non ha avuto ascolto, nonostante ripetute segnalazioni con le parole, con i comportamenti, o attraverso il corpo. Il pericolo e l'opportunità Quale pericolo Nell'adolescenza diventa essenziale riconoscere le emozioni, talvolta nuove ed intense come quelle legate alla sessualità, e di regolarle in modo adattativo rispetto alle circostanze. Diventa essenziale anche il concetto di responsabilizzazione: la stessa parola crisi deriva dal greco krino: scelgo, decido. L'aspettativa è che tale competenza si attivi in un momento in cui il processo di individuazione passa prevalentemente attraverso l'opposizione. Il tema della responsabilizzazione è controverso in quanto un'esplicita mancanza di responsabilità può essere letta nei termini di un tentativo di non venire ulteriormente responsabilizzati. Un ulteriore pericolo è presentato dalla confusione fra ciò che non sì è più che ciò che non si è ancora. Quando a questa confusione interna si somma un'incertezza ambientale (divorzi, lutti, violenze), il compito di costruzione di un senso di sé stabile diventa impossibile per le rilevanti battuta d'arresto: disagio che si manifesta con sintomatologie specifiche. Sono fattori di rischio anche l'attrazione per le sfide, l'impulsività, l'invulnerabilità, la minimizzazione o incapacità di cogliere la globalità delle situazioni, la visione dicotomica del tutto o nulla. Un buon indice prognostico della gestione dei rischi delle sfide adolescenziale sembra essere dipendente dal senso di efficacia personale, sviluppatasi durante l'esperienza di padroneggiamento precedenti. Quale opportunità Attraverso le numerose possibilità di sperimentare relazioni significative extra familiari, l'adolescente ha l'opportunità di integrare correggere esperienze di attaccamento insicuro, grazie all'importanza del gruppo di pari. La possibilità di un confronto con gli altri è indispensabile per l'attivazione di un processo riflessivo. A volte, per una serie di motivi, come la rigidità gli schemi familiari di attaccamento e la mancanza di figure significative extra familiari, la crisi adolescenziale non avviene secondo le modalità descritte. Si perde l'opportunità di allargare il proprio spazio potenziale di vita, rimanendo confinati in quello che l'ostile di attaccamento dei genitori aveva definito nell'infanzia. Più avanti il giovane adulto si troverà a vivere una crisi dai confini indefiniti, che spesso si manifesta sotto forma di battute d'arresto. Fattori protettivi e fattori di rischio Fattori protettivi Metacognizione: una valida competenza metacognitiva è un'eccellente indicatore della possibilità di affrontare le crisi personali. Il pensiero riflessivo e le capacità metacognitive hanno importanza nell'orientamento dell'adolescente alle prese con scelte conflittuali. Da una parte la necessità di andare contro genitori e adulti, dall'altro desiderio di appartenere gruppo dei coetanei, fanno i conti con un primo nocciolo di un sé indipendente che tenterà di stabilire delle priorità. Stili di attaccamento flessibili: la flessibilità nella propria dimensione di attaccamento-accudimento non necessariamente è data da stili genitoriali sicuri, ma anche dall'integrazione di modelli di attaccamento insicuri, talvolta complementari. La flessibilità può essere garantita dalla presenza di persone significative, interne o esterne alla famiglia. Durante questo periodo della vita l'adolescente si orienta verso figure adulte o maggiori di età con le quali confrontarsi, specie se le loro modalità di comportamento si differenziano dalle figure genitoriali. L'adolescente si può allontanare da stili di accudimento parentali rigidi, faticosamente tollerati e a volte chiaramente inadeguati rispetto all'imprevedibilità del mondo. La flessibilità gli schemi emotivi e cognitivi è la condizione che permette di mantenere una coerenza interna, a fronte di eventi difficili da gestire. Gruppo dei pari: il gruppo chiede alleanza solidarietà e in cambio dà fiducia sostegno in una relazione di reciprocità che aiuta a realizzare un sano distacco dei genitori, fa nascere affetti, incoraggia nuove esperienze relazionali cooperative nell'amicizia, nell'agonismo nella sessualità. Per i membri è reale e giusto ciò che il gruppo considera giusto, l'amicizia con i coetanei serve a ridefinirsi a costruire un ambito in cui i valori di riferimento cambiano indipendentemente dai genitori per costruire il sé adulto, inizialmente attraverso l'opposizione. Fattori di rischio Scarse capacità metacognitive. Stili di accudimento rigidi: la rigidità dello stile di accudimento delle figure genitoriali aggrava il disorientamento, mentre l'incapacità di confrontarsi col figlio non facilita la riorganizzazione e l'integrazione del cambiamento, aumentando il disagio. La presenza di una seconda figura di attaccamento con uno stile di accudimento diverso (anche se insicuro), è una condizione necessaria a garantire una sufficiente flessibilità. La rigidità di una figura di attaccamento con uno stile di accudimento insicuro, a volte patologico, può non essere compensato da una figura significativa con uno stile di accudimento diverso e altrettanto efficace. Nell'adolescenza esistono in molti casi altre risorse, oltre alle figure genitoriali che possono essere estremamente efficaci. Isolamento sociale: è una condizione a volte ricercata a volte subita. In entrambi i casi gli effetti negativi sono evidenti. È difficile individuare se il fattore di rischio correlato a un adolescente esploratore solitario della sua crescita, sia maggiore rispetto a quello rappresentato da un giovane assolutamente dipendente dal gruppo di appartenenza, che ha difficoltà a fare anche brevi tratti di cammino da solo. È possibile che la condizione di isolamento sia ricercata attivamente dal giovane adolescente: può allontanarsi dal gruppo, ritirarsi in solitudine, può scegliere di restare nel gruppo in una posizione periferica, assumendosi sempre funzioni di sostegno, aiuto, ascolto senza reciprocità. Più spesso l'isolamento è una condizione subita. Tipi di sviluppo Attaccamento sicuro L'aver sperimentato genitori incoraggianti fornisce al bambino un senso del proprio valore personale è un modello adeguato su cui costruire le proprie relazioni future. In questo periodo si iniziano a costruire molti rapporti interpersonali importanti. Queste forme di attaccamento si possono stabilire in base alle stesse modalità che portano allo sviluppo di relazioni di attaccamento sicuro nei primi anni di vita che sono caratterizzati dei meccanismi fondamentali dell'attaccamento: la ricerca di vicinanza, il ricorso all'altro come fonte di conforto e la sua interiorizzazione in un'immagine mentale che si traduce in un senso di sicurezza. La sicurezza affettiva fa da modello per le relazioni presente e futuro, amicali o affettive; la capacità di esplorare senza timori permette di rapportarsi all'ambiente esterno con fiducia ed efficacia. Il senso di amabilità personale la consapevolezza delle proprie risorse favoriranno il processo di individuazione personale, che passerà comunque attraverso l'attivazione del sistema agonistico, necessario per un distanziamento cognitivo ed emotivo, che sarà ben tollerato sia dei genitori sia dei figli. Attaccamento evitante In questo modello vi è l'ampio gruppo delle strategie parentali centrate sul controllo privo di affetto. Tipica è la situazione in cui i genitori, poco espansivi e apparentemente distaccati, attribuiscono particolare importanza al successo e al prestigio personale, con le strategie educative che richiedono al bambino responsabilità senza fornirgli sostegno emotivo-affettivo. Caratteristica di questi ambiti familiari è la mancanza di ricordi e la povertà delle narrazioni autobiografiche. Spesso il livello di elaborazione dei racconti autobiografici forniti dei genitori è molto simile, soprattutto quando parlano delle loro relazioni con le altre persone. Nell'infanzia e nella fanciullezza è possibile ritrovare situazioni di perdita di uno dei genitori o la loro assenza prolungata, presenza di un familiare che richiede al figlio sostegno e protezione con conseguente autonomia forzata, e spesso disconferma del proprio valore. Gli atteggiamenti evitanti o distanzianti possono essere visti come forma di attaccamento che restringono e compromettono la capacità dell'individuo di sviluppare un senso integrato del sé nel tempo e in relazione con gli altri: un approccio simile, escludendo emozioni e esperienze interpersonali, è a rischio di patologia. Negli adolescenti che sviluppano una patologia di tipo depressivo il pattern di attaccamento-accudimento di più frequente riscontro e quello evitante (A). Nell'adolescenza, la sensazione di solitudine che in questa fase è di stimolo per cercar amicizia e relazioni nuove, viene affrontata con una sfida da gestire individualmente: questo spinge verso una spiccata autonomia. A questa può aggiungersi una difficoltà di distacco correlato alla responsabilità che l'adolescente sente su di sé rispetto al benessere del genitore. Con l'ingresso nella fase adolescenziale questi soggetti hanno difficoltà a costruire rapporti di fiducia intimi e autentici: stentano a impegnarsi totalmente in una relazione intima, anche per la costante aspettativa di abbandono. La sessualità diventa una dimensione difficile da affrontare e il fisiologico pudore si trasforma in vergogna, la preoccupazione della svalutazione dell'altro fornisce una rappresentazione degli altri con valenze giudicanti. L'atteggiamento iniziale nei confronti di un incontro affettivo è quello di non riconoscerne la significatività, negandone l'importanza e disconoscendo il grado di coinvolgimento emotivo. La scelta del partner è orientata secondo il principio per cui è necessario non dover mai dipendere o fidarsi dell'altro più di quanto si faccia affidamento su di sé. La rottura di una relazione sentimentale è da considerarsi fra le principali cause di scompenso, anche per la tendenza a percepire la separazione come abbandono. Adolescenza di una persona organizzata in senso depressivo si riempie di impegni di natura diversa ai quali si tiene fede con costante senso del dovere. Dai resoconti dell'adolescenza e giovinezza dei soggetti depressi si evince la tendenza ad attribuire delusioni, insuccessi e abbandoni a qualche aspetto interno stabile e negativo. Disperazione tristezza appaiono connesse con la rabbia e quando la rabbia è scarsamente controllabile a causa delle perdite precoci, il soggetto a maggiori probabilità di ottenere nuovi rifiuti e abbandoni. Negli adolescenti che sviluppano disturbi alimentari psicogeni come obesità e bulimia nervosa e il pattern è prevalentemente di tipo evitante (A). In un itinerario evitante, i disturbi psicosomatici appaiono spesso persistenti nel tempo e scarsamente ancorati al comportamento contingente dei genitori, in un contesto connotato da scarse emotività espressa: sembrano l'esito di un precoce meccanismo di inibizione degli stati affettivi. Le madri generalmente controllano gli effetti in modo invasivo ed esclusivo, o sono ostili. Il controllo prevale sulla tenerezza e sul calore in un contesto relazionale in cui è preclusa ogni possibilità di esprimere apertamente emozioni e opinioni autonome definite. Tale itinerario di sviluppo sembra essere contraddistinto da un'esperienza di delusione che nella maggior parte dei casi avviene tra la fine della fanciullezza e l'inizio della fase adolescenziale. Il distacco dai genitori viene avvertito con un senso di solitudine epistemologica di vaghezza e indefinitezza. Se l'evento schiacciante della delusione è subito in modo passivo, l'impegno individuale sarà orientato a ridurre l'effetto destabilizzante devastante di disconferme e delusioni, attribuendone la causa al senso di vuoto e di incapacità. Le difficoltà di integrazione tra parti affettive e cognitive, tra memoria semantica e memoria episodica, che caratterizzano le vie di sviluppo insicure, non sono semplicemente una spiacevole conseguenza di questi pattern di relazione: questi soggetti lavorano a attivamente per non arrivare all'integrazione delle loro esperienze che vivrebbero come dolorose. I sintomi sembrano configurarsi come l'esito complesso di un processo di addestramento interpersonale all'accantonamento degli stati affettivi Attaccamento ambivalente Se le relazioni precoci sono state caratterizzate da forme di comunicazione inaffidabili e intrusive, l'immagine della figura di attaccamento dominante può interferire con la capacità di recepire in maniera corretta i segnali comportamenti degli altri. Gli individui che hanno avuto genitori che presentavano una disponibilità discontinua e imprevedibile, presentano in genere un atteggiamento preoccupato rispetto all'attaccamento, caratterizzato da ansia, incertezza e ambivalenza. Il sistema non può raggiungere la sua massima complessità, ma si deve assestare su livelli di complessità inferiori perché il genitore ha definito la natura delle interazioni in modo rigido. Negli adolescenti che sviluppano patologie di tipo fobico il pattern di attaccamento più frequente è quello resistente (C), con un accudimento parentale iper protettivo e ansioso. Queste esperienze possono determinare un aumento della sensibilità, che si manifesta nelle interazioni con gli altri e in situazioni correlate a perdite o separazioni. I genitori, bloccando o inibendo l'attività esplorativa del bambino, gli hanno impresso schemi di paura e attenzione selettiva sui pericoli. La conseguenza è la costruzione di un'immagine di se debole e fragile. L'adolescente che ha ricevuto un'impronta di tipo fobico si caratterizza per un iper controllo nell'entrare in contatto con gli eventi con le proprie emozioni, a quest'età altamente perturbanti. Difficoltà esplorative, unite a una attaccamento ansioso dei genitori che garantiscono una superficiale comodità di vita, portano a un prolungamento del periodo adolescenziale. Altre modalità di trattenere il figlio sono le manifestazioni di un malore nei momenti di previsto allontanamento o evasione dal campo di controllo. Nell'adolescenza il controllo sia tuo su due versanti: sugli eventi esterni e su quelli interni. Sui primi il tentativo di controllo si concretizza nella cura estrema del proprio aspetto esteriore: il timore è quello di essere scoperto nei propri punti deboli, che si cerca di nascondere. C'è inoltre il desiderio di controllare le emozioni che in generale la vita altrui, la tranquillità personale è legata al sapere dove sono e cosa stanno facendo le figure di riferimento. Il secondo versante consiste nell'esigenza di precedere gli eventi, esercitando il controllo quanto prima è possibile, impedendo l'esplorazione delle prove sensazioni. L'emergere della dimensione della sessualità e del mondo dei sentimenti amorosi è avvertito sia dall'adolescente che dalla famiglia come una sfera pericolosa; per l'adolescente che sta appena scoprendo che la forza consiste nel mantenere il controllo sull'attivazione emozionale, la realtà amorosa è all'insegna della fragilità. Anche negli adolescenti che sviluppano patologie di tipo ossessivo il pattern di più frequente riscontro è quello ambivalente (C): talvolta si riscontra una storia di sviluppo caratterizzato da un pattern di attaccamento evitante. In adolescenza il soggetto percepisce come debolezza qualsiasi sensazione ho atteggiamento ambivalente, per cui il raggiungimento di un senso unitario e attendibile di identità personale sarà sempre più connesso a una continua ricerca di certezza, adottando una procedura di tipo tutto o nulla. Nell'adolescenza, cogliere la relatività, compiere l'integrazione tra diversi aspetti personali, accettare la coesistenza di diversi se funzionalmente utile, a seconda delle situazioni, invece di valutarli come accettabili o non accettabili in assoluto, può risultare razionalmente impossibile ed emotivamente perturbante. Nell'adolescenza le spinte interiori verso l'indipendenza, essenziali per la maturazione individuale, vengono connotate negativamente dei genitori. Le rigide regole imposte dal genitore contrastano con le richieste naturali di tale periodo, che i ragazzi vedono soddisfatte nei coetanei con cui sono in contatto. La necessità di controllare le emozioni è un'altra caratteristica riconosciuta come qualcosa che può essere accettato solo se è prima analizzato razionalmente e giudicato positivamente. Nel caso in cui sensazione discrepanza affiorino comunque, l'adolescente ossessivo ne distoglie l'attenzione tramite una serie di attività, che possono prendere la forma o di pensieri ripetitivi o di azioni stereotipe. In questa fase dello sviluppo diventa centrale il problema dell'amabilità, legata a un amore condizionato: <<mi amerànno solo se sarò bravo>>. L'ossessivo, trovandosi di fronte genitori freddi e distaccati, che non è possibile conquistare attraverso la qualità della relazione e sperimentando il divieto di provare emozioni, si convince che l'amore si conquista attraverso le proprie prestazioni. Lo studio di solito assume un ruolo di primo piano a scapito dell'aspetto relazionale e sociale. Le capacità di controllo vengono a misurarsi in adolescenza con lo sviluppo della sfera affettiva e sessuale. La sfera sessuale offre una ricca gamma di emozioni sentimenti già difficili da tenere a freno, e qui trasgredire vuol dire essere cattivo in modo assoluto. Gli amori adolescenziali iniziano in ritardo rispetto ai coetanei, come esordi anche platonici che possono durare anni. In genere la sessualità si configura come un'area problematica, sia perché corrisponde a un'attivazione viscerale, sia perché si accompagna a un coinvolgimento emozionale, sia perché è oggetto di regole morali; tutto ciò produce un aumento della vigilanza che può prendere forme diverse. Negli adolescenti che presentano disturbi somatoformi o anoressia nervosa il pattern è di tipo ambivalente (C); il comportamento parentale è caratterizzato da indefinitezza e confusione: le figure di attaccamento si mostrano frequentemente incapaci di comprendere correttamente o non disponibili ad accogliere le richieste del figlio. Di fronte a ciò al bambino costruisce schemi interpersonali in quella figura di attaccamento è ambivalente, indisponibile e intrusiva. Il senso di inattendibilità e inconsistenza di cui ci si sente pervasi esercita un ruolo chiave nel focalizzare l'attenzione su punti di riferimento esterni: l'attenzione selettiva è concentrata sul giudizio degli altri, temuto ma indispensabile, perché sembra l'unica possibilità di recuperare una stabile immagine di se, superando la diffusa sensazione di incertezza. L'identità personale è caratterizzata da un'estrema vulnerabilità alle disconferme. La caratteristica diistintiva riguarda l'incertezza nel definire le proprie emozioni e sensazioni, che risulta essere alla base del perfezionismo e dei meccanismi di autoinganno che contraddistinguono gli psicosomatici. Una simile modalità rende quasi impossibile l'esplorazione introspettiva richiesta nella fase adolescenziale. L'incapacità introspettiva porta a negare problemi psicologici e i soggetti sono incapaci di trattare un conflitto, un problema amoroso. È difficile anche esprimere la propria sessualità e l'affettività col partner è spesso desessualizzata, l'amore idealizzato con mitizzazioni del partner e delusioni al minimo fallimento. Le problematiche relative al corpo possono esasperasi: quando l'adolescente si concentra selettivamente sulla forma e sul peso del corpo ci troviamo di fronte a patologie riconducibili ai disturbi alimentari psicogeni. La possibilità di avere un'immagine corporea inaccettabile rappresenta il modo prevalente con cui soggetto dà forma a oscillazioni perturbanti che convogliano sensi di incapacità e incompetenza una volta che queste siano state innescata da confronti critici. Nell'adolescenza il disturbo più comune è quello psicosomatico: il corpo d'altronde non mai così importante come in questa fase e le informazioni che dà l'apparenza non sono da trascurare, perché l'apparire è socialmente cruciale. Il corpo gestito come immagine diventa una regolatore delle situazioni interpersonali, come per l'adolescente iper seduttiva che fa della fisicità il mezzo per la ricerca del consenso e per l'obesa che ostenta un corpo grasso a conferma della propria inaccessibilità sociale. L'attenzione al proprio corpo distoglie l'attenzione da stati di attivazione interna, generando difficoltà nel riconoscere l'eccitazione sessuale. Attaccamento disorganizzato-disorientato Allo stabilirsi di un attaccamento disorganizzato-disorientato possono contribuire diverse componenti che si manifestano i conflitti interni, memorie emotivamente coinvolgenti e intrusive, variazioni degli stati della mente, problemi di regolazione affettiva, stati di trance in risposta a situazioni stressanti. Tali forme di attaccamento si possono sviluppare in risposta a comportamenti dissociati e disorientati dal genitore, e non comportano necessariamente una storia di maltrattamenti infantili. A questa categoria tuttavia appartengono tipicamente soggetti che hanno subìto abusi fisici, sessuali o emotivi da parte dei familiari. Per questa ragione la figura di attaccamento e non può indurre tranquillità o sicurezza, in quanto è di per sé associata a sensazione di paura o terrore. Lo sviluppo di un attaccamento disorganizzato-disorientato può essere correlato sia a comportamenti violenti, sia a stati mentali confusi che cambiano rapidamente indipendentemente dai segnali trasmessi dal figlio. L'infanzia è caratterizzata da difficoltà nelle interazioni sociali con i coetanei, con comportamenti ostili o aggressivi. Nel caso di eventi traumatici che si verificano nei periodi successivi, l'atteggiamento di negazione dei familiari e l'impossibilità di parlare di queste esperienze possono far sì che il trauma non venga elaborato e continui a evocare elementi inpliciti che si accompagnano a reazioni comportamentali, emotive, percettive e somatiche delle quali l'individuo non è in grado di riconoscere l'origine. Si creano condizioni che interferiscono con lo sviluppo dui una mente coerente e favoriscono l'instaurarsi di tendenze dissociative. Nell'adolescenza la mancata elaborazione di perdite o eventi traumatici del passato influenza direttamente l'esperienze emotive, con rapidi cambiamenti degli stati della mente che portano a comportamenti disorganizzati e a esperienze di dissociazione dalla coscienza. Gli individui che presentano un attaccamento disorganizzato-disorientato e traumi non elaborati sono quelli più alto rischio per quello che riguarda lo sviluppo di disturbi psichiatrici significativi. Questi individui non sono in grado di creare un senso di unità e di continuità di se nel passato, nel presente nel futuro, o nelle relazioni con gli altri, e ciò porta a instabilità emotiva, disorganizzazione cognitiva scarsa capacità di reazione agli eventi stressanti. Spesso ci sono difficoltà di interazione sociale, con atteggiamenti di controllo ostili e aggressivi nei confronti dei coetanei. Nell'adolescenza il funzionamento del gruppo rappresenta un vero sistema di compenso che consente la normalizzazione del comportamento, anche se l'impalcatura individuale è più fragile di quanto non sia quella di qualunque altro adolescente. Le potenzialità relazionali insite in questa fase consentono di stabilire i principi di una forma di cura della quale è possibile avvalersi. In situazioni favorevoli la patologia premorbosa può esaurirsi quando sia possibile contare su un contesto relazionale articolato e sulla costruzione di un rapporto affettivo. Una prognosi più severa si ha in quelle situazioni in cui non è possibile disporre di fattori protettivi. Sessualità Le caratteristiche tipiche dell'innamoramento adolescenziale sono l'assolutezza e la rapidità del processo, così estreme da risultare difficile anche da ricordare soggettivamente, una volta che questo periodo sia diventato storia individuale. L'assolutezza è legata alla potenza e alla novità sia di sentimenti amorosi sia delle sperimentazioni sessuali: la scoperta dell'amore e del sesso rende tali esperienze prive di possibile confronto. Solo i coetanei possono capire cosa succede. La rapidità con cui ci si innamora perdutamente è pareggiata solo dall'altrettanta velocità con cui si passa da un amore a un altro amore, ogni volta con la piena certezza che durerà per il resto della vita. Come l'adolescente si percepisce? L'impostazione della risposta e legata a come il genitore eterologo si è comportato nei confronti del figlio quando questi è entrato in pubertà. Il rovescio della medaglia sta nell'impossibilità di un comportamento genitoriale ottimale; al genitore preoccupato che chiede consigli, il terapeuta raccomanda di continuare a voler bene al figlio, sganciando l'affetto da ogni rendiconto personale. Un adolescente il cui genitore eterologo si mostri indifferente, potrà nutrire scoraggianti dubbi sul proprio ruolo di attrattore sessuale. Un adolescente il cui genitore eterologo si mostri turbato e geloso, può sviluppare la consapevolezza del proprio fascino fisico, efficace premessa a una sessualità pienamente sviluppata. Un adolescente il cui genitore eterologo si dimostri spaventato e fuggitivo allo sviluppo sessuale, può cercare di inibirlo, rinunciando ad entrare nella dimensione sessuale per limitarsi a una manifestazione sottodimensionata. Di chi si innamora l'adolescente? La psicoanalisi sostiene che in una prima fase ci si innamora narcisisticamente di noi nell'altro, essendo attratti dalle parti di noi stessi che riconosciamo nell'oggetto amoroso. Questa attrazione per il simile potrebbe corrispondere a una familiarizzazione con una dimensione completamente sconosciuta. Una volta che l'elaborazione di sè nell'altro abbia tranquillizzato l'adolescente, questo può permettersi di entrare nella dimensione matura della sessualità, dove la diversità di genere è fonte di piacere e non di paura. Come e quando intervenire Nell'infanzia, i genitori, con le loro modalità di accudimento, influenzano il bambino delimitandone lo spazio di crescita; nell'adolescenza la persona può rimanere all'interno dello spazio di vita così com'è stato definito nella sua infanzia o sfruttare la crisi adolescenziale per riconquistare gradi di libertà. Questi possono aumentare grazie al partner, ma anche ad amici o figure significative, purché strutturalmente diverse dalle figure di riferimento sperimentate in famiglia. Le modalità relazionali infantili possono essere ribaltate ed è indice di vulnerabilità futura il non ampliare gli spazi inizialmente dati dei genitori. In quest'ottica la sofferenza nevrotica corrisponde una severa limitazione dello spazio di vita con irrigidimento dei confini. L'ampiezza della gamma di esperienze significative è protettiva rispetto alla rigidità emotiva e cognitiva. L'instabilità emotiva e la sensazione di crisi nell'adolescente sono considerati eventi passeggeri facenti parte di un processo di crescita; quando si perdono le caratteristiche fluttuanti le condotte problematiche si fossilizzano, c'è quindi il rischio che si verifichino battute d'arresto nel processo di maturazione. Su questo terreno possono innestarsi sintomi di una profonda sofferenza, come depressione, disturbi alimentari, attacchi di panico, di cui si ritrovano tracce già nell'infanzia. Questo può accadere anche per il susseguirsi di troppi eventi critici destabilizzanti. Quando il limite della propria flessibilità è raggiunto, e quando non siano disponibili figure di riferimento in grado di modulare dall'esterno la perdita interna di sintonia emotiva e cognitiva, diventa utile della psicoterapia. Il counseling Tra le problematiche adolescenziali che giungono allo psicologo sono alcune appartengono alla fascia clinica, mentre in altri casi si tratta di momenti di intenso disorientamento cognitivo-emozionale, legato a un processo di cambiamento che di per sé non è patologico. Tuttavia tali difficoltà possono interrompere o rallentare un processo evolutivo di cambiamento, rendendo tutto più problematico per l'adolescente. Tra gli adolescenti che giungono dallo psicoterapeuta in stato di sofferenza, solo per alcuni necessari un lavoro di riequilibrio profondo, mentre per i più è sufficiente il counseling psicologico, che concede loro il permesso di cambiare, eliminando divieti, sensi di colpa o razionalizzazioni che impediscono la maturazione. Non avremo una situazione di piena consapevolezza, l'analisi e l'accettazione di se saranno solo abbozzate, la comprensione dei propri processi mentali ed motivi rimarrà molto schematica, ma l'adolescente avrà ripreso il suo percorso di crescita. Potrà richiedere una psicoterapia in momento successivo. Il terapeuta che si dedica agli adolescenti deve prendere in considerazione la possibilità di un intervento di consulenza, rapido, meno profondo e con obiettivi più limitati. Anche il counseling utilizza la relazione per sviluppare la consapevolezza, ma la durata dell'intervento varia da pochi incontri, fino a 15-20. L'obiettivo è quello di aiutare l'adolescente a osservarsi, sfruttando la capacità di pensiero riflessivo che permette di mettere a fuoco il nucleo di un sé indipendente, la cui struttura è insieme somatica, cognitiva ed emotiva. Disagi dell'adolescenza sono strettamente in relazione allo scollamento che si verifica tra le varie componenti quando una prende il sopravvento sulle altre: l'adolescente va aiutato a raggiungere una maggiore flessibilità che gli conceda di integrare di volta in volta cognizioni ed emozioni in modo articolato. Il counseling ha una funzione di sostegno alla crescita, con interventi mirati a collegare le emozioni con le capacità cognitive acquisite: le correlazioni tra sensazione e avvenimenti che si sviluppano nell'adolescenza, l'elaborazione di aspettative e programmi di vita in base a queste correlazioni, fanno parte della funzione adattativa con cui l'individuo organizza le proprie modalità di conoscenza e permettono di completare quel senso di unicità necessario per differenziarsi. Il counseling ha finalità anche educative, connotate non tanto come cura quanto come rinforzo delle capacità necessarie a realizzare i compiti evolutivi. Si tratta di aiutare a comprendere e a rimuovere l'ostacolo che ha interrotto la corsa, identificando precocemente problemi prima dello sviluppo di disagi più gravi. Psicoterapia In generale non si tratta di dare un assetto definitivo, ma di rimettere il giovane paziente in linea di volo, e quindi interventi lunghi generalmente non più di un anno scolastico, sia pure con le dovute eccezioni. Si cerca di rendere elastico quello che i genitori hanno reso rigido, senza prevedere niente, ma solo aiutando a trovare la chiave della porta di uscita. La meta della terapia non è la guarigione, ma l'essere in grado di affrontare la vita. È possibile incontrare adolescenti sia feriti dai debiti purtroppo inestinguibili del passato, sia turbati dalle promesse minacciose o irrealistiche del futuro. Siamo convinti che la chiave del lavoro sta nel concentrarsi sul presente. Data la caratteristica brevità dell'intervento clinico, usualmente concentrate in pochi mesi, e che difficilmente supera la cinquantina di sedute, se una scelta prioritaria va fatta è quello di aiutare i giovani paziente a capire quello che sta succedendo ora, a costo di rinunciare a una piena ricostruzione del passato e a una stabile proiezione del futuro. Il criterio di accettazione non è basato sulla sintomatologia presentata, spesso altamente spettacolare, ma richiede di valutare attraverso il colloquio quanto il paziente stia effettivamente soffrendo. Il punto diventa comprendere quante chance abbia la persona di leggere il disagio senza scompensarsi, più che preoccuparsi di quanto appaia oggettivamente grave la situazione. La terapia cognitiva si svolge attraverso le dimensioni temporali dell'analisi del passato, utile per comprendere la propria storia personale e le esperienze che nel tempo hanno portato all'attuale stato di malessere; l'analisi del presente, con la comprensione dei sintomi attuali, sperimentando un diverso modo di essere all'interno della relazione terapeutica; la focalizzazione sul futuro, esplorando diverse possibilità di comportamento fuori dalla seduta. A volte l'ostacolo dello sviluppo è la nostalgia di un'infanzia sentita come piacevole e protetta. Spesso le caratteristiche di esperienze relazionali negative vissute nell'infanzia sono all'origine di emozioni legate a rabbia, paura, disorientamento. Provando a muoversi all'esterno del setting in più ampi spazi di vita, il paziente comincia a considerare gli insuccessi come facenti parte del tessuto della vita, e non come strappi irrecuperabili. Nell'adolescenza l'analisi del passato può essere condotta in modo molto meno approfondito che con il paziente adulto. L'adolescente propone una personalità in rapida modificazione, ricca di esplosioni emotive e non si ha il tempo di compiere analisi in profondo: appena un punto nodale è intuito, viene inglobato superato e con una nuova urgenza se ne presenta un altro. La chiave sta nel concentrarsi sul presente, sulle richieste alle quali gli adolescenti devono rispondere giorno per giorno. Il giovane paziente, al fine di ridurre l'ampiezza della sofferenza, può cercare di dominare l'esplosiviità emozionale, tentando di potenziare gli aspetti più razionali e tranquillizzanti della sua personalità. Compito del terapeuta è di aiutarlo a rinunciare a tale impresa per puntare sull'imparare a riconoscere e a vivere le proprie emozioni, accettandole come componente preziosa della vita. Una delle maggiori preoccupazioni che un adolescente ha in questa fase è di non essere normale: le fluttuazioni emotive e cognitive lo disorientano per la loro imprevedibilità, la costruzione dell'immagine di sé è ancora in una fase iniziale. Al terapeuta spetta dare un senso alla crisi permettendo il paziente di riconoscere e spiegarsi vissuti ed emozioni e di rassicurarlo sul fatto che non gli sta succedendo niente di patologico. La relazione terapeutica Nella richiesta d'aiuto da parte di un adolescente non c'è sempre una piena consapevolezza. L'adolescente ha maggiori difficoltà a manifestare il suo disagio, per paura di essere giudicato inadeguato o malato, e per le difficoltà introspettive tipiche dell'età. Si può osservare che da parte sua non sempre è condivisa la richiesta di consultazione. Il colloquio è comunque un'occasione che non va da considerarsi perduta: per l'adolescente è già difficile accettare di parlare per un tempo prestabilito dei propri problemi con una persona adulta. A volte la consultazione è preceduta dalla telefonata del genitore che spesso accompagna in sede di colloquio il figlio. Il ruolo del terapeuta non deve essere di tipo genitoriale perché ciò implica una squilibrata assunzione di responsabilità con conseguente deresponsabilizzazione del paziente e pone il terapeuta davanti al problema dell'intervento concreto, che va oltre il suo compito. Il rischio opposto è rappresentato da uno stile di relazione amicale. I rapporti, per funzionare, devono rimanere asimmetrici. Primo obiettivo del terapeuta è quello di facilitare la costruzione di un sé autonomo, liberando il giovane paziente dagli ostacoli interni che rallentano e impediscono l'impresa. Si tratta di un cammino non lineare e il processo di creazione del sé implica sia fenomeni progressivi che regressivi. Il compito del terapeuta consiste nell'aiutare il suo paziente ad accettare di diventare responsabile di se stesso. Per queste ragioni è raccomandato l'uso del " lei ", che serve a ribadire che l'adolescente è trattato dal terapeuta come l'adulto che ancora non è ma del quale ha già tutta la dignità. La relazione terapeutica deve essere efficace nell'aiutare l'adolescente a mettere a fuoco i giochi giocati, con particolare attenzione a quelli disfunzionali, con l'obiettivo di favorire l'acquisizione di una maggiore flessibilità. Quindi una relazione rispettosa dell'adolescente dovrebbe essere priva di discriminazione tra bene e male, tesa al disincagliamento del giovane paziente, grazie alla mobilitazione di risorse appena intuibili, mascherate dall'inconsapevolezza di sé.