Che cosa vogliamo esprimere quando diciamo: “Io so che

Adesione affettiva e conoscenza
Di Giovanni Maddalena (Università del Molise)
Un panorama critico
Che cosa vogliamo esprimere quando diciamo: “Io so che…”? Come mai c’è
una differenza, la vediamo nei professori come negli studenti, tra dire “Io so
che…” formalmente e “credendoci davvero”. Perché non ci accontentiamo di
una ripetizione di concetti meramente mnemonica e, quando l’accettiamo, ci
sentiamo insoddisfatti?
In filosofia questo tema è rintracciabile nel problema dell’assenso. Che cosa
significa dare il nostro assenso? Quando l’assenso è solo formale? Quando c’è
un assenso reale?
Il tema è stato affrontato alcune volte nella storia della filosofia – celebre è
l’interpretazione data da Newman – anche se non è di certo uno degli
argomenti più frequentati. Mi sembra utile riporre oggi il problema, illustrando
velocemente le versioni più note per poi proporre una visione che faccia capire
come l’assenso sia una questione di carattere affettivo che si instaura nel cuore
del percorso conoscitivo.
Proprio a questo riguardo è utile fare un breve accenno all’antica visione, che
potrei definire “psicologista” (per analogia con l’intero psicologismo
epistemologico), per cui l’assenso è prodotto “dal di fuori” della conoscenza. In
questo senso, anche nelle sue versioni didattiche, l’assenso è un aspetto
affettivo legato a problemi relazionali o alla pura e semplice volontà, intesa
come capacità etica. Certo, è chiaro che lo studente si applica e la sua
intelligenza funziona meglio all’interno di un rapporto affettivamente positivo,
ma è sufficiente aver avuto un maestro antipatico e rude capace di insegnarci
come nessun altro per smentire questa visione semplicistica. Quanto a quella
etico-morale che incentra l’assenso sulla forza di volontà, ne è ben nota la
mortale fragilità che le impedisce di durare a lungo (tanto più nella nostra
epoca).
Nella sua grammatica dell’assenso Newman aveva proposto una versione
dell’assenso che negava quest’approccio meramente psicologico o morale
legando l’assenso all’apprensione. All’apprensione del singolare concreto
seguirebbe un assenso reale, all’apprensione del generale astratto – ottenuta
secondo un’idea di radice lockiana – seguirebbe un assenso formale. In altri
termini questa visione è stata ripresa all’interno della filosofia analitica
novecentesca: l’assenso dipende dalla conoscenza della realtà intesa – in
un’ottica vicina a quella del Tractatus del cosiddetto “primo” Wittgenstein –
come “stati di fatto”. Se la conoscenza corrisponde agli stati di fatto c’è una
conoscenza vera alla quale crediamo, altrimenti non si può neanche parlare di
credenza ma solo di falsità. In questa visione l’apprensione degli stati di fatto
veri obbligherebbe a “credere davvero”. Qual è il difetto di questo impianto?
Oltre a quello teoretico che implica che tutte le credenze incluse in una
credenza vera siano vere (se credo p e p implica q allora credo anche q; ma q
potrebbe invece essere falso o essere in altro rapporto di credenza), esiste una
facile smentita esistenziale di questa teoria. Infatti, se così fosse, l’assenso
reale, il “credere davvero” scatterebbe di fronte alla pura riproposizione della
verità delle conoscenze. E ogni insegnante sa che ciò non accade
meccanicamente.
Una seconda teoria, alternativa alla precedente, prende le mosse dal “secondo
Wittgenstein”. Qui si dice invece che non c’è verità e ci sono solo credenze a
cui si può assentire, cioè credere davvero, quando se ne conosce l’uso. Il
problema dell’assenso è un problema connesso a certi usi sorretti da un
insieme di regole grammaticali. Nella sua forma estrema – quella elaborata e
sostenuta da Rorty – ciò significa accettare che non ci siano diversi vocabolari
validi in contesti diversi. Ogni verità è tale all’interno del proprio gioco
linguistico e, dunque, assentire significa accettare di giocare un determinato
gioco e sapere ciò che le regole permettono in quel contesto. In questa
seconda visione, l’assenso rischia di diventare manipolabile a seconda del
potere di chi impone le regole, secondo un relativismo che deve accettare a
priori la validità limitata delle proprie proposte conoscitive e didattiche. Di
fronte alla domanda “perché si fa così? (perché si usa una certa parola o
perché ci sono certe conoscenze)” non potremmo che rispondere: “è così e
basta; noi usiamo le conoscenze in questo modo, non c’è altra giustificazione”.
L’assenso come riconoscimento dei segni
Ecco allora una terza proposta: una visione della conoscenza basata sui segni
che ha bisogno dell’assenso all’interno del percorso conoscitivo. Tale visione
vuole salvare tanto la dipendenza dell’assenso dalla realtà della prima teoria
quanto la piena accettazione del valore “dell’uso” e della pratica ai fini della
comprensione esposto dalla seconda teoria. D’altro canto vuole evitare il
meccanicismo implicito nella prima e il relativismo della seconda.
Anche in questa proposta teoretica l’assenso dipende dalla relazione con la
realtà e, ovviamente, ha anche un carattere psicologico, di cui qui non ci
occuperemo benché, come vedremo, occorra recuperare una concezione del
pensiero che ne tenga conto. È invece importante soffermarsi sul carattere
semiotico e normativo implicato nella nozione di assenso. Tralasciando per
ragioni di spazio i tecnicismi della semiotica peirceana, da cui buona parte di
questa teoria prende le mosse, ci basti tradurre il termine “semiotica” con la
conoscenza della realtà intesa come segno, cioè una rappresentazione che ha
rapporto tanto con un oggetto quanto con i propri effetti interpretativi. La
nostra conoscenza nasce ed è espressione di un oggetto e crea degli effetti che
sono altri segni o altri abiti d’azione.
a) La lettura dei segni
La parte più interessante per vedere dove si situa la mossa affettiva dentro la
conoscenza è l’aspetto normativo, quello che implica una risposta (sì o no) da
parte di chi vuole conoscere.
Per capire come si giochi tale normatività, dobbiamo considerare un caso
estremo in cui gli elementi della conoscenza si dispiegano: il momento in cui
conosciamo qualcosa di nuovo. Quando cerchiamo di conoscere una realtà o un
fenomeno sconosciuto, si pone tecnicamente il problema della formazione di
un’ipotesi o abduzione. Ogni volta che un fenomeno sconosciuto irrompe nel
nostro campo cognitivo, le certezze su cui ci muovevamo vengono scosse –
mostrando, tra l’altro, che la ricerca vera (scientifica e del senso comune)
comincia da una certezza e non da un dubbio, che è un fenomeno secondario e
transitorio che consegue e ricerca altra certezza. Nel momento in cui il
fenomeno sorprendente rompe le nostre certezze cognitive, la ragione deve
cercare una nuova spiegazione e può farlo solo “allargando” l’orizzonte di
riferimento dei segni. Non trovando la spiegazione nell’ordine solito deve
cercare un ordine di più ampio. L’orizzonte dell’ordine dei segni ha una sua
peculiare caratteristica, il fatto che sia un ordine ammirabile o desiderabile
(estetica), e in virtù del rispetto di tale ordine noi possiamo dire che un’ipotesi
è buona o cattiva (etica). In questo senso, il giudizio sull’ordine dei segni, e
quello sulla sua plausibilità sono le versioni gnoseologiche dell’estetica e
dell’etica, non ridotte in questo caso a mere scienze del bello e del ben
operare. Estetica ed etica precedono la logica senza per questo cadere
nell’irrazionalità e mantengono – come la logica – un carattere normativo,
ossia la necessità di una decisione. Più l’orizzonte al quale ci si rivolge è totale,
più l’interesse che si produce è attraente e richiede con forza un
riconoscimento.
Per essere più chiari, facciamo l’esempio di ipotesi proposto da Peirce, che è un
esempio tipico di qualcosa che suscita l’interesse umano: l’enigma di un
“giallo”. L’esempio che utilizzeremo è quello degli assassinii della Rue Morgue
di E.A. Poe perché in questo splendido racconto poliziesco, emergono i fattori
tipici di una conoscenza che desta la curiosità e dunque l’assenso come una
risposta.
Due donne vengono trovate morte e brutalizzate con violenza inaudita in una
casa le cui porte sono chiuse dall’interno e le cui finestre distano dal primo
appoggio (un palo della corrente) diversi metri. Rimanendo nell’ordine normale
di segni, la polizia non riesce a trovare l’assassino e neanche un’ipotesi da
percorrere. L’eroe di Poe, Dupin, invece, utilizza i segni presenti – troppa
violenza, porte chiuse, distanza enorme con il primo appoggio – come segni di
un ordine diverso di realtà: l’omicida non è un uomo ma un animale (un arangutang). Le verifiche deduttive e induttive confermeranno l’ipotesi facendo
ritrovare l’assassino e il padrone a cui esso era sfuggito.
L’assenso è un giudizio che accetta o respinge questo ordine “ampliato” dei
segni della realtà. In questo senso l’ipotesi semiotica e normativa recupera la
dipendenza dell’assenso dalla realtà che accade (la prima ipotesi) senza
chiuderla in un meccanismo. La realtà è un segno che deve essere riconosciuto
e tale riconoscimento è interno alla conoscenza (è la sua normatività), ne è il
livello estetico ed etico.
La ricaduta didattica è interessante: l’assenso si genera tanto più chi insegna è
in grado di far scorgere questo ordine più vasto di segni di cui la realtà è
composta. Più l’ordine è vasto, più il problema sarà interessante. Qui si trova
anche tutta la positività dell’idea del “problem solving”: l’insegnamento diventa
“mio” quanto più i fenomeni mi si sono posti come problema da risolvere, come
fenomeni sorprendenti da spiegare formulando ipotesi che abbraccino ordini
sempre più vasti di segni. L’interesse nasce dalla connessione tra il fenomeno
che mi trovo davanti con la totalità dell’ordine dei segni che esprimono una
totalità di realtà da cui provengono. Da tale interesse affettivo scaturisce la
risposta (l’assenso) che non è più solo logica ma ha una radice estetica ed
etica (intese come si è visto in senso gnoseologico).
b) Livelli di significato
Quest’ipotesi basata sui segni dà un nuovo quadro anche di che cos’è il
significato che si vuole comunicare. Infatti, come si fa a sapere se l’ipotesi è
giusta? Verificando il significato. La verifica, però, è stata spesso ridotta alla
mera applicazione della teoria. Invece, in quest’ottica la verifica è parte dello
stesso significato. Quest’ultimo quindi non ha soltanto un livello di “familiarità”
vaga (senza un riferimento determinato) o di “definizione” (le idee chiare e
distinte di Cartesio). Il significato è l’intero movimento del riconoscimento che
va dal fenomeno che rompe i nostri pre-giudizi fino alla creazione di nuovi abiti
d’azione conseguenti al rinvenimento di un nuovo ordine di segni che spiegano
la realtà. Questo ulteriore livello, indicato comunemente con il termine
“pragmatico” – ma altre volte gli stessi pragmatisti americani ne indicano gli
sviluppi con il termine di “ragionevolezza concreta” – è il momento in cui ciò
che si è capito diventa un uso. Nel caso di un fenomeno sorprendente ciò è
particolarmente chiaro: c’era una certezza che implicava certe azioni, avviene
qualcosa di inaspettato, devo trovarne la spiegazione in un diverso ordine di
segni, quando la trovo devo verificarla e la verifica è parte del riconoscimento
tant’è che, senza di essa, l’ipotesi non può dirsi accettata. Fa parte dunque
dell’assenso non solo l’ordine dei segni scoperto ma anche la verifica
intrapresa. In ragionamenti non ipotetici, ciò significa che la verifica nell’uso è
così parte del significato che esso coincide con tutti i possibili effetti di una
conoscenza, che pertanto risultano essere potenzialmente infiniti.
Di nuovo, la ricaduta didattica è evidente: non c’è conoscenza reale, ossia
piena di assenso senza che la realtà intesa come segno sia riconosciuta fino
all’uso e – d’altro canto – si può partire da quest’ultimo per riconoscere un
significato. Il sistema scolastico è spesso basato su una concezione di uso
ridotta all’empirismo positivista (l’esperimento che verifica la teoria) o al
razionalismo nel quale il livello della “definizione” è sufficiente. In questa
visione, invece, il fare è essenziale al capire perché il “fare” stesso è parte del
nostro riconoscimento-assenso. In ciò si recupera, dunque, il valore dell’uso
implicito nella teoria del secondo Wittgenstein. Il caso dell’ipotesi, emblematico
della formazione di ogni conoscenza, illustra molto bene questo principio.
In conclusione, una teoria della conoscenza basata sui segni mostra che
l’assenso è una risposta intrinseca allo sviluppo della conoscenza e l’abilità
dell’insegnante consiste nel vivere e far vivere ai propri allievi tutto il percorso
della conoscenza: fare scorgere l’intero orizzonte di realtà che i segni indicano,
allargare questo orizzonte, verificarne le definizioni fino all’uso. Ben sapendo
che tale percorso è perennemente in moto, e occorre percorrerlo in entrambe
le direzioni. Senza questo assenso affettivo la conoscenza non è mai “mia”,
ossia non implica mai il misterioso livello della libertà all’interno del percorso
conoscitivo.
È chiaro che in questa visione non ci sono “meccanismi” né ricette: gli
insegnanti bravi sono quelli che fanno muovere la conoscenza dentro questo
percorso perché loro stessi non fossilizzano la propria ricerca in definizioni
statiche o in risposte cognitive che non richiedono più il loro assenso.
Uscire dal kantismo: suggerimenti di una nuova concezione di analitico
e sintetico
Qual è la radice occulta di questo diffuso atteggiamento che toglie questa
mobilità e questo orizzonte totalizzante al ragionamento? L’origine è un
pregiudizio kantiano che considera la conoscenza come una scomposizione e
una composizione. Analisi e sintesi in senso kantiano riducono la conoscenza a
una divisione in categorie e a una ricomposizione attraverso categorie. Mentre
tutto il ragionamento della vita funziona in un altro modo che inviterebbe a una
nuova concezione del “sintetico”. I ragionamenti perfettamente funzionanti
nell’esistenza compongono i fattori logici – includendo anche i necessari livelli
estetici ed etici, psicologici, fisici – in un tutt’uno che fa compiere in
continuazione a tutti gli uomini ragionamenti ipotetici perfetti (fidarsi o non
fidarsi di chi incontrano, capire l’umore dei propri cari, riconoscere persone
dopo anni quando il loro aspetto è cambiato), fa conoscere e vivere come abiti
d’azione normali nozioni molto complesse, fa appassionare a quasi tutti gli
aspetti dell’esistenza che si pongono come problematici e dunque interessanti.
I nostri insegnamenti sembrano non cogliere il suggerimento implicito in tutto
questo e, al contrario, disprezzare la ragionevolezza del senso comune.
L’ordinamento scolastico, paradossalmente, utilizza solo l’analitica kantiana
come metodo di conoscenza stupendosi del fatto che non abbia la stessa presa
affettiva della conoscenza sintetica che tutti utilizzano per gli aspetti più
interessanti e coinvolgenti della vita. Certo, l’analisi in senso kantiano, la
scomposizione della conoscenza, rimane fondamentale perché tutto ciò non si
fermi a un livello di familiarità, ma anch’essa è solo complementare a un livello
ulteriore di ragionevolezza che non può fare a meno di un uso esperienziale e
di una totalità di orizzonte cognitivo. Per questi ultimi, l’analisi non è
sufficiente, occorre la libertà dell’uomo, che l’insegnante è chiamato a mostrare
in azione ai suoi allievi.
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