FABIO CINTIOLI L’AMMINISTRAZIONE E IL DIRITTO PRIVATO BREVI NOTE SUL COMMA 1 bis DELL’ARTICOLO 1 DELLA LEGGE N. 241 DEL 1990: (dopo la novella di cui alla legge 11 febbraio 2005, n. 15) SOMMARIO: 1. I lavori preparatori. 2. Le prime interpretazioni della dottrina. La prevalenza del diritto privato. 3. Incertezze del testo. 4. Principio di legalità e generalità della capacità di diritto privato della P.A.. 5. Alcune implicazioni: i contratti atipici della P.A.. 6. Segue: evidenza pubblica e accordi ex art. 11 l. n.241 del 1990. 7. Negozio unilaterale e diritto privato. 8. Privatizzazione e semplificazione procedimentale. 1. Già durante la XIII legislatura il Parlamento aveva discusso un progetto di riforma della legge sul procedimento amministrativo che conteneva una norma di principio dedicata ad una non meglio precisata prevalenza del diritto privato nel campo dell’attività della P.A.. Questa disposizione, sin dal suo primo apparire, ebbe a destare molte preoccupazioni, talora aperte critiche, talora addirittura un vero e proprio sconcerto in chi, dal punto di vista dello studioso del diritto amministrativo, faticava a comprendere come potesse mai il legislatore decidere di abbandonare (con tanta enfasi!) il modello del diritto pubblico a favore del modello del diritto privato. Nelle interpretazioni più spericolate si propendeva addirittura per intuire una direttiva legislativa che avrebbe sostanzialmente sostituito la figura del negozio di diritto privato a quella del provvedimento. Era inevitabile, allora, che si disputasse di un tramonto del diritto amministrativo, di una debellatio degli interessi legittimi, di una drastica riduzione degli spazi occupati dalla giustizia amministrativa. I timori, dunque, paventavano una crisi davvero forte della categoria del provvedimento amministrativo. Forse è proprio per questo motivo che l’iter che ha preceduto la definitiva approvazione, da parte della Camera dei deputati, del disegno di legge Berlusconi, Frattini e altri (3890) ha visto mutare più volte il tenore della disposizione in oggetto. Il punto di approdo, che oggi si cristallizza nel disposto del comma 1 bis dell’articolo 1 della legge 241 del 1990, è comunque il seguente: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. 2. In verità, il tenore letterale non dovrebbe più assecondare le preoccupazioni di cui si è detto. E’ utile partire dal punto di vista della dottrina che, a pieno titolo, può dirsi ispiratrice di questa novità (V. Cerulli Irelli). La norma vorrebbe significare un’inversione di tendenza rispetto all’impostazione tradizionale, secondo la quale il diritto pubblico è il diritto normale dell’amministrazione e, in caso di dubbio interpretativo, sono sempre le norme di diritto pubblico a doversi applicare da parte delle pubbliche amministrazioni e non quelle di diritto comune. Si parte dall’assunto che, prima di questa innovazione normativa, la regola fosse per tutte le pubbliche amministrazioni quella dell’agire secondo il diritto pubblico mentre l’agire secondo il 2 diritto privato sarebbe stato solo un’eccezione, da circoscrivere ai casi espressamente previsti dalla legge. Sebbene questa stessa dottrina riconosca che la tesi della prevalenza del diritto pubblico era stata superata sia nella prassi applicativa sia nelle proposte dottrinali e nelle decisioni della giurisprudenza, l’importanza del citato comma 1 bis starebbe comunque nel fatto che il tradizionale rapporto tra regola e eccezione sarebbe ormai per tabulas ribaltato. La regola sarebbe, dunque, l’azione mediante atti di diritto privato e l’eccezione, puntualmente prevista dalla legge, l’azione mediante gli strumenti del diritto pubblico. Dal momento che, da sempre, la pubblica amministrazione ha agito utilizzando, secondo le esigenze e preferenze del caso, talora il diritto pubblico e talaltra il diritto privato, l’effetto della innovazione si farebbe sentire soprattutto in quei casi che, si dice testualmente, “si pongono al di fuori dell’ambito dei poteri autoritativi”. Si propone l’esempio del procedimento amministrativo che culmina in un provvedimento di concessione come soluzione alternativa rispetto alla stipula di un contratto di affitto o di locazione; nonché il procedimento amministrativo che si chiude con l’aggiudicazione al concorrente prescelto dall’amministrazione quale contraente di un appalto pubblico come alternativa alla conduzione di comuni trattative negoziali di diritto privato. La dottrina citata aggiunge altresì che questa disposizione, pur non avendo ovviamente la stessa forza che sarebbe derivata da una norma di rango costituzionale, esprime un principio tendenziale dell’ordinamento. Come conseguenza di ciò, il comma 1 bis sarebbe operativo proprio in quei rapporti che l’amministrazione può instaurare e utilmente disciplinare attraverso strumenti negoziali di diritto privato. Più precisamente, esso potrebbe trovare applicazione in 3 tutti i casi in cui lo strumento autoritativo possa essere sostituito a quello negoziale. In breve, per via di tale innovazione – è questa la tesi di fondo – lo strumento negoziale andrebbe sempre, ove possibile, privilegiato e preferito al provvedimento autoritativo. Da questa ricostruzione – e seguendone i confini concettuali – dovrebbero potersi trarre anzitutto alcune implicazioni. La prima è che, molto probabilmente, quando l’amministrazione abbia la facoltà di scegliere tra l’atto negoziale e l’atto provvedimentale, l’opzione a favore del secondo debba essere non soltanto puntualmente fondata sulla legge ma anche adeguatamente motivata. Se fosse vero che il legislatore esprime una sua preferenza per gli strumenti del diritto privato su quelli del diritto pubblico, l’amministrazione dovrebbe sempre trovare idonee ragioni per discostarsi da siffatta linea. Il provvedimento amministrativo, che fosse emanato senza i presupposti che si sono indicati, in luogo di un ipotetico negozio di diritto privato potrebbe allora dirsi illegittimo per violazione dell’articolo 1 comma 1 bis della legge 241 del 1990. Si immagini che l’amministrazione abbia perfezionato una concessionecontratto in luogo di una locazione. Tale concessione sarebbe sì efficace ma, a quanto pare, annullabile ed esposta all’impugnazione davanti al giudice amministrativo. Sempre che ovviamente si riesca a trovare un soggetto che possa dirsi leso da questo provvedimento ed interessato alla sua caducazione, per favorire in suo luogo la scelta negoziale. La seconda implicazione che possiamo trarre riguarda, più strettamente, l’attività interpretativa. Concerne, in particolare, la qualificazione del rapporto tra amministrazione e privato quando non vi sia un’assoluta certezza riguardo alla natura privatistica o 4 provvedimentale dell’atto che si assume quale fonte degli effetti giuridici. In più occasioni, in verità, la giurisprudenza è stata chiamata a definire il significato e la natura giuridica di clausole denominate di revoca o di recesso configurate a favore dell’amministrazione: l’alternativa era quella che contrapponeva la configurazione di un potere di revoca, appartenere al genus dell’autotutela, a quella di una facoltà di recesso di carattere privatistico, fondata sulla norma generale dell’art. 1373 cod. civ.. Ebbene, in casi di questo tipo la preferenza legislativa per il diritto privato (sempre che una tale preferenza effettivamente si voglia desumere dal comma 1 bis) dovrebbe indurre l’interprete a ricostruire il rapporto secondo gli schemi di tale partizione dell’ordinamento. Si tratterebbe di una tecnica che risponde oltretutto al canone generale dell’interpretazione conservativa di cui all’art. 1367 cod. civ., inteso quale criterio che orienta, nei limiti del possibile, verso un’interpretazione del negozio (come del provvedimento) in coerenza con la volontà della legge. 3. Fin qui, si è seguita l’impostazione dottrinale che è stata, per più aspetti, centrale nei lavori preparatori. Impostazione che non possiamo ancora, di certo, dire ad oggi prevalente, senza che si sottovaluti per questo l’influenza culturale accentuata che ha finora avuto. Dobbiamo adesso prendere in considerazioni altre possibilità ricostruttive. Il primo problema dal quale dovrebbe partirsi per tentare una ricostruzione attendibile concerne proprio il carattere innovativo che si è voluto riconoscere alla disposizione. 5 Sul piano testuale, vi sarebbe anzitutto la possibilità di osservare che il legislatore, enunciando all’amministrazione la strada del diritto privato solo quando non adotta “atti di natura non autoritativa”, non ha affatto espresso una preferenza per gli strumenti negoziali: il diritto privato occupa solo lo spazio che non è impegnato dagli atti imperativi. Questa linea di interpretazione condurrebbe a una strada esattamente opposta a quella che si è prima esposta, poiché potrebbe confortare un modello generale nel quale l’amministrazione opera, di regola, mediante atti autoritativi e percorre, solo quando essi manchino, la via del diritto privato. Simile lettura non sarebbe, a dire il vero, così peregrina, se solo si tenga conto dell’andamento oscillante dei lavori preparatori e delle perplessità che l’iniziale apertura a tutto campo verso il diritto privato aveva provocato. Insomma, vi sarebbe la tentazione di dire il Parlamento, con le correzioni da ultimo apportate, avrebbe proprio voluto scongiurare il rischio di una subalternità del diritto pubblico rispetto al diritto privato. Credo però che sia errato farne una questione “di bandiera” e che, fin quando è possibile, debba valere il canone interpretativo secondo il quale, se il legislatore ha emanato una norma, ha inteso innovare l’ordinamento piuttosto che consacrare una realtà già vigente (una realtà, peraltro, che si è prima definita tradizionale ma che appare, come si ribadirà tra un attimo, piuttosto incerta e claudicante alla luce del “diritto vivente”). Si aggiunga che, sempre sul piano letterale, la disposizione si chiude con l’inciso “salvo che la legge disponga diversamente”. Da esso potrebbe aliunde trarsi una propensione del legislatore a fare dell’attività di diritto privato la regola e non l’eccezione per l’azione della pubblica amministrazione. 6 4. Ciò detto, i dubbi sulla reale portata innovativa di questa norma non svaniscono affatto. Se è vero che gli atti di diritto amministrativo si distinguono da quelli di diritto privato per il loro carattere imperativo e dunque per la possibilità di fruire di uno speciale regime pubblicistico che munisce l’amministrazione di poteri unilaterali in grado di incidere direttamente nella sfera giuridica del privato, non dobbiamo dimenticare che questa prerogativa delle pubbliche potestà in tanto è riconoscibile in quanto rispetti il principio di legalità. E’ la legge che deve giustificare l’esercizio di poteri amministrativi. E’ solo la legge che può fondare un potere unilaterale che sia in grado di intaccare la sfera giuridica di un soggetto senza il suo consenso. Posto questo dato, quel che non convince del tutto è proprio la premessa da cui parte la dottrina che si è citata per trarne il novum della disposizione. Non persuade, insomma, che la regola antecedente all’entrata in vigore del comma 1 bis sia quella di una generalizzata potestà pubblica e l’eccezione quella di un’azione secondo il diritto privato. Nei manuali classici si scrive che la pubblica amministrazione per la realizzazione dei suoi fini si avvale, oltre che della potestà pubblica (di cui può disporre soltanto entro l’ambito stabilito dal legislatore), altresì degli strumenti giuridici che sono ordinariamente propri della generalità dei soggetti dell’ordinamento, e quindi anche dei soggetti privati (A.M. Sandulli). Il principio di legalità, negli scritti dottrinali (C. Marzuoli) e in alcuni arresti giurisprudenziali (Cons. Stato, Ad. Plen. n.4 del 1999), è stato esteso anche al campo del diritto privato, perlomeno nei termini in cui serve ad imporre alla P.A. un vincolo di scopo. E’ in questo senso che si parla di una funzionalizzazione al pubblico 7 interesse come requisito che nel contempo sostituisce la vecchia imperatività e rende omogenee le attività di diritto pubblico e di diritto privato. Ma è indubbio che il principio di legalità valga soprattutto per quegli atti che, in linea con la tradizione, si mantengono ancor oggi entro la sfera dell’imperatività e partecipano così di quella speciale attitudine ad incidere unilateralmente nella sfera individuale dei suoi destinatari. Il principio di legalità resta il principale contrappeso istituzionale di quello speciale regime che connota l’attività di livello amministrativo. Da ciò ne deriva che l’ordinamento, ben prima della legge n. 15 del 2005, consente alla P.A. di porre in essere atti autoritativi solo quando la legge lo concede (pur in quelle diverse misure che rispondono al livello formale o sostanziale del principio di legalità medesimo), mentre alla stessa P.A. è riconosciuta una generale capacità di diritto privato alla stregua di tutte le altre figure soggettive, siano esse persone fisiche, persone giuridiche, o enti privi di personalità e aventi comunque soggettività giuridica. Le osservazioni che precedono mi inducono allora ad affermare che quella sorta di preferenza per il diritto privato non è, di per sé, una novità assoluta. O meglio, non è una novità se in essa si vuol leggere un’apertura senza limiti alla capacità di diritto privato e contemporaneamente un ancoraggio delle potestà pubbliche alle previsioni della legge. Tuttalpiù, si potrà vedere nel comma 1 bis un segnale di rafforzamento del principio di legalità. Circa la possibilità che questo comma possa anche fondare un esplicito favor per il diritto privato quando la legge offra la strada del diritto pubblico, non mi sembra che si possano condividere affermazioni radicalmente positive, esposte in via di principio e senza deroghe. Se la legge consente all’amministrazione di porre in essere un provvedimento 8 amministrativo, sembra davvero difficile opporre un ostacolo ulteriore che si volesse desumere dal comma 1 bis, in nome del fatto che la bandiera del diritto privato debba elevarsi su quella del diritto pubblico. Se in virtù del principio di legalità l’amministrazione può emanare un provvedimento amministrativo per ottenere un certo risultato, non è possibile bloccarla per la semplice ragione che quello stesso risultato potrebbe essere conseguito anche mediante il diritto privato. E’ vero che, in concreto, lo strumento negoziale privatistico potrebbe rivelarsi più idoneo allo scopo. Ed è anche vero che, in concreto, ciò porrebbe all’amministrazione un problema di motivazione ad hoc, senza la quale la scelta a favore del provvedimento potrebbe esser censurata. Riassumendo, quando la legge consente all’amministrazione di emanare un provvedimento amministrativo per raggiungere i suoi fini, non può dirsi che la coesistente chance della praticabilità di un negozio di diritto privato venga a menomare, di per sé, la potestà provvedimentale; anche se, in omaggio ai principi generali, l’amministrazione è tenuta a motivare il provvedimento e, se del caso, a spiegare le ragioni che l’hanno indotta a preferirlo al negozio, specie se questo fosse stato più duttile e apparentemente meglio idoneo al raggiungimento del risultato. A ben vedere, queste condizioni cui è subordinata la “strada pubblicistica” rispetto a quella “privatistica”, non derivano come implicazione di una innovativa preferenza legislativa per l’azione di diritto privato (come sopra si era supposto); non derivano, in verità, dal nostro comma 1 bis; bensì, derivano soprattutto dal canone generale di ragionevolezza e proporzionalità che guida l’azione amministrativa e dalla norma generale sull’obbligo di motivazione. 9 5. Alla luce di queste considerazioni, la novità normativa potrebbe apparire piuttosto deludente ed eccessive, alla prova dei fatti, le preoccupazioni che l’hanno preceduta. Ancora una volta, però, l’interprete, per quanto sembra divenire sempre più difficile, deve aver fiducia nel suo legislatore e continuare a pensare che le sue parole non siano né pleonastiche né sprecate. Pertanto, si devono esplorare alcuni aspetti applicativi sui quali la norma può esercitare una certa qual influenza. Potrebbe in primo luogo accogliersi l’idea che, per effetto di questa disposizione, non vi sia più ragione di limitare la facoltà della P.A. di stipulare contratti non previsti dalla legge né di coltivare quella “paura dell’atipico” che in varie occasioni ha contaminato non solo la giurisprudenza civile, ma, per l’appunto, anche quella amministrativa. E’ ben nota la tendenza delle amministrazioni, durante questi ultimi anni, di sperimentare nuove forme contrattuali, le quali sfuggono ai modelli previsti dalla legge. Non ci si accontenta più di stipulare, separatamente, un appalto pubblico di lavori, o di forniture o di servizi, ma si tende ad assorbire in un contratto unico e globale una pluralità di prestazioni. Proliferano così gli appalti misti ed i c.d. global service. Analogamente, partecipa di questo contenuto indefinito quella figura di contraente generale (diffusamente nota come general contractor), che è stata introdotta nella legge n.443 del 2001 (legge obiettivo) e nel d. lgs. n.190 del 2002. L’affidamento al contraente generale del compito di realizzare una grande opera infrastrutturale è sì un fenomeno negoziale previsto dalla legge, e dunque tipico da questo punto di vista. Ma la stessa legge non ne definisce puntualmente il contenuto e lo lascia indefinito, ammettendo che possa sostanziarsi, secondo i casi, di attività e prestazioni molto 10 diverse: dalla attività costruttiva in senso stretto alla acquisizione di servizi accessori, dalla progettazione alla raccolta di capitale (di rischio o di credito) sui mercati finanziari. Anche qui, dunque, è dato riscontrare una certa atipicità sostanziale del contratto, da cui possiamo evincere una realtà ben distante da quella più tradizionale, di un contratto avente un precisa identità giuridica, basato su prestazioni predeterminate dal legislatore e sottoposto ad una disciplina abbastanza dettagliata. Si ricordi, ancora, l’affidamento del servizio di tesoreria che, a causa del progressivo spostarsi del vantaggio economico a favore degli istituti bancari che fruivano di un maggior “credito” sulla piazza e di un considerevole indotto, si è arricchito di una posta economica a carico del medesimo istituto affidatario del servizio. Si è creata in tal caso una situazione opposta a quella che contraddistingue sul piano strutturale il contratto di appalto di servizi, cui si soleva ricondurre questa fattispecie: il corrispettivo in denaro non era più posto a carico dell’appaltante, ma a carico dell’appaltatore ed i bandi di gara hanno iniziato a tener conto, quale parametro di giudizio, non solo della misura dei tassi ma della entità di questa erogazione in denaro. Proprio in questa circostanza la giurisprudenza mostrò la sua “paura dell’atipico”; segnatamente, accadde in una sentenza del Consiglio di Stato del 1996 (Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 1996, n.937) nella quale l’obbligo di pagare una somma di denaro posto a carico dell’affidatario venne ritenuto come un elemento tale da snaturare la causa del negozio. Solo mediante la costruzione di un contratto accessorio (e spesso fittizio) di sponsorizzazione è stato possibile porre fine alla questione in una successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen., n.6 del 2002). 11 Questa parentesi è servita a spiegare meglio quale fosse l’enunciata linea di tendenza delle amministrazioni. E il comma 1 bis può servire a chiarire, una volta per tutte, che tale tendenza è assolutamente legittima e che può essere senz’altro assecondata. L’affermazione del legislatore che apre, senza remore, alla P.A. le strade del diritto privato, sgombra ogni possibile dubbio circa l’applicabilità dell’art. 1322 cod. civ. in tutta la sua portata, ivi compreso il comma 2, secondo il quale le parti possono concludere, oltre ai contratti previsti dalla legge, anche contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. L’amministrazione, al pari dei privati ha la facoltà di formare e concludere contratti innominati, purché sia superato il vaglio di meritevolezza. Per molti versi, è addirittura opportuno che l’amministrazione sperimenti questa via, quando sia utile, ad esempio, per cogliere meglio il risultato o per ottenere un risparmio di spesa; il che equivale a dire quando sia coerente con il principio di efficienza ed efficacia e con quello di economicità. La conclamata ampiezza della capacità di diritto privato comporta anche la piena possibilità di utilizzo, per la P.A., di alcune figure contrattuali che sono state spesso viste con sospetto. Tra queste, in particolare, richiamo il contratto di transazione, nelle due forme della transazione pura (art. 1965, comma 1, cod. civ.) e mista (art.1965, comma 2, cod. civ.). Va da sé che restano assolutamente intatte le disposizioni che impongono alle amministrazioni speciali adempimenti per transigere, come quelle relative al parere preventivo dell’Avvocatura dello Stato. 12 6. Il nuovo comma 1 bis invece, non incide sugli spazi di applicazione delle procedure di evidenza pubblica, che attengono alla formazione della volontà della P.A. ed alla scelta del contraente. Il fatto che l’amministrazione abbia la possibilità di utilizzare tutti gli strumenti negoziali che il diritto privato pone a disposizione di tutti i consociati non toglie che la disciplina comunitaria e interna ben possa esigere il rispetto di un modulo procedimentale per la scelta del contraente in tutta una serie di casi. Parimenti, il comma 1 bis non comprime l’ambito di applicazione e le chance di utilizzo degli accordi di cui all’art. 11 della legge n.241 del 1990. In primo luogo, la novità normativa che qui commento è riferibile solo ai negozi di diritto privato, sicché ne resta fuori il caso dell’art. 11 nel quale l’amministrazione apre il procedimento per l’esercizio di una funzione pubblica che attiene ad attività “autoritativa” e decide di sostituire od accompagnare al provvedimento unilaterale un accordo cui si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti “in quanto compatibili”. In secondo luogo, sarebbe contraddittorio assegnare alla legge n.15 del 2005 una volontà di ridurre la sfera degli accordi in favore di una maggiore diffusione dei negozi di diritto privato, perché è questa stessa legge che, all’art.7, ha manifestato una opzione di netto favore per la pratica degli accordi con l’ammettere una generalizzata conclusione di quelli di tipo sostitutivo, i quali prima erano possibili solo nei casi previsti dalla legge. 7. Mi sembra molto importante, in proposito, chiarire che una conclusione certamente non potrà desumersi dal comma 1 bis: che l’apertura privatistica possa via via sostituire ai classici provvedimenti 13 amministrativi unilaterali altrettanti (e non meglio identificati) negozi unilaterali di diritto privato. La norma non può assolutamente spiegare un effetto di tale portata. Anzitutto non si dimentichi che il provvedimento unilaterale, col suo speciale regime pubblicistico, riassume il proprium del regime di diritto amministrativo e riconosce alla P.A. ciò che non è ammesso per ogni altro soggetto giuridico nelle relazioni interprivate: di incidere sulla sfera giuridica del destinatario senza il suo consenso. E’ proprio la speciale forza che si assegna all’amministrazione che richiede, a monte, la previsione di una legge che valga a fondare queste prerogative ed a far salvo il principio di legalità. In tanto l’amministrazione espropria l’altrui fondo od esegue coattivamente la sua volontà sul patrimonio del privato senza il filtro giudiziale, in quanto una legge lo consenta. E’ vero che il comma 1 bis ci ricorda che, al di fuori di questi casi, l’amministrazione ha la facoltà di concludere tutti i negozi previsti in diritto privato, senza limitazioni. Le norme di riferimento sono due: l’art.1324 cod. civ., secondo cui, salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale; e l’art.1987 cod. civ., secondo cui la promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge. Da questo combinato disposto la tradizione civilistica ci consegna il principio, a tutt’oggi valido, della tipicità dei negozi unilaterali. Il negozio unilaterale non è possibile ad arbitrio di chi lo voglia concludere, ma può trovare spazio solo nei casi (molto rari e circoscritti) previsti dalla legge. Questo principio si salda con quello dell’intangibilità della sfera giuridica altrui, il quale trova la sua 14 più evidente affermazione nella contrattualità della donazione e nella disciplina del contratto a favore di terzo (art. 1411 e ss. cod. civ.) e del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente (art. 1333 cod. civ.). Più precisamente, da questi istituti si trae il principio per cui l’intangibilità della sfera giuridica altrui tollera solo effetti favorevoli rispetto ai quali sia fatta sempre e comunque salva la facoltà di rifiuto del destinatario di essi. Tutto ciò dimostra, allora, che il diritto privato potrà certamente giovare alla P.A., ma che esso le consentirà, in concreto, solo di concludere dei contratti. Di procedere insomma secondo linee tutt’altro che rivoluzionarie e ben note e sperimentate. Sia concessa una semplificazione: quando vi è la disponibilità del privato per un accordo, si potrà utilmente stipulare un contratto, altrimenti resta, sempre che la legge lo ammetta, la strada dell’atto amministrativo autoritativo e unilaterale per conseguire quel dato risultato. Il che, alla fine, torna a convalidare l’osservazione che la portata innovativa della disposizione è alquanto contenuta e che la presenza del diritto privato non è destinata a così grandi ampliamenti. 8. L’esame dei lavori preparatori, infine, avalla l’idea che l’indicazione legislativa di una strada privatistica per l’amministrazione abbia una valenza di carattere non strettamente giuridico, ma pragmatico; direi, quasi sociologico, od economicosociale. Quando si spinge l’amministrazione ad agire secondo il diritto privato, si evoca l’idea di una privatizzazione della cosa pubblica, un modello di maggiore speditezza e semplicità dell’azione amministrativa. E’ ben possibile che culturalmente questa norma sia da qualcuno ascritta al filone che ha perorato nel corso dell’ultimo 15 decennio un processo di privatizzazione (soggettiva) e deregolamentazione e liberalizzazione (oggettiva) nei rapporti tra P.A. e privato. Va da sé che, però, questo intento è difficilmente traducibile in un contenuto precettivo ben preciso della disposizione. La questione dogmatica è una strettoia cui il giurista non può sottrarsi. Agire secondo il diritto privato può significare solo quel che si è detto in precedenza. Nonostante ciò, non mi pare debba escludersi in modo radicale che da questa idea di fondo possano trarsi indicazioni utili per l’interpretazione della norma in questione. Si è spesso parlato, specie in questi ultimi anni, di una concezione che proietta l’amministrazione verso il risultato anziché verso il rigido e formale rispetto delle regole. Ebbene, credo che l’indirizzo che si trae da una norma di questa natura possa, in qualche misura, collimare con queste tendenze. Non dimentichiamo che essa è stata inserita nel corpo dell’articolo 1 della legge n.241: norma d’esordio recante principi in una legge di principi. Sicché ben potrebbe essere interpretata come una disposizione che accoglie e rafforza alcune linee di fondo le quali ispirano altrettanti principi dell’attività amministrativa. Penso, ad esempio, al rafforzamento della efficacia, efficienza ed economicità, come variabili che devono poter orientare, quando serva, l’amministrazione verso il diritto privato. Ma penso anche al valore della flessibilità, elasticità e soprattutto della semplificazione procedimentale, quale cardine e parametro di orientamento della moderna amministrazione in uno Stato che appare sempre di più caratterizzato da elementi di complessità e varietà degli interessi. Sulla semplificazione procedimentale, in verità, il discorso dovrebbe essere più ampio. I tempi attuali dimostrano che questo 16 principio è non soltanto molto importante, ma probabilmente irrinunciabile per assicurare il normale funzionamento delle nostre amministrazioni. Si consideri anzitutto il disposto dell’art. 29 della legge n.241 del 1990, come novellato, anch’esso, dalla legge n.15 del 2005. “29. Àmbito di applicazione della legge. 1. Le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti amministrativi che si svolgono nell'àmbito delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali e, per quanto stabilito in tema di giustizia amministrativa, a tutte le amministrazioni pubbliche. 2. Le regioni e gli enti locali, nell'àmbito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa, così come definite dai princìpi stabiliti dalla presente legge”. Da questa disposizione parrebbe doversi trarre una sorta di arretramento della l. 241 dal campo (davvero sterminato) dell’azione amministrativa degli enti non statali. Regioni, enti infraregionali ed enti locali, in particolare, dovrebbero, ciascuno secondo le proprie competenze, dettare autonome regole sul procedimento ed in questo risulterebbero vincolati solo dai principi desumibili dalla medesima l. 241 i quali, a loro volta, siano legati al sistema costituzionale ovvero alla tenuta delle garanzie del cittadino. Questa scelta del legislatore statale è stata evidentemente influenzata dalle disposizioni costituzionali dell’art.117 sulle competenze legislative delle Regioni e regolamentari degli enti locali. Indubbiamente, l’opera di selezione e definizione di principi da svolgersi in un campo occupato da una legge (la 241, per l’appunto) che è già, essa stessa, legge di principi, non 17 sarà affatto agevole. Le complicazioni saranno inevitabilmente numerose e con esse le incertezze per le amministrazioni e per gli operatori. Tuttavia, mi sembra indubbio che tra i principi vincolanti vi siano non solo quelli espressamente e puntualmente descritti come tali nel testo della 241. Si pensi, in particolare, a quelli di cui all’art.1. Ma che vi possano e vi debbano essere anche principi che siano non scritti e comunque desumibili dal testo. Tra questo vi è indubbiamente il principio di semplificazione procedimentale. Esso si impone come un valore dominante al legislatore regionale ed alla produzione regolamentale degli enti territoriali minori. La semplificazione comporta anzitutto alcuni corollari di ordine generale, come in particolare il divieto di aggravare senza giustificazione il procedimento. Essa è però anche un valore immanente in ogni aspetto del procedimento e del rapporto tra cittadino e P.A.. Proietta così i suoi effetti anche nel rapporto tra più amministrazioni diverse, le coinvolge necessariamente in una visione d’insieme, le vincola a provvedere insieme ed in unico contesto. Il modello dello sportello unico diventa così obbligatorio per il legislatore regionale e per i regolamenti degli enti locali. Il principio di fondo è quello per cui il cittadino dev’essere posto in condizioni di avere nell’amministrazione un interlocutore unitario, anche quando il procedimento prevede una pluralità di competenze. La semplificazione procedimentale, inoltre, è un principio che riflette, al livello dell’azione amministrativa un altro principio costituzionale di grande importanza, sul quale la Corte Costituzionale ha ormai inteso basare l’intero sistema risultante dal nuovo titolo V: il principio di leale collaborazione. Sicché io metodo dei raccordi tra più centri di competenza, degli accordi, della negoziazione tra 18 amministrazioni e tra amministrazioni e privato nell’esercizio delle funzioni pubblicistiche è posto necessariamente in primo piano. 19