BREVI NOTE SU COMMA 1 bis DELL`ARTICOLO 1 DELLA LEGGE N

FABIO CINTIOLI
L’AMMINISTRAZIONE E IL DIRITTO PRIVATO
BREVI NOTE SUL COMMA 1 bis DELL’ARTICOLO 1 DELLA
LEGGE N. 241 DEL 1990:
(dopo la novella di cui alla legge 11 febbraio 2005, n. 15)
SOMMARIO: 1. I lavori preparatori. 2. Le prime interpretazioni della dottrina. La
prevalenza del diritto privato. 3. Incertezze del testo. 4. Principio di legalità e
generalità della capacità di diritto privato della P.A.. 5. Alcune implicazioni: i
contratti atipici della P.A.. 6. Segue: evidenza pubblica e accordi ex art. 11 l. n.241
del 1990. 7. Negozio unilaterale e diritto privato. 8. Privatizzazione e
semplificazione procedimentale.
1. Già durante la XIII legislatura il Parlamento aveva discusso
un progetto di riforma della legge sul procedimento amministrativo
che conteneva una norma di principio dedicata ad una non meglio
precisata prevalenza del diritto privato nel campo dell’attività della
P.A.. Questa disposizione, sin dal suo primo apparire, ebbe a destare
molte preoccupazioni, talora aperte critiche, talora addirittura un vero
e proprio sconcerto in chi, dal punto di vista dello studioso del diritto
amministrativo, faticava a comprendere come potesse mai il
legislatore decidere di abbandonare (con tanta enfasi!) il modello del
diritto pubblico a favore del modello del diritto privato. Nelle
interpretazioni più spericolate si propendeva addirittura per intuire una
direttiva legislativa che avrebbe sostanzialmente sostituito la figura
del negozio di diritto privato a quella del provvedimento. Era
inevitabile, allora, che si disputasse di un tramonto del diritto
amministrativo, di una debellatio degli interessi legittimi, di una
drastica riduzione degli spazi occupati dalla giustizia amministrativa.
I timori, dunque, paventavano una crisi davvero forte della
categoria del provvedimento amministrativo.
Forse è proprio per questo motivo che l’iter che ha preceduto la
definitiva approvazione, da parte della Camera dei deputati, del
disegno di legge Berlusconi, Frattini e altri (3890) ha visto mutare più
volte il tenore della disposizione in oggetto. Il punto di approdo, che
oggi si cristallizza nel disposto del comma 1 bis dell’articolo 1 della
legge 241 del 1990, è comunque il seguente: “La pubblica
amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa,
agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga
diversamente”.
2. In verità, il tenore letterale non dovrebbe più assecondare le
preoccupazioni di cui si è detto.
E’ utile partire dal punto di vista della dottrina che, a pieno
titolo, può dirsi ispiratrice di questa novità (V. Cerulli Irelli). La
norma vorrebbe significare un’inversione di tendenza rispetto
all’impostazione tradizionale, secondo la quale il diritto pubblico è il
diritto
normale
dell’amministrazione
e,
in
caso
di
dubbio
interpretativo, sono sempre le norme di diritto pubblico a doversi
applicare da parte delle pubbliche amministrazioni e non quelle di
diritto comune. Si parte dall’assunto che, prima di questa innovazione
normativa, la regola fosse per tutte le pubbliche amministrazioni
quella dell’agire secondo il diritto pubblico mentre l’agire secondo il
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diritto privato sarebbe stato solo un’eccezione, da circoscrivere ai casi
espressamente previsti dalla legge. Sebbene questa stessa dottrina
riconosca che la tesi della prevalenza del diritto pubblico era stata
superata sia nella prassi applicativa sia nelle proposte dottrinali e nelle
decisioni della giurisprudenza, l’importanza del citato comma 1 bis
starebbe comunque nel fatto che il tradizionale rapporto tra regola e
eccezione sarebbe ormai per tabulas ribaltato. La regola sarebbe,
dunque, l’azione mediante atti di diritto privato e l’eccezione,
puntualmente prevista dalla legge, l’azione mediante gli strumenti del
diritto pubblico. Dal momento che, da sempre, la pubblica
amministrazione ha agito utilizzando, secondo le esigenze e
preferenze del caso, talora il diritto pubblico e talaltra il diritto privato,
l’effetto della innovazione si farebbe sentire soprattutto in quei casi
che, si dice testualmente, “si pongono al di fuori dell’ambito dei poteri
autoritativi”. Si propone l’esempio del procedimento amministrativo
che culmina in un provvedimento di concessione come soluzione
alternativa rispetto alla stipula di un contratto di affitto o di locazione;
nonché
il
procedimento
amministrativo
che
si
chiude
con
l’aggiudicazione al concorrente prescelto dall’amministrazione quale
contraente di un appalto pubblico come alternativa alla conduzione di
comuni trattative negoziali di diritto privato.
La dottrina citata aggiunge altresì che questa disposizione, pur
non avendo ovviamente la stessa forza che sarebbe derivata da una
norma di rango costituzionale, esprime un principio tendenziale
dell’ordinamento. Come conseguenza di ciò, il comma 1 bis sarebbe
operativo proprio in quei rapporti che l’amministrazione può
instaurare e utilmente disciplinare attraverso strumenti negoziali di
diritto privato. Più precisamente, esso potrebbe trovare applicazione in
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tutti i casi in cui lo strumento autoritativo possa essere sostituito a
quello negoziale. In breve, per via di tale innovazione – è questa la
tesi di fondo – lo strumento negoziale andrebbe sempre, ove possibile,
privilegiato e preferito al provvedimento autoritativo.
Da questa ricostruzione – e seguendone i confini concettuali –
dovrebbero potersi trarre anzitutto alcune implicazioni.
La
prima
è
che,
molto
probabilmente,
quando
l’amministrazione abbia la facoltà di scegliere tra l’atto negoziale e
l’atto provvedimentale, l’opzione a favore del secondo debba essere
non
soltanto
puntualmente
fondata
sulla
legge
ma
anche
adeguatamente motivata. Se fosse vero che il legislatore esprime una
sua preferenza per gli strumenti del diritto privato su quelli del diritto
pubblico, l’amministrazione dovrebbe sempre trovare idonee ragioni
per discostarsi da siffatta linea. Il provvedimento amministrativo, che
fosse emanato senza i presupposti che si sono indicati, in luogo di un
ipotetico negozio di diritto privato potrebbe allora dirsi illegittimo per
violazione dell’articolo 1 comma 1 bis della legge 241 del 1990. Si
immagini che l’amministrazione abbia perfezionato una concessionecontratto in luogo di una locazione. Tale concessione sarebbe sì
efficace ma, a quanto pare, annullabile ed esposta all’impugnazione
davanti al giudice amministrativo. Sempre che ovviamente si riesca a
trovare un soggetto che possa dirsi leso da questo provvedimento ed
interessato alla sua caducazione, per favorire in suo luogo la scelta
negoziale.
La seconda implicazione che possiamo trarre riguarda, più
strettamente, l’attività interpretativa. Concerne, in particolare, la
qualificazione del rapporto tra amministrazione e privato quando non
vi sia un’assoluta certezza riguardo alla natura privatistica o
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provvedimentale dell’atto che si assume quale fonte degli effetti
giuridici. In più occasioni, in verità, la giurisprudenza è stata chiamata
a definire il significato e la natura giuridica di clausole denominate di
revoca o di recesso configurate a favore dell’amministrazione:
l’alternativa era quella che contrapponeva la configurazione di un
potere di revoca, appartenere al genus dell’autotutela, a quella di una
facoltà di recesso di carattere privatistico, fondata sulla norma
generale dell’art. 1373 cod. civ.. Ebbene, in casi di questo tipo la
preferenza legislativa per il diritto privato (sempre che una tale
preferenza effettivamente si voglia desumere dal comma 1 bis)
dovrebbe indurre l’interprete a ricostruire il rapporto secondo gli
schemi di tale partizione dell’ordinamento. Si tratterebbe di una
tecnica che risponde oltretutto al canone generale dell’interpretazione
conservativa di cui all’art. 1367 cod. civ., inteso quale criterio che
orienta, nei limiti del possibile, verso un’interpretazione del negozio
(come del provvedimento) in coerenza con la volontà della legge.
3. Fin qui, si è seguita l’impostazione dottrinale che è stata, per
più aspetti, centrale nei lavori preparatori. Impostazione che non
possiamo ancora, di certo, dire ad oggi prevalente, senza che si
sottovaluti per questo l’influenza culturale accentuata che ha finora
avuto.
Dobbiamo adesso prendere in considerazioni altre possibilità
ricostruttive.
Il primo problema dal quale dovrebbe partirsi per tentare una
ricostruzione attendibile concerne proprio il carattere innovativo che si
è voluto riconoscere alla disposizione.
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Sul piano testuale, vi sarebbe anzitutto la possibilità di
osservare che il legislatore, enunciando all’amministrazione la strada
del diritto privato solo quando non adotta “atti di natura non
autoritativa”, non ha affatto espresso una preferenza per gli strumenti
negoziali: il diritto privato occupa solo lo spazio che non è impegnato
dagli atti imperativi. Questa linea di interpretazione condurrebbe a una
strada esattamente opposta a quella che si è prima esposta, poiché
potrebbe confortare un modello generale nel quale l’amministrazione
opera, di regola, mediante atti autoritativi e percorre, solo quando essi
manchino, la via del diritto privato. Simile lettura non sarebbe, a dire
il vero, così peregrina, se solo si tenga conto dell’andamento oscillante
dei lavori preparatori e delle perplessità che l’iniziale apertura a tutto
campo verso il diritto privato aveva provocato. Insomma, vi sarebbe la
tentazione di dire il Parlamento, con le correzioni da ultimo apportate,
avrebbe proprio voluto scongiurare il rischio di una subalternità del
diritto pubblico rispetto al diritto privato.
Credo però che sia errato farne una questione “di bandiera” e
che, fin quando è possibile, debba valere il canone interpretativo
secondo il quale, se il legislatore ha emanato una norma, ha inteso
innovare l’ordinamento piuttosto che consacrare una realtà già vigente
(una realtà, peraltro, che si è prima definita tradizionale ma che
appare, come si ribadirà tra un attimo, piuttosto incerta e claudicante
alla luce del “diritto vivente”).
Si aggiunga che, sempre sul piano letterale, la disposizione si
chiude con l’inciso “salvo che la legge disponga diversamente”. Da
esso potrebbe aliunde trarsi una propensione del legislatore a fare
dell’attività di diritto privato la regola e non l’eccezione per l’azione
della pubblica amministrazione.
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4. Ciò detto, i dubbi sulla reale portata innovativa di questa
norma non svaniscono affatto.
Se è vero che gli atti di diritto amministrativo si distinguono da
quelli di diritto privato per il loro carattere imperativo e dunque per la
possibilità di fruire di uno speciale regime pubblicistico che munisce
l’amministrazione di poteri unilaterali in grado di incidere
direttamente nella sfera giuridica del privato, non dobbiamo
dimenticare che questa prerogativa delle pubbliche potestà in tanto è
riconoscibile in quanto rispetti il principio di legalità. E’ la legge che
deve giustificare l’esercizio di poteri amministrativi. E’ solo la legge
che può fondare un potere unilaterale che sia in grado di intaccare la
sfera giuridica di un soggetto senza il suo consenso. Posto questo dato,
quel che non convince del tutto è proprio la premessa da cui parte la
dottrina che si è citata per trarne il novum della disposizione. Non
persuade, insomma, che la regola antecedente all’entrata in vigore del
comma 1 bis sia quella di una generalizzata potestà pubblica e
l’eccezione quella di un’azione secondo il diritto privato. Nei manuali
classici si scrive che la pubblica amministrazione per la realizzazione
dei suoi fini si avvale, oltre che della potestà pubblica (di cui può
disporre soltanto entro l’ambito stabilito dal legislatore), altresì degli
strumenti giuridici che sono ordinariamente propri della generalità dei
soggetti dell’ordinamento, e quindi anche dei soggetti privati (A.M.
Sandulli). Il principio di legalità, negli scritti dottrinali (C. Marzuoli) e
in alcuni arresti giurisprudenziali (Cons. Stato, Ad. Plen. n.4 del
1999), è stato esteso anche al campo del diritto privato, perlomeno nei
termini in cui serve ad imporre alla P.A. un vincolo di scopo. E’ in
questo senso che si parla di una funzionalizzazione al pubblico
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interesse come requisito che nel contempo sostituisce la vecchia
imperatività e rende omogenee le attività di diritto pubblico e di diritto
privato. Ma è indubbio che il principio di legalità valga soprattutto per
quegli atti che, in linea con la tradizione, si mantengono ancor oggi
entro la sfera dell’imperatività e partecipano così di quella speciale
attitudine ad incidere unilateralmente nella sfera individuale dei suoi
destinatari. Il principio di legalità resta il principale contrappeso
istituzionale di quello speciale regime che connota l’attività di livello
amministrativo. Da ciò ne deriva che l’ordinamento, ben prima della
legge n. 15 del 2005, consente alla P.A. di porre in essere atti
autoritativi solo quando la legge lo concede (pur in quelle diverse
misure che rispondono al livello formale o sostanziale del principio di
legalità medesimo), mentre alla stessa P.A. è riconosciuta una
generale capacità di diritto privato alla stregua di tutte le altre figure
soggettive, siano esse persone fisiche, persone giuridiche, o enti privi
di personalità e aventi comunque soggettività giuridica.
Le osservazioni che precedono mi inducono allora ad affermare
che quella sorta di preferenza per il diritto privato non è, di per sé, una
novità assoluta. O meglio, non è una novità se in essa si vuol leggere
un’apertura
senza
limiti
alla
capacità
di
diritto
privato
e
contemporaneamente un ancoraggio delle potestà pubbliche alle
previsioni della legge. Tuttalpiù, si potrà vedere nel comma 1 bis un
segnale di rafforzamento del principio di legalità. Circa la possibilità
che questo comma possa anche fondare un esplicito favor per il diritto
privato quando la legge offra la strada del diritto pubblico, non mi
sembra che si possano condividere affermazioni radicalmente positive,
esposte in via di principio e senza deroghe. Se la legge consente
all’amministrazione
di
porre
in
essere
un
provvedimento
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amministrativo, sembra davvero difficile opporre un ostacolo ulteriore
che si volesse desumere dal comma 1 bis, in nome del fatto che la
bandiera del diritto privato debba elevarsi su quella del diritto
pubblico. Se in virtù del principio di legalità l’amministrazione può
emanare un provvedimento amministrativo per ottenere un certo
risultato, non è possibile bloccarla per la semplice ragione che quello
stesso risultato potrebbe essere conseguito anche mediante il diritto
privato. E’ vero che, in concreto, lo strumento negoziale privatistico
potrebbe rivelarsi più idoneo allo scopo. Ed è anche vero che, in
concreto,
ciò
porrebbe
all’amministrazione
un
problema
di
motivazione ad hoc, senza la quale la scelta a favore del
provvedimento potrebbe esser censurata. Riassumendo, quando la
legge consente all’amministrazione di emanare un provvedimento
amministrativo per raggiungere i suoi fini, non può dirsi che la
coesistente chance della praticabilità di un negozio di diritto privato
venga a menomare, di per sé, la potestà provvedimentale; anche se, in
omaggio ai principi generali, l’amministrazione è tenuta a motivare il
provvedimento e, se del caso, a spiegare le ragioni che l’hanno indotta
a preferirlo al negozio, specie se questo fosse stato più duttile e
apparentemente meglio idoneo al raggiungimento del risultato. A ben
vedere, queste condizioni cui è subordinata la “strada pubblicistica”
rispetto a quella “privatistica”, non derivano come implicazione di una
innovativa preferenza legislativa per l’azione di diritto privato (come
sopra si era supposto); non derivano, in verità, dal nostro comma 1
bis; bensì, derivano soprattutto dal canone generale di ragionevolezza
e proporzionalità che guida l’azione amministrativa e dalla norma
generale sull’obbligo di motivazione.
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5. Alla luce di queste considerazioni, la novità normativa
potrebbe apparire piuttosto deludente ed eccessive, alla prova dei fatti,
le preoccupazioni che l’hanno preceduta. Ancora una volta, però,
l’interprete, per quanto sembra divenire sempre più difficile, deve aver
fiducia nel suo legislatore e continuare a pensare che le sue parole non
siano né pleonastiche né sprecate. Pertanto, si devono esplorare alcuni
aspetti applicativi sui quali la norma può esercitare una certa qual
influenza.
Potrebbe in primo luogo accogliersi l’idea che, per effetto di
questa disposizione, non vi sia più ragione di limitare la facoltà della
P.A. di stipulare contratti non previsti dalla legge né di coltivare
quella “paura dell’atipico” che in varie occasioni ha contaminato non
solo la giurisprudenza civile, ma, per l’appunto, anche quella
amministrativa. E’ ben nota la tendenza delle amministrazioni, durante
questi ultimi anni, di sperimentare nuove forme contrattuali, le quali
sfuggono ai modelli previsti dalla legge. Non ci si accontenta più di
stipulare, separatamente, un appalto pubblico di lavori, o di forniture o
di servizi, ma si tende ad assorbire in un contratto unico e globale una
pluralità di prestazioni. Proliferano così gli appalti misti ed i c.d.
global service. Analogamente, partecipa di questo contenuto
indefinito quella figura di contraente generale (diffusamente nota
come general contractor), che è stata introdotta nella legge n.443 del
2001 (legge obiettivo) e nel d. lgs. n.190 del 2002. L’affidamento al
contraente generale del compito di realizzare una grande opera
infrastrutturale è sì un fenomeno negoziale previsto dalla legge, e
dunque tipico da questo punto di vista. Ma la stessa legge non ne
definisce puntualmente il contenuto e lo lascia indefinito, ammettendo
che possa sostanziarsi, secondo i casi, di attività e prestazioni molto
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diverse: dalla attività costruttiva in senso stretto alla acquisizione di
servizi accessori, dalla progettazione alla raccolta di capitale (di
rischio o di credito) sui mercati finanziari. Anche qui, dunque, è dato
riscontrare una certa atipicità sostanziale del contratto, da cui
possiamo evincere una realtà ben distante da quella più tradizionale, di
un contratto avente un precisa identità giuridica, basato su prestazioni
predeterminate dal legislatore e sottoposto ad una disciplina
abbastanza dettagliata. Si ricordi, ancora, l’affidamento del servizio di
tesoreria che, a causa del progressivo spostarsi del vantaggio
economico a favore degli istituti bancari che fruivano di un maggior
“credito” sulla piazza e di un considerevole indotto, si è arricchito di
una posta economica a carico del medesimo istituto affidatario del
servizio. Si è creata in tal caso una situazione opposta a quella che
contraddistingue sul piano strutturale il contratto di appalto di servizi,
cui si soleva ricondurre questa fattispecie: il corrispettivo in denaro
non era più posto a carico dell’appaltante, ma a carico dell’appaltatore
ed i bandi di gara hanno iniziato a tener conto, quale parametro di
giudizio, non solo della misura dei tassi ma della entità di questa
erogazione in denaro. Proprio in questa circostanza la giurisprudenza
mostrò la sua “paura dell’atipico”; segnatamente, accadde in una
sentenza del Consiglio di Stato del 1996 (Cons. Stato, sez. V, 20
agosto 1996, n.937) nella quale l’obbligo di pagare una somma di
denaro posto a carico dell’affidatario venne ritenuto come un
elemento tale da snaturare la causa del negozio. Solo mediante la
costruzione di un contratto accessorio (e spesso fittizio) di
sponsorizzazione è stato possibile porre fine alla questione in una
successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen.,
n.6 del 2002).
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Questa parentesi è servita a spiegare meglio quale fosse
l’enunciata linea di tendenza delle amministrazioni. E il comma 1 bis
può servire a chiarire, una volta per tutte, che tale tendenza è
assolutamente legittima e che può essere senz’altro assecondata.
L’affermazione del legislatore che apre, senza remore, alla P.A. le
strade del diritto privato, sgombra ogni possibile dubbio circa
l’applicabilità dell’art. 1322 cod. civ. in tutta la sua portata, ivi
compreso il comma 2, secondo il quale le parti possono concludere,
oltre ai contratti previsti dalla legge, anche contratti che non
appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano
diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico. L’amministrazione, al pari dei privati ha la facoltà di
formare e concludere contratti innominati, purché sia superato il
vaglio di meritevolezza. Per molti versi, è addirittura opportuno che
l’amministrazione sperimenti questa via, quando sia utile, ad esempio,
per cogliere meglio il risultato o per ottenere un risparmio di spesa; il
che equivale a dire quando sia coerente con il principio di efficienza
ed efficacia e con quello di economicità.
La conclamata ampiezza della capacità di diritto privato
comporta anche la piena possibilità di utilizzo, per la P.A., di alcune
figure contrattuali che sono state spesso viste con sospetto. Tra queste,
in particolare, richiamo il contratto di transazione, nelle due forme
della transazione pura (art. 1965, comma 1, cod. civ.) e mista
(art.1965, comma 2, cod. civ.). Va da sé che restano assolutamente
intatte le disposizioni che impongono alle amministrazioni speciali
adempimenti per transigere, come quelle relative al parere preventivo
dell’Avvocatura dello Stato.
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6. Il nuovo comma 1 bis invece, non incide sugli spazi di
applicazione delle procedure di evidenza pubblica, che attengono alla
formazione della volontà della P.A. ed alla scelta del contraente. Il
fatto che l’amministrazione abbia la possibilità di utilizzare tutti gli
strumenti negoziali che il diritto privato pone a disposizione di tutti i
consociati non toglie che la disciplina comunitaria e interna ben possa
esigere il rispetto di un modulo procedimentale per la scelta del
contraente in tutta una serie di casi.
Parimenti, il comma 1 bis non comprime l’ambito di
applicazione e le chance di utilizzo degli accordi di cui all’art. 11
della legge n.241 del 1990. In primo luogo, la novità normativa che
qui commento è riferibile solo ai negozi di diritto privato, sicché ne
resta fuori il caso dell’art. 11 nel quale l’amministrazione apre il
procedimento per l’esercizio di una funzione pubblica che attiene ad
attività “autoritativa” e decide di sostituire od accompagnare al
provvedimento unilaterale un accordo cui si applicano i principi del
codice civile in materia di obbligazioni e contratti “in quanto
compatibili”. In secondo luogo, sarebbe contraddittorio assegnare alla
legge n.15 del 2005 una volontà di ridurre la sfera degli accordi in
favore di una maggiore diffusione dei negozi di diritto privato, perché
è questa stessa legge che, all’art.7, ha manifestato una opzione di netto
favore per la pratica degli accordi con l’ammettere una generalizzata
conclusione di quelli di tipo sostitutivo, i quali prima erano possibili
solo nei casi previsti dalla legge.
7. Mi sembra molto importante, in proposito, chiarire che una
conclusione certamente non potrà desumersi dal comma 1 bis: che
l’apertura privatistica possa via via sostituire ai classici provvedimenti
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amministrativi unilaterali altrettanti (e non meglio identificati) negozi
unilaterali di diritto privato. La norma non può assolutamente spiegare
un effetto di tale portata.
Anzitutto non si dimentichi che il provvedimento unilaterale,
col suo speciale regime pubblicistico, riassume il proprium del regime
di diritto amministrativo e riconosce alla P.A. ciò che non è ammesso
per ogni altro soggetto giuridico nelle relazioni interprivate: di
incidere sulla sfera giuridica del destinatario senza il suo consenso. E’
proprio la speciale forza che si assegna all’amministrazione che
richiede, a monte, la previsione di una legge che valga a fondare
queste prerogative ed a far salvo il principio di legalità. In tanto
l’amministrazione espropria l’altrui fondo od esegue coattivamente la
sua volontà sul patrimonio del privato senza il filtro giudiziale, in
quanto una legge lo consenta.
E’ vero che il comma 1 bis ci ricorda che, al di fuori di questi
casi, l’amministrazione ha la facoltà di concludere tutti i negozi
previsti in diritto privato, senza limitazioni. Le norme di riferimento
sono due: l’art.1324 cod. civ., secondo cui, salvo diverse disposizioni
di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto
compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto
patrimoniale; e l’art.1987 cod. civ., secondo cui la promessa
unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori fuori dei
casi ammessi dalla legge. Da questo combinato disposto la tradizione
civilistica ci consegna il principio, a tutt’oggi valido, della tipicità dei
negozi unilaterali. Il negozio unilaterale non è possibile ad arbitrio di
chi lo voglia concludere, ma può trovare spazio solo nei casi (molto
rari e circoscritti) previsti dalla legge. Questo principio si salda con
quello dell’intangibilità della sfera giuridica altrui, il quale trova la sua
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più evidente affermazione nella contrattualità della donazione e nella
disciplina del contratto a favore di terzo (art. 1411 e ss. cod. civ.) e del
contratto con obbligazioni a carico del solo proponente (art. 1333 cod.
civ.). Più precisamente, da questi istituti si trae il principio per cui
l’intangibilità della sfera giuridica altrui tollera solo effetti favorevoli
rispetto ai quali sia fatta sempre e comunque salva la facoltà di rifiuto
del destinatario di essi.
Tutto ciò dimostra, allora, che il diritto privato potrà certamente
giovare alla P.A., ma che esso le consentirà, in concreto, solo di
concludere dei contratti. Di procedere insomma secondo linee
tutt’altro che rivoluzionarie e ben note e sperimentate. Sia concessa
una semplificazione: quando vi è la disponibilità del privato per un
accordo, si potrà utilmente stipulare un contratto, altrimenti resta,
sempre che la legge lo ammetta, la strada dell’atto amministrativo
autoritativo e unilaterale per conseguire quel dato risultato. Il che, alla
fine, torna a convalidare l’osservazione che la portata innovativa della
disposizione è alquanto contenuta e che la presenza del diritto privato
non è destinata a così grandi ampliamenti.
8. L’esame dei lavori preparatori, infine, avalla l’idea che
l’indicazione
legislativa
di
una
strada
privatistica
per
l’amministrazione abbia una valenza di carattere non strettamente
giuridico, ma pragmatico; direi, quasi sociologico, od economicosociale. Quando si spinge l’amministrazione ad agire secondo il diritto
privato, si evoca l’idea di una privatizzazione della cosa pubblica, un
modello
di
maggiore
speditezza
e
semplicità
dell’azione
amministrativa. E’ ben possibile che culturalmente questa norma sia
da qualcuno ascritta al filone che ha perorato nel corso dell’ultimo
15
decennio
un
processo
di
privatizzazione
(soggettiva)
e
deregolamentazione e liberalizzazione (oggettiva) nei rapporti tra P.A.
e privato. Va da sé che, però, questo intento è difficilmente traducibile
in un contenuto precettivo ben preciso della disposizione. La
questione dogmatica è una strettoia cui il giurista non può sottrarsi.
Agire secondo il diritto privato può significare solo quel che si è detto
in precedenza.
Nonostante ciò, non mi pare debba escludersi in modo radicale
che da questa idea di fondo possano trarsi indicazioni utili per
l’interpretazione della norma in questione. Si è spesso parlato, specie
in questi ultimi anni, di una concezione che proietta l’amministrazione
verso il risultato anziché verso il rigido e formale rispetto delle regole.
Ebbene, credo che l’indirizzo che si trae da una norma di questa
natura possa, in qualche misura, collimare con queste tendenze. Non
dimentichiamo che essa è stata inserita nel corpo dell’articolo 1 della
legge n.241: norma d’esordio recante principi in una legge di principi.
Sicché ben potrebbe essere interpretata come una disposizione che
accoglie e rafforza alcune linee di fondo le quali ispirano altrettanti
principi
dell’attività
amministrativa.
Penso,
ad
esempio,
al
rafforzamento della efficacia, efficienza ed economicità, come
variabili che devono poter orientare, quando serva, l’amministrazione
verso il diritto privato. Ma penso anche al valore della flessibilità,
elasticità e soprattutto della semplificazione procedimentale, quale
cardine e parametro di orientamento della moderna amministrazione
in uno Stato che appare sempre di più caratterizzato da elementi di
complessità e varietà degli interessi.
Sulla semplificazione procedimentale, in verità, il discorso
dovrebbe essere più ampio. I tempi attuali dimostrano che questo
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principio è non soltanto molto importante, ma probabilmente
irrinunciabile per assicurare il normale funzionamento delle nostre
amministrazioni.
Si consideri anzitutto il disposto dell’art. 29 della legge n.241
del 1990, come novellato, anch’esso, dalla legge n.15 del 2005.
“29. Àmbito di applicazione della legge.
1. Le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti
amministrativi che si svolgono nell'àmbito delle amministrazioni
statali e degli enti pubblici nazionali e, per quanto stabilito in tema di
giustizia amministrativa, a tutte le amministrazioni pubbliche.
2. Le regioni e gli enti locali, nell'àmbito delle rispettive competenze,
regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del
sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi
dell'azione amministrativa, così come definite dai princìpi stabiliti
dalla presente legge”.
Da questa disposizione parrebbe doversi trarre una sorta di
arretramento della l. 241 dal campo (davvero sterminato) dell’azione
amministrativa degli enti non statali. Regioni, enti infraregionali ed
enti locali, in particolare, dovrebbero, ciascuno secondo le proprie
competenze, dettare autonome regole sul procedimento ed in questo
risulterebbero vincolati solo dai principi desumibili dalla medesima l.
241 i quali, a loro volta, siano legati al sistema costituzionale ovvero
alla tenuta delle garanzie del cittadino. Questa scelta del legislatore
statale
è
stata
evidentemente
influenzata
dalle
disposizioni
costituzionali dell’art.117 sulle competenze legislative delle Regioni e
regolamentari degli enti locali. Indubbiamente, l’opera di selezione e
definizione di principi da svolgersi in un campo occupato da una legge
(la 241, per l’appunto) che è già, essa stessa, legge di principi, non
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sarà affatto agevole. Le complicazioni saranno inevitabilmente
numerose e con esse le incertezze per le amministrazioni e per gli
operatori. Tuttavia, mi sembra indubbio che tra i principi vincolanti vi
siano non solo quelli espressamente e puntualmente descritti come tali
nel testo della 241. Si pensi, in particolare, a quelli di cui all’art.1. Ma
che vi possano e vi debbano essere anche principi che siano non scritti
e comunque desumibili dal testo. Tra questo vi è indubbiamente il
principio di semplificazione procedimentale. Esso si impone come un
valore dominante al legislatore regionale ed alla produzione
regolamentale degli enti territoriali minori. La semplificazione
comporta anzitutto alcuni corollari di ordine generale, come in
particolare
il
divieto
di
aggravare
senza
giustificazione
il
procedimento. Essa è però anche un valore immanente in ogni aspetto
del procedimento e del rapporto tra cittadino e P.A.. Proietta così i
suoi effetti anche nel rapporto tra più amministrazioni diverse, le
coinvolge necessariamente in una visione d’insieme, le vincola a
provvedere insieme ed in unico contesto. Il modello dello sportello
unico diventa così obbligatorio per il legislatore regionale e per i
regolamenti degli enti locali. Il principio di fondo è quello per cui il
cittadino dev’essere posto in condizioni di avere nell’amministrazione
un interlocutore unitario, anche quando il procedimento prevede una
pluralità di competenze.
La semplificazione procedimentale, inoltre, è un principio che
riflette, al livello dell’azione amministrativa un altro principio
costituzionale di grande importanza, sul quale la Corte Costituzionale
ha ormai inteso basare l’intero sistema risultante dal nuovo titolo V: il
principio di leale collaborazione. Sicché io metodo dei raccordi tra più
centri di competenza, degli accordi, della negoziazione tra
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amministrazioni e tra amministrazioni e privato nell’esercizio delle
funzioni pubblicistiche è posto necessariamente in primo piano.
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