IL FETICISMO DELLE MERCI Il feticismo delle merci è stato scoperto da Marx come fenomeno reificante della vita sociale e produttiva del capitalismo. Marx ha cercato di spiegarne le ragioni da un punto di vista economico, ma non ha saputo spiegare quelle di origine culturale. La domanda a cui ancora oggi bisogna trovare una risposta è infatti la seguente: per quale motivo, ad un certo punto dell'evoluzione storica dell'Europa occidentale, le merci hanno cominciato ad acquisire un carattere feticistico? quali sono state le ragioni culturali che hanno favorito questo processo sociale, che influenza tanta parte del comportamento umano e persino della psicologia degli individui? A questa domanda il socialismo potrà trovare una risposta davvero adeguata soltanto quando s'immergerà nello studio del fenomeno religioso. Infatti le origini culturali del capitalismo, esattamente come quelle della filosofia borghese (da Cartesio a Hegel), vanno ricercate nella religione. Con Gramsci il socialismo ha appena iniziato il grande lavoro di lettura sovrastrutturale della formazione capitalistica. In particolare occorre andare oltre l'interpretazione meramente "politica" del fenomeno religioso e accingersi ad affrontare quella più propriamente culturale (che riguarda scienze come l'antropologia, l'ontologia, la psicologia sociale ecc.). P.es. sarebbe interessante dimostrare come il feticismo delle merci tragga in ultima istanza la propria origine da quella concezione trinitaria che a partire da Agostino è venuta affermandosi in Europa occidentale, quella secondo cui l'identità delle persone dipende dalla funzione che ricoprono. Il concetto di "persona" in Occidente è stato ad un certo punto subordinato a quello di "ruolo". L'unità della natura divina -dicevano i padri occidentali della chiesa- non è che l'organizzazione dei rispettivi ruoli, quindi sostanzialmente un consesso di tipo politico-contrattuale. Naturalmente ci si potrebbe chiedere il motivo per cui il sorgere del feticismo delle merci va fatto storicamente risalire al XVI sec, cioè a quel secolo che secondo il socialismo scientifico ha visto generare la civiltà capitalistica. La risposta a questa domanda può essere trovata solo in uno studio dei rapporti tra cattolicesimo-romano e protestantesimo. Infatti il cattolicesimo-romano ha saputo porre soltanto le basi culturali del feticismo delle merci, ma la vera realizzazione pratica di questa idee, assicurata da una vasta diffusione sociale, è avvenuta ad opera del protestantesimo, il quale in un certo senso ha saputo trasferire nella vita quotidiana dei credenti quanto sotto il cattolicesimo-romano era patrimonio dei soli ceti clericali e nobiliari. *** Il socialismo scientifico ha mostrato per la prima volta quanto sia ipocrita quell'atteggiamento borghese che s'illude di considerare le merci come entità a se stanti, che si rapportano secondo una logica del tutto avulsa dal contesto sociale. Tale atteggiamento infatti torna comodo a chi non vuole scorgere nel nesso di capitale e lavoro la principale contraddizione antagonistica del capitalismo. Se esiste uno scambio equivalente delle merci - sostenevano gli economisti borghesi -, i difetti del capitalismo non sono strutturali ma solo congiunturali. Tuttavia, il feticismo delle merci non è solo "personificazione delle cose", ma anche "reificazione delle persone". Questo secondo aspetto Marx ha saputo certamente individuarlo, ma non ha saputo approfondirlo sul piano culturale. L'origine di questa illusione risiede infatti nell'ideologia cristiana (in particolare quella cattolico-romana) che attribuisce più "fede" a quel credente che la baratta con le "opere di salvezza" che gli offre la gerarchia. Il culmine di questo processo reificante lo si può riscontrare, in ambito cattolico, con la vendita delle indulgenze, che costituisce, se vogliamo, lo spartiacque tra cattolicesimo e protestantesimo. Il protestantesimo non ha fatto che trasferire sul piano economico, legittimandola sul piano sociale, una prassi che la gerarchia cattolica tollerava solo in chiave politica, come emanazione diretta del potere ecclesiastico. Il protestantesimo non ha reagito alla reificazione proponendo l'umanizzazione dei rapporti sociali, ma si è limitato a togliere a quella reificazione il suo carattere di esclusivo privilegio (appartenente appunto alla gerarchia), e che rendeva impossibile una vera equivalenza delle merci: "fede contro opere". Esso non ha fatto altro che estendere la reificazione a tutti i rapporti sociali e quotidiani dei credenti. Al punto che, a partire dal calvinismo, i moderni cristiani hanno cominciato a porsi più come "borghesi credenti" che non come "credenti borghesi" (quest'ultimi sono esistiti, in campo cattolico, dall'origine dei Comuni al XVI sec.). Il protestantesimo non si è opposto al carattere feticistico delle indulgenze, così come avrebbe dovuto opporsi (e molte eresie medievali lo fecero) al carattere feticistico di qualunque altra "opera salvifica" sponsorizzata dal cattolicesimo, ma si è opposto al fatto che di quel feticismo l'unico vero soggetto agente era la gerarchia romana. Nessuno prima di Lutero aveva impostato il problema in termini così "borghesi", e cioè che nella prassi mercificata delle indulgenze non esisteva un vero scambio degli equivalenti. Chi le acquistava non lo faceva liberamente e, per di più, non aveva la certezza di ottenere una reale contropartita. Ecco perché diciamo che il cattolicesimo-romano è stato una religione essenzialmente "politica", che ha posto le basi della formazione economica capitalistica, senza però avere in sé sufficienti energie per negarsi come tale, modernizzandosi in una religione più laica e individualistica, e nel contempo più democratica nella gestione dell'economia. *** Dopo aver chiarito la questione culturale bisogna porsi quella politica e sociale: come si supera il feticismo delle merci? Qui il socialismo scientifico ha dato una risposta che s'è rivelata fallimentare: la statalizzazione dei mezzi produttivi. L'alternativa a tale statalizzazione è la socializzazione dei mezzi produttivi. La differenza sta nel fatto che per realizzare una progressiva socializzazione (senza rischiare d'imporre alcuna statalizzazione) occorre promuovere delle comunità basate sull'autoconsumo, perché solo in questo modo i cittadini possono conoscere l'origine dei prodotti che acquistano o che usano. Chi conosce l'origine dei prodotti che usa ne conosce anche il vero prezzo e quindi il vero valore (prezzo e valore qui coincidono, seppur sempre in maniera relativa, poiché un'esatta coincidenza non è mai esistita e mai esisterà: essi infatti potrebbero coincidere perfettamente se tra produttore ed acquirente non esistesse alcuno scambio, cioè se ci fosse totale gratuità o, se si preferisce, una fondamentale preoccupazione collettiva a soddisfare anzitutto i bisogni altrui. In tal caso non esisterebbe alcuna teoria del valore). Quando nelle società fondate sull'autoconsumo esisteva solo il valore d'uso, il valore delle cose non era certo misurato in termini strettamente economici. Persino nel Medioevo, dove pur esisteva sfruttamento attraverso il servaggio, il valore d'uso era concepito in termini più sociali che economici. Una cosa aveva tanto più "valore" quanto più aiutava la comunità a sopravvivere e a riprodursi, in tutti i suoi aspetti. Dunque la quantificazione del valore d'uso va sottratta ad un calcolo di tipo economicistico. Anzi esso non andrebbe neppure quantificato. Dovrebbe infatti valere il principio secondo cui il valore d'uso di un bene ha tanto meno valore commerciale quanto più il suo valore sociale è grande (oggi solo in maniera individuale arriviamo a dire che una cosa che per noi ha un grande valore "affettivo", in sostanza non ha prezzo, anche se questo non impedisce certamente al mercato di attribuirle un valore molto diverso da quello che noi vorremmo). Il valore d'uso di una qualunque cosa (e quindi non solo di un mezzo produttivo) dovrebbe essere il valore che le viene attribuito dall'intera collettività (e quindi non solo, come oggi, da quella parte di collettività che possiede i mezzi produttivi), cioè da un determinato gruppo di persone che possiede una certa "memoria storica", una comune "sensibilità individuale e sociale", una condivisa tradizione di usi e costumi... Il vero valore delle cose è quello culturale o spirituale, quello stabilito da una collettività che si sente unita in un destino comune. Il socialismo di Giuda, che si scandalizza nel vedere Maria versare un prezioso profumo sulla testa di Gesù, non è più sufficiente per stabilire il vero valore delle cose. Il socialismo deve umanizzarsi maggiormente, per poter vedere nel valore d'uso la grandezza della libertà umana. Enrico Galavotti