Quale prospettiva etica per una economia in sanità?

BIOETICA ED ECONOMIA SANITARIA
Introduzione
È indiscutibile che il nostro vivere quotidiano è costantemente permeato dalla
penetrante presenza della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche. Anche l’economia, scienza
positiva che si muove nel mondo dei fatti servendosi di modelli matematici, è divenuta compagna
indispensabile del nostro quotidiano, soprattutto lì dove si costruisce l’organizzazione, si
pianificano le attività e si mettono in gioco le risorse. Seppur in modo approssimativo potremmo
definire l’attività economica come l’insieme dei processi di produzione, scambio e consumo di beni
assieme a quei servizi (trasporti, assicurazioni…) per mezzo dei quali si correlano i diversi poli
della vita economica.
La società è costituta da persone che hanno fini comuni e le cui attività sono
organizzate in un sistema di istituzioni orientate al raggiungimento di tali fini. La definizione dei
fini comuni è un processo complesso, ma irrinunciabile che si colloca dentro la stessa identità delle
persone e della società; pensiamo al fine comune di costituire, nutrire e proteggere la famiglia,
quello di produrre e distribuire i beni materiali da cui dipende la vita umana, quello di contenere la
violenza, quello di organizzare le modalità per assumere decisioni collettive, quello di tutelare la
salute, quello di preservare i beni della natura o di conservare i beni della cultura come l’arte, la
conoscenza, la tecnologia. Il raggiungimento di questi fini comuni viene perseguito attraverso la
creazione di modelli relativamente fissi di attività che definiamo “istituzioni”: politiche, familiari,
sanitarie, economiche, giuridiche, scolastiche etc. Dentro questo contesto le istituzione economiche
perseguono sostanzialmente due fini:
-
la produzione di beni e servizi di cui le persone hanno necessità
-
la distribuzione di tali beni e servizi all’interno della società
Il termine economia deriva dal greco oikonomía composto da oíkos (casa,
abitazione ed estensivamente azienda domestica, patrimonio, sostanza, da cui il verbo oíkeo: abito,
amministro) e nómos (regola, legge). Si può quindi interpretare come l’arte di reggere e bene
amministrare le cose della famiglia e dello Stato.
Secondo la definizione di Stiglitz1, l’economia è la scienza che studia il modo
in cui all’interno della nostra società gli individui, le imprese, le autorità pubbliche e le altre
organizzazioni compiono le proprie scelte; studia inoltre come queste scelte determinano il modo in
1
J.E. Stiglitz: Principles of microeconomics, Norton, NewYork, 1993.
cui le risorse disponibili vengono utilizzate, intendendo per risorsa ciò di cui l’uomo dispone per
soddisfare i propri bisogni.
L’economia, in pratica, si può definire come l’insieme dei processi attraverso
i quali le persone, sia individualmente o in associazione, costruiscono risposte ai propri bisogni,
mediante l’utilizzo dei beni della natura o dei beni prodotti tramite la conoscenza (razionalità) o con
l’attività (manualità) delle persone stesse.
Oggi la parola beni si riferisce sia ai beni materiali di prima necessità che
rispondono ai bisogni primari che a quei prodotti del mercato il cui valore non consiste più solo per
ciò che rappresentano in sé, quanto piuttosto per le dimensioni culturali e le proiezioni sociali che
generano. Ciò rafforza l’idea che la mediazione dei rapporti economici, essendo parte delle
relazioni umane, non sono mai di ordine puramente economico, ma contengono sempre un
elemento di valutazione che si correla al concetto di valore. Il valore è sempre quindi al centro
dell’attività economica che è in parte determinato da elementi oggettivi (pensiamo alla materia
prima), ma in parte anche da elementi soggettivi legati alla cultura, alla storia, alla dimensione
emozionale o quant’altro.
Il lavoro di produzione, la sua organizzazione, la valutazione di assorbimento
delle risorse, la distribuzione dei prodotti e dei benefici è compito delle istituzioni economiche.
Nelle società moderne le principali istituzioni economiche attraverso cui gli individui assolvono il
compito di produrre e distribuire beni e servizi sono le imprese. Esse forniscono le strutture
fondamentali perché gli individui possano unire le risorse limitate (terra, capitale, lavoro,
tecnologia) per ottenere beni consumabili e strumenti per distribuire questi beni sottoforma di
prodotti per i consumatori, salari per i lavoratori, utili per gli investitori e tasse. I processi produttivi
e distributivi delle istituzioni economiche si declinano in modo molto diversificato: dalle miniere
alle industrie manifatturiere, dalle banche al commercio al dettaglio, dal marketing alle
assicurazioni, dai trasporti all’edilizia, dalla finanza alla pubblicità.
Risorse e bisogni sono i due termini che ricorrono spesso in economia ed è
innegabile che la loro definizione non è esente da ambiguità. Per esempio le risorse non possono
essere intese solo in meri termini materiali e non sempre è chiaro il rapporto fra bisogno e necessità;
in genere si intende per bisogno l’esigenza indispensabile per soddisfare mediante beni elementari
la sopravvivenza e la riproduzione, tuttavia l’uomo ha bisogni innati che provengono dalla natura e
bisogni acquisiti che nascono dalla dimensione culturale e sono suscettibili di evolversi e
moltiplicarsi; il gioco fra risorse e bisogni è quindi complesso e influenzato dai determinanti della
cultura e della civiltà, tanto che spesso i bisogni raggiungono la persona nei desideri.
L’economia tende anche a declinarsi nel contesto delle ideologie le quali, a
loro volta, contribuiscono alla costruzione dei sistemi economici. Con un’operazione di estrema
sintesi e semplificazione potremmo dire che nel contesto della società attuale si individuano due
grandi sistemi economici: il sistema di mercato e il sistema di autorità. I sistemi di libero mercato si
basano su due componenti essenziali: la proprietà privata e lo scambio volontario2 mentre i sistemi
di autorità prevedono che un’unica entità (sia essa una persona o un comitato) prenda le decisioni su
cosa, chi e come si deve produrre; un esempio noto di sistema economico di autorità è stata
l’Unione Sovietica con il suo sistema di pianificazione centralizzata. In realtà non esistono sistemi
di mercato totalmente puri, né sistemi totalmente autoritari e potremmo dire che fin dal XVIII
secolo si discute in modo acceso su quali spazi e modalità possa o debba avere l’autorità pubblica
nei confronti del mercato.
Le tre domande fondamentali che muovono il pensiero degli economisti sono
sostanzialmente:
-
Che cosa produrre (identificazione del prodotto)
-
Come produrre (modalità del processo produttivo)
-
Per chi produrre (scelta del cliente)
Il processo economico si costruisce quindi attorno ad alcuni momenti costitutivi:
-
l’esistenza di bisogni
-
la disponibilità di beni che sono però limitati rispetto ai bisogni stessi
-
l’adozione di criteri di scelta per definire le priorità nell’allocazione dei beni
-
la possibilità di implementare la quantità dei beni e la loro capacità di soddisfare i bisogni
tramite il lavoro intellettuale e manuale delle persone.
Fra questi quattro criteri l’elemento critico è costituito dalla sproporzione fra i
bisogni della collettività e la disponibilità delle risorse. Tale sproporzione è accentuata innanzitutto
dalla crescita progressiva dei bisogni, correlata all’invecchiamento della popolazione, all’aumento
del tasso di crescita e diffusione delle tecnologie e alla migliore informazione e conoscenza dei
cittadini.
La scarsità delle risorse è sostanzialmente il primo principio che governa il
mondo economico con l’obiettivo di sviluppare modalità di allocazione delle stesse che
massimizzino il prodotto finale. La condizione di scarsità accompagna sempre il tema della
giustizia; se, infatti, un bene è illimitato (pensiamo per esempio oggi all’aria che respiriamo), non è
necessario pensare a criteri di equa distribuzione. In realtà dobbiamo riconoscere che da sempre
l’uomo si trova a dover combattere la battaglia contro la scarsità delle risorse, una battaglia che
2
Friedmann M: Capitalism and Freedom, The University of Chicago Press, Chicago 1962.
mette in gioco la sua sopravvivenza. La scarsità delle risorse non è di per sé responsabilità degli
economisti: essi si limitano in gran parte a registrarne il dato; non raramente le situazioni di crisi
economica hanno una genesi multifattoriale che talora è imprevedibile e fuori dalla possibilità di
controllo. In effetti la grande sfida è la ripartizione delle risorse a fronte dei molti bisogni e
l’economia è proprio la scienza che analizza i comportamenti e le interrelazioni di coloro che sono
deputati a risolvere il problema dell’impiego delle risorse scarse. Questo suo carattere scientifico ha
progressivamente sottratto l’economia alla sfera d’influenza dell’etica e ha fatto sì che gli
economisti della prima metà del Novecento (Lionel Robbins in particolare3) abbiano voluto
dichiarare scienza economica ed etica come due discipline totalmente separate 4. La ragione di ciò
sta nella constatazione che se la scarsità si correla sempre al rapporto fra mezzi e fini, in realtà alla
scienza economica spetta la sola competenza sull’analisi dei mezzi per realizzare i fini e non sulla
discussione attorno ai fini stessi. Si è generato nel tempo un atteggiamento ad impronta positivista
che ha di fatto emarginato l’etica dal settore dell’economia analogamente ad altri campi di attività.
Visione scientifica del mondo e interpretazione scientifica dell’economia hanno avuto sviluppi
simmetrici, dissociando la dimensione economica della condizione umana dalla vita sociale. Fin
dalle sue origini l’approccio liberale ha individuato nei meccanismi automatici del mercato5 e
dell’interesse personale6
l’unica fonte credibile per il governo dell’economia. L’evoluzione
dell’approccio marxista se, sul piano teorico si è collocata in opposizione al liberalismo, sul piano
pratico, appellandosi alla conoscenza scientifica per regolare la prassi, ha finito per allinearsi con
esso nel negare all’etica un qualsiasi ruolo in economia.
Eppure lo stesso Amartya K.Sen7, premio Nobel per l’economia nel 1998, ci
ricorda che la scienza economica nasce in gran parte quale derivato dell’Etica; Infatti, essa ebbe
inizio nel secolo XIII con il patrocinio di Innocenzo III, quando già Tommaso D’Aquino si era
posto sulla via della ricerca del giusto prezzo e della legittimità e misura del tasso di interesse.
Potremmo anche dire che da Aristotele8 fino al 18° secolo, l’economia fu trattata, accanto all’etica e
3
L. Robbins: An Essay on the Nature and Significance of Economic Science; Mac Milan, London 1932.
Smith A: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano ISED, 1973. “Non è dalla generosità
del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno
dei propri interessi. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre
necessità, ma dei loro vantaggi”.
5
Nel suo Discorso sulla concorrenza (1691) Sir Dudley North dichiara: “ Non spetta in alcun caso alla Legge fissare i
prezzi nel commercio, perché i livelli devono stabilirsi, e di fatto si stabiliscono, da soli. Ogni provvedimento in favore
di un commercio o di un interesse, e contro un altro, costituisce un abuso e diminuisce in misura eguale il pubblico
vantaggio”.
6
Friedmann M: Liberi di scegliere, Longanesi, Milano 1981. “…L’ordine economico è qualcosa che emerge da sé; è
la conseguenza non intenzionale, non voluta, delle azioni di un gran numero di persone mosse solo dal proprio
interesse”.
7
Amartya K.Sen: Etica ed Economia; Laterza, Bari 1988.
8
Nella Politica e nell’Etica Nicomachea Aristotele considera l’economia come uno degli strumenti necessari alla
politica per perseguire il benessere dell’uomo.
4
alla politica come una parte della filosofia pratica; proprio nel 18° secolo economisti come Karl
Marx e John Stuart Mill sviluppano le proprie teorie economiche sempre in costante riferimento ad
un impianto etico. È curioso che Adam Smith (1723-1790) il cosiddetto “padre dell’economia
moderna”, fosse professore di Filosofia Morale all’Università di Glasgow o ancora che a Cambridge
l’economia sia insegnata nell’ambito del corso di “Scienza Morale”.
In realtà, così come è avvenuto per la medicina, paghiamo oggi lo scotto
della frattura tra scienza ed etica, tra professione e valori morali, tipica della cultura positivista che
ha nettamente separato il piano dell’essere da quello del dover essere. In realtà è questo un aspetto
particolare di un fenomeno più generale che consiste nella frammentazione della conoscenza e nella
perdita di unità del sapere tipica della cultura post-moderna. Ciò ha reso ancora più difficile il
dialogo e soprattutto ha creato presupposti culturali semplificativi e riduttivi nella lettura dei
significati della persona. Non raramente questo ha contribuito ad aumentare la quota di alienazione
presente nel vivere quotidiano.
Ma oggi assistiamo ad una sorta di “ritorno a casa” della scienza
economica. Sembra che si stia finalmente prendendo coscienza che questo successivo distacco
dell’economia dall’etica sia stato causa di una delle principali carenze della teoria economica
contemporanea, producendo un sostanziale impoverimento della natura dell’economia moderna. Da
più parti si auspica l’inseparabilità dell’economia dall’etica, dell’utile dal giusto. La costruzione
dell’orizzonte dei fini non può essere separata dal governo dei mezzi se non attraverso un
pericoloso processo dissociativo che tende ad escludere la prospettiva antropologica. La dimensione
etica in economia è però ancora una realtà non chiaramente percepita né definita dagli operatori del
settore. In uno studio ormai divenuto un classico dell’etica del management, Raymond Baumhart9
chiese a oltre cento uomini d’affari “Che cosa significa per lei etico?”. Il 50% dei manager
intervistati definì etico come “ciò che a mio modo di sentire è giusto”; il 25% lo ha definito in
termini religiosi come ciò che “concorda con le mie credenze religiose” e il 18% come ciò che “è
conforme alla regola aurea”10. Il premio Nobel per l’economia (1978) Herbert Simon sottolinea che:
“…la separazione fra elementi etici ed operativi nei giudizi può essere effettuata solo a breve
termine”11.
Nello specifico tema della “salute e sanità” la prospettiva economica è
divenuta talmente cogente da ricoprire oggi un indiscutibile ruolo di primo piano nel dibattito
sociale e politico che si sviluppa attorno al tema della cura. Fino agli anni ’80 il medico ha
9
Baumhart R: An Honest Profit: What Businessmen Say about Ethics in Business, Ed. Holt, Rinehart and Wiston, New
York 1968.
10
La regola aurea recita : “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”.
11
Simon H: Administrative Behaviour: a study of decision-making processes in administrative decisions, Simon &
Shuster, 1997
esercitato la propria competenza professionale essenzialmente sul bisogno di salute della persona
malata che a lui si rivolgeva, per la quale era chiamato a proporre strategie d’intervento concentrate
esclusivamente sui criteri di efficacia. Oggi è emersa da più parti l’idea che in realtà il medico
debba essere una sorta di duplice agente12 che deve sempre integrare la sua azione tecnica per le
necessità di salute del paziente con la necessaria gestione dei costi che il sistema sanitario deve
sostenere. Questa posizione ha fatto e fa emergere numerose questioni di carattere etico che nel
corso della riflessione saranno analizzate con maggiore specificità.
L’economia sanitaria è sostanzialmente l’applicazione della scienza
economica al campo della sanità. Essa analizza le modalità in cui si effettuano le scelte sulle risorse
da destinare al settore sanitario, su come vengono ripartite al suo interno e ancora su come vengono
distribuiti i prodotti finali. Numerose sono le aree coinvolte nell’economia sanitaria: dalla politica
economica alla teoria dei mercati assicurativi, dall’economia applicata alla gestione aziendale. In
modo sintetico potremmo dire che le aree tematiche dell’economia sanitaria sono:
1) Bisogno e domanda di salute: partendo dalla nozione di salute si indagano i suoi
determinanti, la domanda di prestazioni sanitarie, i modelli di consumo e i problemi
dell’informazione.
2) Produzione e offerta di prestazioni sanitarie: si procede per analogia rispetto a qualsiasi
altro processo produttivo nel quale l’impresa trasforma i fattori primari quali le risorse di
capitale, mano d’opera e materiali (INPUT) in prodotti (in questo caso servizi) destinati al
mercato (OUTPUT). In realtà nel settore sanitario il processo produttivo non si esaurisce
con la semplice produzione dell’output (rappresentato dalle prestazioni sanitarie) bensì con
il miglioramento o quantomeno il mantenimento dei livelli di salute della popolazione. Il
processo termina così con la produzione di esiti sanitari (miglioramento della mortalità e
morbilità, inabilità evitata, miglioramento degli valori clinici…) che rappresentano
l’OUCOME.
3) Valutazione economica dei servizi sanitari: si tratta nella sostanza della scelta fra allocazioni
alternative delle risorse usando l’approccio costi-benefici per la scelta fra diversi programmi
diagnostico-terapeutici.
4) Valutazioni a livello di sistema: in questo contesto si affrontano tematiche di ampio respiro
(non raramente anche di valenza etica) quali le correlazioni fra efficienza ed equità, le
modalità di finanziamento dei sistemi pubblici e altro ancora. L’analisi dei sistemi sanitari e
la loro evoluzione appartiene a quest’area tematica così come le discussioni sul rapporto
pubblico-privato o i tentativi di introdurre in ambito sanitario logiche di mercato.
12
Angell M: The Doctor as Double Agent, Kennedy Institute of Ethics Journal, 3, 3 (1993), pp.279-286.
Come in ogni altra area produttiva i processi possono differire per la diversa
combinazione fra capitale e lavoro, per i diversi modi di organizzare la produzione e l’erogazione,
per i diversi modi di approvvigionamento degli input. È ovvio che si deve scegliere il processo
produttivo che a parità di risultato, costa di meno o che a parità di costo consente di raggiungere
risultati migliori.
La prospettiva aperta dall’economia sanitaria ci introduce al tema critico: la
salute non ha prezzo, tuttavia la sua tutela ha sempre un costo 13. Ciò soprattutto a causa della
progressiva inespansività delle risorse da destinare alla sanità, nella ripartizione di un bilancio
pubblico in equilibrio sempre più precario, che d’altra parte si deve confrontare con un incremento
vertiginoso dei costi della cosiddetta medicina tecnologica e del costante aumento delle patologie
cronico-degenerative14, anch’esse correlate al sorprendente aumento dell’aspettativa di vita15 che il
terzo millennio ci sta riservando e di fronte alle quali la medicina tecnologica non è in grado di
proporre soluzioni significative16. Si ha la diffusa percezione di una incrementale contraddizione
fra l’illimitatezza delle possibilità diagnostiche e terapeutiche della moderna biomedicina e la
limitatezza delle risorse disponibili, tale da rendere tutti allarmati sulla progressiva insostenibilità
del progresso medico scientifico. Se è vero che nella storia umana non si è mai avuta un’epoca in
cui le risorse siano state sufficienti a soddisfare il desiderio di migliorare la qualità e la durata della
vita, mai come nella seconda metà del Novecento la sproporzione fra obiettivi sanitari e risorse è
sembrata tanto rilevante17. Tutti i paesi ricchi stanno immettendo più risorse in sanità, ma ovunque
l’aumento degli investimenti finanziari risulta del tutto insufficiente a soddisfare l’aumento stabile
dei bisogni e della domanda. La domanda di assistenza sanitaria sta aumentando anche in forza di
un diffuso fenomeno di “consumismo”, probabilmente alimentato anche da internet e da una non
corretta informazione. Da più parti si parla di una diffusa “distorsione ottimistica” generata da una
informazione superficiale che amplifica opinioni frettolose ed imprecise sui progressi della
Agli inizi degli anni ’60 il nostro Paese destinava alla salute (tra spesa pubblica e privata) meno del 4% del prodotto
interno lordo; negli anni ’90 la quota ha superato l’8%. Nel 200 Il rapporto spesa sanitaria/Pil in Italia è passato al 5.9%
per arrivare al 6.6% del 2004. Nel corso degli anni il peso dell’assistenza ospedaliera ha raggiunto valori prossimi al
50% delle risorse destinate al settore sanitario.
14
Il quadro epidemiologico è profondamente cambiato rispetto all’inizio del XIX secolo. Le malattie infettive, un
tempo le principali responsabili della mortalità (sopratutto in ambito infantile), hanno ridotto drasticamente il loro peso.
Attualmente, nei paesi sviluppati, oltre l’80% della mortalità e della morbilità è attribuibile alle malattie cronicodegenerative; ciò anche per effetto dell’aumento della durata di vita che si accompagna ad un deterioramento delle
condizioni di vita di chi vive a lungo. Già oggi il 70% della popolazione ultrasessantacinquenne è affetta da tali
patologie.
15
L’OCSE ha valutato che la popolazione anziana spende per la salute 4 volte di più della non anziana. Ciò che
sopratutto fa lievitare la spesa sanitaria è l’innalzamento della cosiddetta aspettativa di vita in buona salute (health
expectancy) e i fattori socioculturali dei futuri anziani che influenzano la modalità del consumo sanitario.
16
Aaron HJ: Serious and Unstable Condition: Financing American’s Health Care, Washington D.C., Brookings
Institution, 1991.
17
Klarman HA: Principi di economia sanitaria, Franco Angeli, Milano, 1970.
13
medicina; ciò genera nella popolazione una fiducia ingiustificata nei confronti della tecnologia che
induce i malati a richieste di prestazione incongrue.
GAP CRESCENTE TRA BISOGNI E RISORSE
BISOGNI E DOMANDA
RISORSE
TEMPO
2000
2010
2020
CAUSE DI AUMENTO DEI BISOGNI
INVECCHIAMENTO
POPOLAZIONE
NUOVE MALATTIE
NUOVE
TECNOLOGIE
Il perseguimento dell’obiettivo della qualità dei servizi sanitari non può che
determinare aumenti tendenziali della spesa sanitaria18, soprattutto perché la qualità nella sanità
comporterà sempre una massiccia presenza del fattore lavoro che in sanità è proporzionale
all’avanzamento tecnologico (una fabbrica potrà essere completamente automatizzata, ma un
ospedale non lo sarà mai). Già oggi in Italia oltre il 42% dell’intera spesa sanitaria è costituita dal
costo del lavoro19. Il settore sanitario produce principalmente servizi, i quali, al contrario dei beni,
vengono prodotti da processi ad alta intensità di lavoro. In generale tutte le attività dei servizi alla
persona non beneficiano della automatizzazione né della meccanizzazione per cui, in questo settore,
i costi di produzione tendono a crescere più rapidamente che negli altri settori dell’economia con
una grande influenza del peso determinato dal fattore lavoro. La spesa per il personale è una spesa
fissa e quindi difficilmente modificabile nel breve periodo.
La cosiddetta “rivoluzione terapeutica” del periodo post-bellico, causata
dall’introduzione delle sofisticate tecnologie sanitarie, se da una parte ha migliorato gli esiti delle
cure, dall’altro ha diffuso una fiducia crescente nell’alta tecnologia che ha fatto lievitare
18
In estrema sintesi le ragioni del progressivo e inarrestabile aumento della spesa sanitaria nel corso del tempo può
essere riferito:
- aumenti del reddito medio pro-capite provocano paralleli aumenti della domanda di servizi sanitari (il bene
salute appartiene a quei beni superiori su cui il consumatore investe se aumenta la sua capacità di spesa,
riducendo l’acquisto di beni inferiori). In genere si registra che l’aumento della spesa sanitaria pro-capite è più
rapido di quello del reddito guadagnato. Può sembrare curioso sottolineare che le prestazioni sanitarie, nel loro
insieme, presentano le caratteristiche proprie di quello che gli economisti chiamano beni di lusso, la cui
domanda aumenta più che proporzionalmente all’aumentare del reddito. Si dice tecnicamente che la domanda
ha elasticità rispetto al reddito maggiore di uno. La domanda di un bene ha elasticità (rispetto al reddito)
maggiore di uno quando un dato incremento del reddito provoca un aumento della domanda più che
proporzionale rispetto alla variazione del reddito. Inoltre, man mano che cresce il reddito, vi è la tendenza ad
abbandonare i servizi a basso contenuto tecnologico e ad utilizzare prestazioni più sofisticate, sicuramente più
costose, ma non necessariamente più efficaci.
- all’aumentare del reddito aumenta anche la richiesta di qualità delle prestazioni, tenendo conto che l’utente non
è interessato né all’input, né ai processi, ma si concentra sull’outcome, senza considerare così l’intensità del
trattamento
- la maggiore cultura e l’educazione sanitaria fanno percepire nuovi bisogni prima non avvertiti
- la medicalizzazione sociale operata dai mass-media ha aumentato la sensibilizzazione verso le malattie e ha
indotto atteggiamenti fideistici nei confronti della tecnologia medica
- la prevenzione e la riabilitazione sono diventate parti integranti dei processi di cura
- la progressiva ricerca di una sempre migliore qualità della vita e delle condizioni di lavoro
- il progresso tecnologico in campo sanitario ha una vertiginosa crescita intrinseca e soprattutto non tende a
risparmiare lavoro producendo costi unitari sempre più crescenti nel lungo periodo; inoltre quando un nuovo
farmaco o un altro tipo di tecnologia medica vengono creati e approvati si generano automaticamente nuovi
bisogni (pensiamo all’estensione di interventi chirurgici prima limitati ad alcune patologie o solo a determinate
fasce di età…)
- il fenomeno demografico. Si ha un vistoso aumento dell’aspettativa di vita (nel 2010: ♂=77,5 e ♀=83,7) con
un significativo invecchiamento della popolazione e una trasformazione dei nuclei familiari con una forte
riduzione del numero medio dei componenti (2,8 nel 1990; 2,28 nel 2010). Ciò determinerà una forte riduzione
della capacità della famiglia ad esercitare il ruolo di promotore di salute e di assistenza ai soggetti non
autosufficienti
- l’evoluzione della legislazione sociale.
19
Il Nord-Est spende molto in personale e nell’acquisto di beni e servizi; nelle regioni del Nord-Ovest la spesa per il
personale incide in misura minore che a livello nazionale, mentre si destina agli ospedali una quota doppia rispetto al
Nord-Est; Il Sud spende meno nell’acquisto di beni e servizi e destina maggiori risorse alla spesa farmaceutica
convenzionata.
vertiginosamente i costi per caso trattato e ha creato nuovi bisogni; oggi infatti la definizione di
bisogno sanitario si deve rideclinare nel senso di un “problema di salute per il quale vi sia un
rimedio efficace”. Dobbiamo considerare ancora che, in un sistema competitivo, quale può essere
quello di molti paesi occidentali, la disponibilità di tecnologie sofisticate contribuisce a migliorare
l’immagine della struttura sanitaria e quindi a consolidare la sua posizione sul mercato; inoltre
fenomeni degenerativi quali l’induzione della domanda e la presenza di asimmetrie informative
incentivano ulteriormente il ricorso sistematico all’uso di tecnologie sempre più complesse a tutto
vantaggio dei produttori piuttosto che dei pazienti.
In assenza di regolazione, la spesa sanitaria tenderebbe ad assorbire tutte le
risorse destinabili ad altri comparti da cui pure dipende, in misura rilevante, la salute dei cittadini.
La spesa sanitaria è quindi destinata a crescere più per ragioni strutturali che per cattiva gestione o
per il fenomeno degli sprechi; naturalmente ciò non esime dalla necessità di ottimizzare l’uso delle
risorse e di vigilare sugli abusi.
CAUSE DI INFLAZIONE DEI COSTI IN SANITÀ
Invecchiamento
della
popolazione
Aumento del
9%
volume e
dell’intensità
della pratica
Inflazione
clinica 32 %
generale dei
prezzi
42%
Inflazione
dei prezzi
sanitari
17%
Gray JAM: Evidence-Based Healthcare, Elsevier, 2005
L’economia sanitaria si pone questi quesiti fondamentali:
-
Quale ruolo può avere il settore sanitario nell’ambito dell’economia generale? Si tratta di
valutare qual è la combinazione ideale fra i servizi sanitari e gli altri servizi (di per sé non
strettamente sanitari, in grado di produrre salute).
-
Quali specifici servizi devono essere privilegiati nella complessa e ricca offerta sanitaria?
Si tratta di razionalizzare e utilizzare ciò che veramente dimostra utilità rispetto ai bisogni di
salute.
-
Quali sono i processi produttivi ideali che conducono ai servizi sanitari?
-
A chi devono essere erogate le prestazioni sanitarie?
I costi
I costi di produzione sono uno dei problemi principali di ogni impresa
economica poiché essi condizionano negativamente il profitto che risulta dalla differenza fra ricavo
e spesa. Il quanto produrre emerge sulla base dell’analisi dei costi di produzione e dei ricavi di
vendita.
Costo: spesa sostenuta per la produzione di beni e servizi immessi sul mercato e offerti ai
consumatori in un definito intervallo o periodo di tempo.
Ricavo: somma che l’impresa ottiene dalla vendita dei beni e dei servizi in un determinato periodo
di tempo.
Profitto: è l’eccedenza del ricavo sul costo.
Perdita: è la differenza costituita dal superamento dei costi rispetto ai ricavi.
La massimizzazione dei profitti è quindi in stretta relazione con la minimizzazione dei costi, per cui
quest’ultima è una regola generale di razionalità economica, valida anche per quelle imprese (come
le aziende sanitarie) che non vendono direttamente al mercato i loro prodotti, ma vengono
remunerate a budget o a prestazione attraverso trasferimenti a carico dei fondi a disposizione del
SNN.
Costi fissi: sono i costi che non variano al variare del livello di attività. Questi costi non possono
modificare la loro dimensione neanche in caso di sospensione dell’attività (per es. nel caso di un
ospedale pensiamo al contratto di locazione degli immobili, una polizza assicurativa, gli appalti per
la manutenzione delle apparecchiature o per le forniture dei pasti e le pulizie…)
0-100
COSTI FISSI
100
80
60
40
20
0
45
45
45
45
1° Trim.
2° Trim.
3° Trim.
4° Trim.
volume attività
Costi variabili: sono i costi che dipendono dal volume di output, ovvero che variano continuamente
a seconda delle dimensioni del livello di attività: pensiamo per esempio ai costi delle utenze
(energia elettrica, acqua, riscaldamento, telefono…), dei materiali di consumo, (materiali per
l’attività operatoria, farmaci, presidi sanitari, reagenti di laboratorio…), delle consulenze
specialistiche. Tali costi nascono quando l’aziende decide di attivarne il processo produttivo e
cessano alla sospensione del servizio.
0-100
COSTI VARIABILI
100
80
60
40
20
0
90
60
30
0
1° Trim.
2° Trim.
3° Trim.
4° Trim.
volume attività
La distinzione fra costi fissi e costi variabili è valida in genere nel
breve periodo, poiché nel lungo periodo tutti i costi possono essere modificati. Il breve periodo è
l’intervallo di tempo in cui l’operatore economico produce scelte vincolate da impegni presi in
tempi precedenti. Il lungo periodo è quando ormai l’operatore economico è libero di variare tutti i
fattori produttivi. La distinzione quindi tra costi fissi e variabili non sempre è così netta: il costo
degli impianti e delle tecnologie per esempio è fisso nel breve periodo, ma tende a crescere nel
lungo periodo con l’aumentare della capacità produttiva, così come il costo del materiale di
consumo (notoriamente variabile) tende ad aumentare in modo discontinuo nel senso che tende a
rimanere costante per brevi intervalli di variazione dei volumi di produzione.
Nell’area ospedaliera il peso dei costi fissi è notevole, soprattutto da
quando, dopo gli anni ’80, si è sviluppata la tendenza di appaltare all’esterno servizi
tradizionalmente prodotti all’interno (lavanderia, cucina, pulizie…) spesso con volumi a calcolo
teorico più che effettivo. In genere, riferendosi al breve periodo, il costo del personale (che in
genere nel mondo sanitario è in gran parte a rapporto di dipendenza) può essere considerato un
costo fisso. Il lavoro straordinario o l’acquisto di libera professione, è, al contrario, una componente
di costo variabile.
Costo totale: corrisponde alla somma fra costi fissi e costi variabili.
0-100
COSTI TOTALI
100
80
60
40
20
0
80
65
35
1° Trim.
50
35
trim
35
35
3° Trim.
4° Trim.
volume attività
Una volta conosciuto il costo totale di produzione è possibile calcolare il costo medio e il costo
marginale.
Costo medio (costo medio unitario): è il costo mediamente sostenuto per la produzione di una unità
di output. Si ottiene dividendo il costo totale per il numero di prestazioni prodotte (trattamenti
terapeutici, accertamenti diagnostici, pazienti seguiti, giornate di degenza erogate…)
COSTO MEDIO: COSTO TOTALE / QUANTITÀ PRODOTTA
Se si correla il costo totale con il tasso di sfruttamento della capacità
produttiva (per esempio il tasso di occupazione del posto letto) si evidenzia che se i costi fissi si
distribuiscono su un numero via via sempre più grande di attività, il costo medio di produzione per
unità di prodotto decresce. Al contrario il costo medio di una giornata di degenza o di un paziente
trattato è molto elevato se i livelli di produzione sono scarsi perchè i costi fissi ricadono su poche
unità di output. Non è costantemente vero però che i costi medi siano sempre decrescenti
all’aumentare della produttività perché, quando la produzione si avvicina ai livelli massimi di
sfruttamento della capacità produttiva, cominciano a crescere i costi variabili.
La conoscenza del costo medio unitario è importante per fissare i prezzi
ai quali possono essere venduti i prodotti, infatti si ha il profitto quando i costi sono interamente
recuperati attraverso il prezzo di vendita. Per esempio le tariffe di remunerazione dei ricoveri
ospedalieri devono tenere conto di tutti i costi (personale, materiale, apparecchiature…)
complessivamente sostenuti.
Costo marginale: altrimenti detto anche costo incrementale. È l’incremento che subisce il costo
totale all’aumentare della quantità prodotta di 1 unità, ovvero passando dalla produzione (x-1) alla
produzione (x). Corrisponde alla spesa addizionale sostenuta per produrre un servizio in più, per
trattare un paziente in più, per erogare un trattamento aggiuntivo allo stesso paziente.
COSTO MARGINALE: COSTO TOTALE (X) – COSTO TOTALE(X-1)
Il costo marginale è cruciale per determinare il livello della produzione; infatti il livello ottimale
della produzione è quello in corrispondenza del quale il costo marginale eguaglia il ricavo
marginale.
Economia (o rendimento) di scala crescente: si ha quando la produzione aumenta più che
proporzionalmente rispetto all’aumento degli input.
Economia (o rendimento) di scala costante: si ha quando la produzione aumenta in modo
esattamente proporzionale rispetto all’aumento degli input.
In presenza di economie di scala i costi medi di produzione decrescono e l’impresa ha convenienza
ad ampliare la capacità produttiva e ad aumentare la dimensione degli impianti perché i costi unitari
tendono a diminuire20. Solo in presenza di un’economia di scala un’impresa è motivata a cambiare
la sua dimensione.
Più specificamente, nelle valutazioni economiche dei programmi sanitari, i costi
possono essere classificati in:
-
costi diretti sanitari: comprendono tutti i costi sostenuti dal SSN, da terzi paganti (p.es le
assicurazioni), dai pazienti o dalle loro famiglie per attivare il programma e si riferiscono al
consumo di risorse impiegate nel ciclo sanitario in termini di prevenzione, diagnosi, cura e
riabilitazione (farmaci, materiali sanitari, esami diagnostici, ricoveri, visite specialistiche,
assistenza domiciliare…).
-
Costi diretti non sanitari: sono quelli sostenuti dal paziente e dai suoi familiari o da altri al
di fuori del ciclo strettamente sanitario (p.es. costo dei trasporti, assistenza informale…)
-
Perdite di produttività: si riferiscono più strettamente al costo sociale della malattia, in
termini di riduzione di produzione, determinato dagli esiti funzionali delle patologie, dalla
disabilità o mortalità prematura.
Se consideriamo i costi di degenza in riferimento ad un ricovero in una struttura
ospedaliera si possono distinguere tre tipologie di costo:
-
Costi di accettazione e dimissione: comprendono i costi amministrativi, i costi per gli
accertamenti generali al momento dell’accettazione e i costi dei controlli al momento della
20
Varian HF: Mycroeconomic Analysis, Norton, New York 1984; trad. It. Microeconomia, Cafoscarina Venezia 1990.
“Se si raddoppia il diametro della tubatura di un oleodotto, si utilizzerà una quantità doppia di materiali, ma la sezione
del condotto aumenterà di quattro volte, Quindi l’oleodotto sarà in grado di trasportare una quantità più che doppia di
petrolio”.
dimissione. Sono costi presenti all’inizio e alla fine della degenza e in genere indipendenti
dalla durata e dalla complessità del ricovero.
-
Costi del trattamento sanitario: comprendono i costi per gli accertamenti specialistici, per la
terapia erogata per l’intero ricovero e/o l’eventuale intervento chirurgico. Sono costi che si
manifestano lungo tutto il periodo di ricovero e che hanno un andamento prima crescente e
poi decrescente, con una punta massima generalmente in corrispondenza dei giorni di
maggiore intensità di trattamento (per esempio in occasione dell’intervento chirurgico).
-
Costi alberghieri: comprendono tute le voci di costo relative all’assistenza alberghiera
(vitto, pulizie, biancheria, riscaldamento…); si possono considerare, in linea di principio,
fissi per giornata di degenza nell’arco dell’intero periodo di ricovero.
COSTI DI DEGENZA
COSTI TRATTAMENTO SANITARIO
COSTI ACCETTAZ. E DIMISSIONE
COSTI ALBERGHIERI
TT (TARIFFE
GIORNALIERE)
1
2
3
4
5
6
7
GIORNATE DI DEGENZA
8
9
10
In genere la riduzione della durata di degenza non fa altro che concentrare in pochi giorni i costi che
altrimenti verrebbero diluiti nelle degenza più lunga. La riduzione della degenza consente di
risparmiare quindi solo su una parte dei costi (verosimilmente quelli prevalentemente alberghieri), e
produce un aumento del costo della singola giornata di ricovero come conseguenza del
concentramento degli accertamenti e degli interventi terapeutici. Se si ipotizza una remunerazione a
giornata di degenza, la tariffa giornaliera (rappresentata nella figura con la retta TT) avrà una tariffa
media inferiore ai costi di degenza dei giorni di maggiore intensità di trattamento, ma superiore ai
costi di degenza dei giorni a minore intensità. È intuibile che il pagamento a tariffa giornaliera è un
incentivo a prolungare la degenza sfruttando le giornate in cui i costi sono nettamente inferiori ai
ricavi; in questo contesto è più vantaggioso occupare i letti prolungando la degenza di chi è
ricoverato piuttosto che avere nuovi degenti. Nell’ipotesi si remunerazione in caso di ricovero
(come per i DRG) il profitto non nasce di per sé dal numero di giornate di degenza, ma dall’attento
equilibrio fra questo e il peso del DRG stesso.
Allocare le risorse in sanità
Il confronto fra la inevitabile limitatezza delle risorse disponibili e la
domanda inesauribile di investimenti per la tutela della salute ha posto l’esigenza ineludibile di una
opportuna ripartizione, assegnazione o più precisamente di una allocazione delle suddette risorse.
La distribuzione delle risorse in sanità non è un argomento puramente tecnico e quindi neutro; i
meccanismi di raccolta e distribuzione delle risorse rappresentano un modello di società e
sottendono complessi problemi etici.
Nella sua radice latina allocare significa proprio ripartizione equa fra le parti:
essa si correla al principio equitativo, ampiamente condiviso. Secondo una definizione della World
Medical Association (WMA) del 1996 per allocazione si intende “l’atto di distribuzione delle
risorse, senza che tale atto debba di per sé essere inteso come riduzione degli elementi da
distribuire”.
Tradizionalmente si distingue fra macro-allocazione e micro-allocazione. La
macro-allocazione assume le scelte distributive a livello nazionale, regionale e istituzionale; a
questo livello entrano anche le decisioni sulla ripartizione della spesa sanitaria tra fiscalità generale
e oneri diretti a carico dei cittadini. In sostanza la macroallocazione è rappresentata dalla quota del
bilancio statale che viene assegnata alla sanità; tale quota viene poi ripartita al suo interno fra
prevenzione, terapia e riabilitazione. La micro-allocazione comprende gli atti distributivi che
coinvolgono il livello aziendale (ospedaliero e territoriale) fino alle scelte sul singolo paziente
(livello bedside). La macroallocazione definisce sostanzialmente i fondi utilizzabili, i trattamenti
disponibili, i metodi di distribuzione ed esprime un livello squisitamente politico, mentre la
microallocazione tende più a concentrarsi sui soggetti che ricevono i trattamenti ed esprime un
livello più strettamente tecnico. È anche vero che il livello “macro” e il livello “micro” tendono ad
influenzarsi reciprocamente. I criteri che determinano la microallocazione sono numerosi e
articolati sulla base di diverse prospettive.
Le diverse politiche messe in atto per ridurre il divario fra bisogni e risorse
possono essere raggruppate in tre grandi categorie: il controllo della domanda, l’incremento
dell’offerta e il monitoraggio del divario fra bisogno e risorse attraverso un meccanismo di
razionalizzazione/razionamento trasparente. Descriviamo brevemente alcuni criteri di orientamento
che corrispondono a scenari rincontrabili nelle diverse politiche per la salute.
Criteri di tipo socio-economico:
-
Massimizzazione dei benefici: concentrazione degli investimenti lì dove la probabilità di
successo degli esiti sia più elevata.
-
Miglioramento delle informazioni: concentrazione degli investimenti lì dove vi è probabilità
nel progresso della conoscenza e quindi dei benefici per il sistema in generale.
-
Classi sociali: priorità verso alcune categorie di persone selezionate in base a criteri definiti
(tipo di patologia, area geografica, etnia…..)
-
Ottimizzazione delle risorse: viene privilegiato l’investimento su coloro che richiedono
minori risorse (per esempio al fine di aumentare il numero totale dei soggetti sottoposti a
beneficio)
-
Responsabilità verso terzi: priorità a quelle persone che hanno in carico la vita di altri
Criteri collegati alle caratteristiche individuali:
-
Età:
punti di forza: - l’anziano trae minori benefici rispetto al giovane
- una volta raggiunta la naturale durata media di vita diminuisce il diritto ad
utilizzare le poche risorse disponibili
- dare priorità ai giovani significa offrire uguali opportunità di vita
punti di debolezza: - le decisioni sulla salute devono riferirsi a criteri clinici e non di per sé
anagrafici
- rischio di discriminazione/disuguaglianza
- se il criterio età può entrare nel giudizio di proporzionalità, di per sé
non è fondamento alla decisione clinica
- in un sistema universalista la persona anziana ha già contribuito con il
frutto del proprio lavoro all’economia del sistema stesso (equità
intergenerazionale
- i maggiori fruitori di cure sono proprio gli anziani
-
Equilibrio psico-emotivo: il trattamento è condizionato dalla stabilità emotiva e dalla
capacità a collaborare
-
Facilitazione ambientale: presenza di caregivers, disponibilità della famiglia, reti
solidaristiche…
Criteri collegati alle specifiche condizioni di salute:
-
Bisogno: viene data priorità in base alla valutazione e al peso dei diversi bisogni di salute
-
Urgenza: viene data priorità a chi è in maggior pericolo di vita
-
Beneficio: priorità in base alla probabilità di successo, alla durata del beneficio (speranza di
vita attesa) e alla qualità di vita residua
Criteri soggettivi:
-
Autonomia: si basa sul principio di autodeterminazione e fonda la dottrina del consenso
informato per la quale la volontà del paziente è sovrana rispetto alle scelte che riguardano la
propria salute.
-
Responsabilità: tende ad escludere dall’assistenza sanitaria chi viene giudicato responsabile
del proprio stato di malattia e ha rifiutato volontariamente di modificare il proprio stile vita
notoriamente nocivo alla salute.
-
Potere di acquisto: la priorità viene data a coloro che sono in grado di assumersi la spesa o
comunque di movimentare risorse a proprio favore
-
Criterio della casualità (ramdomizzazione): con questo approccio la priorità è affidata al
caso ritenendo che il caso possa essere imparziale; una variante di questo approccio è il
criterio “first arrived, first served”.
Allocazione delle risorse e principio equitativo
Sul piano etico, l’allocazione delle risorse rappresenta l’aspetto distributivo della giustizia con
stretta correlazione al principio equitativo.
Proprio il principio equitativo è alla base di quel coinvolgimento diretto e
indiretto dello Stato nell’organizzazione e/o gestione dei servizi sanitari che, nell’esperienza
europea, viene messo a sistema nella seconda metà del Novecento. Tale coinvolgimento nasce dalla
constatazione che, nelle economie di mercato, il reddito può condizionare l’acceso ad una ampia
categoria di beni e servizi tranne che l’accesso alle cure sanitarie che sono assolutamente
determinanti alla conservazione della vita. In verità già precedentemente iniziano a comparire i
primi indicatori di questa strategia:
-
Nel 1601 in Inghilterra vennero promulgate le “poor law”, “leggi per i poveri” e soppresse
solo nel 1834.
-
In Francia una vera e propria organizzazione sanitaria di stato viene proposta con la Carta
francese del 3 Settembre 1791 e ribadita nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 29
Giugno 1793; essa viene realizzata per la prima volta nel 1794 e poi estesa a tutta Europa
col decreto promulgato da Napoleone I il 5 Settembre 1806.
-
Fra il 1883 e il 1889 Otto von Bismarck, come Cancelliere di Prussia, introdusse una
riforma sociale in Germania, assolutamente innovativa, rappresentata da: assicurazione di
malattia per lavoratori con basso salario (1883), assicurazione contro gli infortuni sul lavoro
(1884) e un modello assicurativo per la vecchiaia e l’invalidità (1889). Tale sistema di
sicurezza sociale si basava sui contributi degli stessi lavoratori (Krankenkassen).
-
Nel 1911, in Giappone, si crea il primo fondo per l’assistenza sanitaria dei poveri.
-
Nel 1912 Lloyd George introduce in Gran Bretagna la prima forma di assicurazione
obbligatoria per i lavoratori.
-
Nel 1915 la Svezia promulga la prima legge sulle pensioni.
-
Attorno agli anni 20 si registra in Italia la prima forma di assistenza sanitaria a carico dello
Stato per i dipendenti pubblici.
-
Il 27 Luglio 1934 con Regio Decreto viene promulgato in Italia Il Testo Unico delle Leggi
Sanitarie che garantisce l’assistenza sanitaria gratuita limitatamente agli indigenti.
-
Nel 1935 negli Stati Uniti, sotto la presidenza Roosevelt, viene promulgato il “Social
Security Act”, (Atto per la sicurezza sociale), a protezione di anziani, disoccupati e bambini
bisognosi. Sono gli anni in cui si afferma la teoria Keynesiana21 dove le opere pubbliche
vengono considerate uno stimolo al mercato, viene affermata la natura involontaria della
21
J.M. Keynes: The General Theory of Employment, Interest, and Money, Harcourt, Brace, New York 1936.
disoccupazione e si sostiene che un buon sistema di previdenze sociali, a lungo termine,
stimola il consumo e aumenta la ricchezza. L’economista inglese John Maynard Keynes22
(1883-1946), contrariamente a quanto proposto da Adam Smith, sostiene che l’intervento
del governo nell’economia è uno strumento necessario per massimizzare l’utilità della
società e che il libero mercato non necessariamente è il mezzo più efficiente per coordinare
l’impiego delle risorse in sanità. La spesa pubblica e le politiche fiscali possono essere utili a
creare la domanda necessaria ad evitare la disoccupazione.
Nell’Aprile del 1942, in una Londra tormentata dai bombardamenti, viene
presentato il Rapporto Beveridge “Social Insurance and Allied Services” (manifesto teoricoprogrammatico del Welfare State). Sir Wiliam Henry Beveridge su incarico del governo propose la
creazione di un servizio sanitario nazionale e un sistema unificato di sicurezza sociale (“from cradle
to the grave”, dalla culla alla tomba) per garantire a tutti le necessità fondamentali della vita come
malattia, invalidità, vecchiaia, istruzione. Nel 1945 in Inghilterra inizia così a funzionare il National
Health Service (sistema di sicurezza sociale finanziato dalla tassazione nazionale) su iniziativa di
W. Beveridge e A. Bevan e, sulla spinta di questa intuizione, nelle scelte politico-governative dei
paesi occidentali si inizia esplicitamente a ragionare attorno alla questione della tutela della salute
dei cittadini, indipendentemente dalla loro capacità di reddito. Fino ad allora solo la società civile si
occupava della cura degli indigenti (retaggio storico che è rimasto impresso nel termine ospedale
civile). Sulla spinta derivata dalla nuova sensibilità verso la tutela estesa della salute individuale, nel
1948 viene istituita anche L’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Siamo agli albori della nascita del “Welfare State” (lett. “Stato del benessere”) o
“Stato Sociale” che nascerà ufficialmente nel 1947 con il Governo laburista Attle; esso è un
tentativo di risposta alle contraddizioni dell’economia capitalista, alla caduta della dimensione
solidarista tipica della società contadina, al fenomeno dell’immigrazione e dell’inurbamento, sulla
spinta dell’estensione del diritto di voto e della comparsa delle socialdemocrazie. Il Welfare State
viene vissuto come una sorta di terza via fra sistema capitalista e sistema socialista. È un sistema
socio-politico-economico in cui lo Stato assume la tutela della salute e la promozione del benessere
sociale ed economico dei cittadini come propria prerogativa e responsabilità; si prevede così una
forte presenza pubblica in settori quali la previdenza sociale, l’assistenza sociale e sanitaria,
l’istruzione, l’edilizia popolare i trasporti o altri settori di forte impatto sulla vita dei cittadini.
La creazione del nuovo modello sanitario sostenuto dai contributi obbligatori e dal
finanziamento pubblico ha favorito interi settori dell’economia (in particolare il settore
22
Hansen AH: Guida allo studio di Keynes, ed. Giannini, Napoli 1977.
farmaceutico e delle attrezzature mediche) e ha completamente cambiato i precedenti modelli
organizzativi della sanità:
-
La medicina, in gran parte domiciliare, diviene ospedaliera. L’ospedale diviene il centro del
sistema sanitario.
-
Il medico perde il ruolo di medico generalista per assumere la veste dello specialista. Ciò è
la logica conseguenza della progressiva tecnologicizzazione della medicina che frammentò
le competenze e le concentrò nell’ospedale.
-
La formazione medica si adegua alle nuove esigenza della specializzazione.
-
Il paziente assume sempre più il ruolo di cliente/consumatore.
-
Il concetto di salute si allarga al concetto di benessere.
Nel secondo dopo guerra, sulla spinta della forte crescita economica, il Welfare State
si diffonde in tutta Europa, soprattutto nel Nord. Ma già dalla seconda metà degli anni sessanta il
termine “Stato sociale” viene sostituito con il termine di “Stato assistenziale” che assume una
connotazione negativa per gli aspetti degenerativi che ne mettono in crisi la struttura. A partire dagli
anni ’70 le economie occidentali si sono trovate a fronteggiare simultaneamente il fenomeno
dell’inflazione e della disoccupazione, e il classico rimedio keynesiano contro la disoccupazione,
rappresentato dall’aumento della spesa pubblica, ottiene il solo risultato di far crescere l’inflazione.
Gli apparati pubblici diventano sempre più numerosi e dominati da logiche burocratiche e
clientelari; spesso la gestione delle risorse assistenziali viene accusata di essere inefficiente se non
addirittura iniqua. La spesa pubblica tende a diventare sempre più insostenibile; in Italia, in
particolare, se rapportata al PIL (Prodotto Interno Lordo) la spesa pubblica è passata da circa il 30%
degli anni cinquanta fino al 60% della metà degli anni ottanta. Ciò si è accompagnato ad una
progressiva crescita della pressione tributaria con una parallela diminuzione degli investimenti e dei
consumi privati. L’apparato statale, sempre più costoso, tende sempre più ad autoreferenziarsi e ad
essere preda di corruzione e logiche clientelari. Tutto ciò apre la strada ad una macchina burocratica
sempre più inefficiente che scava la nota voragine del debito pubblico. L’idea di stato sociale che
coinvolge il modello europeo nella sua globalità è oggi in una sorta di crisi di sopravvivenza. Il
binomio alta tassazione - alte prestazioni sociali sembra non sostenere i grandi e rapidi cambiamenti
demografici in corso: l’invecchiamento della popolazione, la bassa natalità, la frammentazione della
famiglia.
Il tema della scarsità delle risorse e la necessità della loro allocazione fa
emergere ancora una volta una delle categorie più affini al vivere quotidiano permeato dalla
dimensione del limite che, proprio perché circoscritto dalla finitudine, richiede il costante esercizio
delle scelte. Di fronte alla necessità di dover scegliere, necessità che emerge dalla strutturale
limitatezza della nostra condizione, il problema non è il dover scegliere in sé, ma i criteri che
ispirano la nostra scelta.
È questo il livello in cui emerge il tema dell’etica o più precisamente della
bioetica se la riflessione si orienta ai grandi temi della salute, della medicina, dei sistemi della cura.
La Bioetica è la disciplina orientata a costruire la prospettiva dei fini dentro i sistemi socio-sanitari.
L’esigenza di costruire la prospettiva dei fini è assolutamente irrinunciabile e vitale per ogni sistema
organizzativo; ripensare ai fini della medicina significa ripensare anche ai fini e ai valori della
società oltre che alla sua struttura culturale. Compito della bioetica è costruire l’orizzonte dei fini
della vita umana e ispirare i mezzi necessari per raggiungerli, è ancora tracciare le coordinate per
orientare la costruzione dei percorsi decisionali e delle scelte in ambito politico e
nell’amministrazione pubblica sui temi della sanità e della tutela della salute dei cittadini. La
bioetica è sempre più intesa come l’etica pubblica della nostra società.
Il tema dell’allocazione non è allora una mera questione di “ingegneria
economica” moralmente indifferente o di semplice mediazione fra interessi confliggenti.
Le scelte economiche, come d’altro canto tutte le scelte di ordine tecnico, non
possono considerarsi affrancate dal cosiddetto pre-giudizio etico o meglio dalla necessità di
presupporre un orientamento che attinge all’universo dei valori; non esiste quindi una pretesa di
neutralità etica dell’economia, poiché nessun sapere tecnico è di per sé mai neutrale, ma soprattutto
perché sempre gli scenari finali dipendono dai fini che perseguiamo. Un esempio di ciò è dato dal
noto caso di Jacoby Howard, esploso nell’Oregon nel 1987: Coby era un ragazzo di 11 anni morto
di leucemia perché la famiglia non poteva sostenere la spesa di 100.000 dollari prevista per il
trapianto di midollo. Il problema è che se si fosse ammalato un anno prima, il trapianto sarebbe
potuto avvenire con il contributo dell’amministrazione pubblica e forse Coby sarebbe
sopravvissuto. Lo stato dell’Oregon infatti nella primavera del 1987 decise di utilizzare la somma di
bilancio per estendere le cure primarie di altre 1500 persone, piuttosto che continuare un
programma di trapianto di organi per una ventina di persone. Come dire che non raramente le scelte
di economia sanitaria, nel concreto, significano opportunità di salute offerte ad alcuni cittadini e
sottratte ad altri. La macro- e la micro-allocazione delle risorse movimenta una tale complessità di
parametri e valori che non può essere risolta o sostenuta dalla mera conoscenza tecnica, ma richiede
un processo di pre-comprensione radicato nei valori che ispirano la nostra coscienza morale,
processo che deve essere quanto mai articolato, condiviso e trasparente.
Se da una parte il circuito produttivo, fatto di consumi – investimenti –
produzione, diventa sempre più efficace e potente, dall’altra sembra sempre più affrancarsi da quei
valori che orientano le finalità originarie dell’economia, quali il rispondere ai bisogni che
qualificano il rispetto della dignità della persona, la tutela dei diritti civili e sociali, l’aumento del
benessere e della qualità di vita delle persone e delle comunità. Anche l’economia sanitaria soffre
delle contraddizioni tipiche dell’economia di mercato quali la tentazione di soddisfare non tanto i
bisogni primari, quanto bisogni “di ordine superiore” e tipo voluttuario, la grande divaricazione fra
popoli che possono permettersi la medicina del desiderio e popoli impossibilitati a soddisfare i
bisogni essenziali, la comparsa dell’economia degli “sprechi”.
In estrema sintesi potremmo dire che il sistema della cura si trova a
confrontarsi oggi con una serie di sfide che riassumiamo nei seguenti termini:
-
La trasformazione del profilo della patologia con la crescita relativa delle patologie croniche
rispetto alle patologie acute, specie nella popolazione anziana.
-
L’accresciuta potenzialità tecnologica della medicina e l’incremento vertiginoso dei suoi
costi.
-
La convinzione che la tecnologia medica sia in grado di compere “miracoli” nei confronti
delle malattie e dell’invecchiamento; “miracoli” a cui tutti si sentono in diritto di accedere a
qualsiasi costo.
-
La progressiva convinzione che esista un diritto alla salute così forte da rendere inaccettabile
la morte e la sofferenza e sopratutto da impedirne l’integrazione nel contesto della vita.
Tentiamo di vedere sinteticamente quali sono i valori di riferimento in campo
allocativo secondo alcune prospettive etiche correnti.
Prospettiva libertaria individualista
Nasce attorno al diritto soggettivo di libertà dell’individuo, espresso dal
principio di autonomia e autodeterminazione (Engelhardt 199623; Nozick 197424, Von Hayek
198825). Questa preoccupazione della salvaguardia della libertà e dei diritti individuali, espressa
soprattutto da Nozick26 che attualizza la lezione di Smith e Ricardo, ha la sua radice nella teoria dei
diritti di J. Locke (1632-1704) (individuati nel diritto alla vita, alla salute, alla libertà e alla
23
Engelhardt H.T.: The Foundation of Bioethics, New York/Oxford 1986.
R. Nozick: Anarchia, Stato, Utopia . I fondamenti dello “Stato Minimo”; Le Monnier, Firenze 1981 (1° Edizione
Ingese 1974).
25
F. Von Hayek: On Toleration; Oxford University Press, Oxford 1987.
F. Von Hayek: Legge, legislazione, libertà [1976]; Il Saggiatore, Milano 1988.
26
R. Nozick: Anarchy, State and Utopia, Balckwell, New York 1974, p.IX: “La nostra principale conclusione nei
riguardi dello stato ci porta ad affermare che è giustificato uno Stato minimo, limitato alle strette funzioni di
protezione contro la violenza, il furto, la frode, l’osservanza dei contratti etc.; che uno stato con maggiori funzioni
violerebbe il diritto delle persone di non essere obbligate a fare certe cose, e non è giustificabile, e che lo Stato minino
è tanto suggestivo quanto giusto.”
24
proprietà)27. Nozick in realtà afferma che l’unico diritto fondamentale posseduto da ogni individuo
è il diritto negativo di essere libero dalla coercizione di altri esseri umani e che tale diritto non può
essere sacrificato per il bene degli altri; ciò significa che le persone devono essere lasciate libere di
fare ciò che vogliono del loro lavoro e dei suoi prodotti. Di fronte a tale diritto
all’autodeterminazione, lo Stato deve limitarsi a promuovere le libertà individuali e agire come un
“guardiano notturno” che si riduce ad impedire che qualcuno usi violenza, astenendosi da ogni
intenzione distributiva (minimal State)28 e l’economia è chiamata ad adeguarsi alle leggi di mercato,
ritenute di per sé sufficienti a promuovere una distribuzione delle risorse su larga scala; secondo lo
stesso Adam Smith, il mercato lasciato libero consente ai privati di perseguire i propri interessi e,
sotto la spinta del tornaconto personale, si genera una sorta di “mano invisibile”29 che
(verosimilmente prodotta dalla concorrenza) favorisce il benessere pubblico. Dall’interazione degli
egoismi personali nasce quindi una regolazione interna e spontanea dei prezzi, dei consumi e delle
risorse che favoriscono l’interesse collettivo oltre l’immediato interessere dei singoli.
L’allocazione delle risorse prodotta dal mercato è però una ripartizione
sulla base delle prestazioni e delle preferenze, non sulla base dei bisogni individuali. In questo
approccio non c’è nessun fondamento per i diritti positivi o di promozione e di conseguenza per
programmi di supporto sociale. Secondo questa concezione l’estensione dell’area del mercato
accresce il benessere di tutti così come la marea che, crescendo, solleva tutte le barche (maximal
market); non essendo riconosciuta da questo approccio l’idea di un “bene comune” non ha più senso
una concezione generale della giustizia (che tende appunto alla creazione del bene comune) né la
giustizia distributiva fondata sulla risposta ai bisogni; in questo contesto la giustizia ha un
significato meramente procedurale nel senso di semplice rispetto di regole e procedure per
l’acquisizione di risorse e diritti; si tratta in sostanza di limitarsi a garantire la libertà dell’uomo
libero accentuando la giustizia commutativa e minimizzando quella distributiva; la giustizia
commutativa trova il suo strumento nel mercato concorrenziale che raramente provvede a
distribuire secondo i bisogni, perchè opera con scambi e transazioni e non con trasferimenti o
Si sottolinea che i diritti non sono per Locke convenzionali (secondo l’approccio contrattualista), ma naturali e in
ultima istanza radicati nel teismo cristiano. Ogni uomo ha il solo vincolo rappresentato dalla legge di natura, vale a dire
i principi morali dati da Dio all’umanità che ogni uomo può scoprire servendosi della ragione, essendo la loro esistenza
evidente e intuibile.
28
Lo stato deve limitarsi alla garanzia e al controllo della giustizia degli scambi effettuata dal mercato (giustizia
commutativa) senza operare redistribuzioni e trasferimenti; viene così salvaguardato un diritto negativo (nessuno può
danneggiare la mia salute), ma non esiste un diritto positivo all’assistenza medica.
29
Smith A: Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995. “Soltanto i ricchi scelgono nella massa comune ciò che
c’è di più delizioso e di più raro. Essi non consumano affatto più del povero; e nonostante la loro avidità e il loro
egoismo…condividono con l’ultimo dei manovali il prodotto dei lavori che fanno fare. Una mano invisibile sembra
costringerli a concorrere a quella stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che avrebbe avuto luogo se la
terra fosse data in parti uguali a ciascuno dei suoi abitanti; e in tal modo, senza averne l’intenzione, e senza neanche
saperlo, il ricco serve l’interesse sociale e la moltiplicazione della specie umana”.
27
redistribuzioni. Il giudizio deve essere limitato alla correttezza e al rispetto delle regole concordate
fra individui razionali. La società è intesa come mero aggregato di individui autointeressati e
razionali nel perseguire con efficienza il proprio interesse; tutto è affidato alla libera contrattazione
fra individui che hanno solo l’obbligo di rispettare le regole del gioco e i risultati sociali di questa
contrattazione non possono essere modificati dallo Stato.
Alla teoria libertaria dei diritti individuali, garantiti dallo stato quale mero
guardiano, Nozick aggiunge una teoria libertaria delle virtù che separa il concetto di giustizia da
quello di carità. Secondo la visione di giustizia dell’approccio libertario non siamo in obbligo di
contribuire al benessere degli altri, i quali a loro volta non possono vantare alcun diritto; secondo il
principio della carità dobbiamo aiutare coloro che non hanno diritto al nostro aiuto.
In questa visione la ragione laica non conosce una definizione univoca di
giustizia, né tanto meno deve esistere una giustizia distributiva e in conseguenza di ciò non sussiste
un obbligo morale all’equità emergente dal principio dell’eguaglianza né un diritto primario alla
salute. Secondo queste premesse lo Stato non ha obbligo morale di istituire un sistema sanitario
pubblico finanziato dalla fiscalità generale; è possibile prevedere, eventualmente, delle salvaguardie
minime per le fasce al di sotto di una soglia stabilita di povertà al fine di attutire le conseguenti
tensioni sociali. Se il benessere dei cittadini è funzione della prosperità economica che a sua volta è
garantita dalle relazioni del libero mercato, è ovvio che l’idea di stato sociale, che ridistribuisce
quote di ricchezza al di fuori del meccanismo di produzione della stessa, e vissuto come vero
impedimento allo sviluppo economico. Il triangolo paziente-medico-società si annulla e diventa un
rapporto lineare, a due termini dai quali è esclusa la società; il medico è un libero professionista,
mentre ogni intervento dello stato è considerato illiberale e artificioso. Nella logica del mercato si
preferirà dare spazio alla competizione e alla concorrenza fra privati (sanità for profit, polizze
assicurative…).
In questa prospettiva il tradizionale concetto di giustizia distributiva “jus
suum unicuique tribuere” si riduce al solo senso di dare ad un uomo libero in base ai propri meriti
personali, proporzionalmente al proprio contributo alla società. Come conseguenza pratica di ciò
l’accesso alle cure diventa direttamente proporzionale alla solvibilità economica e alla libera scelta.
Si ipotizza quindi che il bene salute possa essere scambiato sul mercato e che il meccanismo del
prezzo sia sufficiente a determinare l’allocazione delle risorse. Inoltre gli operatori sanitari hanno
con il malato un rapporto contrattualistico su base privata, con una tutela in primis delle reciproche
autonomie; le cure vengono decise prevalentemente in base alle capacità economiche del paziente.
In pratica la sanità viene considerata come un bene da acquistare, analogamente a qualsiasi altro
bene commerciale. Il libero mercato richiede che il flusso informativo e la comprensione dei
fenomeni avvenga in condizioni di trasparenza e di parità; cosa che per definizione non avviene nel
contesto clinico dove la relazione medico-paziente è radicalmente asimmetrica.
Una variante complementare dell’approccio libertario-radicale è rappresentata
dal contrattualismo liberale; un approccio tendenzialmente privo di interesse verso il concetto di
persona ed interessato piuttosto fondarsi su una sorta di evento pattizio, quali un contratto o una
convenzione. La radice culturale di questo approccio è riscontrabile in Hobbes che nel suo
Leviathan propone una teoria convenzionale della politica, dell’autorità e della giustizia fondata sul
motto latino “pacta servanda sunt”. Secondo questa prospettiva ciò che giusto o ingiusto non nasce
dalla natura della persona, ma è un elemento assolutamente convenzionale, frutto di un patto,
posizione che si associa all’idea hobbesiana: “auctoritas non veritas facit legem”; nel
contrattualismo l’autorità (anche morale) nasce dal consenso. Nella concezione liberale della
medicina quindi i rapporti sanitari devono essere improntati al libero scambio e al mercato
escludendo l’intervento di terze parti fra medico e paziente. A questo modulo si ispira l’idea liberale
della “libera professione” medica secondo la quale il malato si rivolge autonomamente ed
esercitando un diritto di scelta al tecnico della salute quale è il medico.
La teoria del libero mercato trovò nell’XIX secolo ulteriore giustificazione
dalla dottrina del darwinismo sociale. Questa dottrina, inspirandosi alle note teorie di Charles
Darwin (1809-1882)30, sostiene che, come la competizione tipica del mondo naturale assicura la
sopravvivenza dei più adatti, così nel mondo dell’economia la libera concorrenza assicura che
sopravvivano e arrivino al vertice solo i più capaci31. Poiché il progresso si appoggia proprio sulle
capacità dei migliori, il governo o comunque il sistema pubblico, non può aiutare le imprese deboli
perchè falsificherebbe il meccanismo della concorrenza che seleziona le imprese migliori e
garantisce il successo economico.
In sostanza con questo approccio il problema della ripartizione delle risorse è
affidato ai meccanismi automatici del mercato dove l’accesso alle cure è proporzionale alla propria
redditività; chi ha guadagnato e accumulato di più appare più meritevole di essere tutelato come chi
è giovane e ha un reddito atteso superiore alle risorse consumate per il suo problema di salute;
viceversa chi è ormai fuori dai circuiti produttivi non è più considerato “capitale umano” e non è
più scontato che esista per lui il diritto alla cura dato che la spesa supera la resa. L’ipotesi liberista
viene in genere attutita dal supporto assicurativo contro il rischio di malattia per cui il cittadino può
tutelarsi pagando un premio assicurativo ad una società del settore nel periodo di buona salute in cui
può produrre la propria ricchezza, ed utilizza l’assicurazione in caso di malattia. Anche in questo
contesto è ovvio però che tutto viene condizionato dalla propria redditività, perché la tutela
30
31
Darwin C: The Origin of Species by Means of Natural Selection, D. Appleton and CO., New York 1883.
Spencer H: Social Statistics, Abridged and Revised, Appleton and CO., New York 1893.
assicurativa è proporzionale al premio pagato: ad alti premi corrispondono prestazioni sanitarie di
alto profilo tecnologico e assistenziale e viceversa. Tutto ciò rende difficile proteggere i più deboli
in senso economico e sociale: tale sistema ha portato, negli USA, la presenza di 44 milioni di
cittadini privi di copertura sanitaria, pur essendoci una spesa per la sanità che è doppia rispetto a
quella degli altri paesi industrializzati (circa il 16% del PIL americano).
Prospettiva utilitarista
Questo approccio tenta di superare le contraddizioni pratiche della prospettiva
individualista sottolineando il principio di utilità: l’intera ampiezza del bene morale viene ricondotta
(e ridotta) al solo bene utile. La prospettiva utilitarista, riallacciandosi all’empirismo di Hume
individua l’utile individuale nel calcolo costi/benefici e nella valutazione piacevole/spiacevole.
Secondo il contributo di Bentham32 il nucleo strategico è collocato nella necessità di massimizzare
la felicità e minimizzare il dolore per il maggior numero possibile di individui. In sintesi il principio
utilitaristico stabilisce che un’azione è giusta dal punto di vista etico se e solo se la somma totale di
utilità prodotte da quell’atto è maggiore della somma totale di utilità prodotte da qualsiasi altro
atto che l’agente avrebbe potuto compiere.
L’obiettivo sociale principale è rappresentato dal raggiungimento del miglior
saldo attivo dei benefici (per la maggioranza delle persone) sui costi (da minimizzare) e della
qualità di vita più alta possibile (è proprio l’utilitarismo che ha fortemente valorizzato il concetto di
qualità della vita). L’utilitarismo è una teoria attraente perché concorda spesso con i criteri intuitivi
impiegati nel senso comune quando si discute di comportamenti etici e soprattutto quando si discute
di scelte politiche relative ai beni pubblici dove il criterio del “bene maggiore per il numero
maggiore” sembra essere vincente. È infine da sottolineare come l’utilitarismo si metta in sintonia
con una dimensione molto valorizzata nel nostro contesto sociale: l’efficienza.
Poiché il piacere è definito come lo standard ultimo del bene, il principio
commutativo di “non recare danno all’altro” si traduce nel non procurare sofferenza inutile e il
comportamento razionale non può che tradursi nella massimizzazione del piacere. In questa logica
lo Stato è un ente che massimizza il benessere sociale, proprio come un’impresa massimizza il suo
profitto e, soprattutto, nel perseguire l’utile sociale, privilegerà l’utile di molti rispetto all’utile del
singolo. Poiché l’obiettivo è l’efficienza complessiva del sistema, la distribuzione si orienta verso
32
Burns J.H., Dinwiddy J.R., Rosen F. (eds): The collected works of Jeremy Bentham. Oxford University Press, London
and Oxford 1988.
Bentham J: The Principles of Morals and Legislation (1789).
“il maggior numero di persone” e non verso il concetto di “a ciascuno il suo”. Dal XIX secolo in poi
molti economisti hanno interpretato il comportamento economico partendo dal presupposto che gli
esseri umani tentano sempre di massimizzare la loro utilità e che l’utilità delle merci è misurabile
mediante il prezzo che gli individui sono disposti a pagare per acquistarle 33. Anche le tecniche di
analisi costi/benefici trovano nell’utilitarismo il loro fondamento.
Nell’approccio neocontrattualista di Rawls34 si tenta di massimizzare i benefici
per le persone meno avvantaggiate. A tale scopo egli individua due principi fondamentali che
devono ispirare un metodo equo per risolvere i conflitti sociali e distribuire correttamente i benefici
e gli oneri:
1) Ogni persona ha un eguale diritto alle più ampie libertà fondamentali compatibili con
analoghe libertà per tutti.
2) Le ineguaglianze sociali ed economiche vengono organizzate in modo da essere
a) per il più grande beneficio delle persone meno avvantaggiate
b) connesse a incarichi e posizioni aperti a tutti in condizioni di equa eguaglianza di
opportunità
Il primo principio viene definito “principio di eguale libertà”. Secondo tale principio ognuno ha
diritto che le proprie libertà siano eguali a quelle degli altri e siano tutelate dalle violazioni degli
altri. Tali libertà includono la libertà di parola e di coscienza, il diritto di voto, la libertà delle
proprietà personali e altro ancora sul quale non ci può essere interferenza da parte delle istituzioni;
in questo contesto i contratti secondo giustizia devono essere assolutamente onorati e le transazioni
contrattuali non possono essere sottoposte a frode, inganno o violenza. La parte a) del 2° principio è
il “principio della differenza”. Partendo dalla constatazione che comunque nella società ci sono
disuguaglianze, si deve provvedere a migliorare le condizioni dei più svantaggiati a meno che tale
azione non costringa tutti, anche i più poveri, a peggiorare ulteriormente. Una società più è
produttiva, più sarà in grado di fornire benefici ai suoi membri più poveri. In questo senso il
principio di differenza stimola l’efficienza e allontana tutto ciò che è anticoncorrenziale o quei
fattori esterni che consumano risorse in maniera inadeguata (per esempio l’inquinamento). La parte
b) del 2° principio è il “principio di equa uguaglianza delle opportunità” che attribuisce ad ognuno
il diritto di avere pari opportunità per qualificarsi e assumere le posizioni più privilegiate nelle
istituzioni sociali. La remunerazione sarà poi determinata in base all’impegno, alle capacità e al
contributo individuale. Secondo la teoria di Rawls questi principi generali possono essere accettati
da un gruppo di uomini che si trovano nella “posizione originaria” e nel “velo di ignoranza”; sono
cioè persone egoiste e razionali che sanno di dover vivere in una società governata da principi, ma
33
34
San A, Williams B: Utilitarianism and beyond, Cambridge University Press, New York 1982
J. Rawls: Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1986 (1° edizione americana 1971).
non conoscono ancora quali saranno le loro caratteristiche e la loro posizione: ciò li pone nella
condizione di non poter difendere i propri interessi particolari e quindi di dover dare attenzione al
bene di tutti. I principi accettati da chi si trova nella “posizione originaria” diventano così
moralmente giustificati. Nella posizione originaria, secondo Rawls, gli individui sceglieranno
sicuramente i tre principi (principio di eguale libertà, principio di differenza, principio di equa
uguaglianza di possibilità).
Una delle critiche più penetranti alla teoria di Rawls nasce dalla constatazione
che è lo stesso procedimento contrattualista a determinare ciò che è giusto, il quale, a sua volta, va a
coincidere con il bene. Si assume così un’ottica procedurale ottica procedurale e pattizia nella quale
non esiste più il bene come principio oggettivo ed universalizzabile.
L’approccio utilitarista si basa principalmente su:
-
consequenzialismo: le scelte vano giudicate in base ai risultati che producono; il valore di
un’azione è interamente determinato dal valore delle sue conseguenze; in questo senso non
esistono nuclei morali indisponibili e conseguentemente regole assolute del giusto e
dell’ingiusto come nell’approccio deontologico
-
focalizzazione sul benessere: valutazione dei fatti solo sulla base delle loro utilità venendo
appunto a coincidere l’utile con quest’ultimo
-
classifica per somma: le utilità individuali vanno sommate ottenendo un valore aggregato,
indifferente alla distribuzione del totale fra i diversi soggetti35.
Proprio la classifica per somma, basata sull’assemblamento di pezzi di utilità in una somma totale
da massimizzare, tende a negare l’identità e la separatezza dei soggetti; tale negazione ha come
conseguenza diretta l’impossibilità di attribuire diritti alle persone, ma prioritariamente di assegnare
un valore fondativo al concetto di identità e dignità della persona umana. In sostanza tener conto
delle utilità non significa di per sé avere in considerazione anche i soggetti di queste utilità,
soprattutto se considerati nella loro singolarità; la classifica per non somma non tiene conto del
sacrificio a cui può essere sottoposto il singolo36.
Il principio di massimizzazione dell’utilità fa esplodere drammaticamente il
problema etico quando entra in conflitto con altri valori che non sono riducibili, in particolare con il
principio di uguaglianza. Nell’approccio utilitarista in fine ogni azione non ha mai un contenuto
35
Un esempio del risultato finale della classifica per somma può essere dato dal seguente caso: se tre soggetti sono
coinvolti in due situazioni A e B e godono utilità (10, 10 ,10) e (30, 10, 0), secondo la suddetta logica la situazione B
risulta avere utilità maggiore (30 + 10 + 0 = 40) che non la situazione A (10 + 10+10 = 30), per cui la situazione B (in
realtà iniqua) risulta essere moralmente la migliore.
36
Nei “Fratelli Karamazov”, Dostoyevski rappresenta drammaticamente la sfida etica dell’utilitarismo quando Ivan
chiede ad Alyosha: “Immagina che tu stia creando una struttura per il destino umano con l’obiettivo di rendere tutti gli
uomini felici, conferendo loro, alla fine, pace e serenità, ma che per far questo sia necessario ed inevitabile torturare a
morte una sola piccola creatura (per esempio prendendo a pugni quella bambina) e fondare quell’edificio sulle sue
lacrime innocenti. Vorresti tu essere l’architetto di questa condizione?”
etico in sé, ma è sempre correlata all’effetto che produce. Mentire, uccidere o tradire non possono
essere considerate azioni disoneste se per mezzo di esse da una certa situazione scaturissero
conseguenze migliori.
La prospettiva utilitarista giustifica l’istituzione e il finanziamento di un servizio
sanitario da parte dell’autorità pubblica che deve essere però orientato all’utilità complessiva e
improntato a criteri di efficienza, con una costante attenzione al rapporto benessere/dolore e
costo/benefici; si privilegiano così interventi e prestazioni sanitarie tese al recupero dell’efficienza
del paziente.
Questa ricerca della massimizzazione dei risultati dell’impiego delle risorse
scarse riveste un grande fascino per la concretezza e praticità del suo approccio, è però alla base di
quello che gli economisti chiamano “effetto Matteo”37 e che si rifà ad una sorta di etica del successo
orientata ad investire lì dove vi è certezza di beneficio. In questa prospettiva la collettività
dovrebbe accettare di rinunciare al miglioramento per un individuo fortemente svantaggiato se ciò
consentisse di ottenere un guadagno anche solo di poco superiore a favore di un soggetto
relativamente meno svantaggiato. Tale logica è alla base della constatazione emersa dagli esiti di
una recente ricerca della Organizzazione Mondale della Sanità secondo la quale malati e disabili
mentali più gravi ricevono meno cure dei lievi. Una semplice valutazione meccanica delle utilità
genera una distribuzione indifferente esposta alla sperequazione soprattutto nei confronti delle
categorie più fragili e vulnerabili; in particolare c’è il pericolo di concentrarsi molto sulla cura delle
patologie acute (a più alto impatto di risoluzione), rispetto alle patologie croniche invalidanti che
coinvolgono soprattutto la popolazione anziana, per le quali la medicina tecnologica non è in grado
di offrire i suoi miracoli.
Vi è ancora una reale difficoltà ad identificare l’utilità con criteri oggettivi,
sopratutto è difficile rendere oggettivo o quantificare il concetto di qualità di vita che è fortemente
condizionato dalla soggettività.
L’approccio utilitarista è anche alla base dell’interpretazione pratica, fattuale
assunta nel contesto delle aziende sanitarie dopo l’introduzione del cosiddetto sistema DRG
(Diagnosis Related Groups). Tale sistema prevede che la remunerazione delle spese avvenga sulla
base delle prestazioni svolte ad ognuna delle quali corrisponde una specifica tariffa. Tale sistema ha
messo gli enti erogatori (sia pubblici che privati) nella condizione di avere entrate proporzionali
alla qualità e quantità delle prestazioni; ciò ha determinato un progressivo aumento delle prestazioni
eseguite, privilegiando quelle ove il costo di produzione è inferiore alla tariffa prevista. In questo
Viene definito in tale modo perché si rifà alla nota frase del Vangelo di Matteo (Mt 25, 29: “perché a chiunque ha
sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”). Ovviamente tale frase nel suo
contesto originale ha riferimenti e significati di genere totalmente diverso.
37
modo si è ottenuto di far ricadere dal terzo pagante (SSN) al produttore (sia pubblico che privato) il
rischio della cura che supera i limiti predeterminati di impegno di risorse; ciò ha innescato in tutto il
sistema sanitario (soprattutto quello privato) l’incentivo a non prendersi cura delle realtà più gravi e
complesse o ancora a dimettere dall’ospedale prima possibile (è infatti prevista una tariffa fissa che
penalizza le degenze prolungate). Più le malattie sono gravi, meno sono remunerative e le
prestazioni che escono dal consumo medio di risorse previsto sono causa di deficit di bilancio per
l’azienda. In questa logica il produttore guadagna di più se riesce a ridurre l’impiego delle risorse e
ad evitare la prescrizione di cure costose.
Prospettiva egualitarista e comunitarista
La prospettiva egualitarista (originariamente ispirata dal pensiero
socialista di Marx e Engels) si connota oggi in senso eminentemente liberale 38 e raccoglie diverse
correnti di pensiero. Ricordiamo in particolare il contrattualismo centrato sull’individuazione di
principi primi di giustizia da condividere con una netta distinzione fra piano morale e piano politico
(Rawls, 1971) o ancora l’approccio regolato dal diritto ad essere trattati da eguali quale fondamento
dei diritti di libertà e di ogni tesi liberale (Dworkin, 1982). In Bioetica, in particolare,
l’egualitarismo contrattualista è particolarmente evidente nel contributo di R. Veatch (1986) e N.
Daniels (1985). Esponenti più propri del Comunitarismo sono M. Sandel39, A. MacIntyre40, M.
Walzer41, D. Callahan42.
La teoria egualitarista assume come valore prioritario il principio di
uguaglianza morale dei soggetti secondo il quale non vi è alcuna differenza pertinente fra persone
che possa giustificare un trattamento diseguale; crede alla necessità di compensare le difficoltà della
vita per le quali non siamo responsabili, rifiuta il consequenzialismo utilitarista e riconosce che le
esigenze sociali superano la libertà individuale. Secondo questo approccio la giustizia distributiva
trova la sua massima espressione nel “dare ad ogni individuo in modo uguale” o meglio nel
riconoscere che ogni individuo deve ricevere quote esattamente eguali di benefici e oneri della
società. Le critiche all’egualitarismo sottolineano che questo approccio ignora le naturali differenze
che distinguono gli uomini e fanno di ogni persona un individuo irripetibile; dare a tutti in modo
eguale significa ignorare i meriti e l’impegno personale con la conseguenza di diminuire
38
La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti recita: Tutti gli uomini sono stati creati uguali.
M. Sandel: Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge, 1982.
40
A. MacIntyre: Giustizia e razionalità [1988], Anabasi, Milano, 1995
41
M. Walzer: Spheres of Justice: A Defence of Pluralism and Equality, Basic Books, New York, 1983.
42
D. Callahan: Communitarian Bioethics: a piuos hope?, The responsive Community (1996):27-33.
La medicina impossibile [1998], Baldini e Castoldi, Milano, 2000.
39
verosimilmente l’efficienza e la produttività della società. Allo stesso modo appare ingiustificato
dover garantire all’uomo sano e/o ricco le stesse cose dell’uomo malato e/o povero.
L’uguaglianza si orienta così verso l’equità delle opportunità e delle
risorse quale condizione per un pieno esercizio della libertà del soggetto. Non è sufficiente quindi
massimizzare il benessere collettivo (come sottolinea l’approccio utilitarista), ma è necessario dare
attenzione a come tale benessere si distribuisce nella società. Tale prospettiva va oltre la stretta
dimensione individuale per aprirsi alla dimensione sociale. Nella forma ipotizzata da J. Rawls il
benessere della società va addirittura calibrato a partire dalla condizione dei soggetti più deboli
perché il vero progresso sociale si realizza se migliora la condizione dei più svantaggiati (il
cosiddetto principio di maximin); per questo è necessaria l’identificazione di principi di giustizia
essenziali fra i quali un posto prioritario è dato dal diritto alla salute, individuato come diritto
positivo, in quanto la salute è una componente importantissima del benessere personale. La salute è
indispensabile perché la persona possa realizzare i propri fini; a tale scopo le risorse devono essere
distribuite per consentire pari opportunità di autorealizzazione.
La prospettiva egualitarista è agli antipodi della prospettiva libertaria, in
quanto riconosce la salute come una capacità e la malattia come un bisogno a cui si deve rispondere
ripristinando la prima e curando al seconda, assegnando alle istituzioni sociali e collettive il dovere
di provvedervi. Lo Stato e la struttura pubblica sono quindi chiamati a svolgere un ruolo prevalente
nella tutela e promozione della salute perché interpreti del dovere etico di sovvenire alle necessità di
tutti, a partire dalle fasce più povere: nella sua espressione più totalizzante (maximal State) si
oppone al minimal State. Si crea così una sanità completamente gestita e garantita dallo Stato, con
spese sanitarie a carico della collettività e senza spazi per l’attività privata, che scavalca il ruolo e le
responsabilità del soggetto personale, togliendo alla famiglia ogni valore istituzionale e ogni ruolo
nell’ambito dell’assistenza e della cura. Vi è il rischio che la prospettiva sociale possa prevaricare il
valore del singolo rendendolo asservito all’esigenza collettiva. L’egualitarismo ha trovato la sua
espressione più accentuata nella teoria socialista della società che ora per motivi storici ha ceduto il
passo all’egualitarismo di area liberale.
In questa prospettiva i processi di macroallocazione si esprimono in una
sanità pubblica ampiamente diffusa sul territorio, tesa ad impedire discriminazioni nell’accesso alle
cure e in una medicina sociale attenta alla prevenzione. Nella relazione medico-paziente tende a
prevalere un’accentuazione dei principi di beneficialità e giustizia piuttosto che di autonomia.
La prospettiva comunitaria o comunitarista accentua la rilevanza
dell’appartenenza del singolo ad una determinata comunità; tale appartenenza infatti, secondo
questo approccio, è ciò che plasma i bisogni, i valori di ogni individuo e che creano legami di
solidarietà. I programmi di tutela della salute vanno così calibrati e diversificati sulle diversità
espresse dalle comunità. La distribuzione delle risorse secondo l’approccio comunitarista si basa sul
principio equitativo di interpretazione marxiana espresso da Walzer (1983): da ciascuno secondo le
sue capacità (o risorse), a ciascuno secondo i suoi bisogni socialmente riconosciuti. La comunità è
anche il luogo del riconoscimento degli obiettivi di salute dei soggetti (Callahan,1996) e
dell’esercizio della medicina al suo interno. Questa ampia sottolineatura della dimensione sociale ha
come punto di debolezza il rischio di oscurare la prospettiva del soggetto individuale, diluendo il
valore irriducibile e irripetibile della persona dentro il contenitore anonimo delle “presunte”
esigenze della collettività, che in alcuni contesti vengono determinate arbitrariamente dai gruppi che
gestiscono il potere politico.
Modelli organizzativi di tutela della salute
La protezione della salute dei cittadini rimane un obiettivo prioritario di
ogni società a democrazia avanzata; tuttavia le modalità di espressione di questa esigenza non sono
uniformi né storicamente omogenee, soprattutto non è univoca l’interazione fra la struttura pubblica
o statale e il contributo dei privati. In estrema sintesi potremmo dire che sono fondamentalmente tre
i modelli consolidati:
-
Le polizze assicurative
-
La mutualità
-
I servizi sanitari
Nella realtà dei paese sviluppati, nessun sistema opera esclusivamente sulla
base di uno solo dei modelli elencati. Pur ispirandosi prevalentemente ad uno di essi , i sistemi
appaiono articolati e spesso risultano un mix fra assistenza pubblica, fondi mutualistici e
assicurazioni private. La distribuzione fra pubblico e privato è diversa da paese e paese per ragioni
storiche, ideologiche, economiche, sociali e per un insieme di fattori che tendono ad evolvere
lentamente nel tempo.
Le assicurazioni private
Tale modello è finanziato attraverso i premi pagati da coloro che scelgono
liberamente di sottoscrivere una polizza assicurativa. I premi sono calcolati in base al rischio di
esposizione di ogni singolo individuo per cui variano sensibilmente con l’età e l’accertamento dello
stato di salute. In questa modalità la logica del mercato prevale nettamente sull’intervento pubblico.
Il finanziamento dei servizi e le modalità di erogazione sono basati essenzialmente su un regime
privatistico. Ciò vuol dire che le regole di funzionamento degli erogatori di servizi è dettata dalle
leggi del mercato e dalla logica del profitto come qualsiasi altra impresa. I cittadini vengono
considerati come consumatori dotati di potenziale economico necessario per accedere all’uso dei
servizi che vengono così acquistati come qualsiasi altra merce. Il sistema non realizza nessuna
forma di solidarietà se non quella che si verifica a posteriori (tipica dei meccanismi assicurativi) a
favore dei sinistrati e a carico degli indenni. Essendo il sistema basato sulla logica del profitto, i
servizi erogati vengono garantiti solo nel caso di congruità economica; ciò significa che tutto ciò
che è ad alto costo, ma a basso outcome tende ad essere trascurato.
Come già sottolineato, il sistema funziona attraverso la libera stipula di
una polizza assicurativa che offre copertura sanitaria proporzionale al premio pagato direttamente o
attraverso il datore di lavoro. Il premio è costruito sulla base del rischio presentato da ogni singolo
cittadino. Chi è senza lavoro o è al di sotto di una certa soglia economica e comunque non può
pagare il premio assicurativo è escluso dal sistema. In genere il cittadino paga la prestazione erogata
presso una struttura sanitaria scelta liberamente e poi viene rimborsato dall’assicurazione. È noto
che tale sistema è assunto dagli Stati Uniti (in Europa è presente in Svizzera).
Attualmente nei paesi con sistemi assicurativi privati si registra una forte
crescita della spesa complessiva (in genere non proporzionale al miglioramento delle condizioni
generali di salute) e la progressiva difficoltà di accesso ai servizi sanitari da parte della popolazione
più povera. Nonostante la rilevante quantità di risorse impiegate43, un’ampia e, purtroppo, crescente
quota di popolazione è completamente sprovvista di copertura sanitaria. Nella maggior parte dei
casi si tratta di persone impossibilitate a sostenere i costi dell’assicurazione a causa del basso
reddito prodotto, oppure perché lavoratori di piccole imprese che non sono in grado di offrire
schemi assicurativi di gruppo o ancora malati che si vedono rifiutare i contratti assicurativi perché
ritenuti non convenienti dalle compagnie. Poiché il sistema in sé non prevede strumenti solidaristici,
negli Stati Uniti, a partire dal 1964, si sono creati sistemi di ammortizzazione quali il Medicare e il
Medicaid che tentano di perequare le gravi condizioni di indigenza44. Il Medicare è un programma
di assicurazione di malattia per gli anziani (>65 anni) e gli invalidi. È articolato in due parti. La
prima parte copre le spese ospedaliere di circa 33 milioni di beneficiari ed è finanziata attraverso un
contributo a carico dei lavoratori attivi. La seconda parte copre l’assistenza medico-ambulatoriale
ed è basato su un finanziamento misto (1/4 a carico degli iscritti e il resto finanziato dalla fiscalità
Nel 2003 gli USA registravano un’incidenza della spesa sanitaria sul PIL del 15%, contro una media dell’8.6%
dell’OCSE.
44
Fra il 1932 e il 1943 negli USA ci fu un interessante dibattito sulla creazione di una assicurazione sanitaria
obbligatoria, sulla spinta del famoso “New Deal” (la nuova gestione della presidenza del democratico Roosevelt). I
medici americani contrastarono fortemente l’ipotesi del progetto governativo a favore delle assicurazioni private. Cfr.
D. Hirschfield: The Lost Reform. Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1970.
43
generale); vi sono comunque pesanti franchigie e compartecipazioni alla spesa per gli anziani. Il
Medicaid offre protezione gratuita a tutti gli indigenti per le cure mediche e i ricoveri ospedalieri. I
programmi di assistenza sono determinati dai criteri generali fissati dal governo federale e dai
singoli Stati, per cui le condizioni di utilizzo e i requisiti di ammissione al programma sono molto
diversificati. Il programma viene finanziato dal bilancio dello stato federale e dai bilanci statali. In
genere i rimborsi ai medici e agli ospedali sono circa il 50-70% di quanto previsto dal programma
Medicare;
ciò
ha
come
conseguenza
che
l’assistenza
ai
“pazienti-Medicaid”
viene
preferenzialmente evitata dalle strutture sanitarie che, se costrette, ribaltano questi costi sui premi
delle polizze private.
In genere le assicurazioni private si fanno carico delle spese sanitarie più
imprevedibili e rare (quali quelle dovute a certe patologie acute) ed evitano di coprire le più
prevedibili patologie cronico-degenerative ad elevata domanda assistenziale medico-infermieristica
(long term care) che ricadono come onere economico-sociale sulle famiglie di appartenenza. Nel
corso degli anni il governo federale ha condotto una politica di sgravi fiscali sia per i dipendenti che
per i datori di lavoro per incentivare il ricorso all’assicurazione privata. Il risultato finale si è però
tradotto in un aumento di domanda di assicurazioni che a sua volta ha interagito con il mercato dei
servizi sanitari incrementandone la spesa; si è cioè creata una impennata di domanda di servizi
sanitari più sofisticati e a costi più elevati.
I sistemi mutualistici
Il sistema (detto anche delle assicurazioni sociali o modello Bismarck) si basa
sulla creazione di fondi o casse di malattia a seconda dei settori produttivi e finanziate con
contributi di malattia. La solidarietà è garantita all’interno delle singole casse o mutue sanitarie, ma
non fra le stesse. Il sistema tende ad essere disomogeneo perché le singole mutue hanno spesso
diverse aliquote contributive, livelli di copertura, modalità di erogazione delle prestazioni. Si
prevede la compresenza di pubblico/privato e una struttura solidale all’interno delle singole mutue.
In genere il personale sanitario è libero professionista o ha un rapporto privatistico e le prestazioni
vengono finanziate attraverso premi assicurativi e in forma di erogazione privata. Tale sistema è
stato attivo in Italia dal 1907 (introdotto dal Testo Unico delle leggi sanitarie) fino al 1978 con
l’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale (legge 833/1978); attualmente è presente in Germania,
Francia, Belgio, Olanda, Austria, Ungheria, Polonia, Australia.
I Servizi Sanitari Nazionali
In questo modello lo stato si assume l’onere della tutela della salute essendo
riconosciuto a tutti i cittadini senza alcuna discriminazione il diritto a tale tutela. È un sistema
pubblico, universalista e solidarista, finanziato dalla fiscalità generale, in cui ognuno paga in
proporzione al reddito e non in proporzione ai bisogni; si basa sul principio: “paga chi può a favore
di chi ha bisogno”. Il diritto alla prestazione è indipendente dalla “capacità di solvenza”. I servizi
erogati sono gratuiti o semigratuiti (come per i sistemi mutualistici è possibile l’introduzione del
cosiddetto “ticket” sanitario) e il personale sanitario è in genere, ma non esclusivamente, dipendente
pubblico. Viene definito anche modello Beveridge (Lord W. Beveridge fu il ministro della Sanità
del Governo Churchill che ne ispirò l’istituzione nel II dopoguerra) ed è presente sia nei modelli di
stato socialista che liberal-sociali. Tale modello è stato adottato in Italia con la legge 833/1978 che
ha istituito il Sistema Sanitario Nazionale estendendo cure gratuite a tutte le categorie dei cittadini e
rappresentando quindi il primo esempio nell’Europa continentale di sistema a copertura
universalistica. Viene così sostituito il precedente sistema mutualistico che si era progressivamente
diffuso negli anni ’50, ’60 e ’70 e garantiva assistenza sanitaria gratuita solo ad alcuni gruppi di
persone, sopratutto i lavoratori dipendenti dei vari settori con contributi a carico dei datori di lavoro
e, in parte, dei lavoratori stessi. Questa legge estendeva a tutti i residenti non solo le prestazioni da
eseguirsi in ambito ospedaliero, ma anche l’assistenza farmaceutica, medico-generica e
specialistica. Attraverso la creazione dei piani socio-sanitari si era cercato anche un coordinamento
tra l’area più strettamente sanitaria e i servizi sociali perseguendo una cultura della salute che
andasse oltre la stretta realtà della malattia. Questo modello realizza pienamente l’idea di Welfare
State ed è presente in Inghilterra, Irlanda, Spagna, Portogallo, Danimarca, Svezia.
Nei paesi con maggiore incidenza dell’intervento pubblico è talora diffusa una
scarsa percezione della qualità del servizio da parte dei cittadini mentre dal lato dell’offerta delle
prestazioni si sottolinea la frequente mancanza di un sistema incentivante capace di premiare
l’efficienza e l’eccessiva burocratizzazione dell’attività.
L’intervento pubblico in sanità può essere giustificato sia da ragioni di efficienza
che da ragioni distributive. Gli obiettivi distributivi hanno lo scopo di superare il vincolo di reddito
che ostacola l’accesso alle prestazioni sanitarie per i più poveri secondo il principio universale di
tutela della salute. Gli obiettivi di efficienza nascono per superare gli errori del mercato reale. Un
sistema economico perfettamente concorrenziale, regolato cioè dalla pura interazione fra gli scambi
volontari dei beni sulla semplice base dei prezzi di mercato, è in grado di ottimizzare le risorse per
ottenere i beni e servizi necessari a soddisfare i bisogni della società. La realtà è però diversa da
quanto ipotizzato nel modello della concorrenza perfetta. Il mercato infatti presenta i suoi fallimenti
storici che offrono l’opportunità, per non dire la necessità, di interventi correttivi da parte del
sistema pubblico. Ciò è particolarmente vero nel caso del settore sanitario dove il mercato si espone
a numerosi contraddizioni:
-
In genere i mercati di concorrenza perfetta richiedono la presenza di più produttori. Nel
mondo sanitario in genere le strutture erogative nel territorio (ospedali, distretti,
ambulatori…) sono limitate ed inoltre vi sono barriere all’ingresso alle professioni per non
dire dei frequenti comportamenti monopolistici nell’offerta delle prestazioni.
-
La concorrenza perfetta esige che il bene scambiato sia omogeneo; è noto che nell’area
sanitaria le prestazioni richiedono un alto grado di personalizzazione che le rende molto
eterogenee fra loro.
-
Il mercato concorrenziale richiede che il consumatore sia perfettamente informato sulle
caratteristiche e sui prezzi del bene scambiato; in realtà nel mondo sanitario raramente i
pazienti sono in grado di valutare la qualità della prestazione ricevuta che si caratterizza per
un alto contenuto tecnico, frutto di un sapere autonomo e in genere non condiviso.
-
Nel mondo sanitario non raramente la scarsa concorrenza nasce dalla necessità delle
economie di scala per le quali, per esempio, grandi apparecchiature diagnostiche servono
ampi territori con abbassamenti significativi dei costi medi di produzione (in genere la
concorrenza si elide se all’aumentare dei volumi di produzione si abbassano i costi).
-
La concorrenza perfetta richiede l’assenza di esternalità.
-
Quei tipi di beni definiti come beni pubblici puri, che vanno cioè a beneficio di tutti, senza
distinzione, non possono essere proposti adeguatamente dai mercati privati; è il caso, per
esempio, della ricerca scientifica per la salute.
MERCATI CONCORRENZIALI
MERCATI SANITARI
Molti produttori
Strutture in numero limitato
No barriere all’entrata
Barriere all’ingresso
Omogeneità dei prodotti
Eterogeneità delle prestazioni erogate
Consumatori informati
Disinformazione del paziente (cliente)
No economie di scala
Alta incidenza di costi fissi e costi decrescenti
all’aumentare dei volumi produttivi
No esternalità
Esternalità importanti
Offerta completa
Inadeguatezza dell’offerta
Beni Pubblici: sono beni o attività la cui distribuzione adeguata non può essere
garantita dall’iniziativa privata, in quanto i benefici che ne derivano si diffondono così ampiamente
tra la popolazione che nessuna impresa ha reale vantaggio a produrli (pensiamo all’igiene pubblica,
alla difesa nazionale, alla tutela dell’ambiente, all’emergenza sanitaria, alla protezione civile, alla
ricerca di base…). In altri termini possiamo definire pubblici quei beni i cui benefici si
distribuiscono a favore dell’intera collettività, indipendentemente dal fatto che si desideri
acquistarli. Il mercato privato non è in grado di produrre una quantità adeguata di bene pubblico
perché vi è il rischio della sottoutilizzazione.
Le prestazioni sanitarie sono talora identificate con i beni pubblici; tale
identificazione è però impropria a rigor di logica: innanzitutto perché i benefici della prestazione
vanno direttamente a favore del consumatore diretto del servizio e poi perché, in linea di principio,
essi sono anche escludibili, infatti il paziente può sempre rifiutare una visita medica o un ricovero
ospedaliero. Non si tratta quindi di beni pubblici in senso stretto, ma di beni di merito, cioè di beni
che la comunità ritiene importanti perché “meritori” dal punto di vista sociale e quindi oggetto di
intervento pubblico. La salute è considerata un bene di merito e proprio in base a tale
considerazione vengono giustificati gli interventi pubblici nel settore sanitario.
Il bene pubblico, al contrario del bene privato ha la caratteristica di essere non
rivale e non escludibile. Il bene pubblico si definisce non rivale in quanto può essere consumato
congiuntamente da più individui, nel senso che il consumo da parte di uno non impedisce il
consumo di tutti gli altri; in altri termini il beneficio ottenuto da un individuo non è in competizione
con il beneficio ottenuto da qualsiasi altro individuo. Il bene pubblico si definisce non escludibile
poiché non è possibile escludere dal suo godimento coloro che non sono disposti a farsi carico
dell’onere necessario al suo mantenimento o per motivi tecnici (difesa nazionale…) o per motivi
economici (non convenienza).
Esternalità: viene indicata talora con il termine economia o diseconomia
esterna. Essa si verifica ogniqualvolta la produzione o il consumo di un bene da parte di un
individuo produce effetti esterni (positivi o negativi) su un altro individuo, senza che quest’ultimo
paghi o riceva una compensazione per tali effetti. La nostra vita è quotidianamente pervasa dalle
esternalità con effetti positivi o negativi su di noi (pensiamo a chi fuma in ambiente pubblico, a chi
ascolta musica ad alto volume, o al contrario a chi guida l’automobile in modo prudente o a chi è
attento ai consumi energetici della propria abitazione…). Il sistema dei prezzi però non è in grado di
“addebitare” o “accreditare” agli autori delle azioni i costi o i benefici che essi producono. Si tratta
quindi di un caso di “malfunzionamento del mercato”. Accade poi che in genere le esternalità
positive producono benefici in quantità insufficiente, mentre le esternalità negative produco danni
in quantità eccessiva (inquinamento). Un esempio di esternalità positiva è la ricerca farmacologica
dove il soggetto (azienda farmaceutica) che svolge tale attività sostiene i costi per la sua
realizzazione, mentre la società in generale si avvantaggia dei benefici esterni. Un esempio di
esternalità negativa è il fumo che impone costi non contabilizzati ai non fumatori (effetti del fumo
passivo, rischio di incendio, costi sanitari…); se il sistema di tutela della salute non differenzia tra
fumatori e non fumatori, quest’ultimi si trovano a doversi accollare i maggiori costi causati dal
fumo. Anche il sistema sanitario può produrre esternalità negative (pensiamo alle infezioni
ospedaliere, all’inquinamento acustico delle ambulanze, al disagio dei residenti verso i centri di
accoglienza per i tossicodipendenti…). Un mercato senza regole tende a produrre quantità eccessiva
di esternalità negative. L’intervento pubblico deve favorire le esternalità positive mentre deve
scoraggiare quelle negative.
Informazione imperfetta: un sistema di concorrenza perfetto richiede
che i soggetti economici dispongano di informazioni esaurienti sui beni acquistati e venduti.
Quando ciò non accade si parla di informazione imperfetta. Il buon funzionamento del mercato è
invalidato dalla carenza di informazioni. Il mercato delle prestazioni sanitarie è caratterizzato dalla
presenza di numerose situazioni di informazione imperfetta; la più nota è la scarsa conoscenza che
ha il cittadino della cultura medica che è molto specialistica ed autonoma, tanto da doversi affidare
quasi ciecamente alle cure del medico; quest’ultimo diventa una sorta di “agente” che regola sia
l’offerta che la domanda di servizi. Anche il medico opera spesso in una condizione di “incertezza”,
spesso affidandosi a criteri probabilistici e sempre sotto la tensione psicologica di poter giudicare
sana una persona in realtà malata. Il temuto errore diagnostico predispone il medico al pregiudizio
professionale dell’eccesso di diagnosi positive e alla pratica della medicina difensiva che ha come
conseguenza la spinta della spesa sanitaria corrente a livelli superiori di quelli teorici. Il mercato
delle prestazioni sanitarie ha dei soggetti economici che devono spesso gestire informazioni
parziali, incerte e disomogenee; in tale situazione il puro meccanismo di scambio del mercato non è
in grado di garantire un uso efficiente delle risorse. In realtà l’informazione imperfetta tipica del
settore sanitario è una informazione asimmetrica in cui le informazioni non solo possono essere
scarse, ma addirittura distribuite in modo diverso fra i diversi agenti della transazione.
L’informazione asimmetrica determina due situazioni particolarmente critiche nel mercato delle
assicurazioni: la selezione avversa e il rischio morale.
Nel settore assicurativo la selezione avversa (cioè la tendenza ad una
selezione sfavorevole verso una parte del mercato) si verifica ogniqualvolta una delle parti
contraenti possiede informazioni non note all’altra parte. Anche se l’assicuratore cerca di conoscere
i vari profili di rischio egli non riuscirà mai ad eliminare il fatto che coloro che chiedono
l’assicurazione sono in genere quelli a rischio più elevato. Ciò fa aumentare i premi assicurativi per
tutti e ha come effetto di scoraggiare alla stipula dei contratti coloro che sono a minor rischio. Da
qui emerge la tendenza dei mercati di offrire coperture assicurative incomplete.
Il rischio morale (moral hazard) si ha ogni volta che la probabilità di
verificarsi dell’evento dannoso non sono indipendenti dal comportamento del singolo individuo che
agisce in modo non indipendente dall’esistenza della copertura assicurativa. La copertura
assicurativa tende ad indurre consumi più elevati di prestazioni sanitarie allo stesso modo che la
polizza antifurto o ant-incendio stimola nell’assicurato atteggiamenti meno prudenti (tanto sono
assicurato…).
Le successive evoluzioni
I tre modelli presentati costituiscono la struttura essenziale dell’organizzazione
sanitaria nei paesi occidentali. Bisogna però sottolineare che a partire agli anni ’80, soprattutto in
conseguenza della pressione esercitata dall’esigenza di contenere la spesa sanitaria, sono stati
introdotti nei vari sistemi alcune modificazioni significative. In genere si registra che l’intervento
pubblico tende a ridursi nei paesi caratterizzati da rilevante presenza pubblica45, mentre tende ad
aumentare nelle nazioni a prevalente sistema privato46. Si sta procedendo quindi verso sistemi
sanitari in cui l’intervento pubblico è presente per il 70-80%, mentre il restante 20-30% è lasciato
alla gestione dei privati47. Il pericolo di questo mix è che si crei un rapporto perverso tra pubblico e
privato a danno del sistema pubblico. A livello europeo emerge l’orientamento di ridefinire le
caratteristiche del mercato sanitario, attraverso una diversa modulazione di tre elementi
fondamentali: la libertà di scelta, la parità di trattamento e i meccanismi di finanziamento. Quando
si parla di parziale “privatizzazione” o di “aziendalizzazione” della sanità ci si orienta verso la
logica di non intervenire in termini restrittivi sugli output (razionamento = meno prestazioni e più
contribuzione), ma sugli input (meno risorse assorbite). In altri termini si cerca di diminuire il costo
dell’offerta incrementando i livelli di produttività del sistema da una parte e riducendo gli sprechi
dall’altra. Le riforme della sanità dei paesi europei dagli anni ’90 in poi si sono basati su alcuni
principi quali:
- libertà di insediamento delle strutture sanitarie per stimolarne la competitività
- applicazione di meccanismi aziendali nella direzione delle strutture sanitarie pubbliche
In Svezia, l’incidenza del settore pubblico è passata dal 93% degli anni ’80 all’85% degli anni 2000.
Negli USA l’incidenza del settore pubblico è passata dal 42% degli anni ’80 al 44,5% degli anni 2000.
47
In Italia l’interveto dei privati in sanità si è sviluppato più precocemente e più rapidamente che nel resto d’Europa.
45
46
- possibilità di scelta da parte dei pazienti (è anche questo un incentivo alla competizione in quanto
il consumatore finale della prestazione sanitaria, attraverso la propria scelta, determina il livello di
attività erogata dalle aziende)
- finanziamento a prestazione in alternativa ai tradizionali sistemi di rimborso basati sulla spesa
storica (DRG in ambito ospedaliero…)
- separazione fra enti responsabili del finanziamento ed enti erogatori, riconoscendo alla Stato la
funzione di regolamentazione e controllo e spesso anche l’attività di finanziamento del sistema. Si
crea così un pluralismo erogativo (soggetti erogatori con diversa natura giuridica: pubblici, privati
for profit e no profit) che, nel gioco della concorrenza, sono incentivati ad assumere comportamenti
efficienti
- introduzione di contratti di tipo privato per il personale sanitario.
Tutto ciò allo scopo di ridurre i costi delle prestazioni sanitarie senza pregiudicare la quantità e la
qualità dei servizi resi. In realtà l’introduzione di logiche privatistico-aziendali in strutture
pubbliche è una sfida complessa che richiede un cambiamento culturale i cui risultati non si
possono ottenere in tempi brevi. I sistemi di garanzia della pubblica amministrazione e la burocrazia
sono poco adattabili alle logiche del mercato che richiede flessibilità e velocità nelle decisioni.
I paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico48 hanno sintetizzato nel seguente schema i principi guida per una riforma dei sistemi
sanitari:
- Separazione fra finanziamento ed erogazione degli interventi a tutela della salute, allo scopo di
assicurare ai detentori di fondi maggiore autonomia nell’utilizzo delle risorse.
- Remunerazione dei soggetti erogatori attraverso meccanismi non indipendenti dalla quantità e
dalla tipologia delle attività svolte.
- Sviluppo della contrattazione fra acquirenti e produttori di prestazioni sanitarie.
- Introduzione di elementi di mercato (pro-concorrenziali) nel settore sanitario attraverso lo
sviluppo di concorrenza amministrativa.
- Rafforzamento del ruolo del medico di medicina generale in quanto regolatore della domanda di
prestazioni
- Rafforzamento della capacità decisionale dei pazienti, in relazione con gli attori del sistema.
- Impegno crescente a garanzia della qualità nell’erogazione delle prestazioni sanitarie.
- Enfasi sulla valutazione dei risultati in termini di salute come indicatore di costo-efficacia e della
soddisfazione del paziente.
48
OECD: Health Care Reform in Light of Changing Funding, Incentives, and Production Patterns, Paris, Working
Papers, 1996.
- Integrazione, all’interno delle politiche di tutela della salute, delle priorità sociali e ambientali, e
accentuazione del ruolo della prevenzione e della promozione della salute.
- Responsabilizzazione dei decisori attraverso la definizione di obiettivi di salute, di traguardi da
raggiungere e di scadenze da rispettare.
Nei sistemi a prevalente finanziamento pubblico o nei sistemi assicurativi è
sempre più diffusa l’introduzione di parziali forme di contribuzione diretta del cittadino alla spesa
sanitaria (cost sharing) attraverso le seguenti modalità:
- Copagamanento (ticket, copayment, user fee): è una tariffa, in genere fissa e di importo limitato,
per visita medica o prestazione diagnostica specialistica, in genere non urgente.
- Pagamento iniziale (deductible): si tratta di una quota iniziale del costo del servizio utilizzato non
coperto dall’assicurazione (per esempio i primi giorni di un ricovero ospedaliero)
- Coassicurazione (coinsurance): è una percentuale del costo del servizio utilizzato che viene
lasciata a carico dell’assicurato (per esempio il tot% del costo di una prestazione diagnostica o di
una visita specialistica)
- Pagamento residuale (balance billing): è la quota del costo del servizio utilizzato che non viene
rimborsata dall’assicurazione (per esempio l’assicurazione copre le spese di una visita medica fino a
100 euro, tutto ciò che eccede questa cifra viene pagato direttamente dal paziente)
- Esclusione da copertura (coverage exclusion): è il costo del servizio interamente a carico
dell’utente.
Tali metodi trasferiscono parte della spesa direttamente al cittadino al momento del consumo,
riducendo l’impegno finanziario del sistema pubblico. Il vantaggio del “cost sharing” è che di per sé
non modifica la struttura solidaristica dei sistemi, è poco visibile dall’opinione pubblica perché
ricade solo su chi consuma in quel momento, è flessibile alla condizione dei bisogni (introduzione
delle esenzioni per patologie) e può essere modulato sul reddito (esclusione per le persone
indigenti). Il punto di debolezza sta nella scarsa incisività in termini finanziari. In realtà la
partecipazione parziale alla spesa serve più a ridurre i fenomeni di consumismo sanitario e a
disincentivare la domanda di prestazioni non necessarie. In ogni caso, a partire dagli anni ’90 si
registra nel nostro paese, analogamente agli altri paesi europei, un aumento della quota di spesa
sanitaria a carico dei privati (in percentuale al PIL dall’1.6% del 1990 al 2.1% del 2005).
Se il controllo della spesa sanitaria è oggi uno dei temi centrali delle
politiche sociali di tutti i paesi economicamente evoluti, è però necessario, secondo quanto proposto
dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE,1996), procedere sempre
più in un’ottica di sistema, favorendo l’innovazione, il controllo dei costi e la crescita dei servizi,
anche utilizzando, ove necessario, gli strumenti tipici dei meccanismi di mercato per coniugare
l’efficienza alla solidarietà e alla stabilità sociale.
Se prendiamo in considerazione quanto avvenuto in Gran Bretagna, il cui sistema
è l’esempio più noto del modello solidaristico, dobbiamo sottolineare il tentativo di separare la
fornitura dall’acquisto delle prestazioni sanitarie. Si è voluto cioè cercare di introdurre nel sistema
una sorta di “mercato interno”. Si sono differenziati i servizi ospedalieri e territoriali (a loro volta
trasformati in aziende) considerati i fornitori, dalle strutture di programmazione e amministrazione
considerati come acquirenti (District Health Autorities o DHA). In nome dell’efficienza si è voluto
creare così una vera e propria concorrenza tra i servizi che devono accaparrarsi gli acquisti da parte
dei DHA, i quali sono finanziati attraverso quote capitarie. Anche altri paesi europei come la Svezia
e l’Olanda hanno assunto tale modello che attualmente si estende anche alla medicina territoriale
tramite i Primari Care Groups.
Nel modello del free market, incarnato dal sistema attivo negli USA, si è invece
introdotto il concetto di managed care allo scopo di risolvere le contraddizioni del sistema
assicurativo privato (progressiva insostenibilità economica, frammentazione dei servizi, perdita di
efficacia). La managed care si basa su tre elementi critici: la creazione di una politica sanitaria
(health policy), la creazione di una visione di gestione del sistema (system management), e la
gestione pratica delle patologie (disease management).
La gestione pratica delle patologie si struttura attraverso le Health Maintenance
Organizations (HMO) e le Preferrred Provider Organizations (PPO).
I cittadini (in realtà sono le istituzioni lavorative o gli stessi datori di lavoro da cui
dipendono che conducono la trattativa) prepagano alle HMO una quota fissa ogni anno per un
pacchetto concordato di prestazioni (più vantaggioso rispetto alle polizze); i servizi vengono erogati
da strutture sanitarie o medici scelti dalle stesse HMO. Le PPO hanno lo scopo di individuare e
pagare, su delega dei propri assistiti, i più vantaggiosi fornitori di prestazioni sanitarie. Con tale
sistema si ottenuto un maggior finanziamento dell’assistenza primaria e un miglioramento della
prevenzione e inoltre si crea il vantaggio di una competizione virtuosa che porta a scegliere le
migliori prestazioni al più basso costo.
Nel nostro paese, l’evoluzione della spesa sanitaria totale (pubblica e privata), dal
dopo-guerra in avanti, non si discostata da quanto è accaduto nel resto dei paesi evoluti. L’incidenza
della spesa sul PIL è cresciuta nel corso degli anni passando dai valori inferiori al 4% degli ’60 per
attestarsi al 6.7% nel 2005 e al 6,5% nel 2008. Considerando i paesi con parità di reddito pro-capite
la quota di risorse destinata dal nostro paese alla sanità è sostanzialmente sovrapponibile se non
lievemente inferiore, per cui si può dire che l’Italia non spende per la salute più di quanto i
parametri internazionali registrano come congrui al suo livello di sviluppo.
SPESA SANITARIA PUBBLICA
ITALIA (% DEL PIL)
8
7
6
5
4
3
2
1
0
1980 1985 1990 1995 2000 2005 2008
Per quanto riguarda ancora l’andamento della spesa sanitaria nella realtà italiana,
possiamo sottolineare che il periodo degli anni ’60 e ’70 era ispirato dal concetto che la salute era
una variabile indipendente, mentre le risorse dedicate alla tutela della salute erano dipendenti dalla
soluzione dei bisogni; questo voleva dire che il finanziamento era cosiddetto “a piè di lista”, tutto
ciò che veniva erogato a seconda dei bisogni veniva alla fine coperto dalla spesa. In questo sistema,
cosiddetto “a bilancio” si totalizzava a consuntivo la somma dei vari costi che veniva rimborsata per
intero dallo stato. Tutto ciò avveniva in assenza di una programmazione economica con il risultato
che non solo ogni ente poteva spendere quanto voleva, ma che riceveva di più chi più spendeva. Fu
un periodo caratterizzato da un elevato tasso di crescita della spesa complessiva. L’accessibilità
pressoché universale non ha tardato a creare problemi di bilancio.
Con la Legge 833/1978 veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale che estendeva
l’assistenza a tutta la popolazione in modo universale eliminando le disparità di trattamento del
vecchio sistema mutualistico in vigore. Al di là dello spirito innovativo e dell’alto contenuto etico,
la riforma inizia presto a manifestare i propri limiti; innanzitutto la mancanza di veri meccanismi di
responsabilizzazione e definizione del ruolo dei vari attori del SNN, i quali agivano senza reale
controllo e, sopratutto, senza obbligo di rendicontare i contenuti della propria azione
amministrativa. La gestione delle Usl si appesantisce per eccesso di burocrazia e per l’opacità
attorno ai veri ruoli decisionali e ai limiti delle competenze di azione. Ciò determinò
inevitabilmente un’espansione senza controllo della spesa sanitaria. Dal 1978 al 2008 la spesa
sanitaria è cresciuta del 138,3%, il doppio rispetto all’incremento del PIL49.
49
42° Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese.
Nonostante la necessità di realizzare gli obiettivi sanciti dalla legge 833, all’inizio
degli anni ’80 si inizia a registrare un rallentamento della spesa pubblica. Probabilmente ciò è
dovuto anche all’introduzione di provvedimenti legislativi che rendono più articolato l’iter
burocratico da seguire prima dell’effettivo sostenimento di un costo, rendendo più complesse le
procedure di spesa, assieme alla progressiva riduzione dell’attività ospedaliera e al blocco degli
organici.
Nel 1975, con la Legge 386/1974 che assegna alle regioni la competenza in materia
ospedaliera, si inizia il contenimento dell’attività ospedaliera che produce un progressiva riduzione
del numero dei posti letto50, delle giornate di degenza e della domanda di ricovero. Parallelamente
cresce l’attività privata in regime di convenzione. Sono gli anni in cui iniziano le razionalizzazioni
che portano alle chiusure di numerosi reparti o, addirittura di interi ospedali ritenuti inefficienti (è
emblematico il caso di alcune aree del Veneto quali la provincia di Treviso). Anche le patologie
vengono trattate con tempi ospedalieri sempre più brevi. La spesa del personale ha risentito
dell’effetto del blocco degli organici che, seppur attenuato dal meccanismo delle deroghe regionali,
ha rallentato la crescita del personale dipendente, favorendo le “indennità accessorie” e
l’esternalizzazione dei servizi (cucina, lavanderia, pulizia, manutenzione, turni di guardia…).
L’abolizione della figura dell’infermiere generico ha rallentato il reclutamento delle figure
infermieristiche che, essendo oggi formate da personale laureato, sono cronicamente assenti dai
ruoli professionali, creando contrazione di tale voce di spesa, ma anche severe disfunzioni operative
per la carenza di organico.
La fissazione dei tetti massimi di spesa (peraltro regolarmente sfondati) è servita più
a distribuire la spesa totale nel corso del decennio (attraverso lo spostamento in avanti di parte degli
oneri e il ripiano dei debiti) che non sulle sue dimensioni complessive. Anche gli strumenti di
controllo della spesa farmaceutica quali l’introduzione dei ticket, il prontuario terapeutico o la
determinazione dei prezzi hanno inciso non tanto sul suo contenimento, quanto sulla sua
composizione (per esempio le aziende farmaceutiche hanno sostituto i vecchi medicinali, meno
costosi, ma non sempre meno efficaci, con nuovi farmaci commercialmente più convenienti).
In questi anni, mentre si contiene la spesa pubblica, si accelera la spesa privata anche
per il fatto che cresce l’insoddisfazione dei cittadini verso il servizio pubblico, dove la qualità
tecnica delle prestazioni non si accompagna a quella cura per il “confort dell’assistenza” e la qualità
alberghiera che i pazienti sentono sempre più importante (e che costituisce viceversa il punto di
È ormai dimostrato che il numero di giorni che mediamente un cittadino trascorre in ospedale è correlato all’offerta di
posti letto, nel senso che più c’è disponibilità di posti letto più aumentano le giornate di degenza. Si tratta di una
regolarità statistica nota come Legge di Roemer, la quale afferma che un aumento dell’offerta di prestazioni ospedaliere
è in grado di originare un aumento della corrispondente domanda (a built bed is a filled bed).
50
forza delle strutture private). Si introducono inoltre le deduzioni fiscali (seppur parziali) per le spese
mediche e i premi assicurativi (per coperture non individuali); è evidente che le agevolazioni fiscali
tendono a produrre effetti redistributivi a favore del mercato privato. In sintesi potremmo affermare
che gli anni ’80 sono stati caratterizzati dalla presenza di un duplice mercato: quello pubblico con
ampio numero di prestazioni soggette a ticket e quello privato parzialmente aiutato dalle
agevolazioni fiscali.
Gli anni ’90 si caratterizzano per la comparsa di ulteriori e radicali riforme attraverso i
concetti di “aziendalizzazione” e “regionalizzazione”, mentre si manifesta una sostanziale stabilità
delle risorse impiegate nel SSN; in verità nel primo quinquennio la percentuale sul PIL passa dal
6.3% al 5.2% per riprendere al alzarsi successivamente con il noto andamento a V della spesa
pubblica. La prima fase di contenimento della spesa ha risentito di alcuni interventi quali l’aumento
dei ticket, l’introduzione di criteri di esclusione per alcune prestazioni (pensiamo alla
classificazione dei farmaci di fascia C), il fenomeno delle liste d’attesa che scoraggia il ricorso al
sistema, il rinvio implicito o esplicito al settore privato. La seconda fase caratterizzata da una
crescita della percentuale sul PIL è in gran parte dovuta all’aumento della spesa per beni e servizi
(sopratutto per il ricorso a servizi esterni o convenzioni che le aziende ulss attivano per eludere il
blocco delle assunzioni) e per l’aumento della spesa farmaceutica51.
Con il Decreto legislativo (DL) n. 502/1992 (“Riordino della disciplina in materia
sanitaria”) e il successivo DL 517/1993 (“Modificazioni al D.Lgs 502/92) si è di fatto compiuta una
riforma radicale del SSN che ha previsto le seguenti innovazioni:
-
Le ULSS e alcuni grandi ospedali sono stati trasformati in aziende, introducendo il sistema
dei budget e del reporting (creando così il sistema di gestione, con i relativi centri di costo
etc….)
-
Si è proceduto ad accreditare le strutture private mettendole in competizione con il sistema
pubblico e consentendo al cittadino di accedere ad entrambe.
-
Alle regioni viene erogato il finanziamento sulla base di una quota capitaria.
-
Le prestazioni ospedaliere vengono pagate con il sistema dei DRGs52 (Diagnosis Related
Groups system) detto anche Raggruppamenti omogenei di diagnosi (ROD) (DD.MM
51
Le principali cause di aumento della spesa farmaceutica sono:
- l’aumento dei prezzi dei farmaci
- l’aumento dei consumi
- il noto “effetto mix”, cioè lo spostamento delle prescrizioni verso i farmaci più costosi
- l’eliminazione del ticket a partire dal 1° gennaio 2001.
52
Il sistema dei DRG prevede il raggruppamento delle oltre 10.000 diagnosi della Classificazione Internazionale delle
Malattie o International Classification of Diseases (ICD) in 25 categorie diagnostiche che, a loro volta, (sulla base di
alcune variabili come la sopravenuta infezione o altre variabili tecniche di rilievo) raccolgono 492 diversi gruppi
diagnostici. Tali categorie sono considerate omogenee non solo dal punto di vista nosologico, ma anche dal punto di
vista delle risorse assorbite. Questo criterio di isorisorse e il tetto preventivo di spesa sono i due concetti realmente
15.04.1994 e 14.12.1994). Il pagamento viene certificato attraverso la scheda di dimissione
ospedaliera (SDO) (DM 28.12.1991). Le prestazioni ambulatoriali vengono pagate sulla
base di tariffe precedentemente concordate.
È evidente che ora i bisogni della salute non sono più considerati una variabile indipendente, ma la
spesa per essi è condizionata dai fondi disponibili.
Un ulteriore passaggio si è avuto con il DL 299/99 (“Razionalizzazione del
Servizio Sanitario Nazionale”) (cosiddetta riforma ter di Tomassini/Signorelli,1999) dove, tra le
altre cose53, si è introdotto il concetto di LEA (livelli essenziali di assistenza)54.
L’articolo 32 della Costituzione Italiana55 riconosce la tutela della salute come un
diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività. L’articolo 38 precisa anche che: “I
lavoratori hanno diritto che siano provveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita
in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. L’attuazione
del diritto alla tutela della salute è affidato al Servizio Sanitario Nazionale definito dalla Legge
833/1978. Il SSN viene identificato con l’insieme delle funzioni e delle attività svolte, nel rispetto
delle rispettive competenze, dei servizi sanitari regionali, dagli enti e delle istituzioni di rilievo
nazionale nonché dalla amministrazione centrale (d.lgs 229/1999). Le risorse pubbliche utilizzate
innovativi dei DRG. Tale sistema, nato negli USA, ha costretto i medici a confrontarsi con la malattia non solo dal
punto di vista della gravità clinica, ma anche sotto il profilo dei costi. Ora non c’è più interesse a prolungare le degenze,
ma semmai a contrarle e la spesa è limitata dalla programmazione. Si è creata così una maggiore attenzione alla
medicina del territorio che supplisce alla contrazione dei tempi della medicina ospedaliera. Poiché non esiste mai un
sistema perfetto, l’introduzione dei DRG ha, da una parte, creato maggior attenzione all’efficienza del sistema e alla
produttività, dall’altra ha aperto nuove contraddizioni legate alla complessità intrinseca del sistema i cui tentativi di
semplificazione si ripercuotono sempre sulla qualità delle prestazioni; ogni malattia infatti ha delle sue variabili di
severità che non è facile prevedere. Vi è inoltre il rischio di esporsi alla tentazione utilitarista, sfruttando le
contraddizioni interne del sistema, quali, per esempio, il favorire le patologie meglio retribuite a scapito di problemi
clinici più gravi, ma a più alto costo di gestione.
53
Viene definito anche il vertice strategico. Il vertice aziendale con funzioni strategiche delle aziende sanitarie
pubbliche comprende il direttore generale, che «è responsabile della gestione complessiva e nomina i responsabili delle
strutture operative dell’azienda» e il direttore sanitario ed amministrativo che, nominati dal direttore generale,
partecipano alla direzione aziendale e «assumono diretta responsabilità delle funzioni attribuite alla loro competenza e
concorrono, con la formulazione di proposte e pareri, alla formulazione delle decisioni della direzione generale» (art.2,
D.l.vo n. 229/99). Nella regione Veneto appartiene alla direzione strategica anche il direttore dei servizi sociali.
Appartiene al vertice strategico anche il collegio di direzione che ha la funzione di supportare il direttore generale «per
il governo delle attività cliniche, la programmazione e valutazione delle attività tecnico-sanitarie e di quelle ad alta
integrazione sanitaria». Inoltre «concorre alla formulazione dei programmi di formazione, delle soluzioni organizzative
per l’attuazione dell’attività libero-professionale intramuraria ed alla valutazione dei risultati conseguiti rispetto agli
obiettivi clinici». Infine il collegio di direzione contribuisce alla definizione «del programma di attività dell’azienda,
nonché per l’organizzazione e lo sviluppo dei servizi, anche in attuazione del modello dipartimentale e per
l’utilizzazione delle risorse umane» (art.17, D.l.vo n. 229/99).
54
L’introduzione dei LEA ha il vantaggio di rendere l’assistenza sanitaria più omogenea, di migliorare l’appropriatezza
e l’efficienza del sistema; emergono però ancora una volta degli aspetti ambigui come il dover far dipendere le scelte
sulla salute da criteri meramente economici e l’irrigidimento dell’analisi dei bisogni entro schemi che rischiano di
trascurare la collettività (sopratutto le fasce più deboli). L0individuazione dei LEA non può quindi essere affrontata
come una semplice risposta alla scarsità delle risorse.
55
Articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e
garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
dal SSN vengono acquisite nel rispetto del principio di solidarietà ed impiegate per garantire a tutti
quei livelli essenziali ed uniformi di assistenza che ogni regione si impegna ad erogare con le
diverse modalità possibili. Il d.lgs. 229/99 esplicita i principi che orientano la definizione dei livelli
essenziali di assistenza:
-
Principio della dignità della persona umana per la quale ogni individuo ha uguali diritti in
conseguenza della condizione di uguale dignità, non condizionata da caratteristiche
personali o ruoli sociali
-
Principio del bisogno di salute per il quale il diritto all’assistenza sanitaria viene
riconosciuto solo a tutti coloro che ritrovano in condizioni di bisogno rispetto ala salute.
-
Principio dell’equità nell’accesso all’assistenza che induce ad eliminare le disuguaglianze
nel ricorso ai servizi sanitari, ma anche ad evitare il consumo inappropriato di prestazioni
sanitarie.
-
Principio della qualità delle cure che rende disponibili
e gratuite solo le prestazioni
documentate come appropriate ai bisogni.
-
Principio di economicità nell’impiego delle risorse per il quale a parità di efficacia deve
essere scelto il processo diagnostico-terapeutico meno costoso.
I livelli comprendono le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni relativi alle seguenti aree di
offerta:
- l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro;
- l’assistenza distrettuale;
- l’assistenza ospedaliera.
Si dice inoltre che “Sono posti a carico del Servizio Sanitario Nazionale le tipologie di assistenza, i
servizi e le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio,
evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o
collettivo, a fronte delle risorse impiegate”. La sottolineatura delle evidenze scientifiche quale
criterio necessario per la erogabilità da parte del SSN introduce un criterio rigoroso e oggettivo sia
per la qualità delle cure che per il controllo della spesa.
Con il DCPM 29.11.2001 (“Definizione dei livelli di assistenza sanitaria) e il DM
12.12.2001 (“Sistema di garanzie per il monitoraggio dell’assistenza sanitaria”), si è proceduto ad
un’ulteriore definizione dei LEA. Sono totalmente escluse dai LEA le prestazioni che non
soddisfano il principio dell’efficacia e dell’appropriatezza e le prestazioni che non soddisfano il
principio dell’economicità.
Le prestazioni totalmente escluse dai LEA sono: chirurgia estetica, circoncisione
rituale maschile, medicine non convenzionali, vaccinazioni non obbligatorie, certificazioni
mediche, alcune prestazioni di medicina fisica e riabilitativa ambulatoriale.
Le prestazioni parzialmente escluse dai LEA sono: assistenza odontoiatrica,
densitometria ossea, alcune prestazioni di medicina fisica e riabilitativa ambulatoriale, chirurgia
refrattiva con laser ad eccimeri.
Tale ridefinizione ha condotto alcune realtà (per esempio la regione Lombardia) a
distinguere fra cure mediche ad alto contenuto tecnologico (ad erogazione pubblica) ed i servizi
assistenziali alla persona caratterizzati da una forte presenza della forza-lavoro e da lasciare
prevalentemente alla gestione della famiglia e del volontariato.
Con la legge 3/2002 (“Riforma del titolo V della Costituzione”) e il DL 56/2000 sul
federalismo fiscale si è aperto il grande capitolo del federalismo sanitario recentemente ribadito
dalla riforma costituzionale della penultima legislatura; si è così completato il processo di
attribuzione alla regioni delle responsabilità in materia di sanità, sia sul versante del finanziamento
che della spesa. Si tratta del passaggio dal Welfare State al concetto di Welfare Community basato
sull’integrazione delle varie autonomie e sul principio di sussidiarietà. Il processo di devoluzione
nel nostro Paese indica un trasferimento di poteri e di competenze dal centro verso i livelli periferici
dell’amministrazione pubblica. Nel caso specifico della sanità, attualmente il finanziamento è in
capo alle regioni, mentre le decisioni di spesa sono in capo alle aziende sanitarie seppur con forti
vincoli regionali.
Il nuovo rapporto che si va ad instaurare tra lo Stato e le regioni è determinato dai seguenti principi:

Devoluzione56 (concessione di poteri da parte di un governo centrale a favore di un governo
a livello regionale o locale)

Sussidiarietà verticale (distribuzione di competenze fra Stato e autonomie locali)

Sussidiarietà orizzontale (ordinamento dei rapporti fra Stato, formazioni sociali e individui).
Questo approccio consente che, nella gestione del sistema socio-sanitario, entrino in collaborazione
lo Stato, le Regioni e gli Enti Locali. Questi ultimi hanno il compito di creare i Piani di zona che
identificano i bisogni sociali e sanitari di una determinata area. Il valore più importante di un
ipotetico federalismo sanitario può essere individuato nella sottolineatura della dimensione della
comunità locale con una maggiore responsabilizzazione nella gestione delle risorse e una più
adeguata focalizzazione sui problemi specifici di ogni territorio; la multiculturalità e la pluralità dei
linguaggi può trovare in questo contesto un ascolto e un rispetto più adeguato. L’elemento più
critico può essere individuato nel rischio di creare un sistema con forti differenziazioni nella
La parola devoluzione deriva dal latino devolvere: cadere (moto dall’alto in basso), volgere in basso o (in senso
metaforico) passare un diritto da una in un’altra persona.
56
quantità e nella qualità delle prestazioni sanitarie erogate, contravvenendo al principio dell’equità e
della solidarietà.
A partire dal 2001 il SSN è finanziato attraverso quattro canali fondamentali:
- L’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) (circa 37% del finanziamento totale) e
l’addizionale regionale IRPEF (introdotte nel 1998 in sostituzione dei contributi di malattia)
(circa 3% del finanziamento totale).
- La compartecipazione regionale al gettito dell’IVA ( circa il 41% del finanziamento totale)
(regioni a statuto ordinario)
- La partecipazione delle regioni a statuto speciale (le quali provvedono al finanziamento
dell’assistenza sanitaria utilizzando risorse dei bilanci propri) (circa 6% del finanziamento totale).
- Le entrate proprie delle aziende sanitarie (ticket e altro) (3-5% del finanziamento totale).
L’attribuzione della compartecipazione all’IVA alle singole regioni avviene in base
ai dati sui consumi delle famiglie rilevate dall’ISTAT. Il vantaggio di tale metodo sta nel fatto che
le regioni possono contare su una crescita automatica delle risorse correlata al gettito dell’IVA, il
quale cresce automaticamente con la crescita del prodotto interno lordo.
Ogni anno, una volta definite le risorse disponibili a livello nazionale, il governo
centrale e le regioni stabiliscono di comune accordo e dopo lunghe ed estenuanti trattative,
l’ammontare delle risorse necessario in ciascuna regione per fronteggiare i bisogni di assistenza. La
determinazione del fabbisogno finanziario delle singole regioni è definito sulla base della quota
capitaria che viene corretta tenendo conto delle specifiche caratteristiche sanitarie e sociodemografiche della popolazione residente in ciascuna regione.
Nel 2003 la spesa sanitaria italiana si situava a livello dell’6,3 % del PIL; nel 2008
è stata del 6,5%. Analizzandone la sua composizione emerge che la caratteristica rilevante del
sistema sanitario italiano è la centralità dell’assistenza ospedaliera e, più in generale, dell’assistenza
specialistica. Il sistema punta le sue risorse soprattutto per la diagnosi e cura delle patologie
piuttosto che sui temi della prevenzione. La spesa per l’assistenza ospedaliera (pubblica e privata) è
quasi il 50% della spesa sanitaria totale; alla prevenzione è dedicato il 4% delle risorse57. Il sistema
sanitario italiano è ancora molto concentrato sull’attività dell’ospedale nonostante le politiche di
“de-istituzionalizzazione” e di “territorializzaizone” dei servizi (dimissioni precoci, spedalizzazioni
a domicilio, assistenza domiciliare integrata, day hospital…); d’altronde gli ospedali rappresentano
una forte concentrazione di interessi e potere (anche sindacale), sono fonte di “orgoglio”
nell’immaginario dei residenti evengono percepiti dai cittadini come l’unico vero presidio di tutela
della loro salute. Nel 2003 la degenza ospedaliera media era di 6.7 giorni.
Per il 2003, l’Accordo di Fiuggi (dalla località in cui è stata sottoscritta l’intesa) prevede l’assegnazione del 50%
all’assistenza distrettuale, del 45% all’assistenza ospedaliera e il restante 5% alla prevenzione.
57
La legge finanziaria del 2007 prevede i seguenti obiettivi di spesa:
Anno 2007: 96.000 mil. €
Anno 2008: 99.042 mil. €
Anno 2009: 102.245 mil. €
I disavanzi regionali si registrano attualmente in Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia.
Remunerazione dell’attività ospedaliera
I sistemi di remunerazione sono sostanzialmente quattro:
- Budget globale: ogni ospedale riceve un budget annuale fisso che deve coprire la spesa corrente e
che non varia rispetto all’attività svolta. Tale sistema ha il pregio della semplicità dal punto di vista
amministrativo, ma tende a non stimolare l’efficienza. È stato ampiamente adottato negli anni ’80
sopratutto nei paesi in cui il settore pubblico è il principale finanziatore ed erogatore di servizi
sanitari.
- Finanziamento a giornata di degenza: ogni ospedale riceve il finanziamento sulla base del calcolo
delle giornate di degenza erogate. Poiché tutto dipende dalla capacità produttiva, è evidente che è
interesse dell’ospedale prolungare le giornate di degenza e ridurre il turn-over dei pazienti. Non
vengono tenuti in considerazione i costi relativi alle diverse tipologie di trattamento ed è questo uno
stimolo a ricoverare le patologie più semplici e ad evitare le patologie che richiedono interventi
complessi e costosi. Il metodo è diffuso soprattutto nei sistemi sanitari caratterizzati da
finanziamento pubblico e produzione mista (pubblica e privata).
- Remunerazione per singolo servizio erogato:
gli ospedali vengono remunerati in base alla
quantità e alle tipologie dei servizi. Il punto di debolezza sta nella complessità amministrativa, ma
garantisce un miglior sfruttamento delle risorse e premia la produttività. Naturalmente i produttori
sono interessati ad aumentare sia la quantità che la complessità delle prestazioni erogate. Il metodo
è diffuso nei sistemi sanitari che hanno plurimi produttori e plurimi assicuratori.
- Remunerazione per caso trattato: gli ospedali vengono remunerati con tariffe predefinite, stabilite
sulla base delle diagnosi cliniche dei pazienti ricoverati (per esempio i noti DRG, introdotti in Italia
nel 1995) e dei costi medi dei singoli trattamenti. Lo scopo è quello di favorire l’adozione di
processi produttivi efficienti. Infatti vi è l’incentivazione a diminuire i servizi per caso di ricovero
(per esempio ridurre le giornate di degenza) e ad aumentare il numero di casi trattati. Negli ultimi
anni tale sistema è stato adottato dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Il più forte punto di
debolezza sta nella oggettiva difficoltà di conoscenza dei costi effettivi di produzione dei singoli
ricoveri (informazioni assolutamente necessarie per non creare tariffe distorsive); è possibile così
sotto o sovraprodurre alcuni servizi a seconda degli effetti “perversi” della domanda.
Indicatori ospedalieri
In genere gli indicatori dell’attività ospedaliera sono ricavati da tre misure-base:
-
disponibilità di posti letto
-
numero di ricoveri
-
numero di giornate di degenza
posti letto
Posti letto per 1000 abitanti = --------------------- X 1.000
popolazione
Disponibilità complessiva di posti letto rispetto alla popolazione (di norma ogni 1000 abitanti)
ricoveri
Tasso di ospedalizzazione = ------------------- X 1.000
popolazione
Frequenza di ricoveri rispetto alla popolazione (di norma ogni 1000 abitanti)
giornate di degenza
Durata media di degenza = -----------------------ricoveri
Numero medio di giorni di permanenza in ospedale di un ricoverato
giornate di degenza
Tasso di Utilizzazione dei posti letto = ----------------------- X 100
posti letto X 365
Percentuale di posti letto mediamente occupati dai ricoverati nel corso dell’anno
ricoveri
Indice di Rotazione = --------------posti letto
Numero di pazienti che, in media, ruotano nel corso dell’anno in uno stesso posto letto
Posti letto X 365 – giornate di degenza
Intervallo di turnover = ------------------------------------------------ricoveri
Giorni che intercorrono tra la dimissione di un paziente e la successiva ammissione, in uno stesso
posto letto, di un altro paziente
Il razionamento delle risorse economiche in sanità
Efficacia ed efficienza sono due paradigmi indispensabili per
valutare la qualità e l’economicità dell’organizzazione di ogni sistema sanitario.
Il concetto di efficacia si esprime nella capacità di soddisfare
l’obiettivo di una determinata azione (Efficacia = risultati conseguiti/risultati attesi). L’efficacia
clinica si basa sostanzialmente sulla corretta applicazione delle linee guida e della medicina basata
sulle evidenze. È un preciso strumento operativo del governo clinico dei processi sanitari aziendali.
Archie Cochrane58 fu il ricercatore che dette grande dignità al concetto di efficacia in sanità
collegandolo allo sviluppo dei trial clinici controllati e randomizzati e sostenendo la necessaria
gratuità dei trattamenti che si sono dimostrati efficaci.
Il concetto di efficienza correla il prodotto ottenuto con il consumo
delle risorse utilizzate (Efficienza = risultati conseguiti/risorse impiegate). Viene distinta in:
-
produttiva: si riferisce al rapporto specifico fra servizi erogati (output) e risorse impiegate
(input). Essa si concentra solo sullo spreco di risorse.
-
allocativa: si riferisce alla modalità con cui le risorse (di per sé limitate) vengono distribuite
fra le diverse necessità e alternative; risponde sostanzialmente al quesito fondamentale: che
cosa è meglio produrre?
Efficacia ed efficienza sono dimensioni necessarie, ma non ancora
sufficienti per governare l’area sanitaria perché da più parti si segnala che nelle scelte di politica
sanitaria non è scontato l’equilibrio fra l’obiettivo dell’efficienza e quello dell’equità. Non
raramente una maggiore equità distributiva va a scapito dell’efficienza e viceversa. Può accadere
che i tentativi di distribuire le risorse in parti eguali possano anche esitare in una riduzione delle
risorse stesse. Okum59 usava la metafora del secchio bucato: “Possiamo trasferire denaro dal ricco
al povero solo con un secchio che perde”.
58
59
Cochrane A: Effectiveness & Efficiency; Random Reflections on Health Services, Nuffield Press. 1972.
Okun A: Eguaglianza ed efficienza. Il grande trade-off, Napoli, Liguori, 1990.
EQUITÀ - EFFICIENZA
E
Q
U
I
T
À
EFFICIENZA
Vi è poi un’altra questione sollevata da Donabedian60, il quale
sottolinea che quando vengono incrementate le risorse in sanità, all’inizio i benefici aumentano, ma
dopo un po’ l’aumento dei benefici si stabilizza e poi diminuisce secondo la “legge del decremento
dei benefici”. A ciò si aggiunge che al crescere di investimento delle risorse aumenta anche la
quantità di danni procurati. Per ogni unità di aumento di risorse vi è sia una unità di aumento nel
volume di assistenza che una unità di aumento nella quantità di danno. Si viene così a creare un
punto nel quale un ulteriore investimento di risorse riducono i benefici (come risulta dal calcolo
della sottrazione dei danni rispetto a quest’ultimi). Donabedian introduce allora il concetto di
ottimalità come “il bilanciamento dei miglioramenti di salute contro i costi di questi
miglioramenti”. Ad un certo punto il processo di miglioramento induce benefici aggiuntivi che
tendono ad essere ottenuti con costi troppo elevati rispetto ai benefici corrispondenti. L’ottimalità è
quindi la condizione nella quale i benefici sono al massimo rendimento rispetto ai rischi, ai danni e
ai consumi.
60
Donabedian A: Explorations in Quality Assessment & Monitoring, Health Administration Press, 1980.
RELAZIONE OTTIMALE TRA RISORSE, BENEFICI E DANNI
BENEFICI
DANNI
GUADAGNI DI
SALUTE
Input ottimale di risorse
L’incremento progressivo della spesa sanitaria e la crisi della finanza pubblica hanno posto la
necessità del contenimento della spesa. Oggi la riduzione del debito pubblico si presenta come
necessaria
per i paesi aderenti all’Unione economico-monetaria secondo quanto previsto dal
trattato di Maastrict e dal Patto di Stabilità. Il razionamento, inteso come limitazione dell’impegno
del sistema pubblico nell’offerta di protezione sociale, rappresenta una strategia di diminuzione di
costi, riducendo gli output del sistema. Il razionamento è un’opzione che determina un significativo
cambiamento nell’impostazione del welfare state, poiché determina una restrizione delle garanzie
prestate ai cittadini. In questo contesto il diritto alla tutela della salute diventa relativo (perché
vincolato a compatibilità esterne), impersonale (cioè definito indipendentemente dai bisogni
percepiti dal soggetto) e limitato (non comprensivo di per sé di tutto ciò che l’innovazione
tecnologica rende disponibile). Il razionamento può esprimersi attraverso diverse modalità:
-
Dissuasione: vuole ostacolare la domanda di servizi sanitari. Un esempio noto è
rappresentato dai vari metodi di compartecipazione alla spesa (ticket, franchigie…) o le
barriere di accesso, sia fisiche (lontananza dei servizi) che sociali (complessità burocratiche
e/o amministrative per l’accesso ai servizi).
-
Dilazione: allungamento dei tempi per l’accesso ai servizi (la lista d’attesa è l’esempio più
diffuso).
-
Deviazione: l’accesso ai servizi viene regolato attraverso canali gestiti da una persona
(gatekeeper) che in genere è raprresentato dal medico di medicina generale.
-
Attenuazione: si riducono progressivamente le risorse destinate ad un certo servizio, con la
conseguente diminuzione della qualità erogata fino ad arrivarne alla potenziale estinzione.
-
Diniego: viene negato esplicitamente il servizio a determinate categorie della popolazione.
Il razionamento può essere implicito o esplicito. Il razionamento
implicito comporta l’assenza di criteri codificati e resi trasparenti, ciò può determinare margini di
arbitrarietà se non addirittura erogazione di servizi inefficienti ed iniqui. Le liste d’attesa sono un
metodo diffuso di razionamento implicito, come l’aumento della quota dei costi per l’assistenza agli
anziani nelle case di riposo o la variabilità geografica nei livelli e nelle tipologie dei consumi
sanitari.
Il razionamento esplicito si basa sul principio che l’accesso ai servizi
sanitari debba avvenire secondo criteri di eligibilità; in realtà, per il decisore, è quanto di più
complesso, perché richiede la necessità di giustificazione plausibile di fronte alla società e alla
classe politica. È noto infatti quanto sensibile sia l’opinione pubblica di fronte al controllo dei costi
della tutela della salute e quanto sia difficile prevenire l’iniquità.
I sistemi sanitari nascono con il fondamentale obiettivo di garantire
ai cittadini la possibilità di vedere alleviate le sofferenze legate alle malattie e di poter avere salvata
la vita; garanzia che è sempre stata condizionata dalla ricchezza individuale. In verità, per secoli,
nel passato, la povertà delle conoscenze scientifiche e la sostanziale inefficacia della medicina ha
impedito che la difficoltà all’accesso alle cure mediche (sostanzialmente riservato alle classi ricche
e ai nobili) potesse essere di reale svantaggio per le classi povere. Oggi la realtà è radicalmente
cambiata e il libero accesso alle cure fa la differenza fra paesi ricchi e paesi poveri e non raramente
fra le stesse classi sociali all’interno delle realtà economiche più avanzate.
È comunque universalmente riconosciuto che la fragilità del sistema
non consente di “dare tutto a tutti” in maniera indiscriminata, ma che bisogna esercitare con
oculatezza il principio della responsabilità proprio per evitare il collasso e la perdita delle conquiste
sociali finora ottenute.
Non essendo più sostenibile l’ipotesi di una indiscriminata erogazione
delle prestazioni sanitarie è evidente che nasce l’ipotesi di proporre il concetto di selezione. La
prima riflessione a questo proposito nasce dall’individuazione di chi o che cosa deve essere oggetto
di selezione. Se partissimo dall’ipotesi che oggetto della selezione sono gli individui avremmo
come logica conseguenza la creazione di un sistema in cui “il tutto viene garantito ad alcuni”. Una
selezione costruita sugli individui è per sua natura esposta alla discriminazione e all’ingiustizia.
Essendo la salute, così come la vita, un bene primario, non è possibile escludere nessuno da tale
bene se non accettando l’iniquità.
È evidente allora che oggetto della selezione non possono essere gli
individui, ma le prestazioni. Non tutte le prestazioni hanno infatti lo stesso valore e la stessa
importanza per la tutela della salute. Si introduce allora un secondo concetto accanto alla selezione:
la priorità. È possibile così individuare prestazioni essenziali ed altre non essenziali; la selezione
delle prestazioni essenziali ha l’obiettivo finale di poterle garantire a tutti. Il sistema individuato,
compatibile con la prospettiva etica e sostenibile economicamente è allora quello capace di
“garantire l’essenziale a tutti”. È necessario allora sviluppare metodologie e procedure che
consentano di gestire il razionamento in modo trasparente e condiviso sulla base del concetto di
priorità: sono i noti “livelli essenziali di assistenza” (health care basket). La complessità di questo
sistema sta nell’individuazione dei criteri che definiscano ciò che è essenziale per una prestazione.
In questa prospettiva il razionamento in materia sanitaria non diventa altro che la fissazione delle
priorità come risposta alla scarsità delle risorse. Già nel 1992, la Corte Costituzionale del nostro
paese, con la sentenza n. 356 sottolineò che ”la quantità e il livello delle prestazioni sanitarie sono
da determinarsi previa valutazione delle priorità e compatibilità e tenuto conto ovviamente delle
fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute”.
Accanto al problema di “che cosa razionare” esiste anche la questione
del “dove razionare”. Nell’ambito della struttura del sistema sanitario il razionamento può essere
effettuato a livelli e ordini diversi. Può essere effettuato dalla prospettiva della macroallocazione
che coinvolge la programmazione sanitaria nazionale e regionale, dal livello della singola azienda
sanitaria fino alla vera e propria interfacie medico-paziente. È evidente che più il razionamento si
avvicina al paziente più aumenta la complessità della gestione, l’impatto emotivo e la drammaticità
delle sfide morali.
Posta come premessa che il razionamento non può essere fatto sulle
persone, bensì sulle prestazioni, nell’ottica della prioritarizzazione, prendiamo in considerazione
alcuni approcci che oggi vengono utilizzati per programmare il razionamento a livello di macroallocazione.
-
Metodo della fissazione dei target di salute e di cure sanitarie:
Tale metodo è diventato famoso dopo la nota pubblicazione del libro bianco dell’OMS
(Health for all in the year 2000). Tale pubblicazione aveva lo scopo di individuare gli
obiettivi per conquistare una maggiore equità nell’accesso alle cure. Esso si basa sulla
valutazione dei bisogni totali di cure di una popolazione e il bisogno di cure è identificato
sulla base dell’incidenza delle malattie. Ciò che determina la sequenza delle priorità è quindi
il profilo epidemiologico di una popolazione: a numerose patologie corrispondono numerosi
trattamenti e questo indipendentemente dalle probabilità di successo. Tale metodo ha il
pregio di voler affrontare la prioritarizzazione sulla base dei bisogni reali, ma reca con sé
anche l’ambiguità di non essere in grado di analizzarne le responsabilità e soprattutto di
essere inefficacie sul piano dell’individuazione delle fonti cui derivare le risorse. Il rischio è
quindi quello di scrivere, nei fatti, solo un libro delle “buone intenzioni”, senza in realtà
elaborare strumenti concreti capaci di reale trasformazione.
-
Metodo basato sugli studi di costo delle malattie:
Tale metodo si basa sul principio di differenziare le malattie in base ai loro costi (burden of
disease). I costi tenuti in considerazione sono in genere quelli dovuti direttamente alla cura
piuttosto che i costi espressi in termini di esperienza della sofferenza o delle ricadute sociali
negative (per esempio per l’assenza dal lavoro). Sulla base di questa analisi si dà priorità alla
patologia a più alto costo (vengono tenuti in considerazione i costi totali e non i costi
marginali). Tale impostazione appare molto diffusa ed è anche il metodo suggerito dalla
Banca Mondiale ai paesi in via di sviluppo per identificare le priorità sanitarie. Essa ha il
pregio di educare ad un’allocazione delle risorse orientata a risolvere i grossi problemi e a
trascurare gli elementi non sostanziali. Il limite di tale approccio è dato dalla poca
valutazione dei benefici degli interventi di cura e dal trascurare i costi marginali costruendo
le priorità solo sulla base dei costi totali.
-
Metodo basato sulla tavola dei Qaly (quality-adjusted life-years):
Per molti anni i benefici degli interventi sanitari sono stati misurati in termini di numero di
anni di vita guadagnati. Da più parti si è però sottolineato che la durata della vita deve anche
essere valutata alla luce della qualità della stessa61, introducendo la Quality of Well-Being
61
Rosser R, Kind P: A scale of valuations of state of illness: is there a social consensus? International Journal o
Epidemioloy. 7: 347-358 (1978).
Scale62. Si è sviluppata così la misura denominata Quality Adjusted Life Year (QALY: anno
di vita corretto in funzione della qualità di vita) che tiene conto sia della qualità che della
quantità della vita. Tale misura fu proposta da G. Torrance in Canada nel 1985 e da A.
Williams (1985 e 1994) in Gran Bretagna. Il QALY viene definito come una “utilità di stato
di salute”.
Innanzitutto si individua un algoritmo che valuta il prolungamento della vita in base ad un
certa prestazione; in questa valutazione si tiene conto anche del fatto che la prestazione
erogata possa avere effetti negativi sulla qualità di vita. Si parte dal principio che un
trattamento ha in genere due effetti potenziali: può prolungare la vita e/o migliorare la
qualità della vita. I Qaly hanno il vantaggio di concentrare questi due benefici in un’unica
misura. Un anno di vita in buona salute conta per 1 Qaly; se un anno di vita viene invece
vissuto in condizioni di malattia o precarietà riceve una valutazione progressivamente
inferiore a 1 in base al grado di menomazione; la morte è uguale a 0. I Qaly diventano così
una misura del beneficio prodotto da una cura.
Viene quindi costruita una tavola dei Qaly che ordina le diverse prestazione in base al costo
per Qaly. Il criterio finale è che i programmi di intervento sanitario e i relativi servizi
vengono realizzati in ordine ascendente di costo per Qaly.
Tale metodo divenne famoso quando fu adottato dallo Stato dell’Oregon per programmare
l’allocazione delle risorse scarse, di fronte alla crisi del programma pubblico di assistenza
agli indigenti. Pur dimostrando razionalità ed efficienza non sono poche però le questioni
morali che emergono dall’applicazione di questo metodo. Innanzitutto non è scontato che i
Qaly rappresentino una misura adeguata dello stato di salute; non è così semplice infatti
riuscire a creare parametri oggettivi sul tema della qualità della vita che per definizione
appartiene alla soggettività. La sola efficienza allocativa inoltre non dà di per sé garanzie sul
piano dell’equità, ed è quello che si è visto negli esiti pratici delle scelte fatte nel 1989 dallo
Stato dell’Oregon dove, per esempio, si è ritenuto più importante dare priorità al trattamento
della carie dentale o alle cure dei disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare che non
all’appendicite acuta o alla gravidanza ectopica63; non è stata finanziata l’assistenza ai
malati terminali di AIDS (con meno del 10% di probabilità di sopravvivenza a 10 anni) e
quella agli alcolisti affetti da cirrosi epatica. I vantaggi pratici che emergono
dall’investimento per migliorare la qualità di vita di alcuni non può arrivare a negare la
62
Kaplan RM, Anderson JP: A general health policy model: Update and applications, Health Services Research, 23,
203-235, 1988.
63
D.C. Hadorn: Setting health care piorities in Oregon: Cost-effectiveness meets a rule of rescue. Journal of the
American Medical Association 265, no. 17 (1991): 2218-2225.
possibilità di vita per altri. Vi è poi da sottolineare che la metodica delle tavole dei Qaly
discende da una visione filosofica di tipo utilitarista che è quanto mai debole sul piano del
diritto e riduttiva sul piano della comprensione della persona umana.
Tale metodo ha comunque una sua utilità nell’analisi dei trattamenti alternativi a favore di
uno stesso paziente.
Nel 1996 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha incluso, in un’importante revisione sui
metodi per la determinazione delle priorità in sanità, misure che prendevano in
considerazione sia la qualità di vita che la mortalità64. Accanto al QALY è stata creata
un’altra misura: il DALY (Disability Adjusted Life Year) che analizza l’anno di vita corretto
in funzione della disabilità.
-
Metodo basato sull’urgenza:
Tale metodo è basato sul principio di dare priorità proporzionalmente al grado di severità
della condizione di salute delle persone. È prioritaria la prestazione in grado di evitare
conseguenze mortali (avoidable death). Tale approccio correla la gravità di una malattia con
la effettiva possibilità risolutiva offerta dalla tecnologia attualmente disponibile; la morte è
evitabile solo se esiste una tecnologia efficacie a ciò. Il bisogno (correlato al rischio di morte
e non quindi a criteri futili) è pesato in base alla effettiva capacità di trarre beneficio dalle
cure: tutto ciò va a determinare il criterio di razionamento. L’elemento prezioso di questo
approccio è che l’applicazione del principio dell’urgenza supera la contraddizione di erogare
servizi sulla base dei “meriti” (quali ad esempio il reddito o altre qualità soggettive) e della
massimizzazione dell’utilità aggregata.
Nell’esempio drammatico della lista d’attesa per il trapianto di un organo vitale,
l’applicazione di tale approccio orienta a praticare il trapianto alla persona che in quel
momento presenta la massima urgenza dell’organo di fronte al pericolo di vita. Con
l’approccio utilitarista della massimizzazione del bene non è l’urgenza il criterio di analisi,
ma solo le maggiori possibilità di successo in termini di Qaly. Nel caso specifico del
trapianto il criterio dell’urgenza consente di dare possibilità di vita a chi non ne ha più e di
riservare l’occasione successiva a chi può ancora attendere. L’urgenza come criterio di
prioritarizzazione consente allora di eguagliare le possibilità di vita delle persone e poiché
l’essere in vita è la condizione prima della libertà, l’applicazione di questa prospettiva
aumenta il patrimonio di libertà del sistema.
64
Murray CJL, Lopez AD: The Global Burden of Disease. VHO Geneva, 1996.
Anche questo approccio non è però scevro da contraddizioni. La più importante è che sono
possibili pericolose manipolazioni quando la sua applicazione viene condizionata dalla
combinazione con l’utilizzo di altri parametri (per esempio la fascia d’età); vi è infatti chi
sostiene che, nella pratica quotidiana, l’urgenza e il bisogno siano inversamente
proporzionali all’età; all’idea che il bisogno possa variare all’età, consegue che ad età più
giovani corrispondano necessariamente bisogni più gravi, per cui nel razionamento per età
rischiano di rimanere esclusi gli anziani o ancora una volta i soggetti deboli. Un altro
elemento critico è che si possa addirittura selezionare le patologie da trattare sulla base della
loro incidenza nelle varie età.
-
Metodo basato sul principio di pertinenza:
Tale metodo è stato proposto nel 1996 da B. New e J. Le Grand 65. Esso parte dalla
constatazione di quali siano le caratteristiche necessarie perché una prestazione sanitaria non
possa essere erogabile attraverso le normali transazioni di mercato e richieda quindi un
sistema sanitario a tutela pubblica. Essi individuano tali caratteristiche nella combinazione
di necessarietà, asimmetria informativa e incertezza: tale combinazione conferisce
all’assistenza sanitaria la condizione di un attività particolare non controllabile dai canoni
regolativi dello scambio di mercato. La combinazione dei tre elementi suddetti conferisce
allora la qualità di pertinenza alla prestazione sanitaria che deve essere erogata dal sistema
pubblico. Nell’individuazione del pacchetto delle prestazioni essenziali, con tale approccio,
si prescinde totalmente dai giudizi sia di efficacia che di efficienza; tali giudizi vengono
invece utilizzati quando si tratta di ripartire le risorse disponibili tra le prestazioni giudicate
pertinenti.
Quale prospettiva etica per una economia in sanità?
I vari approcci etici fin qui sinteticamente descritti ispirano una
varietà di sistemi sanitari che con sfumature o accentuazioni diverse permeano ampie aree
geografiche del nostro pianeta, connotando una rappresentazione del governo economico delle
risorse in sanità fatta di luci ed ombre. Ognuna di esse è in fondo espressione di una visione
antropologica e di una struttura assiologia che costituisce supporto e orientamento alle scelte.
65
B. New, J. Le Grand: Rationing in the NHS: principles and pragmatism. King’ Fund, London 1996.
Nel contesto del pluralismo culturale e della complessità morale
che caratterizza il nostro tempo non è facile individuare i criteri di adeguatezza per una prospettiva
etica dell’economia in sanità. Posto che il supporto dell’economia al governo dei processi in sanità
non può essere un’opzione bensì un atto necessario ed insostituibile, è altrettanto chiaro che
l’applicazione di strumenti analitici e di tecniche gestionali della disciplina economica alle peculiari
questioni in campo sanitario richiede inevitabilmente un orientamento etico.
Potremo dire che il governo economico della sanità e il tentativo di
controllare la spesa sanitaria si è finora focalizzato su un approccio razionale che partendo dal
vincolo delle risorse disponibili cerca di ordinare o meglio massimizzare le prestazioni sanitarie
sull’ordine della premessa del vincolo. È di fatto un intervento di razionalizzazione che agisce sui
livelli di efficienza (allocativa e tecnologica) e che ha quindi lo scopo di migliorare la produzione e
ridurre gli sprechi. Questo sforzo si è tradotto nel nostro paese in alcuni risultati eclatanti: dal 1993
al 2000 si è passati da 1200 ospedali pubblici a 797, da 364.000 posti letto a 244.000, la degenza
media è passata da 8,5 giorni a 6,5 giorni. Guardando al futuro i meccanismi di razionalizzazione e
gli strumenti correlati all’aziendalizzazione del sistema sanitario appaiono insufficienti a governare
la dimensione economica. È necessario un approccio che apra a visioni più ampie, che valuti il
sistema sanitario nella sua globalità e che sopratutto integri la prospettiva etica. Le questioni
economico-gestionali non possono essere estranee ai fini propri delle medicina che nascono da una
profonda tradizione morale che ha bisogno di essere rivisitata ed acculturata. I processi di
umanizzazione della medicina orientata alla valorizzazione della dimensione personale sono
strettamente connessi anche alla gestione delle risorse.
Tentiamo di proporre alcune dimensioni e di focalizzare alcune
indicazioni per un percorso di orientamento delle decisioni economiche in ambito sanitario con
l’intento di superare la tentazione di concepire etica ed economia come forze gravitazionali opposte
che tendono ad elidersi reciprocamente o a sopraffarsi per attirare sotto la propria influenza il
pianeta della salute. In realtà lo sforzo dell’etica è di adeguare i processi economici che attraversano
il mondo della sanità all’unico vero fine del sistema della cura che è il rispetto per la persona e la
promozione della sua dignità; emerge ancora una volta quindi la questione antropologica. L’idea
del primato della persona, adeguatamente intesa nella complessità di tutte le sue espressioni e
dimensioni, rappresenta allora il vero orientamento di ogni processo decisionale. La complessità e
la globalità del volto personale segnato dalla ricchezza ontologica e morale di dimensioni valoriali e
principi quali la vulnerabilità, la relazionalità, l’individualità, la solidarietà ontologica, la costitutiva
tridimensionalità del piano corporeo, psicologico e simbolico sul quale si compone la traiettoria
dell’esistenza umana, rappresentano la struttura assiologia del processo decisionale.
Il cambiamento dell’orizzonte culturale
Lo snodo culturale che è alla base della crisi dell’attuale modello di
Welfare non è riducibile alla sola questione della sostenibilità economica. In realtà è la conseguenza
di un sottile, ma determinante conflitto tra principio di equità e principio di libertà emergente dalla
progressiva affermazione della categoria dell’autonomia nel contesto della cultura moderna e postmoderna. Il principio di autodeterminazione ha raggiunto, seppur tardivamente, anche il mondo
della sanità che ha nel frattempo cambiato anche il modo di percepire lo stato di salute, sempre più
inteso come stato di vero benessere. A ciò si aggiunge la consapevolezza che lo stato di salute è
determinato non solo da fattori esogeni, ma dai modi stessi dell’organizzazione sociale e dagli stili
personali di vita che sono espressione di scelte individuali. Lo stato di salute non è solo derivato
dalle cure mediche, ma è funzione dell’ambiente, dei modelli di vita, dei regimi alimentari, delle
relazioni affettive ed interpersonali. In questo contesto diventa difficilmente accettabile un modello
assistenziale che, in nome della sicurezza sociale, tenda a ridurre i margini di scelta personale dei
cittadini.
Nell’ambito delle società occidentali avanzate si fa sempre più fatica ad
accettare rinunce alla propria libertà allo scopo di acquisire maggior tutela dai rischi. Nell’attuale
sistema basato sul binomio tassazione/redistribuzione sono fortemente diminuiti gli spazi di scelta
autonoma da parte degli individui e si è logorata la reale percezione della correlazione tra il
sacrificio di coloro che pagano i contributi e il reale beneficio di coloro che usufruiscono di beni
gratuiti, che talora creano l’ambigua sensazione dell’inefficienza. Una società che cerca sempre più
l’allargamento degli spazi della libertà individuale tende a collidere con il sistema della sicurezza
sociale generando inefficienza, a sua volta produttrice di crisi fiscale e di insostenibilità finanziaria.
Non è più accettabile dalla sensibilità comune una distribuzione paternalista
di beni e servizi, che prescinda cioè dalla libertà e dalle preferenze individuali. Oggi l’acquisizione
dei benefici non può prescindere dal rispetto per l’autonomia. Il tema dell’autonomia è molto più
complesso della semplice categoria di sovranità del consumatore; non si tratta solo di integrare nel
processo decisionale i valori dell’agente; l’autonomia, in quanto capacità di rendere ragione delle
proprie scelte connettendole ai propri fini, ha una dinamica complessa che implica anche il diritto a
non scegliere. Tutto ciò è fortemente in contrasto con la tradizione, tuttora viva nell’esercizio della
professione medica, che vede l’opzione della scelta un compito specifico del medico.
Un nuovo modello assistenziale deve pensare ai cittadini come agenti
responsabili in grado non solo di ricevere passivamente i servizi, ma capaci di gestire
comportamenti e stili che hanno riflesso sulla salute pubblica. Ciò significa che le strutture
assistenziali devono superare l’attuale contraddizione di voler necessariamente identificare l’ambito
del pubblico con quello dello stato. Questo non significa affidarsi ai semplici meccanismi di
autoregolazione del mercato o rinunciare al sistema delle tutele che è una delle manifestazioni più
alte del progresso democratico e civile delle società occidentali; non c’è vero sviluppo senza
solidarietà sociale. Si tratta piuttosto di individuare nuove forme di sicurezza sociale capaci di
mantenere standard di efficacia, di equità e di efficienza nell’erogazione delle prestazioni sanitarie
che siano compatibili con la nuova sensibilità culturale dei cittadini.
Il diritto alla cure
Nel comune parlare si sente spesso nominare il termine diritto
alla salute, soprattutto in riferimento alla nota definizione proposta dall’Organizzazione Mondiale
dalla Sanità66 nel 1947, nel Preambolo della sua Costituzione, nella quale si individua la salute
come una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale. Si avanza quindi la tesi di un
diritto:
-
Assoluto (non condizionato da condizioni esterne)
-
Personale (definito dalla soggettiva percezione del bisogno)
-
Illimitato (esteso a tutta la gamma dei servizi e prestazioni sanitarie)
In questo contesto il diritto alla salute è visto come l’insieme delle potenzialità e garanzie di cui un
individuo può beneficiare per realizzare non solo la tutela nello stato di malattia, ma anche la
propria dignità di persona; si apre un’orizzonte talmente ampio che supera i limiti della legislazione
degli Stati o della normativa internazionale e rischia di far coincidere illusoriamente il diritto alla
salute con il diritto al benessere totale o addirittura alla felicità. È realistica la pretesa del “pieno
benessere” e soprattutto che essa sia realizzata dagli altri e dallo Stato in particolare? La salute
appartiene di per sé alla categoria dei diritti? E più specificamente le ineguaglianze della salute
coincidono di per sé con l’iniquità? È corretto far coincidere diseguaglianza con differenza67?
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata a
Parigi il 10 Dicembre del 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite all’articolo 25 parla di
“diritto di ogni individuo alle cure mediche” affermando che:
-
Ogni individuo ha il dritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere
proprio e della famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario,
all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha il diritto alla sicurezza
“Health is a state of complete physical and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity”
(OMS, Report sur la Santé dans le Monde 1995. Réduire les écarts, Geneve, 1995.)
67
Bobbio N: Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra Edizioni, Milano, 1994.
66
in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di
perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
-
La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure e assistenza. Tutti i bambini, nati nel
matrimonio o al di fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.
Dal punto di vista delle formulazioni è interessante notare che solo nel 1965 con la “Convenzione
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” si parlerà di diritto alla salute (art. 5.
IV).
La convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei
diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano68 riguardo l’applicazione della biologia e della
medicina all’articolo 2 afferma: “L’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere
sull’esclusivo interesse della società o della scienza”.
La Costituzione Italiana all’articolo 32 sancisce: “La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce
cure agli indigenti”.
Dalle citazioni riferite si può ritenere che l’assunzione del diritto alla tutela della salute fra i diritti
umani si sostiene in base al principio di protezione sociale per il quale la cura delle persone malate è
un obbligo della società che va oltre il trading commerciale, attraverso un sistema di garanzie che
bilancia gli svantaggi e le disuguaglianze determinate dalla natura. Questa posizione viene criticata
da chi ritiene difficile definire cosa si intenda per assistenza sanitaria e da chi essa debba essere
garantita; a ciò si aggiunge la preoccupazione per la creazione di un sistema di garanzie che annulla
le responsabilità individuali per la propria salute. In questa direzione il pensiero liberale, nella sua
forma più radicale, ritiene che il diritto di tutela della salute debba esercitarsi soltanto impedendo
che qualcuno danneggi la mia salute; viene interpretato in termini negativi e non positivi nel senso
del diritto all’assistenza medica, con la conseguenza di rifiutare per principio ogni forma di
assicurazione sanitaria obbligatoria.. La contestazione a tali posizioni parte dal concetto che salute e
malattia non sono mere fatalità naturali e che la salute è un bene da tutelare e la malattia una
negatività da prevenire o eliminare, oltre al fatto che ogni diritto umano è un bene comune la cui
difesa produce un beneficio sociale che è superiore ai suoi costi e al quale tutti sono interessati. Il
diritto alla salute si sintetizza più correttamente quindi in:
68
-
Diritto all’eguale accesso alla cure sanitarie
-
Diritto ai livelli essenziali di assistenza
Tale convenzione è stata approvata ad Oviedo il 4 Aprile 1997 e ratificata dal Parlamento Italiano con la Legge
145/2001.
I valori di riferimento per la tutela dei diritti alle cure
Abbiamo precedentemente sottolineato come l’idea di persona accolta nella
complessità delle sue dimensioni e nella tutela della sua dignità rappresenti il vero filtro valutativo
che rende accettabile e ancorché necessaria la costruzione dei processi di prioritarizzazione che a
livello macroallocativo distribuiscono le risorse utilizzando le conoscenze epidemiologiche, gli
studi descrittivi e analitici, le linee guida. Un secondo elemento che appare come una sorta di
premessa è il riferimento al concetto di giustizia.
Principio di giustizia
La giustizia riguarda sempre il rapporto con l’altro e con gli altri (iustitia est
ad alterum). L’idea di giustizia ha una storia molto antica69 in termini etico-filosofici e giuridici ed
anch’essa esprime oggi una pluralità di interpretazioni e applicazioni. I temi che coinvolgono il
principio di giustizia sono in genere distinti in tre categorie:
-
giustizia distributiva: si riferisce all’equa distribuzione di oneri e benefici nella società
-
giustizia retributiva (o punitiva): si riferisce alla giusta imposizione di punizioni o pene a
chi ha compiuto azioni malvagie o dannose
-
giustizia compensativa: si riferisce al giusto modo di risarcire le persone per quello che
hanno perduto per il danno causato da altri.
Nella cultura greca il termine giustizia è indicato con díke, un vocabolo che
rimanda alla radice dik- che è alla base del verbo deíknymi, “mostrare, indicare”; ciò apre ad un’idea
di giustizia come guida, orientamento ad agire correttamente. In questa prospettiva è giusto ciò che
è moralmente integro; conseguentemente il concetto di giustizia sembra consolidarsi attorno ad un
atteggiamento attivo: facere bonum (compiere il bene come applicazione della virtù), e un
atteggiamento passivo: declinare a malo (evitare il male che configura l’ingiustizia). La prima
definizione strutturata risale ad Ulpiano, giurista romano del III secolo, che fu poi raccolta da
Giustiniano nelle sua Institutiones del VI secolo: Justitia est constans et perpetua voluntas ius suum
cuique tribuens (la giustizia è la volontà costante e perpetua di riconoscere a ognuno il suo diritto).
Anche Tommaso d’Aquino fa propria la concezione classica propria del diritto romano “justitia est
habitus secondum quem aliquis constanti et perpetua voluntate jus suum unicuiqui tribuit”70. Lo
stesso Giustiniano argomenta che: Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere,
suum cuique tribuere (i precetti del diritto sono: vivere onestamente, non arrecar danno agli altri,
dare a ciascuno il suo). È interessante sottolineare come in questa specificazione ulteriore il tema
della giustizia sia correlato alla corretta relazione con gli altri. In questo contesto vorremmo
69
70
D. Gracia: Fondamenti di Bioetica. Sviluppo storico e metodo. Milano 1993.
S. Th., II, q. 58, a. 1.
assumere il concetto di giustizia nell’accezione di adeguamento dei comportamenti all’ordine delle
relazioni umane in riferimento al rispetto dell’idea di persona.
A partire da Platone, tutti i filosofi hanno sostanzialmente affermato che il
giusto si identifica con ciò che è corretto e, in fine, con ciò che buono. In questa prospettiva la
giustizia diventa la virtù delle virtù. Dalla tradizione aristotelica deriva la classica distinzione tra
giustizia commutativa e giustizia distributiva. La definizione di giustizia commutativa si orienta al
piano della relazione fra individuo e individuo con l’applicazione della formula “non arrecare danno
all’altro” e soprattutto sottolineando la necessità di dare a ciascuno ciò che merita; la giustizia
commutativa considera l’ordine giusto fra persone private. Ha come obiettivo gli scambi (di beni o
servizi) e i contratti stipulati a tale proposito. Essa configura la giustizia come atteggiamento
interiore che descrive il profilo della virtù; correlando il tema della giustizia commutativa all’idea di
persona emerge non solo l’atteggiamento minimalista del non arrecare il male, ma, soprattutto, la
necessità di adeguare l’agire alla piena valorizzazione dello statuto umano di ciascuno di noi. In
questo ambito si colloca il grande tema del riconoscimento, il problema della giustizia penale e, per
quanto riguarda il mondo sanitario, i problemi correlati ai diritto del malato e, più ampiamente, alla
relazione medico-paziente.
La definizione di giustizia distributiva allarga l’orizzonte al rapporto fra
individuo e società e introduce alla problematica della giustizia sociale. La giustizia distributiva
considera l’ordine giusto nei rapporti tra la comunità e i suoi membri. Essa pone l’accento sui criteri
di distribuzione dei beni fra i membri della società. Proprio i criteri di distribuzione sono coloro che
determinano soluzioni diverse al problema della giustizia; essi sono fortemente condizionati dalla
differenza e dalla rilevanza dei valori di riferimento; tradizionalmente si distinguono le seguenti
formule:
-
A ogni persona in parti uguali: muove dal principio che tutti gli uomini sono uguali e che
quindi tutti hanno diritto ad usufruire delle stesse attenzioni e delle stesse cure. Il punto di
debolezza di questa posizione è il rischio di dare la stessa cosa a chi ha bisogni diversi.
-
A ogni persona secondo i suoi bisogni individuali: ha il vantaggio di personalizzare il
sistema sulle necessità concrete degli individui. Le difficoltà nascono quando si tratta di
individuare e distinguere i bisogni sanitari incomprimibili da quelli secondari e addirittura
da semplici desideri individuali. Vi è poi il problema dell’approccio universale ai bisogni di
tutto il mondo, ben sapendo quanto la copertura sanitaria sia necessariamente limitata e
quanto sia difficile individuare i criteri di equità in un “oceano” di bisogni.
-
A ogni persona secondo i suoi sforzi individuali
-
A ogni persona secondo il contributo che dà alla società
-
A ogni persona secondo il suo merito: queste tre formule scelgono di premiare l’impegno
degli individui e l’attenzione (anche pregressa) che il soggetto ha nei confronti della società.
Nel campo del lavoro, per esempio, questo principio si declina nell’affermazione: “tanto
salario quanto è il lavoro prodotto”. Ciò che è difficile stabilire è però la verità delle
premesse perché è noto che chi alla nascita ha più doti o è socialmente favorito ha più
probabilità di rapportarsi correttamente con la realtà che lo circonda; in questo contesto la
giustizia allocativa rischierebbe non di sanare la lotteria sociale e naturale, ma di aumentarne
gli effetti. Non è poi così scontato saper o poter giudicare il merito e il demerito di una
persona.
-
A ciascuno in base al maggior beneficio che ne può trarre: si tratta di un approccio
utilitarista che sappiamo quale effetto devastante può avere sulle minoranze con la sua
capacità di giustificare l’esclusione di qualcuno o qualcosa nel computo della distribuzione.
-
A ogni persona secondo le regole del libero mercato: è un approccio che dà per scontato la
spontanea capacità di allocazione delle risorse del libero scambio.
In realtà ogni interpretazione del concetto di giustizia e
conseguentemente ogni scelta nell’area delle distribuzione delle risorse in campo sanitario non è
mai eticamente neutra. L’idea di giustizia assume significati diversi a seconda del quadro
antropologico generale a cui fa riferimento. Ogni scelta, si appella ad una teoria generale, per
rendere ragione delle proprie priorità. I modelli matematici e i dati tecnici non si sostengono da soli
o in modo neutrale, hanno sempre bisogno di modelli interpretativi. Potremmo distinguere le
diverse concezioni di giustizia riferendoci al contenuto di quel jus suum che ritorna nella
concezione classica di giustizia che intende assegnare a ciascuno ciò che gli è dovuto (il suum).
Concezione personalista: in questa visione la giustizia deve
rispettare lo jus suum della persona, deve cioè alla persona ciò che è dovuto ad essa in quanto tale.
Ciò che spetta alla persona è in realtà quel suo diritto che gli altri sono obbligati a riconoscerle. Da
qui scaturisce il tema dei diritti dell’uomo (diritto alla vita, alla libertà, alla verità, al lavoro…) che
la tradizione giunsnaturalista/personalista considera fondati nella “legge naturale” e nelle più
originarie inclinazioni umane. Riferendoci specificamente all’ambito sanitario, l’approccio
personalista dichiara l’esistenza di un diritto alla tutela della salute e all’assistenza sanitaria in
quanto indispensabile per una vita degna e per una declinazione corretta della giustizia sociale.
Quest’ultima deve distribuire non secondo una criterio generalizzato di eguaglianza, bensì
proporzionalmente ai bisogni e con una contribuzione secondo la capacità di spesa.
Concezione liberale/libertaria della giustizia: tale concezione non
è interessata allo statuto obiettivo della persona, quanto piuttosto al principio di libertà da
costrizioni che è il valore di riferimento e fondante ogni tipo di scelta e che ha priorità su tutti gli
altri diritti e valori. La libertà viene intesa come la modalità che consente al singolo di non essere
costretto ad accettare ciò che altri vogliono. Poiché il diritto alla libertà precede tutti gli altri diritti
(anche quelli negativi), il diritto alla vita, che è essenzialmente un diritto negativo (il diritto a non
essere ucciso), diventa sostanzialmente privo di contenuti così come non vi è più il diritto di
ricevere da altri nessuna forma di tutela o assistenza; tutto ciò in sintonia con la conseguenza che
nella concezione libertaria non esistono in realtà diritti sociali e la giustizia si limita alla correttezza
delle procedure e non tanto al perseguimento di giusti obiettivi.
Una critica radicale a questa concezione sottolinea che la libertà ha
molte dimensioni nelle quali può essere declinata e non solo il criterio dell’assenza di coercizioni;
vi è anche la libertà dall’ignoranza, dalla fame e dalla povertà e il diritto della libertà dal vincolo
della fame precede il diritto di chi è sazio a non essere costretto a condividere il cibo che avanza.
Varianti
della
concezione
libertaria
sono
la
prospettiva
contrattualista di J. Rawls71 che riprende la tesi del contratto sociale e la prospettiva utilitarista
fondata sul noto principio di utilità. Per il contrattualismo liberale il suum non è riferito alla persona
in quanto tale, ma nasce da un evento pattizio quali un contratto o una convenzione. Rawls parte dal
presupposto che ogni persona ha uguale diritto al più ampio sistema di libertà fondamentali
compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti e che ognuno di noi può tollerare le
disuguaglianze economiche e sociali solo se collegate a posizioni aperte a tutti (eguaglianza di
opportunità) e se capaci di produrre benefici compensativi per le persone più svantaggiate. La
condizione originaria di partenza per ogni individuo e che rende accettabile questa posizione, è
caratterizzata da quel “velo di ignoranza” per il quale nessuno conosce il proprio posto nella società,
l’assegnazione casuale delle proprie doti o il suo status. Nell’utilitarismo il suum è l’utile
considerato come l’utile collettivo ossia il maggior benessere per il maggior numero che da solo
discrimina il giusto dall’ingiusto. Secondo questa concezione non esistono nuclei morali
indisponibili né regole assolute perché l’intera ampiezza del bene morale è ricondotta al principio di
utilità e cioè a ciò che è più capace di produrre benessere collettivo.
Concezione capitalista della giustizia: il principio che
guida questa concezione è che le risorse e i benefici devono essere distribuiti proporzionalmente
all’apporto che ognuno ha dato alla società. È sostanzialmente un principio di derivazione puritana
in cui ogni individuo ha l’obbligo, che deriva dalla religione, di lavorare duramente secondo la sua
vocazione ricevendo in premio da Dio la ricchezza e il successo mentre l’ozio viene punito con la
povertà e l’insuccesso. Nel mondo anglosassone l’etica puritana si è trasformata una sorta di etica
71
Rawls J: Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1997, 6° edizione.
del lavoro secolarizzata che ha valorizzato l’impegno individuale, indicandolo come la via maestra
per il successo.
Il problema principale di questo approccio all’idea di
giustizia è come misurare oggettivamente il valore del contributo di ogni individuo. Innanzitutto
bisognerebbe premiare ciò che alla fine risulta veramente utile e produttivo per evitare il rischio di
incentivare l’incompetenza o l’inefficienza. Si suggerisce come criterio che il valore del prodotto di
una persona dovrebbe essere determinato dal mercato, cioè dalla domanda e dall’offerta; ciò
significa assumere che un prodotto non ha un suo valore intrinseco, ma dipende dalla sua scarsità e
dalla sua desiderabilità da parte dei consumatori. Ancora una volta questo metodo trascura le
necessità delle persone e, poiché i mercati ignorano il valore intrinseco delle cose, accadono i
paradossi per i quali persone che svolgono attività “futili” (pensiamo allo spettacolo o a certi tipi di
sport) ricevono riconoscimenti enormemente superiori ad attività ben più meritorie per il benessere
dell’umanità (ricercatori, scienziati, medici...)
Il limite più grave però di questa concezione è il fatto che
tende a non considerare le necessità delle persone, in particolare le persone in difficoltà. Se
assumiamo il solo criterio della produttività come soddisfare le necessità delle persone svantaggiate
come i disabili, i malati o atri gruppi che non sono in grado di offrire un prodotto utile?
Concezione socialista della giustizia: il principio che
guida la distribuzione delle risorse in questo contesto non è tanto la teoria del merito quanto quella
del bisogno: ognuno dà secondo la propria capacità e riceve secondo il proprio bisogno. Secondo
questo approccio il lavoro deve essere distribuito in modo tale che un individuo possa essere il più
produttivo possibile: ciò implica distribuire il lavoro secondo le capacità. I benefici prodotti
attraverso il lavoro devono essere impiegati per produrre benessere e distribuiti secondo le
necessità. Il punto di forza di tale approccio è sicuramente l’attenzione ai più deboli, con la
difficoltà intrinseca però di definire correttamente ciò che sono i bisogni che richiedono una tutela
pubblica e ciò che sono le capacità. Inoltre in questa visione non c’è proporzionalità tra impegno
profuso e remunerazione (poiché la remunerazione dipenderebbe dalle necessità e non
dall’impegno) con la conseguenza di una probabile caduta di motivazione che porterebbe ad una
verosimile caduta parallela della produzione e ad una stagnazione dell’economia. Da alcune parti si
sostiene anche che tale modello poggia ingenuamente su una visione dell’uomo aperto
spontaneamente alla solidarietà e all’altruismo, quando, più realisticamente egli è invece,
strutturalmente competitivo ed egoista. Un’altra obiezione è espressa da coloro che segnalano il
rischio di cancellare la libertà individuale; infatti questo modello porterebbe a determinare
l’occupazione di una persona sulla base delle sue capacità e non di una libera scelta, così come i
beni ottenuti non saranno espressione di una scelta personale, ma determinati dalle necessità. Il
sacrifico della libertà sarà poi ulteriormente appesantito dal fatto che in un regime socialista i
compiti adeguati alle capacità di ciascuno e i beni da destinare alle necessità di ognuno saranno
imposti da una qualche agenzia governativa, sostituendo il paternalismo alla libertà.
Concezione
comunitaria
della
giustizia:
in
questa
concezione il valore che fonda ogni scelta allocativa è il principio del bene comune. La nozione di
giustizia ha in sé un contenuto pluralista che nasce dalle diverse concezioni di bene che la comunità
esprime nella complessità della composizione delle sue concezioni morali. Tra comunità ed
individuo esista un relazione di reciproca responsabilità, e in alcune posizioni di pensiero il termine
giustizia va coincidere con il concetto di solidarietà.
In realtà se correliamo il tema della giustizia distributiva al significato
originario della persona, l’allocazione non può limitarsi ad una stretta logica razionale, ma si ispira
a ciò che è dovuto all’individuo in quanto valore in sé, indipendentemente da come appare o dalle
modalità con cui intercetta la storia. Il rapporto tra bisogno e cura esprime una relazione
asimmetrica tra chi è vulnerabile e chi offre assistenza che va oltre una definizione di giustizia che
rende a ciascuno ciò che gli appartiene, ma che garantisce ciò che è necessario alla sua dignità. Una
società autenticamente umana ha sempre bisogno di un’eccedenza che segna la cifra della virtù
come espressione dell’amore: “L’amore sarà sempre necessario, anche nella società più giusta.
Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi
vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre
sofferenza che necessita di consolazione e aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno
anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un
concreto amore per il prossimo”72.
Nell’ambito dell’orizzonte culturale definito dall’approccio all’idea di persona
adeguatamente intesa individuiamo alcuni elementi o valori di fondo che costituiscono la struttura
essenziale per un’adeguata caratterizzazione etica delle scelte economiche in ambito sociosanitario.
Principio di socialità o del bene comune: il bene comune rappresenta il fine ultimo delle comunità
ed esprime esplicitamente il legame che esiste tra gli uomini a partire dalla loro identità di persone;
esso non deve essere considerato in maniera statica come un oggetto o una semplice somma di beni,
è piuttosto l’obiettivo dinamico dell’essere meglio, un’orizzonte a cui tendere e che arretra sempre
rispetto a chi cammina; in base a questo principio lo stato di salute individuale rappresenta anche un
bene comune per la società. All’art. 32, c.1 della Costituzione Italiana si legge: “La Repubblica
72
Benedetto XVI: Deus Caritas est, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, n.28, 2006.
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…”. Lo stato di
salute complessivo della popolazione è anche determinato dallo stato di salute individuale e dal
grado di responsabilità che ne accompagna la gestione. Promuovere la vita e la salute vuol dire
quindi considerare la stessa come bene personale e sociale insieme. Proprio il principio del bene
comune che segna l’interesse della collettività rappresenta l’elemento che consente il superamento
del conflitto fra individuo-individuo e individuo-società. Senza la prospettiva del bene comune la
società si trova inevitabilmente scissa tra una concezione individualista di matrice liberale o una
soluzione collettivista di tipo statalista, autoritaria e centralizzata. Il bene comune nasce dalla
consapevolezza della struttura fortemente sociale e dinamica della persona che individua nella
relazionalità uno dei caratteri distintivi della multidimensionalità del soggetto individuale. Lo
sviluppo e la maturazione della persona si realizza nella convocazione al dialogo e all’uso della
parola nel contesto della relazionalità. La costruzione di corretti rapporti sociali diventa così il
luogo critico della realizzazione della persona che è imprescindibile dai legami e dal principio di
reciprocità; in questo contesto promuovere i propri diritti significa collaborare attivamente a
costruire il bene comune che, realizzato nell’ottica solidaristica, viene poi ripartito tra tutti i membri
della società. Il bene comune è ben più che una semplice aggregazione di interessi o una
sommatoria dei beni individuali, ma il luogo del primato, della promozione e del rispetto di ogni
singola persona; esso è il complesso delle condizioni della vita sociale, economica, politica,
culturale che consentono a uomini e donne di sviluppare pienamente il loro essere personale. Il bene
comune è la pienezza del bene per ogni singolo uomo, si costruisce attraverso il bene di ogni
persona che, nella visione comunitaria, è un bene anche per gli altri.. Il nostro essere per e con gli
altri ci pone in un comune destino; per questo siamo impegnati a realizzarci partecipando alla
realizzazione di tutti. La socialità è intrinseca alla persona e la vita e la salute di ognuno dipende
anche dall’aiuto degli altri. Il principio di socialità può giungere fino a giustificare il dono di organi
o tessuti ed è in continuità alle grande tradizione storica delle opere assistenziali. La responsabilità
di conseguire il bene comune compete, oltre che alle singole persone, anche allo Stato poiché il
bene comune è la ragione d’essere dell’autorità politica. Nell’approccio personalista l’ordinamento
democratico rappresenta la via concreta per la realizzazione del bene comune attraverso la
partecipazione delle persone all’ordine oggettivo del potere sulla base della rappresentanza e della
delega. La comunità delle persone genera lo Stato concepito come oggettivizzazione salda e
concentrata del diritto, che tuttavia viene dopo la persona e si pone al servizio della società. In
questo contesto l’attività economica è subordinata ai bisogni e il lavoro ha preminenza sul capitale
per cui anche l’economia non può essere dominata dal primato del profitto, ma deve essere ordinata
al servizio della persona. In questo senso l’economia è vita sociale che non può mai contraddire la
qualità più ampia della società intesa come famiglia umana. Per questo non bastano gli stimoli
economici ad organizzare l’economia, è necessario un forte senso di cooperazione sociale e di
appartenenza agli altri che vada ad integrare la necessaria ed indispensabile possibilità di iniziativa.
Principio di universalità o di eguaglianza sociale: ciò che rende stabile e continuativa ogni società
democratica è la prevenzione e l’eliminazione di ogni atto discriminatorio. Una struttura sociale che
elargisca privilegi ad alcuni e consenta atti discriminatori penalizzanti verso altri finisce con il
frazionare la società erodendo il patto di solidarietà che supporta il consenso alla progettazione
sociale e alle strategie di governo. La consapevolezza della comune condizione di vulnerabilità,
della permanente esposizione agli stessi rischi, della costitutiva condizione di finitudine di ogni
esistenza umana, rappresenta il nucleo originario da cui emerge il principio di universalità. La
comune condizione di vulnerabilità genera un livello di bisogni che chiedono di essere ascoltati,
interpretati e accolti molto prima che la persona diventi un soggetto del mercato al quale porre la
questione della soluzione dei propri bisogni. Le differenze prodotte dall’economia e dal mercato
devono essere precedute da un sistema universale di intercettazione dei bisogni originari che non si
limita solo ad offrire beni e servizi ma, ed è il caso specifico della tutela della salute, è anche in
grado di aumentare e rendere trasparente il livello di informazione in modo da favorire
l’empowerment dei cittadini. Solo un sistema con approccio universalista è in grado di attenuare la
forte dipendenza dello stato di salute dalla condizione socioeconomica. Gli stessi beni, in una
visione personalista, hanno una destinazione universale tanto che il diritto della destinazione dei
beni a tutti gli uomini precede il diritto naturale della proprietà privata che trova la sua
giustificazione proprio nel servizio all’umanità73. Il diritto di proprietà diviene poi dovere di
solidarietà ogniqualvolta venga negato il principio della destinazione universale dei beni74.
Principio di equità: il tema dell’equità in sanità è una questione tuttora ancora non universalmente
condivisa e ampiamente dibattuta. È innanzitutto necessario sottolineare che solo porre il tema del
principio di equità vuol dire accettare l’idea che lo sviluppo e l’organizzazione del diritto alle cure
non debba essere lasciato alla lotteria naturale o ai soli meccanismi del mercato. Un’ulteriore
considerazione nasce alla constatazione che eguaglianza ed equità non sono la stessa cosa, anche se
Al n.22 dell’Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI viene citato il passo della Gaudium et Spes che recita “Dio
ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e all’uso di tutti i popoli, dimodoché i beni della
creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla
carità”. Dopo questa citazione il testo continua con “Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della
proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa: non devono quindi intralciare, bensì al contrario,
facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria”.
74
Al n. 23 dell’Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI si dice: “Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso
esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli atri mancano del necessario. In una parola il diritto di proprietà
privata non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune”.
73
apparentemente sembrerebbero coincidere; non tutte le disuguaglianze in termini di salute sono
infatti di per sé inique: pensiamo ad esempio alle diversità emergenti dalla struttura genetica, dal
caso o da comportamenti deliberati. È ingenuo quindi pensare che l’equità sia declinabile nei
termini di assicurazione di uguali condizioni di salute per tutta la popolazione; infatti le differenze
imputabili alla variabilità biologica, ai differenti stili di vita liberamente scelti, o a fattori
extrasanitari non possono essere responsabilità dei servizi sanitari. L’ufficio europeo dell’OMS ha
sottolineato che: “l’iniquità nel campo della salute si riferisce alle differenze che sono non soltanto
non necessarie ed evitabili, ma anche inaccettabili e ingiuste”. Le nozioni di equità nelle cure
sanitarie possono essere sostanzialmente ridotte a tre:
-
eguaglianza della salute
-
eguaglianza d’uso delle cure a parità di bisogno
-
eguaglianza di accesso alle cure
Delle tre nozioni, la terza75 è quella maggiormente rappresentata nei documenti di politica sanitaria,
anche se potremmo dire che in realtà l’OMS sembra preferire la prima.
Mentre le prime due definizioni si concentrano sull’analisi del risultato finale del processo, la terza
accezione osserva il processo nella sua globalità e non solo nella sua fase finale. Essa si traduce
nell’idea di uguali modalità di erogazione dei servizi sanitari fra le diverse aree territoriali e,
all’interno di queste, fra i diversi gruppi di popolazione; tutto ciò non necessariamente mediante
l’erogazione di uguali volumi di prestazioni, garantendo piuttosto eguali possibilità di accesso ai
servizi a fronte di specifici bisogni. Questo terzo approccio concorre all’idea che una democrazia
avanzata vuole garantire a tutti i cittadini eguali opportunità di usufruire di determinate prestazioni;
non si tratta quindi di produrre semplicemente un banale livellamento delle prestazioni, bensì di
potenziare, arricchire la capacità dei cittadini di utilizzare responsabilmente i trattamenti sanitari.
Tutto ciò concorda con il dovere sociale di produrre e mettere a disposizione di tutti beni e servizi
“reali” che consentano all’umanità intera di raggiungere il suo fine dentro le logiche della
solidarietà universale e della ricerca del bene comune.
Principio di sussidiarietà: il termine sussidiarietà deriva da latino subsidium che, nella terminologia
militare romana, definiva le truppe di riserva che rimanevano dietro al fronte di guerra in attesa di
essere chiamate in aiuto, ove necessario, dei soldati in prima linea. Si intuisce che, traslato sul piano
sociale, tale concetto indica una strategia per la quale, in nome del valore persona, una pluralità di
Il concetto di eguaglianza nell’accesso alle cure è stato reso esplicito anche nella cosiddetta Bioethics Convention del
Consiglio Europeo: “Explanatory report to the convention for the protection of human rights and dignity of the human
being with regard to the application of biology and medicine: Convention on human rights and biomedicine”1997.
Council of Europe, Strasburgo.
75
soggetti (pubblici e privati, ma auspicabilmente sotto il controllo dei primi) concorrono a
promuovere e sostenere la tutela del diritto alla salute dei cittadini, soprattutto lì dove è maggiore il
bisogno e il soggetto non riesce a farvi fronte singolarmente. La sussidiarietà è un modo per
valorizzare la partecipazione responsabile dei cittadini all’organizzazione della società attraverso
l’aiuto dei corpi intermedi. Il principio di sussidiarietà tutela l’autonomia del singolo e nello stesso
tempo garantisce il sostegno in caso di bisogno; esso implica una duplice esigenza: quella di
rispettare e incoraggiare l’iniziativa privata e dei gruppi sociali che operano nell’ambito della legge
degli scopi sociali del servizio e quella di sostenere il singolo cittadino che non può sopperire da
solo alle necessità e ai bisogni di salute. I primi riferimenti a questo principio si ritrovano già nel
pensiero aristotelico e successivamente ripresi da Tommaso d’Aquino nel suo riferimento al bene
comune come luogo di sviluppo della persona in un contesto comunitario e solidaristico. Da tale
visione nasce la centralità del soggetto umano che però, in forza della propria condizione di limite, è
bisognoso di subsidium. Anche Malthus, nella sua concezione del contratto sociale, userà il
principio di sussidiarietà per giustificare il trasferimento di potere ai governanti, un potere limitato
alla necessità della soluzione dei bisogni. In realtà la filosofia politica europea ha preferito non
seguire questa traccia, ma consolidarsi su una concezione forte della sovranità dello stato (che ha
portato ad alcune soluzioni accentratrici e assolutiste).
Il principio di sussidiarietà ha un ruolo centrale nella Dottrina Sociale della Chiesa
ed esprime, secondo questo pensiero, la vera modalità d’essere delle istituzioni civili. Esso viene
proposto per la prima volta da Pio XI nell’Enciclica “Quadrigesimo Anno” del 15 Maggio 1931:
“…siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e
l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta
società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare”. Ne deriverebbe “un grave danno e
uno sconvolgimento del retto ordine della società” poiché “l’oggetto naturale di qualsiasi
intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium afferre) le
membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”. La Costituzione Pastorale Gaudium
et Spes del Concilio Ecumenico Vaticano II riprende questo principio nei nn. 31, 63, 65
sottolineando che la comunità ha il dovere di aiutare di più dove più grave è la necessità senza però
sostituirsi alle libere iniziative dei singoli o dei gruppi, che devono viceversa essere favorite.
Tale principio viene ripreso anche nell’Enciclica “Mater et Magistra”: “…il mondo
economico è reazione dell’iniziativa personale dei singoli cittadini, operanti individualmente o
variamente associati per il perseguimento degli interessi comuni. Però in esso…devono altresì
essere presenti i poteri pubblici allo scopo di promuovere, nei debiti modi, lo sviluppo produttivo in
funzione del progresso sociale a beneficio di tutti i cittadini. La loro azione, che ha carattere di
orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione deve ispirarsi al
principio di sussidiarietà”.
Nell’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede “Libertatis
Conscientia”, il principio di sussidiarietà viene definito, assieme al principio di solidarietà, come
intimamente legato alla stessa dignità dell’uomo. La sua applicazione immediata riguarda le
modalità di amministrazione della cosa pubblica in cui accanto alla delega devono essere garantiti
appropriati strumenti di partecipazione da parte dei cittadini per la gestione di ciò che li riguarda.
Sul piano giuridico il principio di sussidiarietà viene distinto in sussidiarietà
orizzontale (ordinamento dei rapporti fra Stato, formazioni sociali e individui) e sussidiarietà
verticale (distribuzione di competenze fra Stato e autonomie locali).
Il principio di sussidiarietà è stato riconosciuto dal trattato dell’Unione Europea di
Maastricht (7 Febbraio 1992) (Art. 3b) in cui si dichiara che esso è la direttrice fondamentale che
guida il processo di formazione dell’Unione Europea. In estrema sintesi potremmo dire che esso si
articola in tre livelli:
-
Lo Stato non deve sostituirsi ai cittadini, ma deve creare le condizioni perché la persona e le
aggregazioni sociali come la famiglia possano agire liberamente; questo perché la persona
viene prima dello stato e rappresenta principio e fine della società.
-
Lo Stato deve intervenire solo quando i singoli o i gruppi non sono in grado di operare da
soli e hanno bisogno di sostegno (subsidium) per il tempo necessario alla soluzione del
problema.
-
L’intervento sussidiario della struttura pubblica deve essere quanto più possibile vicino al
cittadino, questo anche in senso fisico; per cui l’intervento avrà un gradualità fra comune,
provincia, regione, stato centrale… consentendo maggiore efficienza e maggior
coinvolgimento personale.
La sussidiarietà mira alla costruzione di capacità individuali e collettive in un
processo di empowerment progressivo alla gestione della propria vita sociale, in cui il potere viene
distribuito sempre ai livelli più bassi possibili per favorire il manifestarsi delle capacità dei singoli e
dell’autogoverno. Viene richiesto un atteggiamento collaborativo di tutti, soprattutto l’integrazione
della componente pubblica e della componente privata che nel caso specifico della sanità sono
chiamate a concorrere alla promozione del bene salute. Pubblico e privato non devono escludersi a
vicenda, è proprio la pluralità dei soggetti in campo, pubblici e privati, a garantire il contenimento
dei costi e l’aumento della qualità. Le strutture private rappresentano un corpo intermedio
organicamente inserito nei meccanismi della sussidiarietà, a patto che sia garantita una trasparente
azione di controllo e prevenzione di una potenziale deriva verso le logiche del profitto.
Principio di responsabilità solidale: non è sufficiente creare un sistema di gestione e controllo delle
risorse che ricorra soltanto a strumenti esterni alla persona. È necessario introdurre modelli
organizzativi che prevedano il coinvolgimento personale dei cittadini nella prospettiva della
responsabilità e dell’integrazione della condizione del limite. La consapevolezza di essere inseriti in
una rete relazionale ci costringe ad una vita armonizzata alle necessità degli altri. Il giudizio sulla
qualità della salute personale non può prescindere dai reali bisogni degli altri. L’autorealizzazione è
in realtà orientata ad assumere la responsabilità per l’autorealizzazione degli altri membri della
comunità. Ciò ha come conseguenza la necessità di un uso personale prudente e corretto dei servizi
offerti, rispettoso del bene proposto e attento ad evitarne gli abusi o gli usi inappropriati. Ciò è
possibile soltanto sviluppando una cultura della partecipazione che sviluppi una presenza di
garanzia forte e matura dei cittadini dentro il sistema sanitario. Il bene salute richiede impegno
personale per la sua custodia, di fronte alla quale ogni persona deve sentirsi impegnata ad assumere
stili di vita compatibili con essa e a vivere il riappropriarsi di conoscenze e informazioni adeguate
alla propria cura. Vi è quindi un principio di responsabilità personale per i cittadini, ma lo stesso
vale anche per gli amministratori e gli operatori della complessa macchina socio-sanitaria.
Vi è infine il problema dell’integrazione nella vita personale della
condizione del limite che si esprime nel rifiuto di ogni accanimento terapeutico, di un uso
indiscriminato della tecnologia, di un ossessione della sopravvivenza ad ogni costo e
nell’accettazione del morire e della sofferenza come condizioni di alto valore simbolico;
accettazione che vuole non escludere la doverosa lotta al dolore e a tutto ciò che minaccia la dignità
della persona senza accelerare né ritardare il processo del morire.
Principio di proporzionalità delle cure o principio terapeutico o della totalità: ogni atto medico su
una parte del corpo ha come fine la salvaguardia dell’intero, cioè la vita stessa del soggetto e deve
esserci sempre una giusta proporzione fra costi e benefici dell’atto stesso. In questo contesto
l’economia sanitaria indirizza l’esercizio della medicina verso l’impiego della meno costosa tra due
alternative terapeutiche egualmente efficaci o verso la più efficace tra due alternative terapeutiche
del medesimo costo.
Principio di indisponibilità della vita: la corporeità è condizione necessaria perché la persona sia
presente nel tempo e nello spazio, costruisca le proprie relazioni, realizzi il proprio compito e i
propri valori. Solo il bene spirituale e totale della persona si colloca al di sopra del valore
fondamentale della vita fisica, e solo a motivo del bene spirituale della persona è possibile
sacrificare la vita corporea. Essendo la persona un fine in sé (nel senso di totalità di valore e non
mera parte della società) il rispetto della vita si estende per tutto il tempo della vitalità (dal
concepimento alla morte) ed è un diritto che non può essere soppresso per tutelare la vita o la salute
di altri.
Conclusioni
La razionalizzazione e i processi di razionamento diventano eticamente qualificanti
lì dove si concentrano a comprimere gli sprechi, l’inadeguatezza degli atti medici, sanitari e
organizzativi. Anche il semplice razionamento assume un valore etico positivo se attraverso il filtro
personalista si evita l’efficientismo di marca utilitarista o la deriva ingiustificatamente
economicista. L’analisi del rapporto costi/benefici è eticamente corretta se si basa su un identico
riferimento valoriale; non si può infatti mettere a confronto il costo di una terapia e il valore di una
persona; è lecito infatti mettere a confronto due farmaci o procedure per curare una stessa patologia
e, nell’ipotesi che l’outcome sia sovrapponibile, correttamente scegliere per il trattamento meno
oneroso. L’allocazione delle risorse in sanità è un processo complesso che deve vedere impegnata
l’intera comunità civile in un percorso trasparente e condiviso, fondato culturalmente ed eticamente
sull’idea di salute come bene personale e sociale nel contesto più generale dettato dal concetto di
dignità della persona.
Particolarmente delicata
sotto
il
profilo morale
è la
questione della
microallocazione perché essa coinvolge la stessa “mission” del medico e la sua relazione con il
paziente, relazione che per definizione assume l’identità etica. È evidente che a questo livello il
valore-persona è talmente pregnante ed esigente da chiedere di non poter mai essere messo a
rischio; per questo la struttura organizzativa sanitaria deve sempre prevedere di portare la soluzione
del problema a monte dell’incontro diretto medico-paziente, per non depotenziare quell’alleanza
terapeutica che costituisce la radice morale del sistema della cura. Al letto del malato il medico
deve sempre riferirsi al bene primario che ha di fronte, cioè la persona malata.
In questa visione di attenzione alla persona i percorsi di prioritarizzazione
richiedono il rispetto e la gestione trasparente di alcuni criteri generali quali una attenta calibrazione
fra i bisogni del singolo e i bisogni generali, l’adeguata applicazione del criterio dell’urgenza della
prestazione e l’approfondimento culturale e pratico del principio della proporzionalità terapeutica.
Il riferimento alla dignità della persona chiede di entrare nel complesso
mondo del soggetto individuale che tende a trascendere i rigidi codici della razionalità. È questo il
grande richiamo che ci viene dalla prospettiva etica dalla cui assenza si genera violenza ed una
economia dedita all’accaparramento più che alla redistribuzione. È noto da sempre il complesso
rapporto tra violenza ed attività economica. Una ripartizione fuori dalle regole della giustizia e
affidata alla cupidigia genera un uso incontrollato delle ricchezze che porta alla destrutturazione dei
rapporti sociali. Una politica economica senza assunzione di responsabilità e non curante delle
conseguenze sociali dell’ingiustizia mina alla radice il senso della comunità e il patto di convivenza
pacifica76. Una civiltà del bene comune esige una solidarietà più forte delle leggi di mercato che
accetta la sfida di coniugare impresa economica ed etica nella convinzione che il lavoro non debba
solo essere fonte di profitto. La crisi dello stato sociale che attraversa l’Occidente non può tradursi
nella sua dissoluzione. Un’economia senza prospettiva etica si abbandona alla competitività
esasperata, alla concentrazione selvaggia della ricchezza, genera emarginazione privilegiando il
successo dell’individuo a scapito del cittadino e dei suoi diritti.
“L’economia è chiamata ad un suo proprio fine, la pura autoaffermazione di
una totalità compiuta? Oppure è chiamata ad essere solamente il luogo in cui deve farsi ascoltare
una proposta che proviene da qualcosa che sta oltre l’economia e che apre agli uomini l’accesso ad
un altro Regno?”77. L’economia non può essere un sistema chiuso in sé, ha bisogno di un
riferimento che la trascende e la connette al suo fine che è il servizio alla persona.
Albert Einstein soleva dire che “Non tutto ciò che può essere contato conta. Non tutto ciò che conta
può essere contato”. Come dire che nella vita esistono dimensioni personali che non possono essere
sottoposte alle regole della contabilità. L’essenza dell’umano si esprime in quella pre-comprensione
morale che fa dire a Gandhi: “L’uomo si distrugge con la politica senza principi, il piacere senza
coscienza, la ricchezza senza lavoro, la sapienza senza carattere, gli affari senza morale, la scienza
senza umanità, la religione senza fede, l’amore senza sacrificio. Sono queste le cose che possono
distruggerci”.
Anche l’economia, se indipendente da ogni moralità e priva di ogni
solidarietà, ci allontana da quella compassione per la vulnerabilità e fragilità umana che è la radice
culturale di ogni sistema sanitario.
Giovanni Paolo II nel suo messaggio Per la giornata della Pace dell’1/ 1 /1988 ha scritto: “I vasti movimenti geopolitici succedutisi dopo il 1989 sono stati accompagnati da vere rivoluzioni nel campo sociale ed economico. La
globalizzazione della economia e della finanza è ormai una realtà e sempre più chiaramente si vanno raccogliendo gli
effetti dei rapidi progressi legati alle tecnologie informatiche. Siamo alle soglie di una nuova era, che porta con sé
grandi speranze ed inquietanti interrogativi. Quali saranno le conseguenze dei cambiamenti in atto? Potranno “tutti”
trarre un vantaggio da un mercato globale? Avranno finalmente “tutti” la possibilità di godere della pace? Le
relazioni fra gli stati saranno più eque, oppure le competizioni economiche e le rivalità tra popoli e nazioni
condurranno l’umanità verso una situazione di instabilità ancora maggiore?”
77
Ladrière J: Sur la signification de l’économie, in CERUNA (Centre d’études et de recherches universitaires de
Namur), Technique économique et finalité humaine. Vers une démarche opératoire, Duculot, Gembloux 1972.
76
Quasi una conclusione…
“Il miglior sistema sanitario del mondo
non è quello che fornisce tutto a tutti, ma
piuttosto quello che cerca di definire le
risorse che una società realmente vuole
destinare alla assistenza sanitaria e che poi
fornisce in modo esplicitamente limitato
servizi di provata efficacia, in modo
umano e trasparente, senza chiedere cose
impossibili ai propri operatori”
Richard Smith, BMJ 1999
QUESTIONI DI
ECONOMIA SANITARIA
GIAN ANTONIO DEI TOS
ANNO ACCADEMICO 2008-2009
“A rational man acting in the real world may be defined
as one who decides where he will strike a balance between what
he desires and what can be done. It is only in imaginary worlds
that we can do whatever we wish”.
Walter Lippmann, The public Philosophy
“Non tutto ciò che può essere contato conta. Non tutto ciò che
conta può essere contato”
Albert Einstein
“L’uomo si distrugge con la politica senza principi, il piacere
senza coscienza, la ricchezza senza lavoro, la sapienza senza
carattere, gli affari senza morale, la scienza senza umanità, la
religione senza fede, l’amore senza sacrificio. Sono queste
le cose che possono distruggerci.”
Gandhi