Oikonomia. Perché l’economia torni a casa – XIII Convegno Interassociativo
4-6 settembre 2009
Camera di commercio di Brescia
Villa Pace di Gussago
Interventi integrali di alcuni relatori
Venerdì 4 settembre 2009, Camera di commercio di Brescia
Introduzione a Un’economia responsabile per una città solidale
Roberto Rossini (presidente provinciale Acli)
Ci piacerebbe parlare di economia al netto di questa crisi, magari disegnando un'utopia.
Ma non è così. Perché i fatti si incaricano di dimostrarci che la realtà (e così la realtà
economica) è imprevedibile: forse, più che di una scienza economica, dovremmo parlare di
una storia economica. Perché l'economia non è un meccanismo perfetto e neppure neutro:
non è un motore. È più simile ad un organismo vivente, con una sua storia, una biografia, i
suoi incidenti, le sue crisi.
E quindi anche il pensiero sull'economia, sulle regole per gestire e condividere le risorse
materiali e umane, sbaglia se si limita agli strumenti economici. Se si cerca di risolvere le
questioni economiche pensando solamente in termini economici si fa un errore, perché si
assume una visione limitata. Qualche esempio.
Se apro un qualunque manuale di economia politica scopro che si definisce il sistema
economico come una serie di relazioni tra alcuni soggetti: l'impresa (l'impresa che produce e le
banche), l'ente pubblico (lo Stato e tutti gli enti locali), il resto del mondo e la famiglia che
consuma, risparmia e lavora. Dunque la famiglia è un soggetto economico. Ma non è un
soggetto che opera in economia in modo del tutto razionale. La famiglia è sì consumatrice,
risparmiatrice, lavoratrice (perfino elettrice!), ma è anche educatrice, curatrice, badante... è il
più importante ammortizzatore sociale in caso di perdita del lavoro, malattia, infortunio,
disavventura. Tutto ciò non risponde esclusivamente alla logica economica così come si può
classicamente pensare. Perché risponde più alla logica del dono. Allora questo significa che
nel sistema economico non tutti ragionano solo ed esclusivamente secondo i criteri
dell'avere, del profitto, del successo.
Ma ancora: la cooperazione, il microcredito, i gruppi di acquisto solidale, l'impresa sociale,
l'economia di comunione, il turismo solidale, il risparmio etico, il consorzio, la responsabilità
sociale d'impresa, il mercato equo e solidale.
Tutti questi fenomeni non rispondono solo alla logica dell'avere, ma vanno oltre e si
collocano (riprendendo la lettera pastorale del nostro Vescovo) nella dimensione
dell'essere e del dono. Se questi fenomeni esistono, allora significa che possiamo iniziare da
qui il nostro discorso sull'economia: da una realtà che tocchiamo con mano, che
sperimentiamo, che sappiamo esistente; una realtà a cui però dobbiamo conferire nuovi
spazi, nuovi ruoli, nuove responsabilità e nuovi poteri. Dobbiamo farlo perché queste realtà
non pongono al centro il solo profitto. Perché il profitto, come ci ricordava la Centesimus
Annus, è solo uno degli elementi regolatori dell'impresa: anzitutto vi è la “comunità degli
uomini”, vi è l'uomo, o meglio, la persona. Questo significa che un'altra economia è possibile,
che si può ragionare in termini economici non solo partendo da premesse economiche, ma da
premesse umane e sociali. Possiamo avere uno sguardo diverso sull'economia.
La crisi offre quantomeno l'opportunità di ripensare al modo con cui sono soddisfatti i nostri
bisogni fondamentali e di aprire anche ad una direzione diversa, che abbia al centro l'uomo.
La crisi ci fa aprire gli occhi su una società che finora ha tradotto tutto in valori economici e
monetari, secondo il principio dell’accumulo per cui “più benessere, più felicità, più
sicurezza, più identità, più appartenenza”.
Fino a qualche tempo fa era la politica a rispondere a questi desideri, rappresentando il
desiderio di identità, di inclusione sociale, di sicurezza. Progressivamente queste istanze
sono state attribuite all'economia, fino ad arrivare alla finanza, nell'illusione che bastasse il
denaro per il consumo (cioè l'avere) a soddisfare la vita (cioè l'essere). Come a dire che basta
l'avere per essere: consumo, dunque sono vivo, dunque sono salvo.
Ma non è così. Gli indicatori di disagio sociale e relazionale sono sotto gli occhi di tutti. Aver
schiacciato la dimensione dell’essere su quella dell’avere ha trasformato il consumo in
elemento di identità e ha ridimensionato gli strumenti della solidarietà sociale (non di
quella individuale, tipo le raccolte di fondi). Strumenti attraverso i quali si creavano i legami
di reciprocità, di dono, di unità e che garantivano il “buono stato di salute” del corpo sociale:
l'inclusione, la sicurezza.
Ma ormai nessuno si sente più parte di un unico corpo.
Quali nuove parole, allora, per ricominciare, per introdurre nel dibattito pubblico un pensiero
altro? C'è una parola, in particolare, che ha guidato la nostra riflessione interassociativa: è
fraternità. La fraternità intesa come reciprocità, in quanto crea legame sociale, e intesa come
dono, in quanto tesse un legame amorevole, disinteressato: spirituale. È possibile
un'economia di fraternità? Si può leggere l'economia avendo come criterio di riferimento la
fraternità? È un quesito che giro ai nostri relatori.
In questi giorni leggiamo da una ricerca condotta dall'Iref che per il 47,5% delle famiglie
italiane (anche se, come abbiamo capito quest'estate, bisogna distinguere il nord dal sud)
basta una spesa imprevista di 100 euro per creare un problema. Con una visione puramente
economica, quindi limitandoci alla sfera dell'avere, basterebbe chiedere il “bonus 100 euro”.
Ma noi invece dobbiamo chiedere strumenti per sostenere una visione più fraterna
dell'economia e delle difficoltà economiche e sociali, che valorizzi concretamente quei
soggetti che fanno economia in modo diverso, che fanno società. Perché anche questo sia un
modo per creare una cittadinanza attiva e solidale.
Non basta ragionare sui valori economici, occorre ragionare sull'uomo. La recente enciclica
di Benedetto XVI Caritas in Veritate ribadisce che non si può ragionare sulla questione sociale
senza una riflessione sulla questione antropologica (cioè: cos'è l'uomo?).
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Queste sono alcune delle riflessioni che ci hanno guidato nella preparazione del nostro
Convegno interassociativo. Abbiamo chiesto a due persone che, per rispettive competenze,
potessero parlarci di economia non solo in termini economici, che ci aiutassero ad
argomentare (se lo condividono), a completare, a meglio specificare questo punto di vista.
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L’Eucaristia tra Carità e Giustizia
Mons. Franco Giulio Brambilla (teologo, vicario episcopale di Milano)
La fede cristiana è soggetta oggi a due derive che hanno alla radice lo stesso comune
denominatore. Queste la minano come un mal sottile e la corrompono dal di dentro come un tarlo che
ne erode la sostanza e ne lascia intatta la superficie. La fede si trasforma in risposta al bisogno: al
bisogno di sacro, di spiritualità, di armonia e pace interiore; alla domanda di solidarietà, di carità, di
risposta ai bisogni primari e secondari che aumentano sempre più in una società complessa e
competitiva. L’atteggiamento dei credenti (e di coloro che hanno un compito educativo o una
responsabilità ecclesiale o un compito di animazione e di volontariato) si divide in due atteggiamenti
talora opposti. C’è chi teme questa deriva e proclama una fede “dura e pura” contrapponendo fede e
religione, da un lato, oppure carità (cristiana) e solidarietà (umana), dall’altro. C’è chi, invece,
vedendo che in questa stagione postmoderna il sacro e la solidarietà hanno il massimo di audience,
tende a cavalcare la domanda di sacro e il bisogno di solidarietà.
Non stupisca questa equivalenza tra sacro e solidarietà – che spesso nella pratica delle persone
non vanno insieme – perché tutte e due si avvicinavano alla fede chiedendo anzitutto di guarire le
ferite dell’anima o del corpo. Tra l’atteggiamento di chi contrappone fede e religione o carità e
solidarietà e l’atteggiamento di chi semplicemente strumentalizza (naturalmente a fin di bene!) le
prime per le seconde si apre la via stretta che è quella di abitare i bisogni (spirituali o materiali) e di
trasfigurarli perché si aprano alla libertà della dedizione cristiana. Si tratta di far compiere
l’avventuroso cammino che va dalla fede come “bisogno” alla fede come “incontro”, relazione libera e
personale. La via stretta è la via di Gesù, la strada del Vangelo!
I miracoli di Gesù sono, ad esempio, la grande parabola di questa trasfigurazione del bisogno a
cui basta toccare, essere guarito, sanato (nel corpo e nello spirito), per trasformarlo nella fede che deve
accogliere, nella libertà che riceve non solo il dono, ma anche il Donatore, che deve incontrare la
persona di Gesù, che alla fine deve seguirlo non perché è stata guarita, ma perché liberamente entra nel
cammino del discepolo. La fatica di passare dal bisogno devozionale o solidale alla scelta vocazionale
è oggi un momento essenziale dell’annuncio o della carità, non perché il vocazionale non richieda più
forme devote o solidali, ma perché le colloca nella loro giusta luce e verità.
Parlando in uno spazio pubblico di riflessione, mi soffermerò soprattutto sul secondo
rapporto: quello tra carità e solidarietà. E dirò che è proprio l’eucaristia a disegnare questo passaggio
che va dalla solidarietà alla carità, perché custodisce il cammino va dal bisogno di aiuto alla libertà
della dedizione e dell’amore. Ecco il nostro tema: l’eucaristia tra carità e giustizia!
1.
L’eucaristia è il roveto ardente della carità
La celebrazione eucaristica domenicale come memoriale della Pasqua, sacramento della morte e
risurrezione del Signore è il momento “costitutivo” della comunità, la sorgente della sua vita, il motore
della missione. Qui la comunità cristiana è generata dall’alto, è evento di grazia, nasce dall’eucaristia,
vive del sacrificio di Gesù che è il corpo donato e il sangue versato “per voi e per tutti”. In questa
parole dell’eucaristia domenicale la chiesa sperimenta ad un tempo la morte di Gesù che genera la
comunità credente, ma sente anche che il dono del corpo di Cristo fa della comunità il suo corpo,
perché sia spezzato per tutti e condiviso con ogni uomo. La messa non ci appartiene, ma noi
apparteniamo al corpo del Signore per essere speranza di vita e risurrezione per tutti gli uomini.
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L’eucaristia e l’atto della fede
L’eucaristia domenicale (che è la sua forma tipica) può essere riconosciuta, celebrata, vissuta e
irradiata solo se alimenta l’atto della fede, personale ed ecclesiale. La messa non solo presuppone la
fede, ma anche la alimenta e la fa crescere: è il momento centrale in cui la fede è in atto, è il momento
più alto in cui la fede si esprime e costruisce. La Messa allora non è solo preghiera personale, non è
neppure soltanto la risposta a un bisogno religioso, ma deve aiutare ad esprimere in senso forte la fede
teologale. La celebrazione alimenta e costruisce l’atto della fede. Come il cristiano e la chiesa celebrano la
messa, così costruiscono l’atto della fede, personale ed ecclesiale.
Sappiamo, però, che la fede è “in atto” non solo nella celebrazione, ma anche nella carità (“la
fede che opera attraverso la carità”, Gal 5,6). Il culto e la carità sono le due forme pratiche
fondamentali della fede. Già nell’AT esse rappresentano le due forme essenziali della Torah (la Legge).
Il NT riprende tutto questo, collegando strettamente culto e carità alla pasqua di Gesù. Tuttavia,
liturgia e carità, eucaristia e comunione fraterna, esprimono la fede in atto sotto due aspetti diversi. Il
culto e l’eucaristia dicono e alimentano l’atto della fede, per l’aspetto per cui la fede è dono ricevuto e
riconosciuto, celebrano l’atto della fede come una forma e un’esperienza della libertà donata, ricevuta
gratuitamente. La carità fraterna, la dedizione agli altri e il servizio in tutte le sue forme, esprimono ancora
l’atto della fede, perché ciò che è ricevuto in dono viene gratuitamente condiviso, è irradiato nel mondo,
costruisce storie di solidarietà, genera una vita di comunione, in una parola costruisce la comunità
cristiana, fa la chiesa.
Queste sono le due forme pratiche della fede come atto: il loro valore è quello di costruire
l’uomo (e la donna) credente, l’uomo spirituale, il culto spirituale, l’uomo nell’alleanza, il cristiano nel
mondo e nella storia.
Dal sacro al Santo
L’eucaristia domenicale può essere celebrata e vissuta solo se introduce al mistero santo di Dio.
Il rito con le sue strategie e i suoi gesti, deve introdurre al senso del mistero, deve alimentare in coloro
che vi partecipano la coscienza che celebrare l’eucaristia è vivere i misteri della fede (tractare mysteria),
anzi è essere introdotti nel “mistero grande” della Pasqua (magnum mysterium). Il rito della messa ha la
funzione di educare il desiderio, riscatta il desiderio dal suo essere semplicemente un bisogno da
esaudire, e apre le esperienze fondamentali dell’esistenza al ritrovamento di se stessi e all’incontro con
gli altri. Strappa il desiderio dall’immediatezza della sensazione psicologica o dell’esperimento e lo
introduce in un cammino dove dev’essere riconosciuta l’origine ultima di tutti i beni di cui l’uomo
dispone e che entrano nello scambio sociale.
Il rito, e in particolare l’eucaristia domenicale, introduce a riconoscere l’origine di tutte queste
realtà in quella sorgente da cui tutto proviene. Esso, infatti ci fa approdare sulla sponda del mistero
santo di Dio. Partendo dai problemi dell’esistenza, dentro la trama dei rapporti familiari, del proprio
cammino vocazionale, quando raggiungiamo quel centro del tempo che è l’Eucaristia domenicale, deve
sorgere in noi la domanda forte: mi avvicino a tutto ciò con il senso del mistero di Dio? Con il timore e il
tremore, che non viene dalla paura, ma sgorga dalla delicatezza, dallo stupore, dalla meraviglia di cui
ha bisogno il mio contatto con il mistero di Dio? Solo a questo punto l’eucaristia diventa sfida per il
credente: non solo se egli alimenta la sua fede, ma se questa lo fa uscire per incontrare veramente Dio
e il prossimo. Nella sua disarmante semplicità questo è il senso del mistero di Dio a cui la Messa
introduce: il senso “cristiano” del mistero, non è qualcosa di segreto corrispondente a “misterioso”,
“esoterico”, “stravagante”, “sacrale”. Il mistero cristiano è il volto santo di Dio che è misericordia e
benevolenza che fa nascere la libertà di ogni uomo e donna, che la guarisce e custodisce di fronte a
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tutte le maschere e contraffazioni che non fanno solo di Dio un idolo, ma anche dell’uomo uno
schiavo.
Il corpo donato e il sangue versato
L’eucaristia domenicale può essere celebrata, vissuta e irradiata solo se essa è il sacramento del
Crocifisso risorto. I due momenti, messi in luce sopra, della fede come atto che riconosce il dono
ricevuto dall’alto e del dono accolto come la vita stessa del mistero santo di Dio, trovano qui il loro
punto d’incandescenza. L’Eucaristia è il gesto di Gesù che porta a verità queste due dimensioni, ma
per noi non è facile accogliere la vita come un dono che viene dal cielo, come un pane che viene da
Dio. Gli uomini tentano di trasformarla in un bisogno e in un possesso e subito la stravolgono
strumentalizzando per sé la vita con i suoi doni ed escludendone gli altri. «Voi mi cercate non perché
avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26): è l’inizio
folgorante del discorso sul pane di vita. Gesù, il buon Pastore, ha imbandito il banchetto di vita sui
pascoli erbosi, distribuendo pane in abbondanza, ma gli abitanti di Cafarnao vengono per farlo “loro
re”.
Gesù si sottrae ad essere lo strumento onnipotente del loro bisogno, ma non si sottrae a loro,
perché dona la sua carne per la vita del mondo. Gli uomini vogliono sequestrare per se stessi anche il
dono di vita e non condividerlo con gli altri. Gesù resta a tavola e offre il suo corpo donato e il sangue
versato anche a coloro che lo rifiutano. Questa è la croce di Gesù: è il corpo trafitto e il sangue sparso
per l’uomo che vuole appropriarsi del dono della vita e del dono dell’altro come fosse proprio
possesso. Gesù smaschera questo gesto: ci dice che è mortale, non solo perché rende “vittima” Gesù,
ma anche perché produce morte attorno a noi. Egli però non si sottrae, ma passa attraverso il nostro
rifiuto, il nostro delirio di onnipotenza e lo scioglie dal di dentro con la sua morte, lo trasfigura con la
potenza disarmata e disarmante della sua vita (da “vittima”, diventa “offerta”) “per noi e per tutti”,
anzi “per la vita del mondo”.
2.
La carità è il banco di prova dell’eucaristia
La chiesa e il credente che sono generati e si alimentano all’eucaristia domenicale formano la
comunità a servizio di tutti. C’è un bel testo nel vangelo di Marco dove è illustrata questa dinamica:
«Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il
primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per
servire e dare la propria vita in riscatto per molti». (Mc10,43-45). Gesù nell’eucaristia domenicale è
colui che sta in mezzo a noi come uno che serve. Questo è il criterio del servizio della comunità: chi
vuol essere il più grande si faccia piccolo nella comunità (vostro servitore), chi vuol essere il primo
diventi il volto della carità per i poveri e i piccoli (servo di tutti). In tal modo il servizio della carità è un
tratto caratterizzante dell’eucaristia domenicale. La domenica con al centro l’eucaristia è il “giorno
della carità”. Occorre ora fare un breve approfondimento sul rapporto tra carità e solidarietà.
I cristiani e la solidarietà
In una società come la nostra che è una società di bisogni, tutte le agenzie della carità o del
volontariato (da quelle più strutturate e complesse a quelle più elastiche e tempestive) rispondono ad
una precisa attesa sociale. Che vi siano associazioni, organizzazioni, strutture che rispondono ai
bisogni che via via si presentano nella nostra società può essere molto funzionale alle aspettative
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sociali odierne. Per questo oggi il tema del volontariato e della carità ha un forte apprezzamento nella
coscienza media della gente.
Occorre però stare attenti almeno su due fronti. Il primo fronte è quello propriamente sociale,
perché la generosità dei cittadini nel campo del volontariato non conviva con la mancanza di
coscienza etica nell’ambito dei rapporti civili: una forte presenza di generosità deve prima o poi
incidere sui meccanismi sociali per una società più giusta. Il secondo fronte riguarda propriamente i
cristiani. Essi devono rispondere in modo competente ai bisogni, ma non devono né strumentalizzare i
bisogni, né lasciarsi strumentalizzare perché siano semplicemente fornitori di servizi a buon prezzo e
di buon cuore. Su questo punto i cristiani devono mostrare una vigilanza particolare.
In primo luogo, il servizio della carità – qualunque esso sia, dal più semplice e immediato al
più strutturato e complesso – deve in prima battuta essere un servizio disinteressato e senza
discriminazioni: per noi il bisognoso è ogni uomo e ogni donna, il servizio non è prima di tutto per i
“nostri” o per farli diventare dei “nostri”, ma è “per tutti”. Chi ci accosta deve sentire tutta la libertà di
chi soccorre senza chiedere tessere, fedi, appartenenze. La risposta al bisogno non dev’essere
strumento di affermazione e di potere, non dev’essere luogo per legare le persone o per farle diventare
cristiane.
In secondo luogo, occorre che i cristiani vigilino perché essi sanno che il loro compito non si
esaurisce rispondendo al bisogno, ma incontrando il bisognoso, o meglio facendo scoprire il desiderio
di un bisogno più grande. In una parola liberandolo dal bisogno e facendolo diventare un fratello.
Una cura del bisogno inteso in modo solo materiale, senza mettere in luce che esso è un segno di una
domanda più radicale, del desiderio di un bene più profondo, di cui il credente è a sua volta solo
testimone e non proprietario, non apre né il singolo né la società alla ricerca di quel bene che solo
riempie il cuore dell’uomo.
La carità del credente
Per questo la carità del cristiano è per tutti: ogni uomo nel bisogno, senza differenza alcuna, ne
è il destinatario. Il cristiano non deve trattarlo solo come un essere bisognoso ma, mentre lo aiuta,
deve suggerirgli la sua identità più vera: quello di essere liberato per il bene. E anche quando succede
che il bisogno non può essere esaudito o risolto fino in fondo – come avviene per coloro che si
dedicano a tipi di malattie inguaribili o a disabilità che restano tali –, questo sentimento di libertà e
gratuità deve essere favorito in coloro che stanno intorno al malato o al piccolo, cioè deve essere
proposto alla famiglia, al volontario, a chi dà una mano, agli operatori, ai medici. Questa è la marcia in
più della carità cristiana!
La carità del cristiano/chiesa, che deriva proprio dall’eucaristia domenicale, dice che il vero
aiuto che puoi dare al povero o al piccolo è di liberarlo dal suo aver bisogno, per farlo diventare un
fratello. E anche quando egli rimane sempre e solo un soggetto di bisogno, noi lo inseriamo nel cerchio
della gratuità e della prossimità fraterna. Libera e liberante, per lui e per chi lo ha in carico. Non lo
aiutiamo per strumentalizzarlo, ma lo aiutiamo in modo che sia reso libero per vivere nella luce di
quel Bene da cui tutti siamo gratificati. Quel Bene che ha volto e nome, anzi che è il gesto del corpo
donato e del sangue versato. Per questo la carità è il banco di prova dell’eucaristia. Solo così anche chi
non può parlare o agire, chi è piagato o è infermo diventa sempre più persona. Sì, persona, non solo
perché può fare, produrre, donare, amare, ma perché è amato, accudito, dentro una prossimità
fraterna, accolto come un fratello.
Che sia proprio la prossimità il volto della carità che viene dall’eucaristia? E che sia proprio la
carità ciò che ricerca il sentimento di solidarietà così diffuso? Così il volontario o l’operatore cristiano
starà vicino a tutti coloro che hanno a cuore la solidarietà, senza un senso di superiorità e senza falsi
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pudori per testimoniare la sua convinzione che viene dalla carità, anzi dall’eucaristia. Perché egli sa
che l’eucaristia è il roveto ardente della carità, e la carità è il banco di prova dell’eucaristia! Ma
soprattutto perché egli ha sperimentato che fare del bisognoso un fratello, fare del servizio una
relazione di prossimità – che resta nella relazione anche quando non c’è più niente da fare o sperare –
è un gesto che non viene da se stesso. Ma ora ci resta da fare l’ultimo passo: collocare la fraternità e la
solidarietà nella città degli uomini, che è regolata dalla giustizia.
Tra carità e giustizia
La cura di buoni rapporti di prossimità è l’atmosfera di cui vive la giustizia e la giustizia è la
forma dei rapporti giusti che regola la carità. Occorre però chiarire più da vicino la relazione tra carità
e giustizia, correggendo il luogo comune con cui è sovente pensata oggi. Esso dice così: la giustizia,
trova il suo criterio nel favorire buoni rapporti sociali nella città, definititi con la sola ragione, in modo
laico si dice oggi, addirittura al di là delle convinzioni religiose: essa riguarda solo le prestazioni a
prescindere dalle convinzioni; mentre la carità si riferirebbe alla forma utopica dei rapporti umani,
lasciata alle convinzioni personali e in particolare religiose: essa deriva dalla buona volontà del
singolo, ma non presiede al rapporto sociale. La giustizia in questo modo regge la città e assume un
tratto universale, che oggi si proclama laico, al prezzo della sua separazione dalla coscienza; la carità è
promossa e praticata come forma della libera scelta di fronte alle situazioni di bisogno e si colloca ai
confini della città, molto valorizzata, ma marginale rispetto alla comune dinamica del rapporto
sociale. In tal modo la giustizia può regolare i rapporti civili e si prefigge il consenso sociale, mentre la
carità farebbe leva solo sulle convinzioni personali e non può essere che richiamata alla coscienza di
ciascuno. Questo modo di vedere le cose è molto rassicurante, ma produce di conseguenza molti
problemi spuri: la città secolare sarebbe regolata dalla giustizia, che propone un’etica intesa come la
regolazione del vivere civile che compone gli interessi dei singoli e dei gruppi, mentre la carità è lo
specifico della pratica cristiana, molto apprezzata ma marginale rispetto allo spazio pubblico,
ricondotta alla sfera privata e all’iniziativa personale e/o di gruppo ma senza rilievo sociale, se non
come crocerossa dei mali della società. Così l’impegno del cristiano nel mondo viene identificato nel
volontariato, nell’assistenza sociale, nel servizio al povero, o nelle forme utopiche del pacifismo e della
salvaguardia del creato. Si stabilisce così oggi una facile equivalenza tra impegno cristiano e servizio
sociale.
Occorre forse, anzitutto, mettere in discussione questo schema e dire in modo chiaro che alla
carità, nella specifica forma dell’amore del prossimo, va riconosciuto un rilievo politico. Certo per
comprendere questo rilievo bisogna superare l’identificazione frettolosa tra carità e cura del povero o
degli ultimi, tra carità e relazione di aiuto al bisognoso. La carità è certamente tutto questo, ma non
deve essere ridotta a questo. La carità deve riferirsi ai rapporti primari, alla forme elementari della
vita, a quei modi di vivere che sono mediate dall’ethos, cioè da quelle forme con cui il desiderio si
configura e sta al fondamento dell’alleanza sociale. A partire da questo riferimento alle forme
fondamentali della vita si troverebbe la corretta comprensione della giustizia e dei modi della sua
formulazione giuridica.
È attraverso le relazioni di prossimità, le forme dei buoni legami sociali, presenti nel costume e nella
cultura (in senso antropologico), che è possibile alla coscienza morale di volere e al rapporto sociale di
offrire una grammatica alla convivenza tra gli umani. Ciò ci consente di pensare il valore politico della
carità: solo mostrando come nel riconoscimento dell’altro è sempre in gioco la coscienza di sé, e solo
mostrando come questo riconoscimento dell’altro assuma le forme della prossimità (prima che della
relazione di aiuto, anche se la prossimità è sempre da capo suscitata della cura del bisogno e del
povero), è possibile mostrare la profonda relazione e la distinzione tra rapporto fraterno e rapporto
sociale, tra essere prossimo e essere socio, e come essi s’intreccino reciprocamente. Come, in altre
parole, la carità abbia una rilevanza politica e la giustizia si alimenti sempre di nuovo al rinnovamento
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delle forme elementari del rapporto fraterno. Il rapporto sociale, infatti, mediato dalle leggi e dal diritto,
deve necessariamente riferirsi sempre al riconoscimento dell’altro in cui è in gioco anche la coscienza
di sé. E, reciprocamente, le forme giuste della convivenza civile (o la critica alle loro contraffazioni),
plasmino sempre in certo senso e rendano possibile anche i modi delle relazioni umane: la parola e il
riconoscimento reciproco, il dono e la promessa. Non si dà dunque separazione tra singolo e società,
tra coscienza e diritto. Solo così la carità non sarà ai margini della società, ma sarà come l’atmosfera
che favorirà rapporti giusti e l’impegno sociale, così come reciprocamente il miglioramento della
grammatica sociale favorirà forme sempre nuove della relazione di prossimità (e di aiuto/servizio).
Lo spreco della donna senza volto
Concludiamo: se anche il credente che viene dall’eucaristia, come la Donna del Vangelo (la
Chiesa?), non ha il coraggio di sciupare “trecento danari” (lo stipendio di un anno!) per onorare il
corpo donato di Gesù, non potrà riconoscere “i poveri che avete sempre con voi!”. Solo il corpo donato
del Signore, custodito e amato, ci fa essere uomini e donne della carità! Non solo per un po’ di tempo,
ma per lo spazio di una vita, anzi per dar volto a una vocazione. Non da soli, ma con tutta la nube dei
testimoni della carità che non hanno mai smesso di nascere dal grembo della Chiesa che versa il
profumo preziosissimo – spreco inconcepibile – per onorare il corpo crocifisso del Signore. Ricordate
la sconvolgente profezia di Gesù: «In verità vi dico che, dovunque, in tutto il mondo. si annuncerà il
Vangelo si racconterà pure in memoria di lei ciò che ella ha fatto» (Mc 14,9). Dopo duemila anni siamo
qui ancora a proclamarlo, in memoria di Lei! Di una donna senza volto e senza nome, perché ha il
volto della Chiesa, ha il tuo volto!
+ Franco Giulio Brambilla
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Sabato 5 settembre 2009
Famiglia e lavoro come risposta alla crisi - Introduzione alla tavola rotonda
Paolo Ferrari (membro di Azione Cattolica)
Può sembrare una battuta il sottotitolo che abbiamo dato a questa tredicesima edizione del Convegno
interassociativo: «Perché l’economia torni a casa». Di fronte a una crisi grave e profonda che ha mietuto e
miete vittime soprattutto sugli strati più deboli della società, in Italia come in molti paesi del mondo,
verrebbe voglia di “mandare a casa” qualcuno. Ma sappiamo bene che, come è invisibile la
leggendaria mano che, secondo i nipotini di Adamo Smith, governerebbe anche oggi il mercato,
restano spesso invisibili anche i responsabili planetari della bolla economica che è esplosa.
In Italia c’è chi, come il ministro dell’Economia, ha dato un nome a questi presunti colpevoli: gli
economisti, accusati di essere incapaci di prevedere alcunché. Come se la crisi non fosse stata anche
una questione di mancanza di controlli - da parte delle istituzioni internazionali e dei governi
nazionali - sulle strategie spregiudicate della finanza globale. Oltre che una conseguenza di una crisi
etica come ha ben messo in evidenza l’enciclica di Benedetto XVI Charitas in veritate.
«Che l’economia torni a casa» per noi è qualcosa di più di una battuta…
La radice greca del titolo di questo convegno, OIKONOMIA, ci ricorda il nesso fra l'economia e la
casa. E anche con il governo, con le regole. Auspicare che “l’economia torni a casa” significa chiedere
da un lato che sappia ritrovare un legame con l’etica, cioè che non sia autoreferenziale, e dall’altro che
ritorni ai suoi fondamenti, che secondo noi sono due: il lavoro e la famiglia.
1. LAVORO
Un’economia che si è appiattita sulla finanza e sui suoi giochi di prestigio è alla base della crisi che ha
investito il pianeta. Per questo serve innanzitutto ridare centralità all’economia reale, che è quella
centrata sulla produzione e sul lavoro. Questa è la prima pista su cui vogliamo riflettere. Lo facciamo
con il primo dei nostri relatori di oggi, MAURIZIO SORCIONI.
2. FAMIGLIA
Il secondo fondamento da cui ripartire è la famiglia. Se ne parla molto, soprattutto in Italia, ma non si
fa quasi mai niente di concreto.
«Nel secondo trimestre dell’anno – scrive “Famiglia cristiana” nell’editoriale della settimana scorsa - in
Francia e in Germania il Pil è aumentato dello 0,3 per cento rispetto a gennaio-marzo, mentre nello
stesso periodo l’Italia ha ceduto lo 0,5 per cento. Si dà il caso che francesi e tedeschi investano nelle
politiche a sostegno delle famiglie oltre il 3 per cento del loro Prodotto interno lordo, contro l’1,1 per
cento dell’Italia. Solo una coincidenza?» – si chiede don Sciortino? -. La domanda è ovviamente
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retorica e la risposta è scritta poco dopo: «Le famiglie si confermano il vero volano dell’economia, la
prima e fondamentale risorsa di un Paese. Ma l’Italia si ostina a ignorare l’evidenza dei fatti».
Diventa ancora più chiaro, allora, il senso del titolo e del sottotitolo di questo convegno: per uscire
dalla crisi serve investire sulla famiglia, perché è il fattore che può spingere realmente la crescita. Una
politica centrata sul nucleo familiare, soprattutto in tempo di crisi, è importante perché - come scrive
Luigi Campiglio - la famiglia è il luogo che più di ogni altro distribuisce sulla base del bisogno e non
del merito. Il merito è centrale nel mercato, ma per fortuna le risorse all’interno della famiglia
vengono distribuite in base al bisogno».
Abbiamo invitato il professor FEDERICO PERALI per sviluppare questa prospettiva. Lo abbiamo fatto
perché nei suoi studi economici ha dedicato ampia attenzione alla dimensione della famiglia, dei
“costi” di fare figli e, più complessivamente, al welfare.
Insieme a Natale Forlani e Federico Perali, abbiamo voluto dare voce anche a un nostro concittadino
che forse oggi potrebbe vestire i panni scomodi di chi rappresenta il mondo della finanza e del credito,
ma è anche portabandiera di un mondo che fa della “differenza” dalla finanza selvaggia e
autoreferenziale, la sua missione (la mia banca è differente!):
ALESSANDRO AZZI.
A lui chiederemo se un mondo così attento al territorio come quello del credito cooperativo possa
sostenere una nuova stagione in cui famiglia e lavoro tornino a essere protagonisti.
Prima di dare la parola ai nostri tre relatori, ancora una piccola nota. In cartella trovate un documento
che è stato steso dall’équipe progettuale, ispirata da analoghe iniziative di diocesi e realtà ecclesiali.
È una riflessione che si apre a delle proposte operative che verranno alimentate dai laboratori del
pomeriggio; consigli per noi e per le nostre comunità per attraversare la crisi e uscirne, se possibile,
migliori, dimostrando che non tutto il male vien per nuocere e che la crisi può essere un’occasione per
modificare i nostri comportamenti.
Tre le idee di fondo di quel documento:
1.
che la crisi economica è prima di tutto una crisi etica (vedi serata inaugurale del convegno)
2.
che alla base di questa crisi c’è un paradigma, una cultura individualista, tutta centrata
sull’accumulo per sé: quella situazione che lo scorso anno abbiamo chiamato “la notte del noi”
e che fa del bene comune solo una parola d’ordine vuota e non un processo alla ricerca di un
bene che è per tutti ed è per ciascuno. Ne emerge una visione relazionale della società e del bene
comune (don Milani: sortirne insieme è politica!).
1
1
3.
che ci serve una vera OIKONOMIA, quella che nel documento viene chiamata un’economia
domestica a misura di famiglia, cioè di persone.
E proprio per questo nei laboratori, che si terranno nel pomeriggio, cercheremo di vedere la famiglia
come centro, come chiave di lettura trasversale, come interlocutore privilegiato della politica,
dell’economia e della società.
Un modo per chiedere non solo politiche per la famiglia, ma anche politiche con la famiglia.
1
2
Domenica 6 settembre 2009
Sintesi dei lavori e introduzione al dibattito1
Davide Guarneri (presidente nazionale A.Ge.)
Giungiamo, in questa mattinata, alla conclusione del XIII Convegno interassociativo
“Oikonomia, perché l’economia torni a casa”. L’esperienza che abbiamo vissuto si conferma
come un evento non formale, intrecciato di contenuti alti proposti dai relatori e di fraternità
interassociativa fra realtà che si innervano profondamente nel mondo cattolico bresciano e
nella società, di rielaborazione interna ai gruppi di lavoro e di intenso scambio, lungo un
intero anno, all’interno dell’équipe progettuale.
Si conclude un’esperienza, ma, particolarmente quest’anno, non intendiamo chiudere la
riflessione: il convegno si è posto all’interno e in continuità con le giornate dell’Agorà
diocesana, la Chiesa bresciana che ha incontrato la città. A seguito del Convegno proporremo
alle parrocchie e alla società una traccia di riflessione e alcuni spunti di impegno.
Il nostro dialogare di stamane intende essere un ulteriore tassello del confronto aperto:
incontriamo oggi un economista, un giornalista economico, l’istituzione provinciale, una
esponente nazionale dell’associazionismo.
Il mio compito è offrire, brevemente, non tanto una sintesi esaustiva dei lavori (come ogni
anno, presto avrete a disposizione nelle riviste associative e nei siti i materiali prodotti),
quanto offrire alcune prospettive di rilancio per i nostri interlocutori.
Lo faccio a partire dal mio osservatorio e dalla mia esperienza di coordinatore
dell’Associazione “Comunità e scuola”, a Brescia, attiva nel dialogo fra genitori, insegnanti,
studenti, istituzioni scolastiche, e nella veste di Presidente nazionale dell’Associazione
Italiana Genitori, AGe onlus, che da quarant’anni è impegnata per la formazione dei genitori,
la promozione della partecipazione scolastica e del ruolo dei genitori nel sociale, nel mondo
dei media e della sanità.
1
Intervengono:
Paolo Panteghini - bresciano, autore di numerosi articoli e pubblicazioni soprattutto relativi al tema della tassazione e
delle imprese, professore associato Università degli Studi di Brescia, Scienza delle Finanze. Ha tenuto corsi di Scienza
delle Finanze, Economia Politica, Finanza degli Enti locali. Ha lavorato presso università estere quali Glasgow,
Monaco, Uppsala. Docente al Master in Economia dei Tributi presso la Scuola Superiore dell’Economia e Finanze.
Elia Zamboni - Giornalista professionista dal 1976, è vice Direttore del Sole 24 Ore e Direttore di Radio 24-Il Sole 24 Ore.
Dopo gli studi umanistici (una laurea in Lettere Moderne) ha iniziato la professione al quotidiano Bresciaoggi; al Sole
24 Ore dal 1979 ha coordinato l'informazione economica di servizio, in particolare quella normativa e professionale.
Dal 1987 è vice Direttore del quotidiano economico-finanziario. Ha varato, avendone la responsabilità dei primi anni,
Il Sole 24 Ore del lunedì, Guida Normativa, Guida al Diritto e Guida agli enti locali. Ha curato il progetto del Sole 24
Ore - Sanità e del Sole 24 Ore - Scuola ed è stato responsabile dell'Area di ricerca e sviluppo Idea. In questa veste ha
varato la versione on-line del Sole 24 Ore. E’ presidente del comitato scientifico del Master tributario del Sole24ore,
giunto alla XV edizione.
Aristide Peli, Assessore della Provincia di Brescia, con delega a Pubblica istruzione, Università, Gestione Albi
dell'associazionismo e del volontariato, Ufficio Relazioni con il Pubblico, Famiglia e attività socio-assistenziali, Pari
Opportunità
Lidia Borzì – Presidente ACLI Lazio, responsabile ACLI delle Politiche per la Famiglia e del Progetto Punti Famiglia,
componente il Consiglio direttivo del Forum nazionale delle Associazioni Familiari
1
3
Il nesso fra economia e famiglia è emerso con chiarezza, in queste giornate: non solo per
richiamo all’etimologia greca (oikòs, casa), ma soprattutto per la consapevolezza che la
famiglia è luogo che produce e insieme consuma, educa i cittadini e i consumatori, assolve
persino al ruolo di “ammortizzatore sociale di fatto”, come ha lucidamente descritto ieri il dr.
Sorcioni, di Italia Lavoro.
Le cifre presentate dal dr. Sorcioni e dal prof. Perali sono esplicite e ci dicono di un sistema
fiscale che penalizza i nuclei familiari, quelli numerosi in particolare: la spesa sociale in Italia
è del 26,4% del PIL, rispetto alla media europea del 27,1%. Ma la differenza è qualitativa,
poiché il welfare è sostanzialmente centrato sull'individuo. Le misure a favore della famiglia
toccano il 4,4% della spesa sociale (media europea 8%). Su casa, disabilità, esclusione sociale
solo il 6,2% della spesa sociale (media europea 11,4%). La mancanza di servizi alla persona si
accompagna ad una ridotta natalità che fa dell'Italia uno dei paesi più vecchi dell'Unione
europea. Il carico sulle famiglie delle spese per i servizi di cura di anziani e infanzia è
pesante. L'assistenza spesso è garantita attraverso forme di lavoro irregolare (bassa qualità
delle prestazioni); dei 23 milioni di famiglie (di cui 5,5 formate almeno da 4 componenti) il
15,4% fatica a giungere a fine mese; l'area del disagio è ancora più ampia se il 32% non
sarebbe oggi in grado di sostenere una spesa imprevista di 700 euro (46% nel mezzogiorno).
Se il costo stimato di mantenimento di un figlio (si intendono le spese essenziali per il cibo, il
vestiario, la salute, l’istruzione) è di circa euro 4.000 l’anno, il sistema italiano di assegni
familiari e detrazioni giunge a coprirne forse meno della metà.
Sorgono alcune domande, di fronte al quadro accennato, nel confronto con lo scenario
europeo (pensiamo alle politiche familiari di Francia e Germania), prendendo atto di
ammonimenti avanzati da tempo da economisti quali il premio Nobel Becker relativi ai
pericoli che corre l’umanità sempre meno attenta al problema del calo delle nascite 2 (la
prosperità economica – era una delle tesi di A. Smith – è associata all’aumento della
popolazione e la depressione è collegata alla diminuzione), ed alla luce delle esortazioni di
Benedetto XVI nella Caritas in veritate3:
-
in Italia non si fanno politiche familiari perché non c’è disponibilità di risorse
economiche nei bilanci o non ci sono risorse economiche perché non si fanno
politiche familiari?
Cfr. il documentario “The decline of the human family” dell’americano R. Stout, commentato da G. Vallini
nell’Osservatore Romano del 28 luglio 2009
3 Cfr. Caritas in veritate, 44: “…Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di
declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione
delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto « indice di sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di assistenza
sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie
agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei « cervelli » a cui attingere per le
necessità della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di
impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi
di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino
economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di
tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono
chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un
uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e
fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale”
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4
-
perché in Italia le politiche familiari stentano a partire nonostante una sostanziale
“cultura e tenuta della famiglia” e il fatto che il potere politico sia stato nelle mani
della DC prima e che, poi, ogni coalizione dichiari di contenere in sé anche
l’ispirazione cristiana? Forse perché, anche noi cristiani, non abbiamo ben chiaro
che il tema della famiglia non è un tema “cattolico”, ma un tema di tutti, poiché la
famiglia fa bene al Paese, all’impresa, all’economia?
-
Perché è così difficile, nel nostro Paese, “fare famiglia”? Il costo di una casa,
l’ingresso tardivo nel mondo del lavoro, un certo clima di ostilità per la famiglia,
una visione della vita e della famiglia indotta dai media, la proposta di uno stile di
vita evidentemente “sopra le righe” (che genera maggiore povertà relativa),
possono essere tutte concause di questa difficoltà?
Una seconda evidenza mi pare sorga dai lavori di queste giornate: prima ancora che
materiale, la crisi economica che attraversiamo è una crisi del senso di appartenenza alla
comunità ed etica. Ha molte cause, e fra le tante una specie di affidamento alla sorte, ad un
profitto immediato senza alcun fondamento concreto, ad una finanza virtuale che alimentava
il sogno di un progresso senza limiti e di un arricchimento grazie a quelli che poi si
rivelarono titoli “tossici”. L’illusione di arricchirsi senza sudare è alimentata da quell’avidità
che attraversa gli strati sociali, ci ha ricordato mons. Brambilla nella relazione di apertura del
nostro convegno. In questa crisi etica che caratterizza la fine della società della produzione
per l’affermarsi della società del consumo (Z. Baumann), si spezzano legami, si rafforzano
individualismi, si frantuma il tempo nella dittatura dell’istante, senza un progetto, senza
visione di futuro. Già il convegno interassociativo dello scorso anno (“La parte e il tutto”)
poneva l’accento sulla “notte del noi”, sulla necessaria ripresa di legami comunitari.
Anche l’evidenza dei fatti ci dice che l’economia è fatta di scambi fra persone, è un fidarsi di
altri. Si alimenta nell’investimento per un futuro.
Fra gli stimoli offerti dalla riflessione teologica di mons. Brambilla e la concretezza del
banchiere Alessandro Azzi abbiamo colto una certa continuità: servono alleanze, serve il
recupero di fraternità, serve la ripresa di “liberi legami”, ha detto Brambilla. La fiducia è un
bene necessario per l’economia, è necessario riavvicinare la finanza all’economia e al
territorio, è necessaria un’impresa sociale (non asociale né antisociale), ci ha detto
chiaramente Azzi.
La recente enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, da più interventi citata, diviene,
infine, per tutti una riflessione alta, con risvolti di concretezza estremamente attuali, che, nel
contempo, ampliano a livello globale l’orizzonte, poiché i fenomeni locali non possono né
devono mai essere disgiunti da quelli mondiali, poiché il mondo è già “in casa nostra”.
Le nostre giornate hanno provato ad elaborare percorsi operativi, scelte concrete, che
consegnamo ai nostri interlocutori per averne anche una immediata reazione. Sullo sfondo la
convinzione che la politica, la cultura, i media devono cooperare per la ricostruzione della
socialità, della comunità, dei legami di fiducia e collaborazione. Non pare così, se il
dibattito alimentato pubblicamente è caratterizzato dal sospetto, dalle lettere anonime,
dall’insistenza sulla percezione di sicurezza/insicurezza, dalla conflittualità.
1
5
La ricostruzione della socialità e della comunità si traduce anche in una politica trasparente,
concreta, vicina ai cittadini, ma anche nell’elaborazione di progetti e politiche non settoriali.
Non si tratta di discutere qui di politiche familiari, altrove di urbanistica, oppure di sport,
altrove di sociale o di ambiente. Si tratta di comporre parti, di pensare che proprio la famiglia
può essere una chiave di lettura trasversale, un’occasione per riflettere a partire da un punto
di vista unitario. Considerando, finalmente, la famiglia non solo come utente finale (in altre
parole consumatrice, elettrice), ma come interlocutore, risorsa, capitale sociale. Mi riferisco
ad un coinvolgimento attivo della famiglia, in modo specifico attraverso l’associazionismo,
non per una generica consultazione, ma come partecipazione ad un processo decisionale
inclusivo.
“Al di là dei risultati di merito, i processi inclusivi possono generare un effetto di grandissima
importanza, ossia stimolare la nascita di nuove relazioni fra i partecipanti o rafforzare quelle esistenti.
Questo aspetto può essere definito come aumento del capitale sociale. Il capitale sociale è costituito dai
legami di cooperazione e fiducia che sussistono in un certo ambiente sociale. Questi legami
costituiscono un patrimonio che è in grado di produrre frutti nel futuro. Ci sono poi interessi che non
sono in alcun modo organizzabili e che non hanno alcuna possibilità di far sentire la loro voce. È
soprattutto il caso degli interessi delle generazioni future, che andrebbero considerate in qualunque
progetto”4.
Qualcuno pensa, in politica come in economia, alle generazioni future? Oggi, chi le
rappresenta? Possono essere rappresentate dai loro genitori? Quali pensiamo possano
essere le sfide in campo fra venti-trent’anni?
Torna alla mente la frase di Alcide De Gasperi, rilanciata da mons. Brambilla a conclusione
della sua replica: “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione”.
Il proliferare, qua e là per il nostro territorio, di grigliate, gite in piscina per anziani, corsi di
ballo liscio, il tutto con denaro pubblico, apre qualche domanda.
Queste riflessioni si traducono poi in alcune proposte operative, suddivise per brevità in uno
schema riassunto per titoli.
Abitare: perché la casa non deve essere solo un deposito di persone, ma anche un luogo di relazioni
Perseguire alcune modalità specifiche di locazione (canone moderato nella disciplina
pubblica e canone concordato sul libero mercato) che permettono di attribuire all’affitto un
significato sociale.
Progettazione partecipata degli spazi pubblici. Si possono coinvolgere famiglie e
bambini nella progettazione di un parco, scoprendo, magari, che il risultato è un risparmio di
spesa, poiché si mira all’essenziale.
4
A più voci, a cura di L. Bobbio, ESI, 2004
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Consumare e risparmiare: perché una necessità può diventare virtù
Partecipare a “gruppi d’acquisto solidale” (gas) che potrebbero essere costituiti tra
condomini o vicini di casa con lo scopo di stipulare convenzioni di acquisto con gli esercenti
della zona.
Educare al risparmio al fine di una prudente e concreta gestione delle risorse familiari
Informarsi sempre sull’attività della propria banca, sugli investimenti, sull’utilizzo etico
dei propri risparmi
Nel “consumo” del tempo valorizzare il tempo “risparmiato” che può essere investito
nelle relazioni buone, nel servizio agli altri, nella “banca del tempo”
Pagare tasse e tributi è un dovere, ma è pure un dovere dello Stato rivedere il sistema
fiscale, finalmente affrontando le proposte relative alla tassazione che parta dal quoziente
familiare o individuando un’area no tax per le spese di mantenimento dei figli.
Aiutare, perché la vulnerabilità non è per sempre
l’atto caritativo, è sempre necessario e immediatamente doveroso. Diviene
virtuoso quando contribuisce alla realizzazione di contesti di giustizia, quando promuove
relazioni libere e liberanti, quando libera dal bisogno. Le “guarigioni” di Gesù, come ci ha
ricordato il nostro Vescovo Luciano, pongono le persone nella possibilità di parlare ed
ascoltare, liberano, propongono una comunicazione corretta, vera, comprensibile.
Identificare alcune competenze sul territorio per farsi guidare nelle scelte da compiere in
riferimento a mutui, contratti d’affitti, crediti, atti di compravendita e rapporti con le banche.
Considerare i giovani come una categoria particolarmente svantaggiata nell’inserimento
sociale: pensiamo all’acquisto di una casa, all’ingresso nel mondo del lavoro, alla
partecipazione al processo decisionale in politica. Si parla molto dei giovani, raramente con
loro, e le politiche giovanili prevalentemente di tipo aggregativo e ricreativo.
Educare, perché stare in relazione è anche un condurre per mano
Educare alla sobrietà, all’impegno e alla legalità, sia nelle scelte familiari, che nei progetti
pubblici o degli Oratori stessi.
Patto di corresponsabilità educativa tra famiglie, tra famiglia e scuola, da estendere a
patti territoriali
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Accreditare anche oratori e associazioni con asili nido e attività di servizio alle famiglie.
Gli asili nido non devono essere business, ma servizi di qualità e di accoglienza per le
famiglie.
Educare al riuso, a partire dai giochi. Si propone la realizzazione di “Giocoteche”, con il
prestito di giochi, come in una biblioteca. L’esperienza è già stata realizzata in un caso e il
riscontro di cambiamento di mentalità (nei bambini e nei genitori) è buono: potrebbe essere
un’esperienza incentivata dagli enti locali?
Insegnare a con-vivere (cooperazione, associazione, percorsi di creatività...)
Orientamento scolastico, universitario e lavorativo
Lavorare, perché se il lavoro nobilita l’uomo, anche l’uomo deve nobilitare il lavoro
Promuovere il microcredito, istituto che permette a persone economicamente fragili di
accedere a strumenti finanziari. Luogo in cui economia e sociale si alleano, luogo in cui si
combina lavoro e capitale per creare ricchezza, luogo della fiducia nella capacità delle
persone di restituire quanto hanno ricevuto in prestito.
Sostenere (integrando quanto previsto dalle norme generali) la maternità, assicurando
un assegno che consenta alle madri di restare più a lungo a casa dopo la maternità.
Promuovere una vera flessibilità di orari lavorativi (part time, etc.) affinché sia davvero
possibile scegliere di ampliare la famiglia. Il lavoro domenicale, previsto particolarmente
nella grande distribuzione, è da un lato occasione per incentivi e per sostenere l’economia,
ma deve continuare ad essere considerato “domenicale”, festivo, da inserire in un quadro
più ampio di tempi di lavoro a misura d’uomo per tutti
Imparare, perché imparare è una forma di rispetto, anche di sé
Incrementare l’utilizzo di internet: la tecnologia al servizio dell’uomo può migliorare la
vita.
Migliorare la propria formazione culturale e/o professionale è un buon modo per
arricchirsi.
Corsi di economia familiare nei corsi preparazione al matrimonio, avviando alla
conoscenza di strumenti quali i bilanci di giustizia
Vivere verde, perché il pianeta torni a respirare
Politiche ambientali di forte riduzione dell’inquinamento (quanti bambini oggi soffrono
di bronchiti e allergie, e con quali costi?)
Ridurre i consumi energetici, attraverso buone pratiche domestiche, ma anche impianti che
sfruttano le fonti rinnovabili (es. fotovoltaico).
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Riciclare, attraverso la raccolta differenziata e campagne mirate promosse da
associazioni (l’esempio delle “raccolte tappi”).
Usare i mezzi pubblici, la bicicletta, ecc… in alternativa alla propria macchina. Perciò
anche la promozione di “tariffe familiari” nel sistema dei trasporti pubblici (per le Ferrovie
dello Stato famiglia corrisponde a due genitori con un figlio…)
Utilizzare il car-pooling, modalità di trasporto diffusa tra lavoratori che percorrono la
medesima tratta nella stessa fascia oraria per ridurre i costi del trasporto.
prevedere l’utilizzo di giochi ecologici
e giochi “semplici”, con materiali poveri.
1
9
Relazione conclusiva
Lidia Borzì (responsabile progetto Punti Famiglia)
Un vivo apprezzamento per questo significativo esempio di lavoro in rete, che attraverso la
sua pluralità di soggetti e quindi di saperi, esperienze e valori, si è posto due obiettivi: 1)
analizzare l’attuale situazione economica da più angolature e con una chiave nuova che
collega economia e solidarietà 2) delineare proposte condivise, capaci di contribuire a fare
fronte alla crisi, valorizzando la risorsa famiglia.
Considero dunque quest’esperienza davvero una buona pratica da esportare anche in altri
territori.
Il tema di questo convegno ci riguarda da molto vicino, infatti in tempi così difficili spetta
proprio ai corpi intermedi della società a fungere da pungolo e stimolo nei confronti della
politica, che deve infatti riappropriarsi del ruolo che le spetta, rappresentando, in questo
particolare momento, un importante regolatore dell’economia e dei rapporti economici in
generale.
Nel fare ciò, la politica deve quindi tornare a dire la sua in campo finanziario ed economico,
senza essere ancella dell’economia e del mercato, ma inquadrando l’economia in un disegno
orientato all’interesse generale, anche nell’agire economico la gratuità e la reciprocità.
Infatti, come afferma Benedetto XVI nella recente Enciclica Caritas in Veritate “l’attività
economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica
mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e
soprattutto la comunità politica”.
E’ quindi responsabilità della politica non fermarsi a provvedimenti spot o alla iniezione di
una quantità più o meno sufficiente di risorse economiche, ma di elaborare e condividere
una strategia di uscita dalla crisi, capace non solo di fronteggiare i problemi, ma di indicare
una via di cambiamento, andando oltre i sintomi.
Dalla crisi , infatti, non si esce riportando le cose allo stato precedente, bensì individuando
nuove strategie ed alleanze che siano capaci di andare oltre appartenenze ed ideologie.
La crisi economica coinvolge, o meglio, ancora travolge direttamente le nostre famiglie e
quindi deve essere posta soprattutto da un punto di vista morale.
Si tratta, in effetti, di temi particolarmente “caldi”, considerando che al termine “crisi” sono
inevitabilmente associati termini come “disoccupazione”, “disuguaglianza”, “solitudine”,
ecc. che, solo a sentirli, destano ansia e preoccupazione, se non altro per le ripercussioni
materiali e relazionali che possono avere sulle famiglie, minandone la loro salute e tenuta.
Come è stato più volte sottolineato – e non solo in questa sede - l’economia o ancora più la
finanza è andata sempre più ingigantendosi, a causa di un’avidità esasperata che negli ultimi
anni, ha perso il contatto con la realtà e con la sua originaria dimensione etica, provocando
una crisi senza precedenti.
Questa crisi appare nel contempo globale e locale, una crisi di carta che si è trasformata in
una crisi di carne, investendo le nostre famiglie e infondendo un senso di paura e di
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0
incertezza che ha prodotto da subito i suoi deleteri risultati a livello economico, sociale e
psicologico.
Allo stato dei fatti, considerando quanto riportato dai mass media, pare che tutto sia partito
dal tracollo della banca americana Lehman Brothers, di un anno fa. Ma ad un’analisi più
attenta e meno superficiale appare chiaro come alcuni sintomi che oggi pervadono il nostro
quotidiano – mi riferisco ad esempio al progressivo impoverimento delle famiglie e della
società o alla precarizzazione del lavoro – siano in atto da diversi lustri. Questa crisi che
possiamo definire globale e che coinvolge sempre più settori, sempre più persone, non è
affatto arrivata come un fulmine a ciel sereno. Negli scorsi anni erano infatti ben evidenti
tutti quei segnali che la stavano provocando e che sono stati a più riprese denunciati dalla
società civile organizzata.
Nel momento però in cui, a partire dagli Stati Uniti, la crisi ha toccato il prospero Occidente,
parole come “povertà”, “precarietà”, “esclusione” hanno invaso le pagine dei nostri
quotidiani, senza considerare il fatto che viviamo in una società in cui da tempo immemore
circa tre miliardi di persone sopravvivono con meno di due dollari al giorno, due miliardi
non hanno accesso all’elettricità e quasi un miliardo non sa né leggere né scrivere il proprio
nome.
Fatta questa debita riflessione, non è certo da sottovalutare che anche in Italia il divario fra
ricchi e poveri aumenta di anno in anno (la media OCSE del coefficiente 'Gini', un parametro di
misurazione per la disuguaglianza è pari a 0.30, in Italia è pari a 0,35, in Danimarca a 0,23) e 2
milioni 623 mila famiglie, ovvero l’11,1% delle famiglie residenti nel nostro Paese è
considerato povero.
Infatti, da un’indagine realizzata da ACLI in collaborazione con la CARITAS e curata
dall’IREF relativa ai fabbisogni di cura delle famiglie italiane (2009) affiora un drastico taglio
dei consumi e un ritorno obbligato a stili di vita più sobri: il dato più allarmante è che il
52,5% delle famiglie è costretta a risparmiare sulla spesa alimentare (il 46,2% ha perfino
dichiarato di fare economia sull’acquisto di pane, pasta e carne) e nel 40% dei casi hanno rinunciato
ad un bene di consumo necessario e/o acquistato prodotti low cost.
La questione del lavoro assume toni sempre più preoccupanti per diverse categorie di
persone: per i giovani in primis, ma anche per le donne e per gli over 40 espulsi dal mercato
del lavoro. Infatti, aumenta in modo impressionante l’esercito dei precari, che coinvolge
ormai quasi 4.000.000 di persone (3.757.000 per l’esattezza).
E la precarietà, si sa che non consente progetti di vita autonomi, soprattutto per le giovani
generazioni; l'aspirazione a formarsi una famiglia è sempre più frenata dalla paura di un
futuro troppo incerto, a tal punto che in Italia esiste un notevole divario fra il numero di figli
desiderati e quello dei figli effettivamente nati (2,1 contro 1,5).
Tutte queste difficoltà, affrontate da un numero sempre maggiore di famiglie, comprese
quelle che vivono una normalità problematica (nuclei del ceto medio che oggi, rispetto al passato si
trovano a fare i conti con il carovita e la difficile conciliazione fra i tempi della cura e i tempi del
lavoro) sono amplificate per le famiglie straniere che rappresentano oggi il 5,8% della nostra
popolazione.
Peraltro, la povertà non va considerata soltanto dal punto di vista materiale. Siamo anche
sempre più poveri dal punto di vista relazionale, quindi, sempre meno felici ( ieri al convegno
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1
di Perugia il prof Becchetti affermava, e questo ci deve fare riflettere, che l’aumento della ricchezza di
una persona e la felicità della stessa sono sovente inversamente proporzionali, all’aumentare della
ricchezza diminuisce la felicità della stessa persona). Si consideri il dilagare della solitudine. Si
sentono soli i bambini che spesso sono privi della compagnia di fratelli e/o amici; si sentono
soli i genitori che, oberati da un eccessivo carico di lavoro, non riescono a godere di momenti
di convivialità e di aggregazione fuori e dentro casa; si sentono soli gli anziani che, per un
verso avvertono sempre più il mancato riconoscimento della loro funzione sociale, per l’altro
non vedono soddisfatto il loro bisogno di comunicazione. Si sentono sole le famiglie, che
faticano ad esercitare quella responsabilità sociale per la quale sono naturalmente vocate.
Tale solitudine emerge anche dall’indagine testé citata ( ancora tra l’altro non presentata
ufficialmente): soprattutto nelle famiglie con figli entro i 12 anni, è stato espresso un forte
bisogno di accompagnamento alla genitorialità; infatti, per quasi un quinto delle coppie un
elemento particolare di criticità è rappresentato proprio dall’educazione dei figli; detto in
altri termini, “fra moglie e marito si litiga soprattutto per i figli”.
E’ dunque fuori di dubbio quanto la crescita economica non possa essere disgiunta da un
forte sistema di valori morali, capace di dare stabilità alle decisioni economiche, ma
soprattutto alle relazioni sociali. Come afferma Benedetto XVI nella Lettera Enciclica
Caritas in Veritate “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona nella sua
integrità: l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale”. E questa è
l’interessante cornice entro cui si e mosso questo convegno, che ha messo al centro la
famiglia, scrigno delle relazioni umane.
Molto interessante e lungimirante è il taglio dato a questo incontro che congiunge la sfera
etico-politica della crisi a quella familiare.
Attraverso un approccio globale e in un’ottica di “centralità trasversale” della famiglia, si è
infatti tentato di valutare a tutto tondo l’impatto che la crisi ha avuto sulle famiglie,
proponendo una ricognizione attenta e puntuale su tutti i temi strettamente correlati alla
famiglia come il lavoro, il consumo, i giovani, l’educazione e le politiche per la natalità.
Tuttavia, l’elemento ancor più innovativo, emerso da questi lavori, è che per superare la
frattura fra la sfera economica ed etico-sociale, che ha inciso in maniera significativa su
questa crisi, si deve investire sulla famiglia che, da soggetto “passivo” che rappresenta la
principale vittima di tale crisi può, se opportunamente sostenuta e valorizzata, al tempo
stesso rappresentare uno dei volani per la ripresa.
Il legame tra economia e famiglia è infatti inevitabile e il tentativo riuscito da parte degli
ideatori di questo convegno di aver messo in relazione questi due ambiti mi sembra una
felice intuizione.
Parlare di famiglia, infatti, non è anacronistico, come vogliono far credere alcuni, proprio
perché la famiglia non ha solo una valenza privata, ma una vera e propria valenza pubblica.
Anzi, è proprio necessario ripartire da questa fondamentale cellula della società per
rifondare la società e con essa un’economia davvero a misura d’uomo.
Nonostante la famiglia sia – a parole - sulla bocca di tutti (in particolare su quella dei
giornalisti e dei politici), nel nostro Paese ci si spende davvero poco su questo soggetto,
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investendovi poco e/o male, molto meno che nella maggior parte dei Paesi europei: solo per
fare un esempio, in Francia è destinato alle famiglie il 2,5% del PIL, in Italia solo l’1%.
In occasione dell’evento di presentazione dei Punto Famiglia ACLI nello scorso mese di
giugno, nel suo prezioso intervento Monsignor Crociata ha fatto in effetti notare come si
assista ad una crescente neutralizzazione della famiglia, negando e rimuovendo il suo
valore e la sua specificità, mediante un’assimilazione indifferenziata di tutte le relazioni fra
individui. Ha fatto inoltre notare una sorta di generale cecità verso la famiglia che risulta
essere – nei fatti - sempre più invisibile agli occhi dei media, delle istituzioni politiche ed
economiche.
Tale atteggiamento dipende dal fatto che nel nostro Paese la famiglia viene percepita più
come un bene individuale che come un bene della società; più come un peso, un soggetto
da assistere, quindi, un costo, anziché un soggetto da promuovere.
Se si invertisse invece la rotta, contrastando, come ha più volte richiamato Mons. Crociata
quest’invisibilità della famiglia, valorizzando e facendo emergere la bellezza della
famiglia (sulla necessità di valorizzare la bellezza della famiglia ha insistito anche Benedetto XVI
nella recente Lettera Enciclica Caritas in veritate “Diventa una necessità sociale, e perfino economica,
proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di
tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona) e considerandola
un bene e una risorsa sociale, un investimento ad alto rendimento economico e sociale,
allora si potrebbe anche più facilmente uscire dalla crisi.
La crisi, come ricordava J.F. Kennedy, non è solo un problema, ma può essere una risorsa,
un’occasione di verifica e di riflessione. In tal senso questa crisi può essere una opportunità
per diffondere una cultura diversa, consapevole del valore della solidarietà, della cultura del
dono, della gratuità e della relazione incentrata sul perseguimento del Bene comune. Come
ci viene indicato dalla Dottrina Sociale della Chiesa (vera e propria bussola per noi cristiani
impegnati nel sociale e in politica) si tratta di perseguire il bene comune che, essendo di tutti e
di ciascuno, è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile
raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro.
Questo cambiamento va innanzitutto auspicato in ciascuno di noi, passando dalla cultura del
consumo alla cultura della relazione. Ne parlano da tempo economisti appassionati di etica
quali Zamagni, Bruni e Becchetti.
In questa direzione, uno dei punti fermi da cui partire è il riconoscere le potenzialità della
famiglia quale “cellula vitale della società”, come definita dal Cardinale Tettamanzi, che se
adeguatamente sostenuta e promossa può, appunto, contribuire a invertire l’attuale trend
negativo.
Mettere al centro il soggetto famiglia e considerare la sua valenza sociale ed economica
diventa dunque straordinariamente importante, tanto più in questo momento di crisi, in cui
si tende ad avvalorare e sostanziare l’immagine di una famiglia fragile e in affanno, che pur
nella sua veridicità, rischia di diventare un deleterio cliché.
Infatti, come ha avuto modo di affermare Stefano Zamagni in occasione di un convegno
organizzato dal Forum delle Associazioni Familiari (2001), la famiglia è il primo produttore
di “esternalità positive”, ovvero produce diversi effetti positivi che non essendo internalizzati dal
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meccanismo dei prezzi, sfuggono alle usuali rilevazioni statistiche (infatti esiste solo ciò che è
quantificabile e misurabile) e non vengono neanche notati. Le esternalità positive cui si riferisce
Zamagni sono, per esempio, la riproduzione della società; l’integrazione e la redistribuzione
dei redditi da lavoro; la flessibilizzazione della partecipazione lavorativa dei soggetti
femminili e dei giovani. Ma per esternalità positive s’intende anche la famiglia quale luogo
in cui, più che altrove, si sostengono i soggetti deboli, in cui si crea il capitale umano degli
individui e in cui vengono elaborati stili di vita e modelli educativi.
E’ proprio per questo che le Acli, che da sempre hanno avuto a cuore la famiglia, a partire
dai lavoratori e dalle lavoratrici, la cui tutela e promozione rappresenta il cuore della propria
mission, in stretta sintonia con la propria vocazione di associazione di promozione sociale, a
partire dal XXIII° Congresso nazionale hanno rinnovato il loro impegno a favore del soggetto
famiglia. Questa rappresenta uno dei punti di forza di una strategia complessiva delle ACLI,
una strategia a tutto tondo che connette, secondo un circolo virtuoso, il fare con il pensare e
viceversa per mettere in campo interventi di ampio respiro, frutto di un pensiero e di una
strategia politica sistemica:
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sul piano politico e culturale attraverso la promozione del protagonismo e della
cittadinanza familiare;
-
sul piano dell’analisi, attraverso una ricerca a più tappe sui bisogni attuali delle
famiglie italiane al fine di realizzare una Agenda per la famiglia;
-
sul piano delle opere concrete attraverso i Punto Famiglia, non meri centri di
assistenza familiare, ma luoghi di aggregazione e servizi ove sperimentare il
protagonismo e la cittadinanza familiare in una logica di rete;
Il carattere innovativo e, allo stesso tempo, tratto peculiare della strategia complessiva che
abbiamo messo in campo per e con la famiglia è, infatti, quello di promuovere il
protagonismo familiare quale valore aggiunto per le famiglie stesse e per l’intera comunità,
nel tentativo di dare vita a forme di aggregazione e di servizio non solo per la famiglia, ma
con la famiglia, Si tratta di contribuire alla costruzione di una nuova cittadinanza sociale e
politica della famiglia, consapevoli che per affermare nel concreto il protagonismo familiare
abbiamo bisogno di una svolta culturale e legislativa, concreta e simbolica.
Sul piano politico e culturale, è dunque necessario incentivare politiche integrate in un’ottica
di family mainstreaming ( valutare l’impatto di tutte le politiche sul soggetto famiglia) ovvero
una politica per la famiglia lungimirante, capace di superare l’equazione politiche per la
famiglia uguale a politiche sociali, fortemente convinti che “il bene della persona e della
comunità è strettamente connesso alla buona salute della famiglia” come sosteneva Giovanni Paolo II.
Ma per fare ciò è necessario un salto di qualità politico e culturale capace di andare oltre
l’attuale logica emergenziale e assistenziale e in grado quindi di considerare la famiglia come
un soggetto da valorizzare per le sue capacità di auto-tutela e di mutuo-aiuto.
Come? Promovendo un “welfare promotore di sviluppo” o “abilitante” come lo definisce
Zamagni, capace di porre la famiglia nelle condizioni di sviluppare il proprio potenziale di
crescita, rendendola protagonista del proprio benessere. Ciò significa favorirne
l’empowerment, “un criterio e un metodo di intervento che attiva le potenzialità delle relazioni
familiari facendo leva sulle capacità possedute da persone e relazioni […], cercando di attivare i loro
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potenziali latenti e di metterli in relazione ad altre persone e relazioni, in modo da produrre sinergie
salutari per tutti i soggetti coinvolti nella situazione” (Pier Paolo Donati). Tale metodo si basa sul
principio che le capacità - soprattutto socializzative - delle famiglie più deboli possono essere
rafforzate mettendole in rete con altre famiglie interessate ad attivare circuiti di scambio.
In tale cornice politico-culturale, le ACLI, sul piano delle opere concrete, hanno assunto
come una delle priorità programmatiche lo sviluppo dei Punto Famiglia, luoghi di
aggregazione e servizi non solo per la famiglia, ma anche con la famiglia, ove valorizzare le
sue capacità di auto-tutela e mutuo-aiuto e sperimentare il protagonismo familiare.
Il tratto distintivo, allora, che caratterizza i Punto Famiglia risiede nella capacità di creare
legami e di connettere protagonismo familiare, servizi e aggregazione, mettendo a
disposizione dei nuclei familiari spazi, risorse, competenze umane e professionali. Inoltre, in
questo particolare momento, i Punto Famiglia hanno anche la capacità di far fronte in
maniera promozionale – quindi non assistenziale – alla crisi che le famiglie stanno subendo,
mettendo in rete iniziative come quelle dei GAS familiari, dei mercatini solidali di scambio
fra famiglie, nonché dell’accompagnamento delle famiglie nel loro ruolo di genitori, ecc.
valorizzando la rete interna delle ACLI e quella esterna (istituzioni ecclesiali, governo e
associazioni della società civile organizzata).
Ma ciò è solo il minimo comune denominatore che accomuna i circa 60 Punto Famiglia già
attivati in tutt’Italia. Ogni territorio realizza poi, nel rispetto dei propri tratti caratterizzanti e
secondo i bisogni emersi nei vari contesti, attività diverse, al fine di tenere in massima
considerazione le competenze e i bisogni specifici delle singole realtà. Ciò significa che il
Punto Famiglia, non nasce come un luogo slegato dal territorio; anzi, viene costruito dal
basso, proponendosi quindi come uno strumento davvero utile per la comunità.
Oltre alla particolare attenzione al territorio, i Punto Famiglia si pongono altresì l’obiettivo di
valorizzare la rete dell’articolato Sistema delle ACLI e di investire in maniera significativa su
alleanze esterne.
Lo sviluppo della rete, infatti, rappresenta uno degli elementi qualificanti dei Punto
Famiglia, affinché non siano esperienze isolate, ma, in una logica di sussidiarietà agita e
coerente, possano contribuire ad offrire una risposta integrata, in stretta sinergia con la
comunità ecclesiale, con le istituzioni e con la società civile organizzata, in particolare con
tutti gli enti e le associazioni impegnati direttamente o indirettamente sulla famiglia.
Infatti, attraverso i Punto Famiglia, le ACLI non intendono sostituirsi alle specifiche
competenze che le varie e diverse associazioni hanno nel tempo sviluppato; piuttosto,
fungendo da “porte sociali”, intendono favorire la messa in rete di servizi e competenze,
sviluppando accordi e sinergie con tutti i soggetti esterni interessati a partecipare a questa
esperienza, in modo da garantire alle famiglie un’offerta di servizi ampia e differenziata,
superando la logica dell’autoreferenzialità ed evitando inutili sovrapposizioni e sterili
concorrenze.
L’importanza strategica del fare rete è quindi il filo rosso che deve accompagnare il nostro
difficile e faticoso lavoro.
Questo appuntamento che ci vede qui riuniti per esaminare i risvolti della crisi sulla
famiglia e per elaborare proposte concrete evidenzia con forza l’insostituibile valore della
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sinergia e la necessità di non frammentare e disgregare forze che unite assumono una
valenza moltiplicatrice.
A partire da quest’esperienza vorrei quindi ancora una volta ribadire quanto sia importante
uscire dalla logica dell’isolamento, per sviluppare un circolo virtuoso fra i diversi soggetti
della società civile organizzata capace di sviluppare energie, condividere riflessioni,
scambiare know how ed elaborare comuni percorsi di lavoro.
I Punto Famiglia non devono rappresentare quindi solo una scommessa delle ACLI, ma una
sfida di tutti, affinchè “l’economia torni davvero a casa”, cioè in famiglia.
Infatti, come ha detto il Cardinale Tarcisio Bertone, in occasione del VI Incontro mondiale
delle Famiglie di Città del Messico (2009), “la famiglia porta alla società molto di più di quanto
possano fare i suoi membri, perché l’amore amplia le energie e moltiplica gli effetti del bene. Insomma,
in quella comunione di amore e vita c’è una risorsa unica e irripetibile che troppo a lungo non è stata
considerata”.
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