HEIDEGGER: L`ORIGINE DELL`OPERA D`ARTE Lo scritto di

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HEIDEGGER: L'ORIGINE DELL'OPERA
D'ARTE
Lo scritto di Heidegger "L’origine dell’opera d’arte" risale agli anni ’30, anche se fu pubblicato solo
negli anni ’50, all’interno dell’opera "Sentieri interrotti"; fu però nel 1989, centenario della nascita
di Heidegger, che lo scritto ebbe una pubblicazione ufficiale, all’interno di un periodico dedicato al
pensiero heideggeriano. In realtà, già il 13 novembre 1935 Heidegger aveva tenuto una prima
conferenza sul tema dell’opera d’arte e aveva donato una copia di questa conferenza a Elisabeth
Blochmann, una studiosa di pedagogia di origine ebraica. Proprio a questa sua amica Heidegger
scrive, il 20 dicembre 1935, parlandole di quella conferenza tenutasi a Friburgo e definendo il
manoscritto inviatole una "seconda versione", alludendo ad una prima versione del 1931-32, un
periodo che lui non esita a definire "felice" per il suo operato filosofico. L’anno seguente, nel
novembre del 1936, tiene altre conferenze sul tema dell’opera d’arte a Francoforte: proprio da esse
trarrà origine la versione pubblicata nel ’50 nella raccolta "Sentieri interrotti". Si tratta di una
raccolta dal titolo emblematico: i "sentieri" a cui fa riferimento Heidegger sono quelli "del bosco",
che cioè non portano da nessuna parte e non servono a nulla di preciso se non a muoversi all’interno
del bosco stesso; sotto questo profilo, la traduzione francese del titolo rende bene l’idea: essa suona
"Sentieri che non portano da nessuna parte". I sentieri sono dunque le singole ricerche contenute nel
libro che si inoltrano nel bosco dell’essere per signoreggiarlo, ma che in realtà finiscono per
perdersi in esso. Come scrive Heidegger ancor prima di iniziare il libro: " Holz è un’antica parola
per dire bosco. Nel bosco ci sono sentieri che, sovente ricoperti di erbe, si interrompono
improvvisamente nel fitto. Si chiamano Holzwege. Ognuno di essi procede per suo conto, ma nel
medesimo bosco. L’uno sembra sovente l’altro: ma sembra soltanto. Legnaioli e guardaboschi li
conoscono bene. Essi sanno che cosa significa trovarsi su un sentiero che, interrompendosi, svia ".
Uno di questi "sentieri interrotti" è quello riguardante l’opera d’arte ("L’origine dell’opera d’arte").
E’ molto significativo che il primo abbozzo delle conferenza risalga al 1931-32, perché in quel
periodo Heidegger stava producendo il suo secondo grande capolavoro (dopo "Essere e Tempo"),
"Contributi alla filosofia. Addicimento": un libro consistente, portato a termine ma mai pubblicato
perché pressochè incomprensibile nella disposizione e nella terminologia; c’è chi in tal libro, a
ragion veduta, ha scorto un vero e proprio tentativo di Heidegger di creare un sistema in cui dare
una sistemazione a tutte le altre opere (Heidegger stesso, in una lettera del dicembre del ’35 apre
spiragli in questo senso). Per comprendere a fondo "L’origine dell’opera d’arte" è bene far
riferimento, seppur di sfuggita, a quest’opera, visto che, come tutte le cose scritte dal "secondo
Heidegger", anche "L’origine dell’opera d’arte" è stata composta in funzione di questo sistema che
però è taciuto dall’autore: "Contributi alla filosofia" è costituita da sette parti o, come le chiama
Heidegger stesso, "cose ordinate le une rispetto alle altre", aventi titoli che, di per sé, dicono poco:
dopo lo "sguardo preliminare" che apre lo scritto, troviamo, ad esempio, una sezione intitolata "il
risuonare", in cui si parla del fatto che l’essere è stato abbandonato da noi che lo trascuriamo e, al
contempo, ci ha lui stesso abbandonati di sua iniziativa; ne consegue un "risuonare" del fatto che
l’essere si è ritirato e che ormai il pensiero greco (che reggeva "Essere e Tempo") ha perso la sua
validità. Il problema dell’essere, infatti, fu per la prima volta avvertito dai Greci, ma essi subito se
ne distaccarono, poiché ponevano in modo errato il problema, in termini di "sostanza" e di
"essenza". Dopo il grande inizio greco (chiusosi ben presto con il ritirarsi dell’essere), quindi,
"risuona" in lontananza un nuovo grande inizio, quello richiesto dal fatto che, appunto, l’inizio
greco è svanito: l’essere così come si era dato nel pensiero greco declina e cede il passo ad un’altra
e nuova determinazione che deve avvenire. In questa prospettiva, la parola tedesca impiegata da
Heidegger per designare l’ "inizio" è Anfang, termine che indica le ragioni profonde della storia,
mai racchiudibili entro un solo fatto; tale termine è da Heidegger contrapposto a Beginn, che
designa invece l’inizio effettivo e, in termini militari, le scaramucce che precedono la battaglia vera
e propria. La seconda sezione dell’’opera porta un titolo altrettanto originale: "rimessa in gioco" (o
anche "acclaramento"), con riferimenti al linguaggio calcistico; con questo titolo, Heidegger vuol
proporre una rimessa in gioco, quasi come se la "partita" fosse stata momentaneamente interrotta.
La terza sezione, invece, è intitolata "l’esordio" o "il salto", termine quest’ultimo particolarmente
caro a Heidegger: con tale espressione, egli sostiene che si dovrebbe, paradossalmente, saltare dove
si è già; come a dire che il fatto di essere qui non è immediato, ma richiede, appunto, un salto,
perché non è tutto necessariamente chiaro sul nostro essere qui. Viceversa, perché si colga quel che
è talmente ovvio da passare sotto silenzio, è opportuno accorgersi (con un "salto") di essere, cosa
che tendiamo a dare troppo per scontato; un tema, questo, già toccato in "Essere e Tempo", quando,
proprio in apertura dell’opera, Heidegger sosteneva che il vanto della nostra epoca è di tornare alla
metafisica ma dimenticando il vero problema di quest’ultima, ovvero il ripiegarsi dell’essere su se
stesso. La quarta sezione di cui è costituita l’opera "Contributi alla filosofia" è intitolata "la
fondazione": in essa troviamo un riferimento all’opera d’arte, che sarà poi al centro dello scritto
"L’origine dell’opera d’arte". Nella quinta e nella sesta sezione dell’opera, Heidegger tratta
esplicitamente dell’ "altro inizio" di cui abbiamo poc’anzi parlato: esse, non a caso, sono intitolate
"i futuri". La settima ed ultima sezione, infine, si chiama "l’ultimo Dio": il tema portante sta nella
presa di coscienza, da parte dell’autore, del fatto che tutti gli dèi si sono raccolti in un’essenza che
ormai si ritira (evidente l’allusione heideggeriana alla "fuga degli dèi" di cui parla Hölderlin), con la
conseguenza che, ora, è troppo tardi per gli dèi, ma ancora troppo presto per l’essere. Il V capitolo
di "Essere e Tempo" è dedicato alla nozione di destino (parola che, nella lingua tedesca, è affine a
"storia"), già presente, peraltro, in Agostino (quando diceva che Dio è un peso che, solo una volta
accettatolo, ci permette di capire la sua importanza) : ora, il destino è l’argomento portante dei
"Contributi alla filosofia", in cui avviene una svolta dall’ontologia all’atteggiamento con cui non
determino concettualmente l’essere, ma capisco che il destino stesso produce una sua concettualità,
con un’evidente critica di fondo alla logica matematica e alle sue strutture mentali astratte. Nella
prospettiva heideggeriana, è la realtà stessa a produrre la propria comprensione, e, per questa
concezione, il pensiero di Heidegger appare, in qualche modo, vicino a quello di Kant: in realtà,
tuttavia, sussiste tra i due pensatori una diversità colossale; per Kant vi è una disposizione logica a
priori, che incontra il mondo e determina il costituirsi delle varie scienze stabilendo la regolarità
della natura (l’intelletto, in tal modo, è indipendente dall’esperienza sensibile). Per Heidegger,
invece, non si deve pensare l'indipendenza dell'intelletto dalla realtà, ma, al contrario, bisogna
pensare che solo la congiunzione di queste due cose può produrre la comprensione. Questo rifiuto,
da parte di Heidegger, dell’a priori kantiano è presente anche in Husserl, il quale ha etichettato
come "mitico" (e dunque lontano dalla realtà) l’idea kantiana di un intelletto sganciato dalla realtà
sensibile. Su queste tematiche, Heidegger tiene, nel 1937, il corso "Domande fondamentali della
filosofia: selezioni di problemi della logica": in esso, viene posto in maniera chiara il problema dell’
"altro inizio" (di cui abbiamo già detto) in relazione al tema della logica. Il nocciolo del corso sta
nella proposta heideggeriana di una "logica filosofante", contrapposta ad una logica scarna ma
universalmente valida; la logica, sostiene Heidegger, non è un insieme di regole, giacchè il
pensiero, propriamente, non è asservito a nessun tipo di regola. Il pensatore tedesco vuole mettere in
luce come una dimensione logica esista già nella lingua e come questo non abbia nulla a che fare
con la logica di tipo metafisico: il linguaggio, egli dice, ha una sua struttura coerente, che deve
essere ricercata nelle etimologie ed è in virtù di questa considerazione che Heidegger, sulle orme di
Hölderlin, punta tutto sulle singole parole e non sulle frasi. Dobbiamo tradurci nel pensiero greco e
provare a pensare non come se il pensiero fosse un’origine, come siamo stati abituati erroneamente
da Aristotele in poi a concepire Dio come puro pensiero; la scienza stessa è erede di questo
pensiero, poiché essa poggia sul presupposto che tutto sia traducibile in pensiero. Heidegger,
quindi, suggerisce di cominciare a pensare dalla "affettività", purchè il sentimento non finisca nelle
mani della psicologia, perché anch’essa è una scienza (abbiam finito, constata Heidegger con
amarezza, per fare perfino della nostra psiche un oggetto di scienza). Significativo è, da questo
punto di vista, l’ultimo corso tenuto da Heidegger a Friburgo, nel 1951, "Che cosa significa
pensare?": in esso, largo spazio viene dato al verbo "significare", che in tedesco vuol anche dire
"spingere"; quindi, la domanda "che cosa significa pensare?" può anche essere tradotta con "che
cosa ci spinge a pensare?". In altri termini, si chiede Heidegger, è vero che traduciamo ogni cosa
nelle formule di pensiero, così come ci ha insegnato il pensiero antico, ma che cosa ci spinge a
farlo? Perché tradurre tutto nel pensiero? Platone e, soprattutto, Aristotele avevano risposto a questo
interrogativo sostenendo che il pensiero nasce dal  , ovvero dalla meraviglia; in
quest’ottica, dunque, vi è prima una dimensione "affettiva" (la meraviglia) e poi, ad essa, fa seguito
il pensiero. Lo stesso linguaggio impiegato in "L’origine dell’opera d’arte" non vuol cedere nulla
alla logica: per investigare sull’arte, la logica va tenuta distante; posso dire che un’opera d’arte è
una cosa, ma questa definizione, evidentemente, non basta; l’opera d’arte, infatti, è anche
qualcos’altro. Il quadro che ci sta dinanzi non è una pura e semplice cosa appesa al muro come
potrebbe esserlo un fucile da caccia; certo, nessuno può negarlo, il quadro è anche una cosa e, come
tutte le cose, può essere materialmente spostato da una città all’altra: ma, limitandoci a intenderlo
come cosa, non si spiegherebbe perché si fanno le mostre proprio con tale quadro e non con una
qualsiasi altra cosa. Nella "cosa" quadro, accade qualcosa di artistico, che non toglie però che il
quadro resti, in ultima analisi, una cosa: se non ci fossero cose, infatti, non potrebbero nemmeno
esserci opere d’arte; cose sono dunque le pietre, i martelli, le scarpe ma, accanto a ciò, esiste anche
una dimensione affettiva, che ci fa vedere quanto sia riduttivo vedere l’opera d’arte come una
semplice cosa qualsiasi. Essa è, viceversa, un insieme di cose che vengono a sussistere lì nella cosa
e che la rendono opera e non solo cosa; e, sotto questo profilo, ciò che costituisce il mondo e l’opera
d’arte è del tutto inconsistente in termini logici. Lo sforzo di Heidegger è di capire la verità
dell’opera d’arte, la quale non è riposta nella sua consistenza di oggetto, ma in un qualcosa che non
posso definire se non in termini di storia dell’arte, con considerazioni anche tecniche che fanno sì
che quella cosa sia un’opera d’arte. Un quadro, dunque, è sì una cosa, ma quando lo considero come
opera d’arte, diventa una cosa in cui è successo qualcosa: per capire tutto ciò però, è necessario
rinunciare ad una visione esclusivamente logico/scientifica. In "Che cosa significa pensare?"
Heidegger stabilisce, con grande acutezza, connessioni tra pensare, ringraziare e poetare,
sviluppando una posizione polemica contro il positivismo e l'idealismo; se Husserl continua ad
illudersi della possibilità di un pensiero puro e, conseguentemente, di una filosofia come scienza
rigorosa, Heidegger, invece, muove dalla convinzione che il pensiero nasca dai fatti; a suo avviso,
pensiamo così perché le cose sono andate così (e qui riaffiora la nozione di destino). Proprio nel
proseguire ripudiando la pretesa di una logica universalmente valida risiede l’ "altro inizio" di cui
parla Heidegger; non si tratta, tuttavia, di un pensare da capo (come si proponeva invece Cartesio
nel "Discorso sul metodo"), ma, semplicemente, da un altro inizio, prendendo atto della
connessione situazione/pensiero: la filosofia, si potrà allora giustamente osservare, non serve
assolutamente a nulla se raffrontata con il lavoro di un ingegnere; eppure il lavoro della filosofia è a
lungo termine ed è riscontrabile in quelle grandi trasformazioni che avvengono saltuariamente e che
vanno ricondotte, appunto, all’operato della filosofia che ha capito l’essere. Il problema dell’essere
sta proprio, secondo Heidegger, nel vedere la storia da una distanza tale che ci permetta di vedere la
figura del destino e, per fare ciò, si deve necessariamente rinunciare alla posizione logica e
trascendentale (l’idea, cioè, che si possa isolare una dimensione del pensiero, poiché, in verità, tutto
scaturisce dall’affettività): si devono respingere l’io trascendentale di Kant e lo spirito di Hegel per
basarsi sul tratto esistentivo, perché quello attuale, dice Heidegger, è un "tempo di povertà";
similmente, Hölderlin si domandava "perché ci sono i poeti nel tempo della povertà?": perché,
risponde Heidegger, si riconosce l’insufficienza delle dimensioni trascendentali e quindi solo i
poeti, ovvero coloro che provano, sentono e sono semi-dèi (preparano cioè l’incontro tra uomini e
dèi) possono ricostruire l’arte. L’atmosfera che aleggia ne "L'origine dell'opera d'arte" è del resto
tipicamente quella degli anni ’30 e non a caso lo scritto è strettamente legato ai "Contributi alla
filosofia": rilevante è anche il sottotitolo di questo libro, "appropriamento" o, meglio ancora,
"addicimento", in riferimento al momento in cui le cose si "addicono", ossia si fanno proprie. In
altri termini, per addurre un esempio, è solo nella musica che colgo effettivamente che ci sono suoni
nel mondo, quasi come se essi si raccogliessero e si "facessero propri", venendo colti
esclusivamente come suoni. Sotto questo profilo, dunque, l’arte è un’artificiale sospensione dello
stato normale delle cose ed è grazie ad essa che riesco a cogliere lo stato proprio (in questo risiede l’
"appropriamento" del sottotitolo) delle cose; ed è curioso che Heidegger spieghi l’opera d’arte
senza far riferimento alla bellezza: nel momento in cui assisto ad un’opera d’arte, le cose cessano di
funzionare e appaiono, dice Heidegger, nella loro "cosalità", ovvero nel loro essere cose. La cosa,
quindi, è cosa solamente nell’opera d’arte e non perché questa coglie la bellezza, bensì perché
mostra la cosa nel suo essere cosa. In quest’ottica, Heidegger conduce un’approfondita analisi del
dipinto di Van Gogh in cui vengono raffigurate due scarpe: esse non vengono colte nel loro
funzionamento, ma sono sospese da ogni funzione e, proprio in virtù di ciò, mi accorgo che sono
cose. Ed è importantissimo capire che sono cose e non, propriamente, scarpe: e, nota Heidegger,
non è un caso che Van Gogh abbia rappresentato due scarpe sinistre. Abbiamo accennato al fatto
che l’analisi heideggeriana sfugge alla categoria di bellezza: sarà invece Gadamer a riportare il
pensiero di Heidegger ai canoni tipici dell’estetica, cosicchè la filosofia gadameriana potrà essere
definita, secondo le parole di Habermas, come un'urbanizzazione della filosofia di Heidegger. Dalla
facoltà dell’arte di mettere in luce la cosalità delle cose emerge un altro tratto essenziale: il rapporto
tra mondo e terra. La terra è il chiuso rispetto all’aperto del mondo; il mondo, invece, è un luogo
aperto, in cui le cose hanno la loro funzione, armonica con tutto il resto (nel mondo tutte le cose
"servono per", sono cioè strumenti, e il mondo stesso è la determinazione strumentale delle cose):
non è un caso che, in generale, si tendano a definire le cose in base alla loro funzione (ad esempio:
alla domanda "cosa è la sedia?" si risponderà "è quella cosa che serve per sedersi"). L’arte, dal
canto suo, sospende questa strumentalità propria del mondo e rimanda alla terra, al chiuso, al non
funzionale: la terra è dunque lo sfondo sul quale si edifica un mondo. Heidegger desume la parola
"terra" da Hölderlin (celebre è una sua poesia "Alla madre-terra"), che era solito contrapporla
nettamente al cielo. Ora Heidegger, influenzato dalla poesia hölderliniana, tende a leggere il mondo
come incontro di quattro elementi fondamentali: cielo, terra, divino, mortale; e non è un caso che
egli elabori una posizione di questo tipo negli anni ’30, proprio quando si era distaccato dal
cristianesimo e, con esso, dalla cultura europea, rifacendosi ad una visione elementare ed immediata
della realtà, con espliciti richiami irrazionalisti alla terra. L’intento di Heidegger, come egli stesso
afferma in "La poesia di Hölderlin", è di risalire ai Greci saltando la tradizione latina e cristiana: è
opportuno evitare la religione perché essa è semplicemente una questione dei latini, ci vuole un
rapporto con la terra che, in quanto chiusa, si apre continuamente nel mondo. E’, curiosamente,
come se "L’origine dell’opera d’arte" prendesse in esame non tanto l’opera d’arte, quanto piuttosto
la cosa: l’opera d’arte è, infatti, l’essere cosa della cosa. L’arte in questione, su cui si sofferma
Heidegger, è, in buona parte, quella delle avanguardie, quella cioè considerata "degenere" dal
regime nazista: il nazismo, infatti, cercò di sostituire l’arte con quella che Benjamin definiva
"estetizzazione della politica", ovvero viene tolta dal suo posto e generalizzata; questo
atteggiamento, peraltro, prosegue anche dopo il crollo dei regimi totalitari, come se fosse il mondo
stesso a diventare estetico. Heidegger indaga anche sulla tecnica e prova a metterne in luce l’altro
lato rispetto a quello più noto: egli fa notare che per gli antichi greci la parola  comprendeva
sia l’arte sia la tecnica, e le colonne del tempio greco erano, al contempo, opera d’arte e di tecnica,
in quanto appoggio fantastico di terra e cielo. Heidegger mette dunque in evidenza il tremendo
destino delle parole: il termine  designa l’arte ma anche la tecnica distruttiva, che fa sì, ad
esempio, che l’uomo venga integrato alla macchina; ma l’origine dell’arte e della tecnica, così
diverse tra loro, è la medesima: si tratta dunque, nel far emergere l’essenza dell’arte, di tenerla
distinta da quella pericolosa dimensione che è la tecnica. Sembra, fino a questo punto, che il
linguaggio di Heidegger sia estremamente complesso, quasi volutamente complesso: e in realtà lo è
solo nella traduzione italiana, perché nell’edizione in lingua originale il filosofo tedesco si serve
quasi della parlata quotidiana; egli opera una netta distinzione tra cosa, strumento, opera. Fin dalle
prime righe dello scritto "L’origine dell’opera d’arte" il problema dell’opera d’arte si moltiplica: dal
momento che l’opera d’arte è, in primo luogo, una cosa, chiedersi quale sia l’origine dell’opera
d’arte equivale a chiedersi quale sia l’origine della cosa in questione e la risposta più immediata che
si possa dare è che l’opera d’arte ha origine dall’artista. Tuttavia, fatto questo chiarimento, è bene
provare a rispondere ad una nuova domanda: quale è l’origine dell’artista? Paradossalmente, ci si
trova costretti a rispondere che la sua origine è l’opera d’arte. Ne consegue che se l’opera d’arte è
prodotta dall’artista, allo stesso modo l’artista è prodotto dall’opera d’arte: ci troviamo di fronte ad
un’evidente circolo vizioso, da cui si può uscire in un solo modo: trovando un terzo elemento, cioè
l’arte stessa. Possiamo dunque sfuggire al circolo vizioso soffermando la nostra attenzione non
sull’opera d’arte o sull’artista, ma sull’arte stessa, a cui sono ugualmente legati sia l’artista sia
l’opera d’arte: l’arte, in prima analisi, è definibile come attività umana, ma si tratta di una
definizione non soddisfacente. All’incirca a metà del saggio, Heidegger afferma che l’arte è "il
porre in opera la verità", quasi come se fosse la verità stessa a farsi opera, ovvero strumento o,
meglio ancora, un qualcosa che ha una sua precisa determinazione. La verità dell’arte, però, (ed è
proprio la ricerca di una verità dell’arte che accomuna la ricerca heideggeriana a quella
gadameriana), nota Heidegger, non è nemmeno tanto la bellezza: si può notare (e in parte l’abbiamo
già fatto) come cogliere un attrezzo come tale o coglierlo invece in funzione di qualcos’altro ("serve
per") non sia la stessa cosa; il quadro di Van Gogh, ad esempio, quello che Heidegger chiama le
"scarpe contadine", è poverissimo di elementi all’infuori delle scarpe stesse, tanto che nemmeno si
scorge bene il suolo: ed è proprio in quest’ottica che il paio di scarpe sinistre viene colto come cosa.
Certo, le scarpe servono alla contadina per camminare con passi sicuri per i campi, ma esse, se colte
come cose e non nella loro funzione ("servono per camminare") evocano un mondo, quello della
campagna contadina e delle sue fatiche. Proprio in questo evocare quel mondo, esse vengono
trascurate nella loro funzione fondamentale: viceversa, quando la contadina le calza ogni giorno per
recarsi al lavoro, le vede come puri e semplici strumenti per camminare e non come cose; ma
quando, nel giorno di festa, ne indossa un altro paio, al rivedere quelle scarpe con cui ha camminato
per i campi nel corso della settimana, esse rievocano in lei il mondo contadino, proprio perché in
quel momento non servono. Parimenti, anche nell’osservatore del quadro, come nella contadina la
domenica, le scarpe rievocano un mondo. Siamo dunque di fronte alla messa in opera della verità: la
cosa, nella tradizione occidentale, è o una cosa su cui poggiano significati o da cui muovono
percezioni o una cosa in cui si nota la distinzione tra forma e contenuto; le percezioni sensoriali,
infatti, nota Heidegger, rimandano alla sostanza, cosicchè posso cogliere la cosa attraverso le
percezioni (particolarmente significativo è l'esempioche adduce Heidegger: dalla mia stanza sento
sulla strada un forte rumore e, a partire da questa percezione, mi viene in mente una macchina o una
moto). Naturalmente sullo sfondo c’è un problema di vecchia data: è il pensiero che forma le cose
(come credeva Kant) o sono le cose che formano il pensiero (come credeva Aristotele)? La pretesa
di Heidegger è di uscire da questo vicolo cieco e una possibile soluzione è quella del "lasciare che",
così come, per tornare all’esempio del quadro, il mondo contadino si affida alle cose, senza porsi il
problema se abbia ragione Kant o Aristotele. Proprio in ciò risiede quella che Heidegger chiama
"affidatezza", ovvero il fidarsi del mondo, indifferentemente dal prendere una posizione kantiana o
aristotelica, ma prendendo una posizione che sta prima della metafisica. Ecco dunque che non si va
incontro ad una filosofia dell’arte, ma si coglie la verità nella sua affidatezza, senza strane
operazioni mentali volte a raggiungere la verità, dal momento che "siamo sempre nella verità"
("Essere e Tempo", paragrafo 34); si può anzi dire che "c’è verità finchè c’è l’esserci". La stessa
esistenza è, dunque, immersa nella verità: esistere significa porre il problema della verità, essere
nella verità, proprio come la contadina che è a suo agio con le scarpe per i campi; tutto quel mondo
che per i filosofi non è tanto ovvio, per lei lo è, senza neanche la necessità di rifletterci (facendo
dunque affidamento sul mondo). E il mondo è per lei aperto non perché le scarpe sono un attrezzo,
ma perché esse, colte nella loro cosalità, rappresentano l’apertura di quel mondo. Da tutto ciò
consegue che l’arte non è mera imitazione: Van Gogh non si è limitato ad imitare banalmente un
paio di scarpe di una contadina; e, similmente, Hölderlin, nella composizione dell’ "inno al Reno"
non si è limitato ad imitare il fiume. E del resto, se l’arte fosse imitazione, il tempio greco di cosa
sarebbe imitazione? Dunque, si può a ragione affermare che il paio di scarpe di Van Gogh non è
un’opera d’arte perché imita perfettamente le scarpe, ma perché raffigura un attrezzo colto in un
non-funzionamento capace di aprire un mondo. Di fondamentale importanza, in questa prospettiva,
è il tema della festa (che Gadamer riprenderà): essa è una manifestazione in cui tutto è sospeso, non
si lavora e si coglie il mondo come è nella sua normalità; infatti, quando nel corso della settimana
sono impegnato dal lavoro, non mi è dato di vedere il mondo perché sono tutto assorbito in esso.
Quando invece sopraggiunge la festa, gli attrezzi non vengono visti nella misura in cui "servono
per", ma sono colti nel loro essere cose e diventano quindi punti d’accesso di un mondo che
altrimenti non riuscirei a conoscere, diventano espressioni del sentimento della vita. Tuttavia, nota
Heidegger, la tecnica, imperante nell’attuale mondo, è di notevole disturbo, giacchè con essa tutto
"serve per" e non può dunque essere colto nel suo essere "cosa". L’opera d’arte, invece, ha il grande
merito di lasciare che la cosa sia nella verità, in uno stato d’animo che sfugge ai problemi
scientifici, ovvero con il concreto stupore di fronte all’essere che si manifesta nel mondo; l’arte fa
vedere la verità là dove la verità è la totale ovvietà (il mondo della contadina); è evidente come la
posizione di Heidegger, finora delineata, si contrapponga nettamente alla teoria del genio. Si tratta,
nella prospettiva heideggeriana, di portare il problema dell’ente non a una dimensione estetica
(come avveniva in Kant) ma alla verità, a come la verità accade nell’opera d’arte, poiché
quest’ultima è quella che è aperta alla verità. E’ dunque assolutamente sbagliato credere che l’opera
d’arte sia astrazione, poiché ciò implicherebbe una concettualizzazione: ma la verità della vita è
essa stessa vita e l’estetica sbaglia perché finisce per essere solo filosofia e non arte. Bisogna però
notare che il fatto che la verità sia apertura non implica una contrapposizione tra vero e falso: già
Aristotele, nel "De interpretatione", diceva che solo una parte del  nasce dalla
contrapposizione tra vero e falso, e non tutto; se infatti dico "apri la finestra", tale affermazione non
è suscettibile di falsità, c’è un vero non contrapposto al falso. Esaminiamo ora un po’ più nel
concreto l’opera: Löwith diceva che Heidegger è per metà uno scienziato e per metà un tribuno
della plebe; e in effetti è piuttosto difficile inquadrare Heidegger e i suoi scritti. Da "L’origine
dell’opera d’arte" emerge chiaramente come tutto sia affettività,  (nell’opera sono davvero
pochi gli argomenti filosofici) e come il miglior modo di esprimere queste ultime sia dato dalle
suggestioni evocative: fin troppo chiaro è il confronto con l’estetica tradizionale, che viene da
Heidegger risolutamente respinta (insieme alla metafisica) per essere sostituita da una visione
patetica e suggestiva dell’arte, scevra di argomentazioni logico-filosofiche. Il primo dei tre paragrafi
che costituiscono l’opera è intitolato "La res e l’opera" ed è, in realtà, preceduto da una breve
descrizione di come l’estetica tradizionale abbia sempre inteso l’arte: come allegoria (ovvero come
un "dire qualcosa attraverso altro" , giacchè in greco  significa letteralmente "dire
altro"; così la statua veniva intesa come dire un qualcosa nella pietra) e come simbolo (dal greco
 , "mettere insieme" una dimensione concreta, cioè la materia, con una
rappresentativa). L’arte è infatti, tradizionalmente, intesa come un qualcosa che non è solo la
materia che costituisce l’opera: bensì, è letta come l’unione di materia e forma, con un evidente
riferimento alla teologia, dal momento che l’opera d’arte viene sempre concepita come un prodotto
di qualcuno alla pari di come il mondo è inteso come prodotto di Dio. Il problema dell’estetica
tradizionale risiede proprio nel considerare tutto in questo modo, mettendo insieme la dimensione
pensata (formale) con quella materiale, priva di forma. Ora, Heidegger dice che si deve invece
cogliere la cosa nella sua semplicità ed affiora un tratto che viene sviluppato soprattutto nel secondo
paragrafo, intitolato "La verità e l’opera", in cui si tratta del rapporto tra terra e mondo. Nel
tentativo di cogliere la cosa nella sua semplicità, ci si accorge che essa, quanto più si cerca di
afferrarla, tanto più si allontana da noi, come quando stringiamo una pietra ed essa si sbriciola: il
lavoro che svolgiamo nei confronti delle cose, dunque, non fa altro che consumarle; il merito
dell’arte, quindi, sta nel trattare le cose senza consumarle e proprio in questo risiede la differenza tra
il lavoro dell’artigiano e quello dell’artista: l’artigiano consuma il colore nel verniciare le pareti,
l’artista, invece, gli conferisce valore e lo fa essere ciò che esso è per davvero. Nell’opera
heideggeriana incontriamo una notazione di rilievo sul rapporto tra opera e cosa: tutto il primo
paragrafo è dedicato alla comprensione della cosa, come se fosse necessario comprenderla per
poter, di conseguenza, comprendere l’opera d’arte; si tratta, ovviamente, di una suggestione
inargomentabile con armi logiche, poggiante su basi puramente "retoriche" (cioè, in un certo senso,
affettive). La scoperta cui porta il primo paragrafo è che, paradossalmente, non è la comprensione
della cosa a spiegare l’opera d’arte, ma, al contrario, è la comprensione dell’opera d’arte a farmi
capire il significato della cosa. L’esempio addotto da Heidegger è, come abbiamo già visto, quello
del quadro delle scarpe di Van Gogh. Nell’opera d’arte, nota Heidegger, è rappresentato un attrezzo
(le scarpe "servono per" camminare) ma in realtà, se letta in trasparenza, non è rappresentato in
quanto attrezzo o in quanto cosa, viceversa l’opera d’arte coglie l’ "attrezzalità" nel momento in cui
l’attrezzo non funziona come attrezzo; vedo che nel quadro qualcosa si sottrae e l’opera d’arte mi fa
vedere che è un attrezzo (e non viceversa, come vogliono invece l’estetica e la metafisica). E’
dunque attraverso l’opera d’arte che colgo la cosalità delle cose, e non già perché colgo la materia
(certo, è innegabile, le opere d’arte sono in materia e sono cose, anche se non tutte le cose sono
opere d’arte): attraverso questo coglimento scorge il particolare sottrarsi di quel qualcosa che
Heidegger chiama "terra"; non bisogna pensare che l’opera d’arte sia imitazione della realtà: e per
convincerci Heidegger adduce due esempi, quello della poesia "La fontana" e quello del tempio
greco; sembrano pure e semplici descrizioni di una cosa (di una fontana, di un edificio), ma in realtà
viene colta l’essenza, rispettivamente, della fontana e del paesaggio (nel caso del tempio), come se
l’opera d’arte istituisse un mondo. Il tempio greco è immerso nel paesaggio e tutto ciò che è, è in
riferimento al tempio, giacchè esso è una essenza o, se preferiamo, uno "stanziarsi" (perfino il
temporale è in riferimento al tempio). L’essenza qui in questione non è il tratto comune che fa sì,
come in Platone, che tutte le case partecipino dell’unica idea di casa, ma, al contrario, è il tratto
fondativo: non dobbiamo pensarlo, cioè, come il tratto comune che le cose hanno, ma come il tratto
che fonda un mondo. Ed è proprio questo che viene sottratto al mondo moderno, che non ha più gli
déi, non ha più tratti fondativi, è invaso dalla tecnica, non coglie più il tempio greco come essenza e
tiene nei musei le opere d’arte come se fossero banali oggetti tecnici. La stessa arte è, nel mondo
moderno, incapace di esporre il mondo, il che significa che quest’ultimo non è più costruito a
partire dall’opera d’arte, ma dalle determinazione tecnica: l’essenza diventa allora qualcosa di
calcolabile e di strettamente razionale, o, se vogliamo, la ragione diventa calcolo (vedi il paragrafo
due). La suggestione cui fa costante riferimento Heidegger si è ritirata dal mondo moderno e, nel
secondo paragrafo dell’opera, il filosofo si distacca dall’idea che l’opera parli della bellezza: essa
parla, invece, della verità e a parlarne non è la logica; tuttavia il mondo moderno è un mondo che
non ha più bisogno di opere d’arte. In una conferenza tenuta a Brema sul "Pericolo" Heidegger dice
che l’arte può tranquillamente sparire dal mondo e tramutarsi in tecnica, però c’è il pericolo di far
sopravvivere un mondo che non appartiene più alla sua essenza propria, cosicchè si finisce per
credere di vivere in un mondo assolutamente tecnico, ma in realtà si continua a vivere in quel
mondo che un tempo era costruito intorno all’opera d’arte (viene in qualche modo ripreso il tema
del "salto"). La tecnica spezza il rapporto con la terra, la quale si ritira: se il tempio dei Greci
guardava in tutto e per tutto fuori di sé, la Chiesa cristiana, viceversa, guarda interamente al proprio
interno (le funzioni, gli ori, la vita). Si tratta dunque, per superare questa situazione moderna, di fare
un "salto" o anche "un passo indietro", poiché il mondo moderno non riesce a vedersi nel suo
insieme, sa solo quantificare le singole cose: per fare ciò occorre guardare non alle opere come cose
(come fa l’estetica), ma alle cose come opere, sospendendo l’ "attrezzalità" dello strumento.
L’opera d’arte, quindi, attraverso la sua cosalità fonda e apre l’intero mondo, in quanto questo
poggia su una terra che si sottrae: quest’ultima non è rappresentata nel quadro di Van Gogh, ma
ciononostante è possibile cogliere che il mondo della contadina poggia sulla terra. Nel paragrafo
due Heidegger dice che il mondo "si fa mondo" e che proprio in ciò risiede l’essenza del mondo:
esso non è quindi una determinazione stabile, ma è un divenire continuo, un "mondeggiare",
giacchè il mondo è un farsi mondo e ha bisogno di un atto fondativo, che (nel caso del quadro) può
essere individuato nelle scarpe che durante il giorno di festa non vengono calzate e usate. In
quest’ottica, bisogna ricostruire la filosofia a partire dall’affettività (la retorica aristotelica), con un
"salto", o, come avrebbe detto Bergson, con "un supplemento di anima". Le cose sono senza
mondo, gli animali ne sono poveri: solo l’uomo ha mondo, perché egli ha l’arte; certo, gli animali
dispongono della tecnica (sanno costruire strumenti a loro utili), ma solo l’uomo possiede la mano e
se il mondo della tecnica è retto dal pensiero (come anche quello dei Greci), al contrario il mondo
proposto da Heidegger è il mondo della mano, in cui anche il pensiero è opera della mano (e non
viceversa). Sotto questo profilo, l’America rappresenta l’apice della tecnica, e ciò è ravvisabile, ad
esempio, nel fatto che le opere d’arte vengano valutate, alla pari di ogni altra cosa, nel prezzo (la
quantificazione tipica dell’era della tecnica), cosicchè si può scegliere se comprarsi una casa, una
vacanza o, magari, un’opera d’arte. Nel secondo paragrafo, "La verità e l’opera", il problema
dell’opera d’arte viene ricondotto al problema della verità ed è questo il punto centrale del pensiero
di Heidegger: come va intesa la verità perché l’opera d’arte possa essere concepita come sua
rappresentante? Tradizionalmente, la verità è stata letta come corrispondenza tra la cosa e
l’intelletto, con la conseguenza che tutta la tradizione greco-scolastica ha finito per contrapporre il
pensiero alla materia, e la stessa concezione di Dio soggiaceva a questo schema (Dio crea a partire
da un atto intellettivo). Ora, Heidegger vuol superare questo antico modo di pensare per poter così
intendere la verità in un altro modo e per fare ciò non adotta argomentazioni propriamente
filosofiche, proprio perché vuole superare il momento intellettuale. Come è noto, per i Greci la
 era un sapere, un far venire alla luce l’ente ed è qui che, allora, la verità non può essere una
mera corrispondenza, altrimenti essa non sarebbe che la trasformazione delle cose della realtà in
pensiero (ed è così che opera l’Occidente, pensiamo a Cartesio). Dobbiamo provare a pensare la
verità non a partire dalla divisione cosa/pensiero, e a tal proposito Heidegger parla di "non-verità",
ossia di una verità che non ha contrapposizioni, che non è cioè contrapposta alla falsità, ma che è la
verità di un conflitto. Sempre nel secondo paragrafo, si accenna, in questa prospettiva, al conflitto
intercorrente tra terra e mondo: il mondo è un qualcosa che si fa a partire dalla terra, ciò su cui il
mondo poggia ma che si ritira (della terra non posso fare un mondo, giacchè essa non si lascia
civilizzare); la verità è esattamente il restare nel conflitto, essa non è una determinazione logica: è,
anzi, una "non-verità", una dimensione in cui emerge il conflitto. Ma se l’arte non è né una copia né
un’imitazione di qualcosa, ma è verità, allora cosa si vede nell’opera d’arte (il quadro, il tempio,
ecc)? si vede l’origine, risponde Heidegger nel terzo paragrafo (intitolato "Verità e arte"): l’opera
d’arte viene letta come origine; propriamente, però, non c’è un’origine dell’opera d’arte, come non
c’è un’origine della verità, ed è per questo che l’opera non può essere semplice imitazione della
realtà. Ora, in questo terzo e conclusivo paragrafo, si afferma esplicitamente che l’opera d’arte è
origine e, in virtù di ciò, verità. L’intero paragrafo orbita intorno a due questioni di fondo: 1) la
differenza tra "creare" e "approntare"; 2) quale è l’essenza dell’opera d’arte, perché io possa dire
che l’opera è creare? Analizziamo in primis il primo problema: noi traduciamo con "creare" la
parola tedesca "shaften", che, in realtà, è meno impegnativa del nostro "creare"; essa significa
semplicemente "fare (senza seguire un modello)", cosicchè il "creare" è sempre un creare
guardando all’inusitato, con un "urto" contro l’essere che inaugura un mondo. Si dona senso
inaugurando il mondo con l’opera d’arte, cosicchè quest’ultima è l’origine del mondo: le
dimensioni fondative sono, secondo Heidegger, quattro: a) l’opera d’arte; b) lo Stato; c) la domanda
del pensatore; d) il sacrificio essenziale (la morale fondata sul proprio sacrificio). Tale dimensione
fondativa consiste nel dar luogo a qualcosa che prima non c’era e che ora viene ad esserci, con un
inizio che è confine tra terra e mondo. L’opera d’arte è creazione perché coglie il momento del
conflitto, e non è imitazione: nel quadro di Van Gogh, non vengono imitate le scarpe reali, ma è
colto (attraverso la rappresentazione delle scarpe) il conflitto tra terra e mondo. L’opera è, dunque,
quel punto di sutura tra la terra e il mondo, in cui il ritirarsi della terra consente quella donazione di
senso che è il mondo. Un ruolo particolare è affidato al "dettare": l’arte della parola ha un
significato preminente perché la parola è ciò che più di ogni altra cosa ha funzione fondativa, sa
dare origine (oltrechè ornare). "Dettare" è per Heidegger diverso rispetto a "poetare": "dettare" è
l’arte che dà origine, "poetare" è l’arte che dà ornamento. La creazione è la capacità di far uscire
dall’oscurità della terra ciò che per sua natura tende alla luce: e l’artista fa esattamente questo. Tutto
il secondo paragrafo è, come abbiamo detto, dedicato alla cosa e all’opera, e viene messo in luce
come la cosa non è un qualcosa che viene fatto, mentre l’opera sì, è appunto "messa in opera", e la
sua essenza risiede nel far affiorare l’ente; l’opera non può essere dunque ridotta a pura cosa, perché
ci si accorge della realtà della cosa grazie all’opera d’arte e non viceversa. L’essenza dell’opera non
sta nell’essere conservata al museo o in biblioteca, ma la sua origine è che è essa stessa origine, e il
mondo in cui viviamo è riflesso di Omero, di Sofocle e di Hölderlin. Ci sono quelli che "creano",
ma anche quelli che "salvaguardano": infatti, una volta creata, l’opera d’arte può essere colta da chi
la osserva e costui, in tal caso, ne diventa il custode e prolunga l’atto creativo di essa (e questo non
perché è custodita nel museo). "Ciò che resta è fondato dai poeti", diceva Hölderlin nella chiusa di
un suo famoso inno: per Heidegger ciò significa sia che quanto si conserva ("resta") è dell’arte, sia
che quanto ci sarà, sarà solo più dell’arte. Non a caso la sesta parte dei "Contributi alla filosofia" si
intitola "I futuri", con l’idea di fondo che afferrare il senso dell’opera d’arte equivalga ad essere
aperti ai "futuri". Ma quella dell’opera d’arte è una "non-verità", poiché non è un qualcosa di fisso
una volta per tutte; ugualmente non c’è un pensiero fisso in grado di capire a fondo l’intero mondo,
ed è per questo che Heidegger polemizza contro la filosofia tradizionale , la quale cristallizza tutto
in schemi predeterminati; piuttosto che agire in tal modo, nota Heidegger, è meglio credere che la
verità venga fuori dal nulla, sia creata e, nel momento in cui è creata, fornisca un criterio di sè.
Tutte le opere d’arte sono casuali e inventate ma, tuttavia, proprio perché ci sono, portano con sé la
comprensione di determinati ambiti del mondo. Quale parola può fissare tutto questo? La parola
tedesca "Gestahlt", che significa "forma" ("forma" però intesa senza riferimenti materiali, altrimenti
sarebbe "sagoma"): l’opera d’arte si propone in una sua forma; nel saggio compare, in merito, il
tema del "ciò che è posto", con l’idea, ad esempio, dell’essere esposte delle opere d’arte nelle
mostre. L’opera deve essere prodotta (nei suoni per quel che riguarda la musica, nella pietra per la
scultura, nei colori per la pittura, ecc) e per far ciò è necessaria la materia, ma Heidegger respinge
nettamente la tradizionale distinzione materia/forma (giacchè rifiuta che l’arte nasca come messa in
atto del pensiero): tutto ciò va, per, a favore della materia. Infatti, è vero che la pietra non è pura e
semplice "materia" e che la statua non è pura e semplice "forma", ma la statua è per Heidegger la
pietra stessa che emerge, come la poesia è la parola stessa che emerge. Certo, l’opera d’arte rende
possibile la comunicabilità e Heidegger nota come sia necessaria una nuova parola che sostituisca
quella che significa "materia", poiché quest’ultima (restando all’esempio della scultura) designa
solo la pietra e non la statua. Heidegger propone allora la parola "Gestell", che, letteralmente,
significa "piedistallo", "ripiano" e, in generale, tutto ciò su cui si può appoggiare qualcosa; tale
termine viene da Heidegger impiegato in connessione a "Gestahlt" ("forma") e può essere tradotto,
meglio che con "piedistallo", con "supporto", "formatura", come se questa parola fosse adoperata
per indicare qualcosa di diverso da ciò che solitamente indica: è avvenuto qualcosa, è stato posto
qualcosa nel marmo e per questo il marmo si è rivelato come marmo. Ciò ha richiesto l’opera di una
mano: e l’opera d’arte è proprio questo, un qualcosa che non c’era e che è stato posto e non a partire
dal pensiero; è infatti grazie alla mano che la pietra si è mostrata nel suo essere pietra, senza alcun
contenuto "culturale"; il mostrarsi della pietra, dunque, rivela l’opera della mano. E il conflitto tra
terra e mondo è conflitto tra nascondimento e illuminarsi, il quale è ottenuto con uno scontro contro
la terra: esattamente questo è la verità, ossia l’illuminarsi in contrasto con l’oscurità della terra; e
Heidegger parla espressamente di "montagna dell’essere", in riferimento all’emergere da una terra
che non può essa stessa mostrarsi. La ricerca che avviene nell’arte è proprio la ricerca dell’apertura,
senza contrapposizioni col falso, poiché non è questione di logica, ma di mano: proprio a partire da
questi presupposti, Derrida ha scritto un saggio su "La mano di Heidegger", con riferimento
all’esistere come dimensione operativa ed esistentiva; del resto, il paragrafo 38 di "Essere e Tempo"
recita che "l’esserci esiste di fatto". Certo, il pensiero rientra nel fare, ma non lo precede. Il termine
centrale in questa ricerca che avviene nell’arte è "Riss", il "tratto scissibile", la "crepa", ovvero il
cogliere il distacco del mondo dalla terra, cogliendo il mondo e, nel contempo, il suo inverso (la
terra appunto). Il mondo, proprio in virtù di questa scissione, è labile e l’arte non fa che fissare
momentaneamente il mondo. Già nella riflessione di Dilthey era centrale la parola Erlebnis
("esperienza vissuta"), derivante dal verbo Erleben ("vivere"): se in Dilthey tale parola era
fortemente positiva perché coglieva la vita (e Dilthey si proponeva appunto di costruire una
filosofia della vita), per Heidegger è l’esatto opposto, è una parola negativa, poiché probabilmente
nell’Erleben l’arte non vive, ma muore. A questo proposito, Heidegger cita esplicitamente Hegel e
la sua "Estetica": l’arte ha cessato di essere il modo primario in cui accedere alla verità e dunque
appartiene al passato; tuttavia, se per Hegel è giusto che sia così, perché il movimento dello Spirito
prevede un superamento dell’arte in favore della filosofia, al contrario, per Heidegger, è una cosa
pericolosissima, anche se per noi è piuttosto difficile capire a fondo che cosa egli voglia
effettivamente dire. Certamente, non pensa ad un ritorno magico a quando la verità si mostrava
nell'arte, perché ciò sarebbe un inutile rimpianto per il passato; in particolare, nella postfazione a
"L’origine dell’opera d’arte", egli dice che il problema non è quello di risolvere l’enigma dell’arte
ma, piuttosto, di vederlo, di accorgersi cioè che esso sussiste. La posizione hegeliana, che pensa la
morte dell’arte, in fondo continua a credere che l’enigma dell’arte sia risolto sotto forma di
trapassamento della verità dall’arte alla filosofia, ma questo è proprio ciò che Heidegger si rifiuta di
accettare: è inammissibile, egli sostiene, che vi sia una carica spirituale che possa manifestarsi
prima nell’arte e poi nel pensiero. La storia stessa, egli prosegue, non è un puro e semplice
passaggio da certe maniere di manifestarsi della verità ad altre: tanto più che, per quel che riguarda
l’arte, essa non può affatto essere risolta come contrapposizione di spiritualità a materialità, come
faceva Hegel, ad avviso del quale l’artista fissa i concetti attraverso forme materiali (il marmo per la
scultura, la tela per la pittura, ecc). Sarebbe del resto assurdo accettare tale contrapposizione, visto
che nell’arte si manifesta la verità come messa in opera e questa messa in opera della verità vale sia
nel senso che la verità viene messa in opera sia nel senso che lei stessa si mette in opera. Il
momento sensibile non può (né deve) essere superato, checchè pensi Hegel: né è vero che oramai
l’arte debba continuare ad esistere come un qualcosa confinato ad una certa limitata regione.
Viceversa, secondo Heidegger, la verità si mette in opera nell’arte e il sensibile non è affatto un
limite: in quest’ottica, Heidegger propone di eliminare la classica distinzione tra il sensibile e lo
spirituale, tra la materia e la forma; per restare all’analogia con Hegel, non è sbagliato dire che per
Heidegger la verità sia sempre già data nella tesi, immediatamente, senza dover attendere la sintesi
per coglierla: l’essere stesso è una frattura, è sempre situato, ma bisogna fare attenzione a non
confondere la posizione heideggeriana con quella materialistica: ogni cosa è appropriazione di se
stessa, non la si può immaginare come proveniente da altrove; al massimo, è lecito affermare che la
verità provenga dal nulla, a patto che non si parli del nulla dell’ente. Ogni cosa è grazie ai suoi
confini, in antitesi con quanto diceva la tradizione, la quale collocava le cose come se il confine
fosse una condanna, mentre invece una cosa è grazie ad esso (la perfezione delle cose sta sempre
nel finito, dice Heidegger). L’arte è quindi un evento ed è del tutto casuale che l’opera si trovi
appesa ad un muro, conservata in un museo o esposta in una mostra: certo, se Van Gogh non avesse
dipinto quelle scarpe, il mondo della contadina ci sarebbe stato ugualmente (seppur limitato
all’esperienza della contadina), ma sarebbe a noi rimasto sconosciuto. Si può stabilire una
differenza tra Erleben e Bewahren: il primo implica una sfumatura psicologica (il ricostruire
mentalmente il mondo della contadina), il secondo non richiede alcuna capacità (è semplicemente la
presenza della verità di quel mondo). Il quadro è inverato da chi lo guarda perché c’è la verità,
l’essere, il quale traspare nell’opera d’arte ed è "dettato". E poi non ci può essere un superamento
dell’arte anche perché le cose non possono non essere espresse nel sensibile: con questo vivace
attaccamento all’arte, quasi un po’ conservatore, Heidegger sembra legato ad un mondo
primordiale, a quello che, ironicamente, Cassirer ha definito il mondo "come era il primo giorno".
L’opera d’arte non può né deve essere superata e quella di Hegel è solo un’illusione, poiché i limiti
della materia sono i limiti dell’essere. Dobbiamo poi tener presente che c’è un potere della tecnica
che tende a sfuggirci: tutto ciò che l’arte raccoglie entro confini determinati, ritorna tale e quale
nella tecnica. Heidegger propone un sapere che non necessariamente sia conoscenza, cioè conforme
a regole universali: e infatti difende l’opera d’arte come particolare punto di vista limitato contro
l’universalità del sapere. E i confini non sono ciò che ci vieta di andare oltre, ma ciò che ci spinge
ad andare oltre e ci determina. Il comunismo stesso è inteso come trionfo universale della
razionalità e come negazione di quell’appropriamento dell’essere che è la proprietà; la scienza si
mette al servizio della tecnica per creare strumenti tecnici; anche Spengler vede il "tramonto
dell’Occidente" come frutto del trionfo della tecnica e gli stessi campi di sterminio impiegati dai
nazisti sono, in fin dei conti, una soluzione tecnica. In questa prospettiva, Heidegger dice che lo
stupore della filosofia non va spento (come pretende di fare la scienza), e la verità non è una
determinazione universale, ma il particolare evento per cui la verità si fa opera e si apre come
mondo. Con "L’origine dell’opera d’arte" la verità viene tenuta distante dall’universale e, proprio
perché messa in opera della verità, l’opera d’arte può dirsi bella.
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