CAPITOLO PRIMO TASSATIVITÀ E DISCREZIONALITÀ NEL DIRITTO PENALE Sommario: 1. Il principio di “tassatività” o di “sufficiente determinatezza della fattispecie” nel diritto penale (art. 25, 2 comma, Costituzione). 2. La discrezionalità nel diritto penale: libera o vincolata? 3. Le cd. circostanze discrezionali. 4. La discrezionalità nell’ambito delle circostanze attenuanti indefinite. 1. IL PRINCIPIO DI TASSATIVITÀ O DI SUFFICIENTE DETERMINATEZZA DELLA FATTISPECIE NEL DIRITTO PENALE (ART. 25, 2 COMMA, COSTITUZIONE) L’esigenza sociale di una certa predeterminazione delle norme penali rappresenta la base del principio di legalità nel quale si compendiano le molteplici istanze garantiste relative alle fonti del diritto penale e consistenti, in sintesi, in una tendenziale predeterminazione e concentrazione legislativa della norma penale. La legalità penale gioca, pertanto, un ruolo primariamente funzionale agli scopi e alla natura stessi del diritto penale, rispondendo ad esigenze prettamente interne piuttosto che esterne: se, infatti, il precetto penale deve aspirare, in qualità di normacomando, ad influenzare i comportamenti dei suoi destinatari, è chiaro che esso deve essere da questi ultimi accessibile e conoscibile. L’esigenza della predeterminazione normativa dei precetti penali deriva inoltre dal fatto che il diritto penale è sostanzialmente privo di quella sfera di autonomia tipica invece del diritto privato o del diritto amministrativo che sono principalmente orientati a fornire modelli positivi di azione: in sostanza, nella vasta area del diritto extrapenale non esiste una forte concentrazione delle fonti di produzione del diritto, né un principio di rigorosa predeterminazione delle regulae iuris. Nel diritto penale, viceversa, la mancanza di una sfera di autonomia comprime naturalmente i canali di produzione-applicazione del diritto, e proprio la stessa funzione della norma incriminatrice spinge logicamente verso l’irrigidimento e l’esaltazione della legalità. Il principio di legalità risponde infine ad un’esigenza propriamente di “garanzia di libertà” che viene appagata con l’accessibilità della norma penale. La libertà del cittadino significa, infatti, la possibilità di esercitare le sue facoltà di autodeterminazione, con la conseguente possibilità di decidere il comportamento, valutando consapevolmente le conseguenze certe od eventuali delle proprie azioni. Se il soggetto non fosse in condizione di poter calcolare preventivamente la pena, egli non sarebbe in grado di poter esercitare pienamente la sua facoltà di autodeterminazione e, quindi, sarebbe in qualche modo vulnerato l’esercizio della sua libertà. Il principio di legalità trova espresso riconoscimento e la sua enunciazione: nell’art. 25, 2 comma, della Costituzione ai sensi del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”; nell’art. 1 cod. pen. “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”; in ambito europeo, nell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia delle libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo del 19501. L’ordinamento italiano si inserisce a pieno titolo nella tradizione legalitaria degli Stati liberal-democratici dell’Europa occidentale, non avendo abbandonato il principio di legalità nemmeno durante la parentesi del regime fascista. La puntuale enunciazione nell’ambito della costituzione si inserisce in una trama di ulteriori disposizioni costituzionali (dall’art. 3 all’art. 13, dall’art. 23 all’art. 101), dalle quali è possibile ricavare una conferma sistematica dell’ispirazione legalitaria del nostro ordinamento. Nonostante la stringatezza dell’art. 25, 2 comma Cost. vi è unanimità nel ritenere il principio di legalità articolato sotto molteplici profili. Più precisamente si ritiene che quest’ultimo si specifichi in 4 fondamentali sottoprincipi: riserva di legge; tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale; irretroattività della legge penale; divieto di analogia in materia penale. Il principio di legalità sarebbe rispettato nella forma, ma eluso nella sostanza se la legge che eleva a reato un dato fatto, lo configurasse in termini così generici da non lasciare individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente sanzionato. “Art. 7 Nessuna pena senza legge 1. Nessuno può essere condannato per un’azione o una omissione che al momento in cui fu commessa non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole d’una azione o d’una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. 1 Il principio di determinatezza coinvolge pertanto la tecnica di formulazione delle fattispecie criminose e tende, precipuamente, a salvaguardare i cittadini contro eventuali abusi del potere giudiziario. La determinatezza delle fattispecie incriminatrici rappresenta una condizione indispensabile perché la norma penale possa efficacemente fungere da guida del comportamento del cittadino: una norma penale, infatti, persegue lo scopo di essere obbedita, ma ciò non può naturalmente avvenire se il destinatario non ha la possibilità di conoscerne con sufficiente chiarezza il contenuto. Con l’esigenza di determinatezza si fa, pertanto, riferimento ad un requisito di formulazione della norma (legislativa): essa deve contenere il precetto in maniera così precisa da ridurre al minimo e sostanzialmente a zero il ricorso integrativo alle fonti sostanziali. Correlativamente, con la tassatività si fa riferimento ad un divieto applicativo per il quale al giudice viene vietato di applicare la norma legislativa oltre i casi da essa previsti. In definitiva, tanto la determinatezza quanto la tassatività mirano ad escludere, o circoscrivere, la possibilità che il giudice, nella qualificazione giuridica del fatto sottoposto al suo esame, vada oltre l’indicazione valutativa che gli è offerta dalla regula iuris legislativa. Ma, mentre la determinatezza opera sul piano legislativo della formulazione della norma per chiudere preventivamente gli spazi interpretativi del giudice, la tassatività opera direttamente sul momento interpretativo-applicativo, ponendosi come autonomo canone ermeneutico generale diretto a vietare il ricorso alla tecnica dell’analogia che invece è utilizzabile in tutte le altre aree dell’ordinamento giuridico. Il principio di determinatezza ha come obiettivo finale quello di ridurre l’ambito della discrezionalità del giudice a favore degli organi titolari del potere di produrre le fonti formali del diritto penale, e cioè il legislatore. Esso pertanto risponde ad un’esigenza di precisione e certezza nella formulazione ed applicazione delle norme, particolarmente viva nel settore del diritto penale in considerazione dell’importanza dei beni personali messi in gioco dalla sanzione. Il principio di determinatezza costituisce l’ultimo e più raffinato frutto dell’evoluzione del principio di legalità, ed in effetti esso risulta caratterizzato dalla più forte stabilità di contro all’evoluzione storico-politica degli ordinamenti giuridici. Chiaramente riconoscibile dietro il principio di determinatezza è, infatti, un’esigenza di certezza giuridica che tende a porsi come una vera e propria costante universale del diritto penale. Alcune precisazioni preliminari sul principio di determinatezza appaiono opportune prima di analizzarne le fonti e il fondamento. In primo luogo, va detto che il principio di determinatezza presenta una duplicità di contenuto. Da un lato, ordinando la formulazione chiara e precisa della norma penale, esso riguarda il momento genetico di produzione della legge e dunque si rivolge essenzialmente al legislatore. Dall’altro lato, avendo come obiettivo finale la riduzione delle incertezze applicative della norma e il contenimento del potere del giudice, esso riguarda il momento interpretativo e conseguentemente è all’origine di talune speciali regole che tendono ad irrigidire l’attività interpretativa del giudice penale limitando in particolare il ricorso all’analogia. In secondo luogo giova ricordare che il principio di determinatezza esprime un’esigenza di precisione, di formulazione e applicazione della legge penale. In terzo luogo, va sottolineato come tale principio, pur ponendosi nei confronti dell’intero ordinamento penale, nella dinamica della sua vita applicativa rivela invece pretese di diversa intensità a seconda della specie di norma di cui si tratta2. Procedendo ora all’analisi delle fonti del principio di determinatezza, va precisato che non sono certamente numerose, né a livello costituzionale, né a livello di legge ordinaria, le fonti che si riferiscono al principio di determinatezza mettendone in luce gli aspetti e il contenuto. Anzi, mentre la nostra Costituzione non contiene nessun riferimento diretto alla determinatezza, le fonti di legge ordinaria fanno prevalente riferimento al solo aspetto della determinatezza che concerne il momento interpretativo ed applicativo della legge penale. L’esigenza di determinatezza, infatti, è particolarmente forte nei confronti delle norme incriminatrici di parte speciale, che debbono indicare i comportamenti criminosi con una precisione adeguata alla funzione selettiva propria della norma incriminatrice, piuttosto che nei confronti delle norme di parte generale che individuano i presupposti della responsabilità penale per l’intero universo delle norme incriminatrici. 2 Così, ad esempio, l’art. 1 cod. pen., nell’enunciare il principio di legalità (“nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”), utilizza l’avverbio “espressamente” che viene solitamente inteso come implicante il divieto di interpretazione analogica delle norme penali. La stessa cosa può dirsi a proposito della formulazione del principio di legalità per le misure di sicurezza (art. 199 cod. pen. “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla stessa legge preveduti”), ove il riferimento ai “casi” previsti dalla legge è nuovamente espressivo di un divieto di applicazione analogica delle misure di sicurezza. E, d’altra parte, il divieto di analogia delle leggi penali non manca di essere esplicitamente previsto da altra norma di legge ordinaria, e cioè l’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, ai sensi del quale “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Una disposizione dal contenuto pressoché identico esiste, poi, anche per l’illecito punitivo amministrativo. Recita, infatti, l’art. 1.2 della legge 24/11/1981, n. 689 che “le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”. A livello costituzionale, solo per le misure di sicurezza è rintracciabile nell’ultimo comma dell’art. 25 Cost. un divieto espresso di analogia che ricalca da vicino quello dell’art. 199 cod. pen. (“nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”). Per quanto riguarda, invece, le pene, l’art. 13.2 Cost. consente di ricavare un divieto di analogia in materia penale solo indirettamente, dalla disposizione secondo cui “non è ammessa forma alcuna di detenzione se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. L’art. 25.2 Cost. per contro, contiene un’enunciazione molto stringata del più generale principio di legalità, ove l’accento cade essenzialmente sulla riserva di legge e sul principio di irretroattività della legge penale. Tuttavia, ciò non ha impedito alla dottrina e alla giurisprudenza costituzionale di sottoporre la norma ad un’interpretazione evolutiva, così da pervenire alla pacifica conclusione della costituzionalizzazione del principio di determinatezza nella sua duplice componente della formulazione legislativamente determinata e del divieto di analogia delle leggi penali. Riprendendo ora il discorso sul fondamento del principio di determinatezza, si può sostenere che sono sostanzialmente due le prospettive che si pongono al riguardo. Da un lato, la formulazione determinata della norma e la sua applicazione univoca e rigorosa possono essere viste in funzione di una fondamentale esigenza di certezza del diritto. Dall’altro, il requisito della determinatezza della formulazione ed applicazione della legge penale può essere concepito in chiave di garanzia contro le potenziali e sempre pericolose esorbitanze del potere punitivo statale. 2. LA DISCREZIONALITÀ NEL DIRITTO PENALE: LIBERA O VINCOLATA? I profili nozionistici della discrezionalità penale3 sono stati oggetto di approfondite analisi da parte della dottrina italiana. Dalle molteplici definizioni proposte emerge, quale connotato comune, il riconoscimento che le ipotesi di discrezionalità si sostanziano in un rinvio da parte della legge al caso concreto. Nel nostro ordinamento, data la mancanza di una definizione normativa della discrezionalità, si è ritenuto che, per evitare di assumere come punto di partenza i presupposti di carattere meramente metagiuridico, bastasse riportarsi all’art. 133 4 c.p. che è l’unica norma nella quale si accenna esplicitamente al potere discrezionale 3 Storicamente il problema della discrezionalità comincia a porsi in termini a noi noti con il consolidarsi dell’idea dello stato di diritto. Esso si inserisce nel quadro della più ampia tematica dei limiti all’esercizio del potere punitivo statuale ed è strettamente connesso al soddisfacimento di esigenze di legalità. In precedenza, il giudice esercitava il suo potere secondo l’arbitrio più sfrenato. Era stabilita, cioè, la regola secondo la quale il giudice era sciolto dall’obbligo di osservare le prescrizioni legislative, potendo quindi infliggere sanzioni penali secondo criteri personalissimi. Esigenze opposte di tutela della dignità e libertà individuale caratterizzarono, invece, l’atteggiamento degli illuministi i quali, almeno nelle prime espressioni, assunsero posizioni radicali di assoluto diniego dell’autonomia giudiziale dalla legge. È emblematica, al proposito, la posizione di Cesare Beccarla che, proprio per contrastare una prassi basata sull’arbitrio, nega al giudice addirittura la possibilità della stessa interpretazione, e afferma “in ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore deve essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto o voglia fare anche due soli sillogismi, si apre la porta all’incertezza. Non vi è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni”. 4 133. “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena. Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1. dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2. dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato [c.p. 626]; 3. dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1. dai motivi a delinquere e dal carattere [c.p.p. 220] del reo; 2. dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3. dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; del giudice e che viene considerato quindi come il modello paradigmatico della discrezionalità penale. Alla norma dell’art. 133 viene attribuita un’autonoma funzionalità sul piano del diritto penale sostanziale, in quanto esso viene assunto come il punto di riferimento per stabilire il tipo di rilevanza di ogni istituto previsto nella forma della discrezionalità. La discrezionalità sorge, secondo alcuni, da una “varietà infinita di possibili situazioni che meritano specifico apprezzamento…. onde si deve lasciare all’organo giurisdizionale il compito di determinare nel caso concreto il pensiero del diritto” 5. Per altri6, si tratta del “potere concesso al giudice di cogliere un significato di valore, cui sono collegate conseguenze giuridiche, senza la mediazione di una fattispecie per attuare la volontà legislativa…preliminarmente individuata attraverso i canoni dell’interpretazione”. Anche da parte di una dottrina7 generalmente critica nei confronti delle tradizionali ricostruzioni unitarie della discrezionalità, si riconosce che “l’esame dell’unica ipotesi…per la quale si ritrova nel nostro ordinamento un’espressa regolamentazione rivela…l’esigenza di non trascurare…il contenuto peculiare del singolo episodio criminoso e la conseguente necessità di affidarsi alla valutazione del giudice perché realizzi una giustizia individualizzante”. 4. dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”. 5 Cfr. Messina, La discrezionalità nel diritto penale, Roma, 1947, 83. 6 Cfr. Stile, Il giudizio di prevalenza o di equivalenza tra le circostanze, Napoli, 1971, pag. 191. 7 Cfr. Latagliata, Circostanze discrezionali e prescrizione del reato, Napoli, 1967, pag. 56. L’autorevole Franco Bricola, da parte sua, individua “l’essenza della discrezionalità penale nella rinunzia da parte del legislatore ad esprimere un significato astratto…e nel conseguente rinvio al caso concreto, perché esso esprima, nella sua multiforme varietà, la significazione di valore più idonea a produrre un certo trattamento penale”8. Si tratta di una concezione che fa riferimento all’indeterminatezza intenzionale della fattispecie. Questo orientamento, infatti, partendo dall’analisi della situazione soggettiva del giudice, giunge a definire la discrezionalità come una delle possibili tecniche di normazione di cui può servirsi il legislatore. In altri termini, il legislatore in alcune ipotesi lascia intenzionalmente indeterminati alcuni elementi della fattispecie, in modo tale da non esaurire con una descrizione tutte le possibili manifestazioni di un comportamento penalmente rilevante. Questa tecnica, definita da Bricola, di “normazione sintetica”, pone in capo al giudice un “comportamento giuridicamente doveroso, appartenente al tipo degli atti normativi, descritto dalla norma in modo incompleto, attraverso il congegno di una definizione ottenuta dall’indicazione specifica di certi elementi e dall’identificazione indiretta degli altri, mediante il riferimento al risultato di una valutazione demandata all’organo la cui condotta è prevista come doverosa; attraverso tale valutazione si 8 Cfr. F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, 100. attua un processo di eterointegrazione dello schema normativo, nel quale l’elemento estraneo è dato dall’attività raziocinante del destinatario del precetto”9. Solo in riferimento a questa attività, pertanto, può parlarsi di discrezionalità; laddove l’indeterminatezza costituisce il risultato dell’utilizzazione di termini ambigui, il problema non si risolve con l’eterointegrazione della fattispecie, ma in base all’interpretazione della norma. In definitiva, secondo la concezione di Cordero, non ogni indeterminatezza, ma soltanto una “indeterminatezza intenzionale” della fattispecie integrerebbe un’ipotesi di discrezionalità: in contrapposizione a casi in cui “l’astratta possibilità di riferire alla norma una pluralità di contenuti diversi dipende dalla circostanza che in essa è contenuta una descrizione in termini ambigui e, quindi, plurivoci”, verrebbe in considerazione soltanto il caso in cui “la presenza di elementi in bianco non è accidentale ma inerisce alla struttura della proposizione normativa, che è preformata in modo tale da non esaurire, con la descrizione in essa contenuta, tutte le modalità giuridicamente rilevanti del comportamento”. Procedendo all’analisi della discrezionalità nelle sue fasi di espressione, giova sottolineare come il potere discrezionale del giudice penale ha subito negli ultimi quaranta anni un costante, progressivo ampliamento. Sin dal dopoguerra, infatti, con il Dlgs luogotenenziale 288/1944, che reintrodusse le cd. attenuanti generiche, e via via attraverso le riforme del sistema penale del 1974 e del 1981, fino alla legge di modifica dell’ordinamento penitenziario 9 Cfr. Cordero F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956. (legge n. 663/1986), sono stati introdotti, nel nostro sistema, ambiti sempre più estesi di discrezionalità. Le ragioni di questo fenomeno vanno individuate nel passaggio da un sistema punitivo orientato alla prevenzione generale, dove si privilegia l’aspetto negativo dell’intimidazione, ad un sistema che, nel porre in primo piano la personalità del reo, affida alla pena una prevalente finalità di recupero sociale. In questo quadro, sono sempre più numerosi i settori nei quali il giudice è chiamato ad esercitare un potere più o meno vasto. In linea teorica, è possibile individuare momenti di discrezionalità prima, durante e dopo il giudizio. Per quanto riguarda la fase antecedente il giudizio, nel nostro ordinamento non si rinvengono casi di esercizio del potere discrezionale, principalmente per l’obbligatorietà dell’azione penale, mentre un esempio significativo di applicazione di discrezionalità in tale fase, è invece offerto dal legislatore della Repubblica Federale Tedesca e, in particolare, dalla legge introduttiva del codice penale del 1974, laddove si è proceduto ad una sostanziale ridefinizione del potere di archiviazione 10. Nel nostro sistema, l’esercizio del potere discrezionale del giudice è limitato, pertanto, alla fase del giudizio e a quella successiva. 10 In presenza di una colpevolezza che sarebbe da considerare lieve, infatti, e, in assenza di un interesse pubblico alla persecuzione, è attribuito al pubblico ministero il potere di archiviare, con il consenso del giudice competente, i procedimenti penali relativi a fatti di lieve entità. Anche nei codici penali austriaco11 e portoghese12 la commisurazione della pena ha un ruolo centrale e sono previsti altresì alcuni criteri per una più precisa determinazione della sanzione da parte del giudice. Nei diritti anglosassoni, come nel diritto penale inglese, i giudici godono addirittura di libertà nella scelta e nella determinazione delle conseguenze giuridiche da applicare al soggetto che ha commesso un reato, oppure, come avviene negli Stati Uniti d’America, spesso la commisurazione della pena è sottratta ai tribunali e affidata a commissioni composte da esperti. Anche nel diritto penale dei Paesi Bassi, inoltre, la discrezionalità dei giudici in materia è particolarmente ampia, considerando anche che non sono previsti i minimi di pena per le singole fattispecie criminose. Il diritto penale spagnolo conosce invece un maggior numero di regole formali per la determinazione della sanzione, nonché un sistema di circostanze, attenuanti, aggravanti e miste assai simile al nostro. Il sistema italiano presenta infatti la sua originalità nel fatto che, accanto ai criteri per la commisurazione della pena (art. 133 c.p.), è prevista una serie di elementi accidentali, quali le circostanze che aggravano o attenuano la pena stessa. Per quanto concerne la fase giudiziale, vengono in rilievo momenti diversi. In primo luogo, la discrezionalità si manifesta nella scelta del tipo di sanzione in ipotesi di comminatoria alternativa (art. 132 cod. pen.) una volta individuata la sanzione 11 Il § 32.1 del codice austriaco afferma: 'Fondamento per la commisurazione della pena è la colpevolezza del reo". 12 L'art. 71.1 del codice portoghese prescrive che "la pena è commisurata, nei limiti stabiliti dalla legge, in funzione della colpevolezza dell'agente e delle esigenze di prevenzione”. adeguata al caso concreto, al giudice è affidato il compito di commisurare la pena in riferimento al reato ed alla personalità del reo. Ed in questo quadro la discrezionalità del giudice penale spazia dall’individuazione della pena base (art. 133 cod. pen.), alle circostanze discrezionali, alle attenuanti generiche, alla recidiva, al trattamento sanzionatorio del reato circostanziato, al perdono giudiziale, alla sospensione condizionale della pena, alla non menzione della condanna nel certificato penale, fino all’applicazione delle misure di sicurezza. Accanto a questi tradizionali momenti di discrezionalità, è possibile individuarne un altro sempre ricollegabile alla fase del giudizio. L’iter, infatti, che conduce attraverso un’indagine sul reato e sull’autore alla quantificazione della pena da irrogare, può subire, in relazione a fatti di modesta entità, alcune modificazioni. Si pensi, ad esempio, all’oblazione discrezionale (art. 162 bis cod. pen.) dove, in presenza dei presupposti fissati dalla legge, il giudice può dichiarare l’estinzione del reato “avuto riguardo alla gravità del fatto”. Ambiti di discrezionalità sono rintracciabili, infine, anche successivamente al giudizio. Rientra in questa fase il vasto settore delle misure alternative alla detenzione (l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà), la revoca delle misure di sicurezza personali e la riabilitazione. Nel nostro ordinamento non sono rare le ipotesi in cui il legislatore ricollega ad uno stesso reato, congiuntamente o alternativamente, sia una pena detentiva, che una pena pecuniaria13. Si tratta di una tecnica legislativa che amplia i margini di discrezionalità del giudice, consentendo, da una parte, una più efficace individualizzazione della pena, ma che d’altro canto, presenta una maggiore complessità e, quindi, un minor grado di verificabilità della commisurazione della pena. Con la L. 689/1981 di riforma del sistema penale sono state, d’altra parte, ampliate le ipotesi in cui il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna, può scegliere tra pene di specie diversa. Il legislatore ha infatti introdotto nuove possibilità di sostituzione delle pene detentive brevi completamente con pene privative pecuniarie, della libertà ovvero con personale ulteriori sanzioni (libertà controllata non e semidetenzione)14. Un’apposita norma della legge 689/81, e cioè l’art. 5815, è dedicata alla disciplina del “potere discrezionale del giudice nella sostituzione della pena detentiva”. I criteri fissati in questa norma possono poi estendersi, in via 13 Si tratta delle cosiddette comminatorie congiuntive di pena. Cfr. art. 53 e ss. della L. 689/81. 15 “Potere discrezionale del giudice nella sostituzione della pena detentiva. Il giudice, nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell'articolo 133 del codice penale, può sostituire la pena detentiva e tra le pene sostitutive sceglie quella più idonea al reinserimento sociale del condannato. Non può tuttavia sostituire la pena detentiva quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato. Deve in ogni caso specificamente indicare i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena erogata”. 14 d’interpretazione, alla scelta tra pene diverse alternativamente comminate nella parte speciale. Per quanto specificamente attiene al momento di discrezionalità avente ad oggetto l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, è opportuno segnalare che la relativa disciplina, contenuta nella L. 26/7/1975, n. 354, esprime una certa sensibilità del legislatore all’esigenza di vincolare la discrezionalità del giudice. Sono infatti espressamente individuati, oltre ai limiti esterni, anche i criteri finalistici per l’affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47, comma 3, L. 354), per l’ammissione facoltativa alla semilibertà (articolo 50, 4 comma) e per la liberazione anticipata (art. 54, comma 1); né la legge si limita ad un generico riferimento a finalità di prevenzione speciale, ma precisa ulteriormente le proprie scelte, in sintonia con i caratteri peculiari di ciascun istituto. La dottrina si è, inoltre, fatta carico di un altro problema interpretativo relativo sia alla discrezionalità nel suo complesso, sia a singoli momenti di essa: quello del carattere libero o vincolato dei poteri del giudice. La teoria della discrezionalità “libera” parrebbe suffragata, nel nostro ordinamento, dalla prassi giurisprudenziale16. Il riferimento è ad alcune pronunce, sporadiche ma significative, circa la natura della discrezionalità17; alle linee secondo le quali vengono in concreto esercitati dalla magistratura i vari poteri discrezionali in 16 Cfr. Stile, Discrezionalità e politica penale giudiziaria, in St. Urb., 1976-77, 273. Lo stesso costante riferimento della prassi all’art. 133 c.p. non è altro, secondo l’autore, che una “formula atta a coprire la realtà che ogni valutazione che incide sulla pena..…è autonoma da qualsiasi criterio normativo”. 17 Sul carattere intuitivo della discrezionalità penale cfr. Cass. 17/10/1979, in Mass. Cass. Pen., 1981, 273; Cass. 5/5/1975, in Giust. Pen., 1976, III, 712; Cass. 24/4/1972, in Mass. Cass. Pen., 1972, 1037. materia penale, nonché alla sfera estremamente circoscritta in cui si esercita il sindacato di legittimità della Corte di Cassazione18. Dalle sentenze della Corte si desume che, nella determinazione in concreto delle pene e nella concessione dei vari benefici, i giudici usano della loro discrezionalità in maniera quasi incontrollata. Non manca tuttavia in dottrina chi esplicitamente esclude – in relazione alla commisurazione della pena – l’opportunità di vincolare le valutazioni del giudice ad indici normativamente fissati, in quanto ne deriverebbe un’inopportuna semplificazione e, in ultima analisi, un ostacolo ad un’esatta determinazione della pena: “l’aspirazione della dottrina ad un vincolo normativo del giudizio discrezionale” rifletterebbe “vecchi pregiudizi legalistici ed antiche diffidenze nei confronti della valutazione che il giudice prende al di fuori di una predeterminazione generale ed astratta”19. La letteratura prevalente, peraltro, qualifica esplicitamente la discrezionalità penale come discrezionalità “vincolata”. Proprio la sottoposizione a vincoli giuridici rappresenterebbe la nota caratteristica della discrezionalità penale rispetto a quella amministrativa: mentre l’autorità amministrativa può scegliere liberamente secondo criteri di opportunità, fra più comportamenti giuridicamente equivalenti, la discrezionalità penale si indirizza 18 Cfr. Contento, Note sulla discrezionalità del giudice penale, con particolare riguardo al giudizio di comparazione fra le circostanze, in Il Tommaso Natale, 1978, Scritti in memoria di G. Bellavista, II, Palermo, 1978, 659. 19 Cfr. Latagliata, Problemi attuali della discrezionalità nel diritto penale, in Il Tommaso Natale, 1975, 348. verso un’unica scelta come la sola esatta, e può essere di conseguenza sottoposta ad un controllo di legittimità. Circa la natura dei limiti che l’ordinamento giuridico impone alla discrezionalità penale, si distingue tra limiti interni (o inerenti alla ragione stessa di essere del potere discrezionale) ed esterni (segnati da tutte quelle norme che chiaramente circoscrivono il potere discrezionale). I limiti interni scaturirebbero dalla ragione stessa del potere discrezionale, consistente “nell’insanabile contrasto tra il principio della individualizzazione della pena e la imposizione di soluzioni generalizzanti”, mentre i limiti esterni risulterebbero “da tutte quelle norme che chiaramente circoscrivono il potere discrezionale”20. Questa stessa dottrina21 individua inoltre una categoria di limiti istituzionali, derivanti dagli scopi fondamentali dell’ordinamento giuridico, e cioè certezza, giustizia, bene comune o interesse generale. I limiti alla discrezionalità possono essere esplicitamente fissati in norme scritte, ovvero elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Il codice penale italiano si segnala per un particolare impegno nella definizione dei criteri di commisurazione della pena, così da integrare i limiti estrinseci forniti dal 20 Cfr. Delogu, Potere discrezionale del giudice penale e certezza del diritto, in Riv. It dir. Proc. Pen., 1976. 21 Cfr. Delogu, Potere discrezionale del giudice penale e certezza del diritto, in Riv. It dir. Proc. Pen., 1976. quadro edittale e quelli, assai vaghi, ricavabili dagli scopi fondamentali dell’ordinamento22. Tale impegno si riflette nell’articolo 133 cod. pen., che individua i criteri fattuali per la commisurazione della pena, e nell’articolo 132 cod. pen., che da un lato richiama il giudice al rispetto del minimo e del massimo edittale, dall’altro lo obbliga ad indicare nella motivazione i criteri ai quali si ispira la sua scelta23. Da tale ratio di delimitazione della discrezionalità e, quindi, di garanzia contro la sua degenerazione in arbitrio, la dottrina parte poi per proporre l’estensione analogica delle due norme al di là della commisurazione della pena in senso stretto e degli istituti per i quali lo stesso legislatore vi fa esplicito rinvio: sul piano del diritto sostanziale l’art. 133 rappresenterebbe dunque lo strumento per assicurare la necessaria continuità tra valutazioni legislative e valutazioni del giudice nella generalità degli istituti penalistici strutturati in forma discrezionale. Cfr. Nuvolone, Il ruolo del giudice nell’applicazione della pena, in Mont. Trib., 1968, pag. 880, ora in Trent’anni di diritto e procedura penale, II, Padova, 1969, pag. 1561. 23 Cfr. Vassalli, Il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena, in Primo corso di perfezionamento per uditori giudiziari. Conferenze (Ministero di Grazia e Giustizia), II, Milano, 1958, pag. 742. L’autore individua negli artt. 132 e 133 cod. pen. Il fondamento normativo per l’attribuzione di un carattere controllato e regolato alla discrezionalità penale. 22 3. LE CD. CIRCOSTANZE DISCREZIONALI Ulteriori vistose carenze nella disciplina normativa della discrezionalità si riscontrano poi nel settore delle circostanze del reato: un settore particolarmente vasto nel nostro ordinamento, che fa spazio alla discrezionalità del giudice ora per l’individuazione del dato aggravante o attenuante, ora in relazione agli effetti modificativi del trattamento sanzionatorio, e comunque nell’ambito del concorso di circostanze24. Quanto alla struttura delle circostanze, il legislatore italiano opta di regola per la tipicizzazione, tanto da indurre alcuni autori ad ipotizzare un rigido nesso fra tipicità e circostanze in senso tecnico. In realtà non mancano nel diritto vigente ipotesi in cui l’individuazione del dato circostanziale è affidata alla discrezionalità del giudice: il più importante esempio di aggravante indefinita era fornito dalla previgente legge sull’assegno (r.d. 21/12/1933, n. 1736) che all’art. 116, comma 1 prevedeva un aggravamento qualitativo della pena (la reclusione oltre alla multa) per i “casi più gravi” di abuso in assegno: tale previsione non ha però alcun equivalente nella disciplina introdotta con la legge 386/1990, ulteriormente modificata nel 1999, allorché i delitti di emissione di assegno senza autorizzazione e di emissione di assegno senza provvista sono stati trasformati in illeciti amministrativi (art. 28, dlgs 30/12/1999, n. 507). 24 Per la tesi secondo cui la discrezionalità del giudice relativa alle circostanze sarebbe sempre sottoposta, nel nostro ordinamento, a vincoli legislativi, confronta Malinverni, Circostanze del reato, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, VII, pag. 98. Anche in materia di immigrazione clandestina l’art. 11, commi 3 quater e 3 quinqies della Legge Bossi – Fini25, prevede l’applicazione di circostanze attenuanti rimesse alla discrezionalità del giudice. De iure condito si pensi allora, fra le circostanze attenuanti, “ai fatti di lieve entità” nella sfera dei delitti contro la personalità dello stato (art. 311 c.p.), dei delitti contro la pubblica amministrazione (art. 323 bis c.p.), e tra i reati concernenti gli stupefacenti, al contributo di “minima importanza” nel concorso di persone (art. 114 c.p.), o alle “attenuanti generiche” (art. 62 bis c.p.). Analizzando quest’ultima figura che è la più studiata dalla dottrina e la più applicata dalla giurisprudenza fra le circostanze discrezionali – è opportuno considerare innanzitutto il dettato dell’art. 62 bis c.p. 26. La diminuente prevista dall’art. 311 c.p. 27 per i delitti contro la personalità dello Stato presuppone che il fatto nel suo complesso risulti di lieve entità, sicché essa è esclusa quando manchi il suddetto requisito o in rapporto all’evento o anche solo per Legge 30/7/2002, n. 189. “ 3-quater. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'articolo 98 del codice penale, concorrenti con le aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti. 3-quinquies. Per i delitti previsti dai commi precedenti le pene sono diminuite fino alla metà nei confronti dell'imputato che si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi di prova decisivi per la ricostruzione dei fatti, per l'individuazione o la cattura di uno o più autori di reati e per la sottrazione di risorse rilevanti alla consumazione dei delitti”. 25 62-bis. “Circostanze attenuanti generiche. Il giudice, indipendentemente dalle circostanze prevedute nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62 [c.p. 114, 133]”. 26 27 “311. Circostanza diminuente: lieve entità del fatto. la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze della condotta, ovvero in rapporto all’entità del danno o del pericolo.28 A differenza dell’art. 311 c.p., che quanto meno assume le modalità dell’azione e l’entità del danno o del pericolo quali indici della “lieve entità del fatto” 29, la norma dell’art. 62 bis30 lascia il giudice completamente libero nella ricerca del valore attenuante. Né a tale situazione si riesce ad ovviare attraverso i consueti richiami, in via di interpretazione, all’art. 133 c.p.31: tanto più che la Corte di Cassazione ha spesso rivendicato la possibilità, per il giudice di merito, di prendere in considerazione, ai Le pene comminate per i delitti preveduti da questo titolo sono diminuite [c.p. 65] quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità [c.p. 70]”. 28 Cfr. Cass. Sez. I, 86/172982 e Cass. Sez. I, 86/172345, in Cass. Pen. 1988, per cui la lieve entità del fatto deve essere riferita non all’apporto del singolo soggetto, ma alla complessiva pericolosità dell’organismo associativo. 29 Sul significato da attribuirsi alla selezione di tali indici nell’art. 311 c.p., confronta Bricola, Le misure alternative alla pena nel quadro di una “nuova” politica criminale, in Pene e misure alternative nell’attuale momento storico, . . . . 30 L’art. 62 bis, introdotto dal Dlgs lgt. 14/9/1944, n. 28, è stato originariamente dettato allo scopo di rendere meno gravi le pene stabilite dal codice per i singoli reati, cosicché da parte della dottrina si era parlato di volontà del legislatore di abbattere di un terzo le pene stabilite dal codice. Tale concezione è, peraltro, ormai pacificamente respinta in quanto il motivo di politica criminale che ha determinato la formulazione di tale norma non va confuso con la sua ragione d’essere individuabile, invece, nell’esigenza di un migliore adeguamento della reazione penale al caso concreto. Pertanto, nonostante autorevole opinione dottrinale contraria (Contento, Introduzione allo studio delle circostanze del reato), non è possibile mettere in dubbio la natura di circostanza delle attenuanti generiche. 31 133. “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena. Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1. dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2. dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato [c.p. 626]; 3. dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1. dai motivi a delinquere e dal carattere [c.p.p. 220] del reo; 2. dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3. dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; sensi dell’art. 62 bis c.p., anche elementi ulteriori rispetto a quelli elencati nell’art. 133 c.p. La dottrina secondo cui le attenuanti generiche andrebbero desunte esclusivamente dagli elementi indicati dall’art. 133 c.p., fonda tale assunto sul duplice presupposto che tale articolo prevede la norma chiave del sistema cui ricondurre tutte le ipotesi di discrezionalità penale ed altresì che, data la sua onnicomprensività, sarebbe pressoché impossibile ipotizzare elementi in grado di configurare attenuanti generiche che non siano state già dallo stesso previsti. Secondo tale dottrina, il valore dell’art. 133 sarebbe proprio quello di obbligare il giudice, nell’adeguamento della pena al caso concreto, a non tralasciare nulla. Parimenti, il valore dell’art. 62 bis sarebbe quello di obbligare il giudice a ricercare direttamente nella realtà, nell’analisi del singolo episodio criminoso, tutte le sfumature dell’azione. L’unico criterio valido per l’interprete sarebbe quindi quello dell’individuazione della funzione specifica assegnata dall’ordinamento all’istituto particolare preso in esame. Su tale presupposto, pertanto, l’art. 62 bis non trova alcun limite normativo nell’art. 133 e quindi le altre circostanze diverse potranno essere ricercate anche altrove. D’altra parte quali incertezze gravino sui criteri per l’esercizio dei poteri discrezionali di cui all’art. 62 bis c.p. emerge dalle stesse perduranti oscillazioni circa 4. dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.” la collocazione sistematica delle attenuanti generiche32: ora concepite come circostanze in senso stretto, applicabili pertanto in presenza di un singolo dato attenuante, indipendentemente da ogni valutazione complessiva del fatto e della personalità dell’agente, ora assunte invece quale strumento per attenuare la pena, quando il valore unitario del reato appaia al giudice sproporzionato rispetto alla pena concreta, determinata sulla base dell’art. 133 c.p. È vero che la dottrina sembra ormai largamente orientata verso la prima soluzione. Non si può peraltro ignorare che la giurisprudenza, se pacificamente afferma l’applicabilità delle attenuanti generiche in ipotesi in cui la pena base sia irrogata in misura superiore al minimo, ritiene talora sufficiente la gravità del fatto o i precedenti penali a precludere l’attenuazione di pena ex art. 62 bis c.p., e quindi subordina tale attenuazione ad una valutazione complessiva del caso concreto 33. Anche l’art. 323 bis c.p.34 rappresenta un’occasione di espressione della cosiddetta “discrezionalità” dell’organo giudicante: esso contiene una circostanza Da una parte della dottrina (Mantovani) si contesta addirittura l’utilità di mantenere l’istituto dell’art. 62 bis, introdotto come surrogato transitorio di adeguate riforme dei severi limiti edittali del codice del 1930 e se ne auspica la riforma attraverso l’inserimento, in un rinnovato sistema di circostanze attenuanti comuni delle più significative situazioni, tradizionalmente riconducibili alle “generiche”, con conseguente soppressione di queste ultime. In tal senso si era espresso il Progetto Pagliaro del 1992 che ne aveva proposto l’abolizione, peraltro successivamente modificato nel disegno di legge 2038, Riz e altri, del 1995 che aveva ripristinato l’istituto. E ciò sul presupposto della funzione ineliminabile delle attenuanti generiche di dare al giudice “un po’ del potere che ha il suo equivalente nei Paesi Anglosassoni: poter commisurare la pena valutando tutti quegli elementi soggettivi ed oggettivi che gli consentano di diminuirla”. 32 33 Cfr. Cass. 95/202165, ove la Suprema Corte espressamente afferma che le attenuanti generiche sono previste dal legislatore con riferimento a situazioni non preventivabili che incidono sull’apprezzamento della “quantità” del reato e della capacità a delinquere dell’imputato e sono finalizzate al più congruo adeguamento della pena in concreto. 34 323-bis. “Circostanza attenuante. Se i fatti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 320, 322, 322-bis e 323 sono di particolare tenuità, le pene sono diminuite”. attenuante speciale, ad effetto comune, riferibile solo ad alcuni dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione; essa ha inoltre un carattere sostanzialmente indefinito ed è modellata in termini identici all’attenuante prevista per una serie di altri reati (ricettazione; reati concernenti le armi, stupefacenti). Non si tratta di un mero doppione dell’art. 62 bis c.p., poiché le circostanze attenuanti generiche possono fondarsi su elementi diversi dalla particolare tenuità del fatto, e dunque possono concorrere con l’attenuante dell’art. 323 bis35. 35 In senso contrario confronta F. Baldi, Le principali forme di manifestazione del reato di abuso di ufficio: abuso circostanziato e abuso tentato, in Cass. Pen., 1995, 936, per il quale l’attenuante di cui all’art. 62 bis è assorbita dall’attenuante ex art. 323 bis, in quanto quest’ultima è speciale rispetto alla prima. 4. LA DISCREZIONALITÀ NELL’AMBITO DELLE CIRCOSTANZE ATTENUANTI INDEFINITE L’individuazione dell’ambito della discrezionalità, quale meccanismo demandato all’organo giudicante, consistente nel porre in luce le regole logiche e il procedimento mentale dell’attività di ricerca dei valori, che si svolge al di fuori di qualsiasi descrizione normativa, è un problema che si pone con tutta evidenza in occasione della necessità e/o opportunità di applicare determinate circostanze ad una fattispecie di reato. Si tratta, in sostanza, di un problema distinto, ma sostanzialmente analogo, a quello dell’interpretazione della legge. La configurazione di una circostanza del reato nella forma della discrezionalità anziché in quella di un’espressa previsione normativa è il risultato di una tecnica legislativa e non dipende da una diversa struttura del dato di valore rilevante per l’attenuazione o per l’inasprimento della pena. Questo spiega perché in occasione della riforma dei codici penali ritorni sempre di attualità il problema se sia opportuno che la legge stabilisca le singole fattispecie delle circostanze o che viceversa conceda al giudice un certo margine di discrezionalità per l’individuazione delle ipotesi di attenuazione o di inasprimento della pena36. La discrezionalità del giudice trova la sua massima espansione nel concorso di circostanze37 e, in particolare, nel concorso di circostanze eterogenee (art. 69 c.p.38). 36 Cfr. A. R. La tagliata, Circostanze discrezionali e prescrizione del reato, Morano editore, 1967, pag. 139. 37 Cfr. Vassalli, Concorso fra circostanze eterogenee e “reati aggravati dall’evento”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1975, 3. L’illustre autore rileva che l’art. 69 c.p., nella versione introdotta con il d.l. n. 99/1974, Si pensi infatti al giudizio di bilanciamento delle circostanze e alla eterogeneità dei termini da porre a raffronto, che contribuiscono a spingere il giudice verso l’utilizzo di criteri soggettivi e arbitrari. Le circostanze, quali elementi accidentali e accessori del reato, non sono necessarie per la sua esistenza, ma incidono sulla sua gravità. La loro presenza, insomma, trasforma il reato semplice in reato circostanziato, aggravato o attenuato. La ratio essendi delle circostanze va ricercata in quella continua aspirazione del diritto penale a rendere il più aderente possibile la valutazione legale e a meglio adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti, nonché a circoscrivere la discrezionalità del giudice nella determinazione della pena. Il nostro diritto positivo non segue né il principio della rigorosa tassatività, che in genere non è idoneo ad assicurare il migliore adeguamento della pena al caso, né quello della piena discrezionalità del giudice nella individuazione delle circostanze che apre le porte all’arbitrium judicis. “conferisce al giudice poteri immensi, tali da permettergli, se volesse, di porre quasi nel nulla la supposta o manifesta volontà del legislatore”: non solo, ma l’innovazione, “se non viene attentamente integrata nel sistema, rischia di darci per la prima volta un diritto libero rimesso a scelte individuali del giudice”. 38 69. “Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti. Quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tien conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti [c.p. 280]. Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tien conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti. Se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze. Le disposizioni precedenti si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato”. Il nostro diritto resta invece ancorato al duplice principio della tassatività delle circostanze e dell’obbligatorietà della loro applicazione. Il principio di tassatività subisce alcuni temperamenti: accanto ad un vasto sistema di circostanze definite (o tipiche), espressamente individuate dalla legge nei loro specifici elementi costitutivi (es. artt. 61, 62), sono altresì previste circostanze indefinite (o innominate o discrezionali), la cui individuazione è rimessa, invece, in maggiore o minor misura, alla discrezionalità del giudice. Tali sono le attenuanti generiche dell’art. 62 bis e quelle speciali, che dispongono una diminuzione di pena ove il “fatto sia di lieve entità”39. Ma sono altresì indefinite le aggravanti speciali espresse con le formule “nei casi più gravi”, “di particolare gravità”.40 Per le circostanze indefinite si è posto il problema della loro costituzionalità rispetto al principio di tassatività. Poiché tale principio è in funzione di garanzia del favor libertatis, non sembrano facilmente giustificabili le aggravanti indefinite. Non possono invece considerarsi incostituzionali le attenuanti indefinite, in quanto l’incertezza che esse portano con sé, non si pone in insanabile contrasto col principio di tassatività. La categoria delle circostanze indefinite è il risultato di una distinzione tracciata con riguardo al tema della tipicità delle circostanze. 39 Vedi art. 311 c.p.; art. 59 R.D. 1175/1931 in tema di enti locali; art. 1/1 D.L.L. 111/1945 in tema di disciplina del commercio; art. 8/3 L. 1407/1960 in materia di vendita degli oli di oliva. 40 Vedi art. 2 L. 66/1950 in tema di modificazioni alle sanzioni penali; art. 12/2 L. 1526/1956 in tema di difesa della genuinità del burro. Come appena precisato, secondo Mantovani, “accanto ad un vasto sistema di circostanze definite espressamente individuate dalla legge, sono previste anche circostanze indefinite o innominate, la cui individuazione è rimessa, alla discrezionalità del giudice”. Due sono quindi i caratteri distintivi delle circostanze indefinite: l’assenza di una tassativa indicazione dei suoi elementi strutturali e la rimessione alla discrezionalità del giudice in merito alla riconducibilità alle stesse dei casi concreti. È pacifica la qualificazione come indefinite delle circostanze individuate dalla norma nei casi “più gravi” o di “particolare gravità”, ovvero del “fatto di lieve entità”; si tratta di espressioni che da un lato manifestano la rinuncia del legislatore a tipicizzare le circostanze, e dall’altro impongono al giudice di ricercare tali situazioni in base ad una valutazione comparativa di gravità. Relativamente al carattere della non tassatività, le circostanze indefinite sono state indicate anche come innominate e, rispetto al carattere della discrezionalità valutativa del giudice, come arbitrarie. Le attenuanti generiche vengono classificate all’interno del più ampio genus delle circostanze indefinite, in base agli elementi comuni dell’assenza di tassativa strutturazione e della conseguente rilevanza della valutazione discrezionale. La collocazione delle attenuanti generiche fra le circostanze indefinite non risponde però soltanto ad esigenze classificatorie, ma aiuta altresì ad individuare i caratteri propri delle prime nella atipicità e nella discrezionalità valutativa. Per quanto specificamente attiene agli aspetti funzionali delle circostanze generiche, è opportuno tener conto del fatto che nell’applicazione pratica, esiste una diffusa concezione di tali circostanze come manifestazione di un atteggiamento di particolare indulgenza, al quale è rimessa la valutazione sull’opportunità che la pena sia ridotta41. Il “concedere” le attenuanti generiche, insomma, rappresenta una posizione concettuale che vede la loro applicazione come manifestazione di una funzione mitigatrice del trattamento sanzionatorio, alla quale corrisponde un potere discrezionale, riconosciuto al giudice, di avvalersi di tale strumento per ridimensionare la pena ove lo ritenga opportuno. Tale concezione mitigatrice è stata peraltro oggetto di fondate critiche che sono per lo più partite dall’esame della “facoltatività” delle circostanze. Secondo tale impostazione critica, le attenuanti generiche non sono oggetto di una concessione animata dalla benevolenza del giudice42, ma di un riconoscimento in quanto realtà sostanziali che motivano una valutazione discrezionale di modificazione della pena. Di particolare importanza per aver rimarcato il fatto che la concessione delle attenuanti generiche rappresenta un riconoscimento di situazioni fattuali rilevanti per Cfr. Cass. Pen. 2/10/1983, sez. V, in Gius. Pen., 1984, II, 469, ai sensi della quale “la concessione delle circostanze attenuanti generiche deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare una particolare benevolenza nei confronti del reo”. 42 Cfr. Cass. Pen., 28/6/1990, sez. II, in Cass. Pen., 1992, 3032; Cass. Pen. 14/1/1999, sez. VI, in Cass. Pen., 2000, 370. 41 la determinazione della pena, è stata la sentenza della Cassazione penale in data 23/8/199043. In tale occasione la Suprema Corte parla di “pena da irrogare in concreto” e così facendo introduce una descrizione dell’operatività delle attenuanti generiche in termini di adeguamento della pena al fatto concreto. Questa visione delle attenuanti generiche come mezzo di adeguamento della pena al fatto concreto è in realtà da tempo radicata nella giurisprudenza. Ne costituiscono manifestazioni dimostrative le ricorrenti motivazioni del seguente tenore “la peculiarità delle circostanze attenuanti generiche risiede nel fatto che le stesse costituiscono un mezzo liberamente affidato al giudice per meglio adeguare la pena al caso concreto, in base ad una valutazione che sfugge ad una casistica predeterminata”44. Qui s’insiste in particolare sui caratteri della discrezionalità del giudice nella valutazione delle situazioni che richiedono l’adeguamento al caso concreto e dell’assenza di predeterminazione di tali situazioni. C’è chi, come Malinverni45, ha definito la funzione delle attenuanti generiche come di “correzione” della pena rispetto al fatto ed alla personalità del soggetto agente. Rimane infine da considerare il potere discrezionale del giudice nella motivazione della sentenza nel caso di applicazione delle attenuanti generiche. 43 In Giust. Pen., 1991, II, 226. Cass. Pen. 20/1/1983, sez. I, in Gius. Pen., 19874, II, 27. 45 Malinverni, Capacità a delinquere, in Edd, VI, 1960, 118. 44 La Suprema Corte ha stabilito che “la concessione delle attenuanti generiche è un potere discrezionale del giudice, il cui esercizio non è censurabile in sede di legittimità, semprechè la decisione di concedere o di negare la richiesta sia sorretta da una congrua motivazione”46. Per quanto riguarda, invece, i motivi della concessione o del diniego, sotto il profilo degli scopi e limiti del relativo potere discrezionale, con chiara precisione si è ricordato che “il giudice di merito pur esercitando un potere discrezionale nel concedere le attenuanti generiche, non è libero di applicarle fondandosi su elementi privi di valore apprezzabile o su elementi incerti che possono essere soggetti a discussione nella loro stessa essenza”47. 46 Cfr. giurisprudenza costante: da Cass. 3/5/1968, in Giust. Pen., 1969, III, 190, a Cass. pen., sez. I, 21/09/1999, n. 12496, in Cass. Pen., 2000, 1949: “Nel concedere o negare le attenuanti generiche, il giudice di merito è investito di un ampio potere discrezionale, che non è sottratto al controllo di legittimità, dovendo il giudice medesimo dare conto delle precise ragioni e dei criteri utilizzati per la concessione o il rifiuto di concessione, con l'indicazione degli elementi reputati decisivi nella scelta compiuta, senza che sia, peraltro, necessario valutare analiticamente tutte le circostanze rilevanti, in positivo o in negativo ”. 47 Cfr. Cass. 22/10/1970, in Giust. Pen., 1971, II, 581