La Chiesa in cammino, mistero di ‘patientia’ di Pasquale Borgomeo S.I., “La Civiltà Cattolica” (2007 II 329-338, quaderno 3766) La meditazione di sant’Agostino sul cammino della Chiesa pellegrina è particolarmente utile ai giorni nostri, quando agli eccessivi scoraggiamenti di una stagione sembrano succedere gli effimeri entusiasmi di un’altra, forieri a loro volta delle depressioni future. La Chiesa, quale Agostino la tratteggia, è certamente una barca che solca il mare in tempesta, ma una barca dotata di pinne stabilizzatrici che le consentono di trasformare in ampie oscillazioni le molte sollecitazioni che le onde imprimono allo scafo. Munita dello stabilizzatore della patientia, la Chiesa evita così gli abissi della desperatio, ma anche le indebite creste della securitas; l’una e l’altra sono infatti negazioni della speranza, virtù fondamentale della Chiesa in cammino. Meditare infatti sulla Chiesa, mistero di pazienza, non è un esercizio per tempi di scoraggiamento, ma un alimento valido per tutte le stagioni. Non nasce, come qualcuno pretende, dal presunto e insanabile pessimismo agostiniano, né è l’espressione contingente dell’angoscia di un periodo storico di cui Agostino fu certamente un protagonista. Ci si accorge di questo quando si vede da vicino che cosa è, secondo Agostino, la patientia della Chiesa pellegrina. Il discorso agostiniano non è astratto. È il discorso che egli ha offerto, giorno dopo giorno, al suo popolo, in una catechesi appassionata e rigorosa (1). A questa catechesi fanno riferimento le riflessioni che seguono, nella convinzione che rivolgersi esclusivamente alla predicazione di Agostino per ricavarne una ecclesiologia pastorale il più possibile ricca e completa non è un equilibrismo ma una scelta dettata dalla sua riflessione ecclesiologica, offerta alla ecclesia vivente e con essa fisicamente comunicata. Significato del termine «patientia» Che cosa sia la patientia agostiniana riferita alla Chiesa pellegrina, lo si scoprirà progressivamente. È utile però precisare subito che cosa essa non è, per evitare fin dall’inizio gli equivoci più vistosi. Patientia non è rassegnazione passiva. Raramente il contenuto semantico di una parola è stato in così flagrante contraddizione con la sua etimologia. Pur risparmiando al lettore una serie di indagini filologiche sul vocabolario agostiniano, sembra significativo sottolineare che, quando deve impiegare il verbo della patientia, Agostino non usa pati, ma ricorre a tolerare, che egli sente meno passivo. La patientia della Chiesa pellegrina non è tanto il subire, il patire, il sopportare, quanto il tener duro, il resistere, il non cedere, il portare sulle spalle le proprie miserie, i peccati degli uomini e tutto il dolore del mondo; in una parola: portare l’attesa. Patientia non è la virtù dello stoico che subisce le prove più dure senza lasciarsi sfuggire un lamento. La Chiesa pellegrina, al contrario, geme; il gemitus è anzi una delle sue espressioni caratteristiche, che ne tradisce tutta la nostalgia, l’ansia di liberazione, ma anche la debolezza. In compenso la patientia della Chiesa non fa posto a quell’orgoglio che difficilmente si riesce a separare dall’atteggiamento stoico. Ma soprattutto la patientia della Chiesa in cammino è intrisa di speranza. La pazienza stoica è muta, nobile, altera, ma non ha cielo sopra di sé. Se volessimo tentare una definizione globale di patientia, dovremmo dire che essa consiste per la Chiesa nell’assumere pienamente la sua situazione presente. Il verbo «assumere» non è scelto a caso; esso è il verbo dell’Incarnazione. In realtà la Chiesa, Corpo di Cristo, ne prolunga l’Incarnazione completando, attraverso le epoche e i giorni, ciò che manca alla sua passione, fino all’ora dell’entrata nel Regno definitivo e perfetto. Patientia è dunque assumere la situazione presente, quella cioè del tempo della Chiesa che va dall’Ascensione alla Parusia. Come definire tale situazione? Tempo di attesa, di nostalgia, di speranza; tempo di precarietà, di tensione, di oscurità. Con una sola parola, Agostino direbbe: tempo di pressura. Pressura è parola ricchissima nel vocabolario agostiniano. Essa designa certo la prova, la persecuzione, ma anche quel necessario e provvidenziale passaggio che consente all’oliva di diventare olio e all’uva di diventare vino per le mense del Regno. Pressura è il limite della propria condizione, il fardello gravoso che i peccatori impongono alla Chiesa, pressura è lo scandalo delle divisioni e degli scismi, pressura è il tardare di un giudizio finale che discrimini una volta per sempre gli eletti e apra loro le porte della Gerusalemme celeste. «Patientia» e «kairoi» di Dio Quel giorno sospirato verrà; è promessa divina e sussiste come oggetto di ferma speranza. Ma quando verrà? «Non sta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma riceverete forza dallo Spirito Santo [...] e mi sarete testimoni» (At 1,7). Sono queste le ultime parole di Gesù prima della sua dipartita: gli apostoli chiedono una cosa, il Signore ne promette un’altra. La forza che verrà dall’alto e che farà nascere la Chiesa il giorno della Pentecoste è alternativa alla conoscenza non solo del momento del compimento finale, ma anche dei momenti intermedi della storia della salvezza. Certamente la Chiesa del tempo non potrà impedirsi di scrutare ansiosamente, all’incerta luce delle albe e dei crepuscoli, i segni premonitori di un evento così atteso. È la speculatio, che caratterizza il tempo presente della Chiesa, in opposizione alla contemplatio, che costituirà il respiro della Chiesa definitiva. Ma la testimonianza che la Chiesa presente è chiamata a dare fino agli estremi confini della terra, e in vista della quale riceve forza dallo Spirito, non consiste nel congetturare sui tempi che separano dalla parusia o nel contabilizzare la distanza percorsa; la testimonianza sta nell’assumere coraggiosamente l’attesa con le sue servitù e la sua oscurità, e nell’accettare umilmente quel tempo nel quale sono iscritti i kairoi di Dio, riscattando, cioè redimendo, nella patientia quel puro fluire che è l’essenziale imperfezione del tempo. Il rifiuto della patientia diventa per Agostino il peccato di anacronismo. Nell’anacronismo — intemporale peccatum (2) — sono accomunati, ma per ragioni diverse, gli ebrei che aspettano ancora il Messia e i cristiani impazienti che non reggono all’attesa della sua seconda venuta. Questa impazienza assume l’aspetto di una violenza fatta al piano di Dio. Affrettare la parusia nel desiderio e nel sospiro dell’anima — suspirium è termine eminentemente agostiniano — è certo una lecita e santa impazienza; ma voler anticipare (antevenire, praevenire) l’epilogo significa turbare il cammino della Chiesa, precipitarne il passo, comprometterne la capacità di attesa. Qualcosa di simile tentarono le folle, ormai sazie, dopo la moltiplicazione dei pani. Volevano prendere Gesù — rapere — per proclamarlo re (Gv 6,15), ignorando, nella loro cecità, che la sua ora non era ancora venuta. Quel rapere, verbo di una impazienza che volge poi allo scoramento, Agostino lo rinfaccerà ai due discepoli di Emmaus, commentando: «La vostra speranza era giusta, ma perché tanta impazienza? Rapere vultis!» (3). E ormai quel rapere non significa più rapire o sequestrare, ma passa a indicare in assoluto quanto sia pericolosa e violenta una impazienza che, minacciando la speranza, colpisce al cuore la Chiesa pellegrina. L’aspetto pericoloso e micidiale dell’impazienza nella vita della Chiesa è delineato da Agostino anche nell’immagine del prematuro votato all’aborto da una colpevole impazienza che lo spinge a uscire anzitempo dal seno materno: «Non squassate con la vostra impazienza il ventre materno della Chiesa!» (4). Agostino, che, intorno all’immagine biblica del partus costruisce tutta una teologia dell’Ecclesia mater, affidando al rapporto dialettico tra i verbi parturio e pario la tensione tra lo stadio presente e quello futuro della Chiesa, sa e non cessa di inculcare ai suoi fedeli che l’impazienza può anche essere generosa, ma soltanto la patientia è feconda. «Patientia» e peccato nella Chiesa Accanto all’elemento tempo, con il quale la Chiesa deve incessantemente confrontarsi, ce n’è un altro, ineliminabile dalla sua condizione presente: il peccato. La Chiesa pellegrina è certamente santa perché forma un solo corpo con Cristo; essa è certamente la sposa bella, senza macchia né ruga: ma lo è incoativamente, non definitivamente. Non è possibile qui sviluppare il tema della ecclesia peccatrix, che tanta influenza ha avuto sull’ecclesiologia nel corso dei secoli. Si può però dare atto al genio di Agostino di aver trattato con estremo realismo e profondità il problema del peccato nella Chiesa e della Chiesa e di averne tratto una solida e matura spiritualità. Agostino non teme di parlare della Chiesa come della peccatrice che il Cristo continuamente lava e redime. Si dirà che il suo pensiero è stato influenzato dall’esigenza della lotta antidonatista. Non c’è difficoltà ad ammetterlo, poiché Agostino stesso ne era criticamente consapevole quando affermava che la crisi donatista aveva permesso alla Chiesa di leggere con maggiore acume nel disegno di Dio; ora il frutto di una tale lettura è una ricchezza permanente per la Chiesa di tutti i tempi. Agostino non ha mai tentato di ammannire ai suoi uditori lo schema semplicistico di una Chiesa santa nella quale ci sono anche peccatori. L’appartenenza, anche se precaria e problematica, dei peccatori alla Chiesa impedisce una tale soluzione. Ancor più la vieta l’indiscernibilità delle frontiere tra peccato e grazia nel cuore dello stesso uomo, e il loro continuo mutare. Esiste certo fin d’ora una Chiesa di santi, ma essa è ignota a coloro che la compongono, così come esistono membra di questo corpo che è la Chiesa che sono apparentemente fuori e che non sanno di appartenervi. La mescolanza, il groviglio di buoni e di cattivi, di veri e di falsi cristiani, il residuo di anacronismo giudaico o di resistenza pagana che continua a vivere nel cuore dei battezzati, tutto ciò Agostino non lo attribuisce a quella che è stata chiamata la empirische vulgärkatholische Kirche e che noi oggi chiameremmo Chiesa sociologica. Agostino arriva, con immagine ardita, a parlare di Corpus Christi mixtum tamquam in area (5), dove naturalmente è essenziale l’aia, sulla quale grano e paglia sono ancora mescolati in attesa della ventilatio. In altre parole, la Chiesa, incoativamente già Corpo di Cristo, attende la sua misura definitiva e perfetta ma non prima della discriminazione finale. Nel frattempo, la situazione di mescolanza organica, non di mera giustapposizione, è addirittura la nota caratteristica della Chiesa del tempo presente; lo sottolineano le parabole del Regno che Agostino utilizza a fondo e continuamente: da quella della zizzania a quella della pesca e dell’aia. La mescolanza è talmente connaturata alla Chiesa che Agostino giunge a farne paradossalmente una sua nota di autenticità; ai donatisti di ieri e agli angelisti di oggi egli ricorda: di una Chiesa nella quale non vi sono peccatori e santi, forti e deboli, diffidate; non è la vera, non è la Cattolica. Da questi semplici accenni, si comprende l’importanza che ha la patientia per la permanenza nella Chiesa pellegrina. Lo sforzo quotidiano di santificazione non deve sfociare in intolleranza per la propria e ancor meno per l’altrui debolezza e miseria. Se restare in una Chiesa così fatta è duro — è questa infatti la pressura più grande —, emigrare verso una Chiesa di puri e di perfetti è già un suicidio, così come è disastroso voler anzitempo strappare la zizzania che cresce mescolata al grano. Se vivere nella Chiesa del tempo non è una garanzia assoluta di salvezza, uscirne per trovarne una più perfetta è già garanzia sicura di morte, perché è in questa Chiesa e in nessun’altra, in questa Chiesa, assetata, zoppicante, meretrice, mendicante — sono tutte immagini di Agostino —, è in questa Chiesa peccatrice che si rimettono i peccati, è questa la Chiesa che Cristo non cessa di amare come sua sposa e di redimere e vivificare come suo Corpo. Ora, se è grazie alla patientia, che come un peso specifico consente di restare sull’aia mentre il vento soffia e porta via la pula leggera e inconsistente, possiamo capire che questa non è una virtù fra le altre, è la condizione della nostra sopravvivenza, è la virtù ecclesiale per eccellenza. Infatti, quando la patientia ci avrà insegnato ad accettare questa Chiesa imperfetta, noi cominceremo a intravedere in essa i tratti di ciò che essa non è ancora completamente (nondum), ma comincia già ad essere (iam), cioè: città santa, tenda e casa di Dio, popolo nuovo, vergine, regina, sposa, regno dei cieli. «Patientia» e speranza A questo punto, facendo accenno esplicito a quel gioco di particelle (iam - nondum quamdiu - donec - dum - quousque), che punteggiano tutta la predicazione di Agostino e tradiscono il respiro escatologico della sua anima, comincia a delinearsi il rapporto tra patientia e speranza. È la speranza che dà alla pazienza della Chiesa il suo spessore escatologico; le mostra che il suo penoso perseverare non è una pura preparazione ma, anche se in modo imperfetto e oscuro, è già un muovere i passi verso la città celeste. Da parte sua la patientia impone alla speranza una verifica quotidiana, la traduce, la testimonia e insieme le impedisce di divenire una fuga in avanti, una evasione, un disimpegno. La speranza è la spinta, il dinamismo, il desiderio, il quando veniam; la patientia è il realismo, l’accettazione, il nunc. La speranza è già la dedicatio, la patientia è ancora la quotidiana, laboriosa, dolorosa aedificatio della Chiesa. Ma l’una e l’altra sono così inscindibili nel palpito della Chiesa autentica che Agostino stesso si domanda se non siano una stessa cosa. Si potrebbe dire, senza tradirne il pensiero, che la patientia è la speranza che s’incarna piegandosi al passo della Chiesa in cammino. «Patientia» come tolleranza, perseveranza, azione Se tali sono i caratteri della patientia della Chiesa secondo Agostino, non ci si meraviglierà che essa assuma tanti aspetti. La patientia come tolleranza si esercita non solo nei confronti dei malvagi o dei falsi fratelli che opprimono la barca fino a farla quasi affondare, ma giunge fino alla solidarietà verso il fratello meno dotato al quale bisogna insegnare con pazienza e con traquillità e non turbarne lo spirito soltanto perché è lento ad apprendere. La stessa pazienza Agostino chiede ai suoi ascoltatori più svegli quando si vede costretto a ripetere cose già dette perché tutti, anche i meno capaci, ricevano il nutrimento spirituale. Si vede affiorare qui quel senso della comunità ecclesiale nel quale la patientia è già espressione di carità concreta e di fronte alla quale i valori della tolleranza laica, pur se rispettabilissimi, mostrano i loro limiti. La patientia diventa perseveranza tenace, ma non caparbia perché umile; resistenza al male, ma non aggressiva, perché non paurosa. Decisa a tener duro fino alla fine, usque in finem, la patientia-perseveranza si alimenta quotidianamente con la certezza delle promesse divine. Perciò la patientia della Chiesa è, intimamente, serena. Certo l’attesa può talvolta apparire interminabile: «Sì, è lunga quest’attesa — ammette Agostino — ma la si deve portare in vista di un bene così grande» (6). Fino alla mietitura, fino alla ventilazione, fino alla separazione del grano dalla pula; fino alla riva, quando finalmente si versa sulla spiaggia il contenuto delle reti e si separa il buon pesce da quello di scarto. Usque in finem: fino al traguardo e non un attimo prima, se non si vuole perdere il frutto di tanti sforzi. Nella visione di Agostino, per rimanere all’immagine del traguardo, la Chiesa non è una centometrista che produce il suo sforzo concentrandolo nell’arco di pochi secondi. La Chiesa è una fondista impegnata in una lunghissima maratona: ciò spiega il suo lungo respiro, il suo passo misurato e apparentemente lento; ciò spiega anche la sua tendenza a considerare la realtà in termini di grandi distanze, nonché la sua capacità di fare a meno di risultati immediati. La patientia della Chiesa è una sfida al tempo, a tutto il tempo fino alla fine. Essa è destinata a durare finché dura la speranza, non un attimo di meno: guai se la lucerna dovesse spegnersi proprio quando sta per arrivare lo sposo. Ma per capire in tutta la sua ricchezza la patientia della Chiesa in cammino, bisogna sottolinearne ancora un aspetto, il più inatteso: il suo aspetto attivo. La si può scoprire nell’importanza che, parlando della patientia, Agostino attribuisce al verbo portare. Portare i fardelli degli altri non significa soltanto tollerare i loro limiti, ma anche sostenerli nel cammino: supportantes invicem non significa esercitare sopportazione reciproca, ma prendere attivamente sulle proprie spalle il debole che non ce la fa a camminare. Così pure la tolleranza nei confronti dei falsi fratelli non significa un accomodamento, un modus vivendi; si accompagna invece a un tenace sforzo operato su se stessi per edificare, cioè costruire dove altri distruggono, ricucire pazientemente là dove altri lacerano. In una parola, nella Chiesa del tempo presente, non si tratta di pazientare, ma di fare opera di pazienza, non si tratta di restare schiacciati sotto la croce ma di prenderla sulle spalle e portarla. Patientia come instancabile operare: sembra un paradosso. Ma non lo è per Agostino, per il quale il massimo dell’attività del singolo fedele come della Chiesa tutta intera coincide con la più grande docilità alla mozione dello Spirito che guida e vivifica. Docilità che non è passività inerte, ma istinto che spinge la Chiesa a raccogliersi nel più intimo di sé, nella sua sorgente vitale. È là che la Chiesa comprende il legame misterioso tra la sua forza e la sua patientia, e non pochi cristiani scoprono la contemplazione come forma suprema di attività e si vaccinano costantemente contro gli attivismi superficiali e concitati con i quali credono periodicamente di concludere una vicenda che non sono loro a comandare. Così, al di là dell’impegno quotidiano nelle opere della patientia, la Chiesa in cammino «patisce l’attesa» ma non dimentica che nella concreta, operosa, quotidiana patientia, c’è il solo segreto per affrettare realmente e legittimamente il giorno della parousia. «Patientia» come superamento della perplessità C’è infine un ruolo decisivo affidato alla patientia ecclesiale: quello di preservare il cristiano dall’immobilismo, dalla paralisi che potrebbe colpirlo nel momento in cui si rende conto che la mescolanza di luce e tenebre abita nel suo stesso cuore; che la frontiera tra le due città attraversa appunto questo suo cuore, e che, come stupendamente afferma Agostino, la sua anima lotta contro se stessa, che è divisa, che una parte di essa è ferita, è malata, appartiene all’altro campo. Guardandosi attorno e giudicando dalle apparenze, l’aia sembra soltanto un ammasso di paglia: dov’è il frumento e chi è frumento e fino a qual punto io sono frumento? A questo interrogativo, che può provocare l’angoscia sterile e spingere alla ricerca di segni rassicuranti ma equivoci, non è consentito dare una risposta sul piano della conoscenza, ma soltanto sul piano dell’operare. E qui riappare regina la patientia. Io non saprò con assoluta certezza, fino al giorno della perfetta rivelazione, quanto in me c’è di frumento e quanto di pula. Non mi resta — ma è capitale — che sforzarmi di essere frumento e restare sull’aia fino al giorno della ventilazione. Non so del mio fratello — e come potrei giudicare? — se e quanta parte di lui appartenga alla città di Dio. Ma non mi è chiesto di saperlo; piuttosto mi è imposto di avvicinarmi a quella parte di frumento che è in lui grazie a quella patientia che, stringendomi al cuore della Chiesa, mi mette in comunione con lui in una maniera che soltanto un giorno conoscerò perfettamente. I chicchi di frumento si conoscono infatti tra di loro, ma in una maniera così imperfetta che spesso uno di loro, avviluppato dalla pula, è tentato di pensare che è ormai rimasto solo sull’aia di Dio. Oscurità e prova: nel lungo tunnel è vano voler decifrare segni e riconoscere volti, bisogna avanzare, magari a tentoni, ma avanzare verso la luce. Così pure la Chiesa intera può uscire dalla perplessità soltanto grazie alla sua patientia nutrita di speranza. Essa non conosce esattamente le sue frontiere, il numero di quelli che la compongono, numero noto soltanto a Dio. Cerca con difficoltà di rappresentare a se stessa i tratti del proprio volto; non conosce il perimetro delle sue mura e poi, del resto, le sue porte sono sempre aperte, fortunatamente per quanti vogliono entrarci, disgraziatamente per quanti possono uscirne. Intus - foris: chi è realmente fuori, realmente dentro in questa città di Dio in cammino? Quando si avrà perfetta sicurezza? «Quaggiù, mai» (7), risponde Agostino. E tuttavia in questa insicurezza, che non è mai angoscia, la patientia, che non è mai rassegnazione passiva, prepara il giorno nel quale finalmente tranquillità totale e gioia perfetta regneranno nella Gerusalemme celeste, le cui porte saranno state infine chiuse e sprangate. «Patientia» creatrice: il «pondus» Giunti a questo punto, comincia ad apparire in tutta la sua centralità, il mistero della patientia della Chiesa. Non può più trattarsi di una virtù da portare in viaggio come un rimedio utile contro le avversità. Nella patientia si costruisce la Chiesa, perché radica la Chiesa presente nella sua continuità con la Chiesa futura e definitiva. Del resto, che la patientia sia condizione e pegno di appartenenza alla Chiesa lo prova il fatto che di coloro che se ne allontanano in preda alle loro passioni, Agostino dice: «Patientiam perdiderunt» (8). Espressione che non possiamo certo tradurre con il nostro banale: «Hanno perduto la pazienza», ma piuttosto, agostinianamente, hanno perduto la capacità di vivere l’attesa. Per Agostino, nella condizione presente della Chiesa in cammino, perdere la pazienza significa aver perduto tutto. Per comprendere meglio il valore di questa asserzione dobbiamo ricorrere alla nozione tutta agostiniana di pondus, il quale, spiega Agostino, è la spinta che ogni cosa subisce e che la fa tendere al suo luogo proprio. Non si deve dimenticare che per Agostino il pondus per eccellenza è l’amore. Pondus, quindi, non è inerzia ma tensione. Il peso dei chicchi di frumento li fa dunque aderire all’aia che è il luogo della loro salvezza; la patientia diventa allora quel peso specifico che è il segno di una tensione. Ma aderire all’aia non significa aver dimenticato la nostalgia dei granai celesti: al contrario. Più è denso il chicco e pieno di tensione verso l’alto, più aumenta la sua gravità sull’aia che è la Chiesa presente. Più cresce la speranza di cieli e terre nuove, più si moltiplica la pazienza e l’impegno a riscattare l’oggi, a impegnarsi nel bene. Il pregiudizio secondo il quale la speranza cristiana allontanerebbe la Chiesa dal suo impegno quotidiano è una vecchia favola che purtroppo i cristiani accreditano con la loro inerzia, ma l’inerzia è negazione insieme di patientia e di speranza. Una Chiesa senza speranza non è una Chiesa, ma perché sia autentica la speranza deve tradursi in patientia quotidiana. Perciò, secondo Agostino, la patientia letteralmente fa la Chiesa, e la Chiesa della speranza può ben chiamarsi la Chiesa della patientia. 1 Cfr P. BORGOMEO, L’Église de ce temps dans la prédication de Saint Augustin, Paris, Études Augustiniennes, 1972. 2 AGOSTINO, S., En. In Ps. 39, 13 [CC 38, 435]. 3 ID., Tract. In Joh. 25, 3 [CC 36, 249]. 4 ID., Sermo 216, 7 (7) [PL 38, 1080]. 5 ID., Tract. In Job. 27, 11 [CC 36, 276]. 6 ID., En. In Ps. 29, 38 [CC 38, 446]. 7 ID., En. In Ps. 99, 11 [CC 39, 1400].