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Capitolo 15. Le risorse finanziarie
1. Il problema: l’importanza delle risorse finanziarie nello Stato
contemporaneo
Nello Stato contemporaneo, che è divenuto Stato del benessere con la
progressiva assunzione di funzioni pubbliche di erogazione di beni e servizi a
tutela dei diritti sociali dei cittadini, la disponibilità di risorse finanziarie
proporzionate ai compiti assunti diviene un profilo centrale nell’organizzazione
delle pubbliche amministrazioni. Il profilo finanziario, tradizionalmente
considerato in termini strumentali (fornire risorse per l’esercizio delle funzioni),
ha acquistato una propria autonoma rilevanza. Le politiche fiscali (in entrata) e
le politiche di distribuzione delle risorse incidono direttamente, nell’economia e
sui diritti dei cittadini. Si pensi all’attribuzione di vantaggi economici (ai cittadini
o alle imprese) sotto forma di esenzione dal pagamento delle imposte o di
erogazione di denaro (sovvenzione). In periodi di perdurante crisi finanziaria
degli Stati, poi, le esigenze finanziarie diventano il centro dell’intera politica di
uno Stato: si sopprimono o si privatizzano enti e attività prima pubbliche per
risparmiare risorse o addirittura per incamerarne di nuove; il patrimonio dello
Stato e degli enti pubblici diviene una risorsa da valorizzare o addirittura da
dismettere. Le politiche finanziarie di rientro da eccessivo ricorso
all’indebitamento pubblico diventano politiche sociali che decidono quali
categorie e classi sociali devono contribuire al risanamento della finanza
pubblica. La scelta dei modi di finanziamento delle funzioni e degli enti pubblici
cui esse sono attribuite sono aspetti decisivi per la stessa organizzazione e per
l’esercizio delle funzioni.
2. Finanza e contabilità pubblica nella Costituzione
Partiamo dalle principali norme costituzionali nella materia. Prima e
fondamentale l’art. 23 Cost.: «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può
essere imposta se non in base alla legge». L’imposizione fiscale è soggetta a riserva
di legge. Le pubbliche amministrazioni possono solo applicare (con la propria
azione amministrativa) imposte previste dalla legge, non possono stabilire
nuove tassazioni con semplice atto amministrativo. Viene, poi, l’art. 53 Cost.:
«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La
Costituzione esprime qui il principio dell’equità sociale del prelievo tributario,
che impone il concorso dei cittadini alle spese in rapporto alla loro capacità
contributiva, spiegando immediatamente che questo rapporto non è
proporzionale, ma progressivo: chi ha di più deve concorrere di più.
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Sul versante della spesa la Costituzione non detta criteri specifici, ma contiene,
con riferimento allo Stato (ma è pacifico che regole analoghe si applichino agli
enti pubblici a partire da quelli territoriali), alcuni principi di fondo: a) il
principio del bilancio (art. 81 Cost.), che impone di prevedere in modo chiaro e
trasparente quali spese si intende effettuare e prevede l’obbligo di rendiconto;
b) il principio del controllo sulle spese, affidato alla Corte dei conti (art. 100
Cost.), ma che deve essere inteso anche come principio che autorizza controlli
esterni (tra enti) e impone l’attivazione di controlli interni sulla gestione; c) il
principio della giurisdizione in materia di «contabilità pubblica», anch’essa
affidata alla Corte dei conti (art. 103 Cost.). Il terzo grande asse di normativa
costituzionale è costituito dalla distribuzione tra Stato e Regioni delle
competenze legislative in materia di finanza pubblica, ma soprattutto
dall’esplicito e dettagliato riconoscimento dell’autonomia finanziaria (in
entrata e in uscita) degli enti territoriali (art. 119 Cost.), come strumento
essenziale di consolidamento effettivo delle posizioni di autonomia che la
stessa Costituzione riconosce loro (funzioni proprie, autogoverno, autonomia
normativa). Come si vede, la nostra Costituzione si occupa largamente delle
risorse finanziarie, spesso facendo riferimento a nozioni (bilancio, contabilità
pubblica, finanza pubblica), che non definisce direttamente. Di queste nozioni ci
occupiamo sotto un profilo giuridico, non economico. Rilevano, quindi, temi
quali la distribuzione del potere impositivo e fiscale, le regole per il suo
esercizio, le funzioni da esercitare e gli atti relativi; gli obblighi nella gestione
delle risorse raccolte, le procedure di spesa, i controlli sulla spesa. Spetta,
invece, all’economia pubblica (alla scienza delle finanze) valutare i
comportamenti dei soggetti economici pubblici e i loro effetti sull’economia,
dei privati e della società nel suo complesso.
3. Bilancio e contabilità pubblica
Partiamo dalle nozioni, centrali, di contabilità pubblica e di bilancio. Se la
tenuta dei conti in ordine è per ciascuno di noi un buon criterio di gestione
delle risorse a disposizione, essa diviene obbligatoria in primo luogo per
determinate categorie di imprese (le società di capitali sono tenute, per legge,
a rappresentare nel proprio bilancio consuntivo l’andamento della gestione e i
risultati economici), ma soprattutto per gli enti pubblici, dal momento che essi
operano con risorse raccolte, in gran parte, in via autoritativa, con l’imposizione
fiscale, cioè con la creazione di rapporti obbligatori, tenere i conti costituisce un
preciso obbligo giuridico. Ciascun ente pubblico deve registrare in scritture le
operazioni svolte (sia in entrata che in uscita) e deve rappresentare il
complesso di queste operazioni sia in termini previsionali che consuntivi. La
contabilità pubblica, come si è venuta configurando a partire dal R.D. n. 2440
del 1923, è per questi motivi soprattutto una contabilità finanziaria. Dalla
lettura del bilancio di un ente pubblico, e dei rendiconti che periodicamente
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esso fa sull’andamento delle entrate e delle spese, chiunque è in grado di
comprendere la capacità di spesa di quell’ente e la sua capacità di far fronte
alle proprie obbligazioni. Se la contabilità consiste nella rilevazione sistematica
dei fatti finanziari, il bilancio è la sua espressione più significativa, perché
rappresenta in modo sintetico il quadro delle entrate e delle spese che ogni
ente pubblico effettuerà nell’esercizio successivo (inteso come periodo di
tempo, obbligatoriamente annuale) o negli esercizi successivi (bilancio
pluriennale) (bilancio preventivo). Sempre in termini sintetici deve essere
formulato il quadro delle entrate e delle spese realmente effettuate
nell’esercizio precedente (conto consuntivo o rendiconto). Il bilancio e il conto
consuntivo hanno pertanto un’importante funzione conoscitiva e di
trasparenza: il cittadino è (deve essere posto) in grado di svolgere il suo ruolo
di controllo democratico sull’amministrazione perché da esso si comprenderà
dove (attraverso quali strumenti, distribuendo il carico fiscale tra categorie,
beni, classi sociali) saranno raccolte le risorse e a quali scopi e in quali quantità
saranno destinate le risorse raccolte.
Oltre a ciò, il bilancio preventivo ha anche un preciso rilievo giuridico perché è
atto di autorizzazione giuridica della spesa: senza l’approvazione di questo atto
l’ente non può procedere ad effettuare i singoli atti di spesa. Il bilancio
costituisce pertanto il più rilevante atto di indirizzo politico-amministrativo di
un ente pubblico, tanto che esso viene approvato con atto degli organi collegiali
di vertice degli enti: con atto formalmente legislativo per lo Stato e per le
Regioni, con deliberazione dei consigli per le Province e i Comuni, con
deliberazione del maggiore organo collegiale (in genere il Consiglio di
amministrazione) per gli enti pubblici. Per garantire questa funzione di indirizzo
del bilancio il sistema di contabilità pubblica è caratterizzato dalla
formalizzazione degli atti attraverso i quali si realizzano le entrate e le spese
previste dal bilancio. In altri termini gli adempimenti che consistono nelle
scritturazioni e annotazioni dei fatti gestionali, nella contabilità pubblica
avvengono mediante veri e propri atti giuridici. Il sistema si applica a tutte le
amministrazioni pubbliche come delimitate dall’art. 1, comma 2, LLP. Ne sono
quindi esclusi gli enti pubblici economici (che hanno un’organizzazione
prevalentemente privatistica e operano con strumenti di diritto privato) e, a
maggior ragione, i soggetti privati in controllo pubblico (vedi capitolo 12). Vi
sono, poi, alcuni enti pubblici espressamente esentati dalla legge: le aziende
sanitarie (art. d lgs. n. 502 del 1992) e le aziende pubbliche di servizi alla
persona (art. 14 d.lgs. n207 del 2001), che pure rientrerebbero nella
delimitazione delle “pubbliche amministrazioni” ora ricordata. Si tratta di
soggetti non privatizzati per i quali è stata adottata una speciale disciplina, che
tende ad avvicinarli, quanto a gestione delle risorse, al modello dell’impresa
privata. Analogamente alle società di capitali, per questi soggetti resta valido il
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valore conoscitivo del conto consuntivo, mentre si è ritenuto di prescindere dal
valore autorizzatorio tipico del bilancio preventivo degli enti pubblici.
4. Caratteri e contenuto del bilancio
Considerato il loro rilievo, il bilancio e il conto consuntivo devono essere
completi (la completezza è vista anche come unità, nozione che indica che
tutte le entrate vanno a finanziare tutte le spese), veritieri, tecnicamente
corretti, pubblici, conoscibili e comprensibili. E’ affermato anche il principio di
universalità (sono vietate gestioni fuori bilancio) e di integrità del bilancio
(entrate e spese sono indicate al lordo, ad esempio i pagamenti sono indicati
senza compensazioni, cioè senza tener conto della ritenuta fiscale che su quei
pagamenti viene effettuata).
Il bilancio può essere di competenza, che riguarda la nascita, il sorgere di
obbligazioni attive e passive con riferimento all’esercizio, o di cassa, che
riguarda il momento dell’estinzione di obbligazioni attive (riscossione) e passive
(pagamento) Sul versante della spesa il primo consente la nascita
dell’obbligazione, il secondo, in rapporto alle risorse effettivamente a
disposizione, consente l’erogazione della spesa (Brancasi). Gli enti pubblici
hanno tipi di bilancio differenti, anche se non si comprendono i motivi di una
tale differenziazione normativa e dell’oscillazione delle leggi nel passaggio
dall’uno all’altro sistema: lo Stato è oggi tenuto al doppio bilancio; lo stesso
vale per gli enti non economici nazionali e per le Regioni. Gli enti locali, invece,
hanno un bilancio di sola competenza (come le Camere di commercio). Di
recente è stata attribuita una delega al governo (legge n. 196 del 2006) per
passare al bilancio di sola cassa per tutte le amministrazioni pubbliche.
5. I procedimenti di entrata e di spesa
Gli enti tenuti alla contabilità pubblica devono registrare gli atti di gestione, sia
di entrata che di spesa. La gestione delle entrate non è strettamente legata al
bilancio come per le spese. Mentre per queste ultime il bilancio ha valore
autorizzatorio e quindi le spese possono essere effettuate nei limiti della
capienza dei capitoli cui fanno riferimento, per le entrate si può procedere
anche in difformità delle previsioni. La registrazione delle fasi contabili di
entrata è comunque necessaria ai fini della loro imputazione al bilancio. Il
procedimento di entrata consiste nelle fasi: a) dell’accertamento, cioè della
constatazione dell’esistenza di un’obbligazione a favore dell’amministrazione
(attraverso la quantificazione del credito e della persona debitrice),
adempimento necessario solo per il bilancio di competenza; b) della
riscossione, che consiste nel pagamento della somma dovuta da parte del
debitore (pagamento che può essere effettuato o direttamente
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all’amministrazione ovvero a concessionari cioè a soggetti, anche privati, da
essa incaricati); c) del versamento, vale a dire del trasferimento delle somme
riscosse alla Tesoreria, termine con il quale si intendono gli uffici che
conservano le risorse incassate e le utilizzano ai fini dell’effettuazione delle
spese. Il procedimento di spesa è, come si è detto, giuridicamente più rilevante
perché legato al valore autorizzatorio del bilancio. Le fasi del procedimento
sono: a) l’impegno, atto con il quale sono individuate le somme dovute in base
ad obbligazioni giuridicamente perfezionate. E’ il momento della verifica della
conformità dell’atto di spesa al bilancio (cioè alla destinazione del capitolo) e
ricorre soltanto in presenza di un bilancio di competenza. Con la registrazione
dell’impegno la somma impegnata è indisponibile per altre spese. Senza
impegno di spesa non si può effettuare il pagamento; b) la liquidazione, cioè la
quantificazione esatta della spesa che avviene con un atto qualificato come
ordine o mandato di pagamento. L’organo dell’amministrazione competente
alla liquidazione ordina così al cassiere (o tesoriere) di effettuare il pagamento;
c) il pagamento, che consiste nell’effettiva corresponsione delle somme dovute
al creditore.
Considerate le fasi contabili è molto frequente che nelle amministrazioni con
bilancio di competenza si produca la situazione che vede un’entrata accertata,
ma non effettivamente riscossa nel corso dell’esercizio, ovvero una spesa
impegnata, ma non realmente effettuata (liquidata e pagata) nel corso
dell’esercizio. Si producono così, nel primo caso, i residui attivi, nel secondo
caso i residui passivi. Queste somme devono essere riportate, in conto residui,
nel bilancio dell’anno successivo; se, però, loro peso è eccessivo, riducono la
credibilità del bilancio o, nel lungo termine, ne pregiudicano l’equilibrio (nel
tempo i crediti relativi a imposte non riscosse possono diventare difficilmente
esigibili). La cassa consente pagamenti in conto competenza (relativi ad
obbligazioni perfezionatesi nell’anno) o in conto residui (relativa agli impegni
contratti negli anni precedenti).
Ha un certo rilievo anche l’individuazione, nelle diverse amministrazioni, dei
soggetti del procedimento, soprattutto per i procedimenti di spesa. In generale
dovrebbe valere per tutti gli enti pubblici il principio di distinzione tra
l’ordinatore della spesa (l’organo amministrativo cha adotta l’atto di impegno
o il mandato) e l’erogatore della spesa. L’ordinatore in generale sarà il
dirigente competente ad adottare l’atto di impegno (in qualche caso anche
l’organo di indirizzo in sede di bilancio), mentre l’annotazione (registrazione)
dell’impegno sarà effettuata dai servizi interni di ragioneria; in qualche caso
l’amministrazione attribuisce ad un organo di controllo interno l’attestazione di
copertura finanziaria (l’attestazione che la spesa che si va ad impegnare è
coperta dalla somma stanziata nel relativo capitolo di bilancio). La liquidazione
è compito dello stesso organo che ha adottato l’atto di impegno (in qualche
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ente però il compito è affidato al servizio di ragioneria). L’ordine di pagamento
è in generale compito dello stesso organo che ha disposto la liquidazione (o il
servizio di ragioneria), mentre il pagamento spetta al cassiere o tesoriere
dell’ente (quasi sempre una banca convenzionata con l’amministrazione: per lo
Stato la Banca d’Italia).
6. Contabilità finanziaria e denaro pubblico
Poiché il bilancio è l’atto con il quale le risorse finanziarie (il denaro) viene
destinato a finalità pubbliche e poiché lo stesso denaro può essere speso solo
attraverso il compimento delle operazioni contabili prima esaminate, si è a
lungo affermata, anche in giurisprudenza, la tesi dell’impossibilità per il
creditore di chiedere al giudice l’esecuzione forzata, per esempio nella forma
del pignoramento, del denaro necessario alla soddisfazione del credito.
L’esecuzione forzata avrebbe costretto l’amministrazione ad erogare denaro in
forma diversa da quelle previste o avrebbe addirittura alterato artificialmente
la potestà di indirizzo politico insita nella decisione di bilancio (il giudice come
potere che modifica impropriamente le scelte del potere legislativo ed
esecutivo). Questa tesi aveva condotto anche alla classificazione del denaro tra
i beni del patrimonio indisponibile. Oggi queste posizioni sono superate perché,
al di là delle configurabilità di un’esecuzione forzata su un bene denaro che oggi
è sempre più virtuale con l’adozione delle tecnologie informatiche, non è
ammissibile che si possa in tal modo comprimere ingiustamente i diritti dei
creditori dell’amministrazione, anche perché è impossibile stabilire che il
bilancio vincola in modo rigido tutte le risorse a destinazioni predeterminate.
Sopravvivono, della vecchia posizione, alcune più limitate preclusioni ai poteri
di esecuzione forzata dei creditori: vengono ad esempio escluse dal
pignoramento le somme di denaro destinate agli stipendi del personale o a
particolari attività (sanità, sicurezza pubblica, difesa nazionale, protezione
civile) a condizione che l’amministrazione abbia preventivamente e
periodicamente determinato l’ammontare di denaro a ciò necessario.
7. Contabilità finanziaria e altre contabilità
Per gli enti pubblici, quindi, con la contabilità di tipo finanziario, il grado di
formalizzazione dei conti è molto elevato, mentre fino a poco tempo fa minore
attenzione si era dedicata ad altre contabilità largamente utilizzate nel settore
privato, quali la contabilità patrimoniale (che rappresenta l’andamento dei
fatti che accrescono o diminuiscono la ricchezza di un soggetto) o la contabilità
economica (che rappresenta le attività svolte sotto il profilo dei vantaggi
conseguiti, per esempio in termini di ricavi prodotti e dei costi sostenuti). Negli
anni recenti molti enti si sono visti imporre dalla legge l’adozione di una
contabilità patrimoniale (volta a registrare la consistenza fisica dei beni e il loro
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valore) e l’adozione di una contabilità economica, ad integrazione di quella
finanziaria, che resta obbligatoria (di recente, per le università, l’art. 5, comma
4, della legge n. 240 del 2010).
8. Bilancio politico e bilancio amministrativo. La struttura del bilancio
La recente disciplina del bilancio distingue tra un bilancio politico e un bilancio
amministrativo. Il primo serve a rappresentare in modo sintetico le grandi
opzioni politiche dell’ente, quanto alle entrate e quanto all’allocazione delle
risorse. Il secondo, più vicino all’esigenza di autorizzazione della spesa, è
maggiormente articolato in rapporto alle azioni che devono essere svolte dalle
varie articolazioni dell’organizzazione dell’ente per attuare l’indirizzo politico.
Questa distinzione è oggi applicata per il bilancio dello Stato, che contiene
alcune scelte che devono essere approvate in sede politica, cioè in sede di
approvazione della legge annuale di bilancio, mentre le scelte più minute
verranno adottate dai grandi comparti organizzativi (ad esempio dai singoli
ministeri) successivamente all’entrata in vigore della legge del Parlamento. La
distinzione tra bilancio politico e amministrativo ha conseguenze sulla sua
articolazione interna e sui suoi rapporti con l’organizzazione degli uffici. Il
bilancio politico preventivo dello Stato è oggi (legge n. 196 del 2009) articolato
in missioni, che «rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici
perseguiti con la spesa»; le missioni sono articolate in programmi «quali aggregati
diretti al perseguimento degli obiettivi definiti nell'ambito delle missioni» . I
programmi costituiscono le unità di voto (cioè le unità di base sulle quali vota il
Parlamento). La realizzazione di ciascun programma è affidata ad un unico
«centro di responsabilità amministrativa, corrispondente all'unità
organizzativa di primo livello dei Ministeri» (cioè alle direzioni generali). In
questo modo il bilancio rappresenta meglio le politiche dell’ente, vale a dire le
finalità che si vogliono conseguire nell’esercizio (o nel triennio) successivo.
Programmi e missioni non devono corrispondere necessariamente
all’articolazione interna degli uffici, ma possono riguardare anche più uffici
insieme (più uffici possono, infatti, concorrere al programma o alla missione). Il
problema di un rapporto più stretto con l’organizzazione si pone con il bilancio
amministrativo, perché con questo le risorse assegnate ai programmi si
articolano in capitoli (ulteriormente suddivisibili in articoli), che devono
corrispondere alle competenze degli organi, cioè degli uffici che adottano gli
atti rilevanti dell’amministrazione. Con il bilancio amministrativo, in sostanza, si
individuano gli obiettivi assegnati agli uffici dirigenziali e si attribuiscono le
risorse finanziarie necessarie. I dirigenti diventano i soli soggetti che hanno il
potere di impegnare la spesa (art. 34 della legge n. 196 del 2009). In questo
modo si conciliano le esigenze di stabilità della macro organizzazione e di
flessibilità nell’attuazione delle politiche dell’amministrazione.
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Nei tradizionali rapporti tra poteri dello Stato si è sempre adottato il principio
della distinzione tra chi approva il bilancio (il Parlamento, l’organo che detiene
il massimo potere di indirizzo politico) e chi lo gestisce (il Governo). Il principio
tende e riprodursi in tutte le amministrazioni pubbliche, nelle quali si distingue
tra l’organo monocratico esecutivo e l’organo collegiale di indirizzo, ma occorre
fare attenzione ai casi di forte riduzione, se non soppressione, degli organi
collegiali (si veda il caso delle agenzie o di molti enti con organi collegiali ridotti
all’osso), perché in questi la distinzione viene annullata. Con la distinzione tra
bilancio politico e bilancio amministrativo, per il primo il principio viene
salvaguardato, mentre problemi si pongono per il secondo, che sappiamo
essere adottato dall’organo politico esecutivo: per impedire che questo possa
gestire la spesa è stato introdotto il principio di distinzione, che riserva alla
dirigenza amministrativa i poteri di gestione (cioè di spesa, vedi il capitolo 10).
9. La flessibilità del bilancio
Poiché nel corso dell’esercizio alcune previsioni possono non avverarsi (non si
realizza un’entrata; una spesa deve essere necessariamente ritardata), ovvero
possono mutare le condizioni di fatto che avevano giustificato determinate
previsioni (una spesa non era stata inizialmente prevista o lo era stata in misura
inferiore), occorre assicurare al bilancio strumenti di flessibilità, per garantire
l’adattamento al mutare delle condizioni: si segnalano la costituzione di fondi di
riserva (appositi stanziamenti, non assegnati a voci stabili di bilancio cui
attingere per rimpinguare alcune di esse), gli storni di bilancio (spostamenti di
risorse da una voce ad un’altra, ma della stessa partizione di bilancio), le vere e
proprie variazioni di bilancio, con le quali è possibile aumentare il totale
complessivo delle entrate e delle spese. Mentre le prime due non costituiscono
modificazione, ma integrazione del bilancio, la variazione richiede
l’approvazione da parte dello stesso organo che è competente all’approvazione
del bilancio dell’ente Per lo Stato si può procedere con la legge di
assestamento, da approvarsi entro il 30 giugno dell’anno di esercizio.
10. Il pareggio di bilancio
I bilanci sono redatti in modo che il totale delle entrate corrisponda al totale
delle spese. Questo pareggio è, però, meramente contabile, dato che è
considerato in pareggio anche un bilancio nel quale l’eventuale differenziale tra
spese e entrate è coperto dall’indebitamento (o “ricorso al mercato”). In un
paese come l’Italia che ha fatto e fa largo ricorso all’indebitamento (tanto da
accumulare, tra gli anni ’80 dello scorso secolo e i primi anni di questo, un
debito di importo stabilmente intorno al 120% del PIL), annualmente il bilancio
deve considerare la voce “rimborso dei prestiti contratti negli anni precedenti”.
Lo Stato continua ad indebitarsi per pagare gli interessi sul debito pregresso. La
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riduzione del debito può avvenire a due condizioni: che il bilancio sia in avanzo
primario (somma algebrica positiva del totale delle entrate finali e delle spese
finali al netto delle spese per il rimborso dei prestiti e per il pagamento degli
interessi); che il livello di crescita dell’economia sia superiore al tasso di
interesse in modo da generare un aumento delle entrate in grado di far fronte
agli interessi sul debito.
Da oltre un trentennio lo Stato italiano conosce un costante aumento della
spesa, finanziato con il ricorso all’indebitamento, che per lungo tempo è stato
finanziato in base monetaria: le risorse sono state fornite dalla banca centrale
mediante l’immissione di moneta sul canale tesoro (la banca centrale stampa
moneta e concede anticipazioni allo Stato o ne acquista i titoli del debito
pubblico in sede di emissione). Fino al 1981 la Banca d’Italia era tenuta ad
acquistare tutti i titoli che non fossero collocati sul mercato e quindi a subire le
decisioni del Tesoro relative all’emissione dei titoli di stato. Queste operazioni
erano possibili per un singolo stato come l’Italia perché produceva effetti solo
sulla propria moneta, sulla sua circolazione internazionale (svalutazioni),
sull’inflazione interna. Oggi non sono più possibili, come subito vedremo, per i
vincoli posti dall’Europa a far data dal Trattato di Maastricht (1994).
Prima ancora della sua adesione alla moneta europea e ai vicoli comunitari,
l’Italia aveva cercato di porre un freno all’espansione della spesa (e alla sua
copertura con il ricorso all’indebitamento), senza grandi successi. In questa
prospettiva va interpretata la norma costituzionale in materia di bilancio, l’art.
81, che dopo aver previsto l’obbligo di bilancio preventivo e di conto
consuntivo dello Stato, dispone al comma 3 che «Con la legge di approvazione del
bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese», mentre il comma 4
prevede che «Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i
mezzi per farvi fronte». La prima disposizione chiarisce il ruolo del bilancio come
quadro complessivo delle entrate e delle spese così come previste dalla
legislazione vigente. La legge di approvazione del bilancio, che è legge solo in
senso formale (come atto tipico del Parlamento), deve consentire una visione di
insieme degli equilibri di bilancio e non può essere appesantita da minute
previsioni di spesa. Ciò non impedisce che in sede di bilancio siano quantificate
alcune spese indipendentemente da specifiche leggi di spesa. Da un anno
all’altro il bilancio può presentare un aumento delle spese, che può dipendere
dal fatto che una spesa inizialmente prevista sia in realtà più elevata (si pensi
agli interessi sul debito pubblico che possono essere indicizzati all’andamento
del mercato e subire conseguentemente degli incrementi). Si crea un equilibrio
di bilancio che può raggiungersi anche con l’indebitamento. Il ricorso al debito
quindi non è, in sé, uno strumento vietato dalla Costituzione. La seconda
disposizione vuole impedire che sia alterato l’equilibrio fissato nel bilancio. Per
questo si riferisce a leggi diverse e successive (leggine) per le quali vi è uno
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specifico obbligo di copertura, che non può consistere in un ulteriore ricorso
all’indebitamento, ma solo nel ricorso a nuove entrate ordinarie o nella
riduzione di altre spese.
L’impasse creata dall’impossibilità di modificare con la legge di bilancio le altre
leggi e di sottoporla all’obbligo della copertura finanziaria ha portato alla scelta
di affiancare alla legge di bilancio la cosiddetta legge finanziaria, che, in quanto
legge esterna al bilancio (quindi sottoposta all’obbligo di copertura) e non
vincolata dalle altre leggi, provvedeva a rimodulare (al fine di ridurre, ma
spesso ottenendo l’esito opposto) la quantificazione della spesa contenuta
nelle leggi di settore, assicurandone la copertura, operazione che la legge di
bilancio non era tenuta a fare. La legge finanziaria, oggi denominata legge di
stabilità, diviene il luogo della vera “manovra finanziaria”. Nella sessione di
bilancio, con la legge finanziaria e con la legge di bilancio, il Governo fornisce al
Parlamento un quadro riassuntivo della situazione finanziaria complessiva e
rappresenta la necessità di ridurre o di continuare nel ricorso
all’indebitamento. Un secondo strumento di argine fu il cosiddetto divorzio tra
Tesoro e Banca d’Italia, sancito nel 1981, in seguito al quale la Banca d’Italia
decide autonomamente (rafforzando anche la sua posizione di autorità
indipendente dal Governo) se acquistare i titoli di Stato. Il Tesoro, da parte sua,
non ha più il potere di imporre le condizioni di collocamento dei titoli, ma
accetta che sia il mercato a stabilire il prezzo di collocamento, mediante il
sistema delle aste.
11. I vincoli comunitari.
La storia della partecipazione dell’Italia alla Ue e all’unione monetaria evidenzia
una progressiva cessione di sovranità a favore delle autorità europee
(Commissione, Consiglio, Banca centrale europea) fino allo stretto controllo
delle politiche fiscali ed economiche interne. Vediamone brevemente le tappe
salienti. Con i Trattati di Maastricht del 1992 si decide di passare dal
precedente sistema monetario europeo (SME) ad una vera unione monetaria.
In vista dell’adozione della moneta unica, vengono adottati criteri di
convergenza (parametri): a) economici, che consistono nel divieto di disavanzi
e di debiti eccessivi, con il limite massimo di disavanzo (debito nell’anno) pari
al 3% del PIL e di debito (debito cumulato) pari al 60% del PIL (dal limite sul
debito vengono esonerate Italia e Belgio, già allora al di sopra del limite); b)
giuridici, che attengono alla natura dei soggetti coinvolti: le banche centrali (la
Banca d’Italia) devono essere rese ancora più indipendenti da un lato perché
diventino organo della BCE, ma anche perché siano autonome nelle loro
decisioni dai rispettivi governi. Il limite considerato invalicabile è quello del
disavanzo, che ha permesso a un paese come l’Italia, con un elevato debito
complessivo, di poter entrare nell’Unione monetaria dando, con il proprio
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avanzo primario di bilancio, adeguate garanzie di pagamento dei titoli di Stato
alla scadenza e di progressiva riduzione del debito. Per rendere più cogente il
sistema di verifica del rispetto dei parametri si era proposto di affidarlo ad un
organismo indipendente come la Corte di giustizia, ma la proposta non fu
accolta e da allora il controllo è affidato alla Commissione europea, con
decisione finale del Consiglio. Il controllo è quindi soggetto a valutazioni
politiche e non è automatico, oggettivo.
Degli allora 12 stati membri solo due (Regno Unito e Danimarca) decisero di
rispettare alcuni vincoli, ma di restare fuori dall’Eurosistema (oggi composto da
17 Paesi). Con la creazione di una moneta unica europea, entrata formalmente
in circolazione in Europa nel 2002, si è proceduto alla costituzione di una banca
centrale (BCE), istituzione europea dotata di uno statuto che la rende
autonoma (divieto di indirizzo e inamovibilità dei suoi componenti) dalle altre
istituzioni comunitarie e dagli Stati, tanto che per essa vige il divieto (art. 123
TFUE) di acquistare titoli del loro debito pubblico (nel mercato primario cioè
all’atto della prima emissione, mentre è possibile acquistare sul mercato
secondario, cioè per i titoli già in circolazione), divieto che vale anche per le
banche centrali che continuano a svolgere il compito di tesoreria dei rispettivi
Stati. Il problema dell’indebitamento non riguarda soltanto le sue conseguenze
monetarie (nel caso sia finanziato in base monetaria e quindi con un aumento
della moneta in circolazione) e non si risolve solo con il divieto di utilizzare il
canale tesoro. Occorre che le politiche economiche degli Stati riducano al
minimo il disavanzo annuale e il formarsi di imponenti masse di debito
pubblico. Più un paese si indebita, più dimostra di non avere nella propria
economia risorse sufficienti per invertire la tendenza all’indebitamento, meno
possibilità avrà di collocare sul mercato (un mercato non più nazionale, ma
globale) i propri titoli di debito pubblico, fino al rischio di default, cioè alla
dichiarazione di impossibilità di far fronte alle scadenze per la restituzione dei
titoli collocati.
Nell’evoluzione più recente si constata che anche il criterio del massimo
disavanzo al 3% del PIL non è sufficiente: gli Stati, anche quando rispettano il
limite, non hanno poi margini in momenti di crisi economica. Per questo, con il
Patto europeo di stabilità e crescita, si è previsto di imporre agli Stati membri
politiche di raggiungimento, in tempi diversi a seconda della situazione dei
rispettivi debiti pubblici, del pareggio o addirittura dell’avanzo (non solo
primario) di bilancio. Questo dovrebbe consentire agli Stati di rendere credibile
la riduzione del debito e di avere margini di azione per i periodi di ciclo
economico negativo. Per l’Italia l’obiettivo è stato fissato per l’esercizio 2013. Il
pareggio di cui parliamo ora non è evidentemente quello contabile, ma è il
pareggio che elimina saldi negativi di bilancio, di fatto vietando in assoluto il
ricorso all’indebitamento. Questo spiega perché nell’Eurosistema sia stato
introdotto nel 2010 il cosiddetto ciclo di bilancio, cioè un complesso sistema di
adozione delle leggi di stabilità e di bilancio dei singoli stati membri che in
12
sostanza tende a permettere all’Unione di coordinare e controllare le loro
politiche di bilancio. Sulla stessa linea di tendenza la recente (marzo 2011)
imposizione, con il cosiddetto patto «Euro plus», che recepiva la riforma
tedesca del 2009, ad introdurre, negli ordinamenti interni degli stati membri,
un vincolo al pareggio di bilancio. Vi hanno già provveduto Germania, Francia e
Spagna e Italia, che ha approvato la legge costituzionale n. 1 del 2012, che
prevede, riscrivendo l’intero art. 81 cost., l’introduzione del principio
dell’«equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi
avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico», da cui consegue un limite al
ricorso all’indebitamento, consentito «solo al fine di considerare gli effetti del ciclo
economico», con una decisione che deve essere assunta a maggioranza assoluta
delle Camere. Sempre a maggioranza assoluta deve essere approvata la legge
che disciplina «il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri
volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del
debito del complesso delle pubbliche amministrazioni». Con questa modifica
costituzionale l’Italia dimostrerebbe di voler ridurre a casi eccezionali il ricorso
all’indebitamento. La modifica costituzionale non è arrivata ad introdurre il
diverso principio dell’introduzione di un limite fisso alla spesa pubblica totale in
rapporto al PIL, proposto in una visione liberistica che vede nella spesa pubblica
la fonte di tutti i mali della finanza pubblica. Questa proposta sarebbe andata
ben al di là dell’accettazione del pareggio/equilibrio di bilancio, per delimitare
preventivamente ogni ipotesi di ampliamento della spesa sociale finanziato ad
esempio con maggiore imposizione fiscale (o con altre fonti di entrata) e non
con il ricorso all’indebitamento.
Anche il ciclo di bilancio non pare riuscire a mettere gli Stati indebitati al riparo
da possibili incrementi, imposti dal mercato, dei tassi di interesse da
corrispondere sul debito. Poiché i problemi nascono dall’introduzione di una
moneta unica per paesi che presentano squilibri di sviluppo economico molto
rilevanti e mantengono proprie differenziate politiche economiche e fiscali, la
soluzione strutturale di fondo starebbe nell’unificazione a livello europeo delle
politiche fiscali (con ulteriore cessione si sovranità alla UE), accompagnata da
politiche di maggiore solidarietà e perequazione tra gli Stati membri (la c.d.
“mutualizzazione” del debito).
12. Il finanziamento delle funzioni degli enti pubblici diversi dallo Stato.
Profili generali
Fin qui abbiamo considerato i problemi della contabilità e del bilancio con
riferimento allo Stato, che detiene nella misura massima i poteri di decidere
come finanziare (in entrata e in uscita) le funzioni proprie. In un sistema che
sappiamo fortemente pluralistico, per la presenza di molti enti e soggetti di
livello nazionale e degli enti territoriali (a loro volta punto di riferimento degli
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enti pubblici e dei soggetti privati in controllo pubblico da essi costituiti), il
tema delle risorse finanziarie acquista una problematica ancora più complessa.
12.1. Come si garantisce l’autonomia finanziaria degli enti territoriali
Nel nuovo sistema costituzionale Regioni, Province e Comuni sono soggetti
costitutivi della Repubblica (art.114) e hanno, con garanzia costituzionale, tutti i
tratti dell’autonomia: funzioni attribuite in titolarità, autogoverno, autonomia
normativa. L’autonomia finanziaria si pone come autonomia organizzativa, a
complemento, essenziale, della posizione costituzionale degli enti territoriali,
che dà sostanza ed effettività alle condizioni minime di autonomia. Senza
autonomia finanziaria, sia in entrata che nella spesa, gli enti non sono in grado
di perseguire propri indirizzi politici e amministrativi, differenziati rispetto a
quelli dello Stato; non sono in grado di concepire e realizzare proprie politiche,
proprie modalità di esercizio delle funzioni loro attribuite dalla legge.
All’autonomia finanziaria degli enti territoriali è dedicato il nuovo art. 119 Cost.,
di cui qui affrontiamo solo alcuni primi problemi interpretativi e attuativi,
rinviando l’analisi di dettaglio alla materia del diritto regionale e degli enti
locali. In piena coerenza con la Carta europea dell’autonomia locale, la nostra
Costituzione ha fatto una chiara scelta per una finanza autonoma (fondata su
risorse proprie, tributarie, da cessione di beni e servizi, patrimoniali),
superando definitivamente il modello, largamente seguito per un lungo
periodo, della finanza derivata (fondata prevalentemente su trasferimenti da
parte di altri enti, in particolare lo Stato). Si veda il comma 2: «I Comuni, le
Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e
applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi
di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.» Gli enti
territoriali finanziano le proprie funzioni in grandissima parte con le risorse
autonome. Residua una parte di entrate per trasferimento dallo Stato, ma
questa riguarda solo la necessaria perequazione tra enti che hanno una diversa
possibilità di raccogliere risorse dai propri cittadini: «la legge dello Stato istituisce
un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità
fiscale per abitante». La perequazione è materia di legislazione esclusiva dello
Stato (art. 117, comma 2, lettera e), Cost.), perché solo lo Stato può distribuire
le risorse tra territori diversi. Si deve ritenere, infatti, che gli enti territoriali
autonomi non sarebbero in grado di stabilire da soli, trovando tra loro accordi
di tipo orizzontale, la quota di risorse che i territori più ricchi sono tenuti a
distribuire a favore di quelli più svantaggiati. Il sistema è, poi, chiuso con altre
due disposizioni fondamentali. Il comma 4 afferma che: «Le risorse derivanti dalle
fonti di cui ai commi precedenti [cioè le entrate autonome e i trasferimenti per
perequazione] consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle
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Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». Il sistema
finanziario deve essere costruito, tra imposte, tasse, valorizzazione del
patrimonio e trasferimenti, in modo da permettere il pieno esercizio delle
funzioni attribuite (in titolarità). Il comma 5 prevede che lo Stato possa
destinare ulteriori risorse agli enti territoriali «per promuovere lo sviluppo
economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e
sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a
scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni». Come si comprende, il
passaggio da una finanza derivata che lascia allo Stato ampi margini di
costruzione dell’intero sistema, ad una finanza autonoma, nella quale le risorse
sono in gran parte predeterminate, rende il sistema finanziario più rigido,
creando maggiori vincoli alle manovre finanziarie che lo Stato deve approntare
in caso di crisi finanziaria. Diventa quindi molto importante stabilire chi abbia il
potere di conformare concretamente il sistema delineato nell’art. 119 Cost..
Qui il riferimento è contenuto nell’art. 117, nel quale si trova, accanto alla
riserva allo Stato della perequazione di cui si è detto (comma 2), un potere
legislativo concorrente in materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici e
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (comma 3). Il
coordinamento ha per oggetto la conformazione a regime del sistema: quante
risorse debbano essere assicurate in rapporto alle funzioni, con quali entrate
autonome e con quali poteri di determinazione delle entrate tributarie. Esso è
stato definito come coordinamento “statico”, anche se non si tratta di un vero
coordinamento (che è per definizione dinamico e riguarda la convergenza di
diversi soggetti nel raggiungimento di finalità contingenti, come ad esempio il
risanamento della finanza pubblica), ma della costruzione equilibrata di un
sistema (Brancasi). Poiché si tratta di materia concorrente, lo Stato dovrebbe
fissare i principi fondamentali della materia e lasciare alle Regioni l’effettiva
legislazione di dettaglio. La norma, che voleva rompere la vecchia riserva in
esclusiva di questi poteri allo Stato, è sicuramente imprecisa perché non ha
senso un coordinamento regionale della parte di finanza pubblica che è dello
Stato. Essa andrebbe quindi letta come la costruzione di un sistema “a cascata”
(Brancasi), nel quale spetta allo Stato coordinare la finanza propria con quella
del complesso delle Regioni e degli enti locali, mentre vi è uno spazio per la
Regione per coordinare la propria finanza con quella locale. La successiva
legislazione ha in gran parte attenuato la spinta innovativa del nuovo art. 119
Cost., mantenendo, con l’avallo della Corte costituzionale, un forte potere
statale di conformazione dell’intero sistema finanziario: non solo quello dello
Stato, ma anche quello delle Regioni da una parte e degli enti locali dall’altro. Si
è così mantenuto il tradizionale sistema binario, che consente allo Stato di
tenere distinti rapporti con i due comparti di enti territoriali e di impedire il
rafforzamento del ruolo regionale di coordinamento.
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La previsione costituzionale è oggi al centro di un complesso processo di
attuazione innescato dalla legge n. 42 del 2009, di attuazione dell’art. 119 Cost,
impropriamente soprannominata come legge per il c.d.”federalismo fiscale”. Si
tratta di una legge delega che prevede l’adozione di numerosi decreti delegati.
Le difficoltà maggiori riguardano il passaggio, nella quantificazione delle risorse
necessarie al finanziamento delle funzioni, dal tradizionale sistema della
cosiddetta spesa storica (che si basa sulla spesa già effettuata da un ente
territoriale e la aggiorna, adeguandola al costo della vita) al sistema dei costi
standard (che vuole finanziate le funzioni in rapporto ai costi oggettivi
sostenuti, per le diverse tipologie di funzioni, dagli enti più virtuosi), molto più
corretto ai fini dell’autonomia, ma molto difficile da quantificare. Il secondo
punto di difficoltà sta nell’individuazione del modo e soprattutto dell’importo
della perequazione: è molto diverso, infatti, se ci si prefigge lo scopo di
perequare in modo pieno le risorse in riferimento al costo standard di tutte le
funzioni o soltanto quello di alcune di esse (solo livelli essenziali e funzioni
fondamentali degli enti), come realizzato con questa riforma. La terza difficoltà,
che si sta rivelando la più significativa, sta nella crisi finanziaria pubblica
italiana. Appare, infatti, assai arduo attuare a regime un sistema di finanza
autonoma fondato sulla rilevazione oggettiva del fabbisogno finanziario per
l’esercizio pieno delle funzioni in periodi di pesanti restrizioni finanziarie. Il
risultato è che si adottano, come se fossero di sistema, ordinamentali, soluzioni
di tipo congiunturale (la necessità di contenimento delle spese condiziona le
norme del federalismo fiscale a regime); ovvero che si adottano, con
disposizioni esplicitamente congiunturali (come le leggi di stabilità), soluzioni
destinate ad avere un carattere stabile e a regime, che risulta alterato.
12.2. Come si garantisce l’equilibrio della finanza pubblica in un sistema
che riconosce l’autonomia finanziaria degli enti territoriali
La crisi finanziaria ci conduce al secondo grande tema relativo al finanziamento
degli enti territoriali: la garanzia dell’equilibrio complessivo della finanza
pubblica in un sistema, più rigido, di finanza autonoma. Nel precedente (non
ancora superato) sistema di finanza derivata lo Stato, in situazione di crisi
finanziaria, di necessità di tagli alla spesa pubblica, poteva ridurre i
trasferimenti a Regioni ed enti locali in modo formalmente legittimo (salvo
dover fronteggiare le proteste, politiche, degli enti che lamentano di non
potere assicurare la qualità delle funzioni e dei servizi pubblici affidati). Va
preliminarmente chiarito che i vincoli europei in materia di bilancio pubblico
non riguardano solo il soggetto (l’ente pubblico) Stato, ma il “comparto
amministrazione pubblica”, costituito dal sistema amministrativo di un paese
nel suo complesso Il comparto è delimitato dall’Eurostat, a fini conoscitivi
statistici secondo un criterio diverso dalla nozione di “amministrazioni
pubbliche”, che abbiamo visto adottato dall’art. 1, comma 2, LLP. Il criterio
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adottato e applicato dall’ISTAT è più sostanziale perché mira a comprendere,
tra i soggetti che concorrono ai saldi complessivi ai fini della quantificazione del
disavanzo, non solo le amministrazioni pubbliche, ma anche i soggetti privati
erogatori di servizi pubblici. Se i saldi complessivi di bilancio si fanno su tutto il
sistema amministrativo si riesce a sapere in che misura gli enti territoriali
contribuiscono al disavanzo complessivo (e all’indebitamento). Lo Stato ha la
gran parte del debito pubblico (quelle degli enti territoriali è molto inferiore),
ma va ricordato che in qualche caso lo Stato si è indebitato anche per far fronte
ai disavanzi degli enti territoriali (si pensi ai casi della sanità, dei rifiuti, delle
emergenze per calamità naturali, degli enti locali in dissesto). E’ pertanto
legittimo riconoscere allo Stato poteri di vincolo sui bilanci di Regioni ed enti
locali, a condizione che essi non pregiudichino la sostanza dell’autonomia
finanziaria, cioè lascino agli enti territoriali gradi adeguati di autonomia di
indirizzo politico e di organizzazione (Corte costituzionale sent. n. 417 del
2005). Nei momenti di crisi lo Stato deve far tornare il saldo dell’intero
comparto e ha bisogno di strumenti e poteri diversi dalla riduzione dei
trasferimenti (meno efficaci con la riduzione della finanza derivata). Con la
legge finanziaria per il 1999 è adottato un atto, denominato patto di stabilità
interno, con il quale lo Stato pone limiti e vincoli agli altri enti. Dapprima i limiti
sono stati posti in termini di tetti ai disavanzi degli enti e in termini di limiti alla
spesa corrente (limitando cioè in via complessiva per ciascun ente l’incremento
della spesa corrente rispetto all’anno precedente); poi, di fronte alla mancata
efficacia dei limiti, continuamente superati degli enti territoriali, si è passati ad
un vincolo all’incremento delle spese finali degli enti territoriali, anziché un
vincolo sul disavanzo; per poi tornare, a partire dal 2007, proprio ai vincoli sul
disavanzo. Ricorrente, negli ultimi tempi, l’introduzione di previsioni di legge
statale che impongono a Regioni ed enti locali, per far fronte alle esigenze di
esercizio delle loro funzioni, ad inasprimenti fiscali (massima utilizzazione dei
margini di determinazione della compartecipazione alle imposte statali,
aumenti di imposte e tasse). Il Patto di stabilità interno, sempre approvato con
legge dello Stato, al fine di ottenere un previo consenso degli enti territoriali, è
un esempio di coordinamento dinamico, che lo Stato adotta qualificando le
disposizioni del Patto come “principi” nella materia del «coordinamento della
finanza pubblica» di cui all’art. 117, comma 3, Cost.. Molto spesso lo Stato ha
qualificato come principi disposizioni di dettaglio continuando, in sostanza, a
considerare la materia del coordinamento della finanza pubblica come
esclusiva. Tanto che si vorrebbe prendere atto di questa situazione per
riportarla espressamente alla competenza esclusiva. La proposta, avanzata nei
progetti di legge costituzionale sul pareggio di bilancio, è stata approvata ma in
modo più limitato: mentre il coordinamento resta materia concorrente, la
materia «armonizzazione dei bilanci pubblici» è stata riportata tra quelle
elencate nel comma 2 dell’art. 117 Cost..
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12.3. Come si finanziano gli enti pubblici
Ci occupiamo ora del finanziamento di enti diversi dagli enti territoriali. In via di
primo approccio si può senz’altro affermare che questi enti, dovendo la loro
istituzione alla legge (o ad atto amministrativo sulla base di un’espressa
previsione di legge), dipendono da questa anche per la definizione del loro
sistema di finanziamento. Il che non comporta anche che essi debbano avere
sempre una finanza derivata, cioè fondata su trasferimenti da parte dell’ente
territoriale di riferimento. Sempre in via generale si può affermare che un
sistema di finanza derivata è coerente con la posizione degli enti dipendenti o
strumentali, che non hanno autonoma capacità di indebitamento: al loro
fabbisogno finanziario provvede l’ente territoriale di riferimento. Per gli enti
dotati di autonomia, invece, si dovrebbe ritenere che, analogamente a quanto
disposto dalla Costituzione per Regioni ed enti locali, ad essi dovrebbe essere
riconosciuta un sistema finanziario fondato sul principio della finanza
autonoma. In realtà questo assunto è contraddetto dall’effettiva disciplina del
finanziamento degli enti ad autonomia funzionale: sia le Università che le
Camere di Commercio non godono di una particolare autonomia. Per le
università, ad esempio, le entrate proprie, cioè le tasse pagate dagli studenti,
hanno un peso del tutto secondario, mentre la gran parte delle risorse sono ad
esse trasferite dallo Stato (con il Fondo di finanziamento ordinario,
annualmente rivisto sia pure sulla base di indicatori oggettivi). Il peso delle
entrate autonome è addirittura predeterminato dalla legge (non più del 20% di
quanto ciascuna università riceve con il FFO).
13. I controlli sui bilanci e sulla gestione finanziaria
Il rilievo giuridico del bilancio, soprattutto sul versante di autorizzazione alla
spesa, e il notevole grado di formalizzazione delle diverse fasi contabili impone
l’attivazione di controlli, che per la contabilità finanziaria sono denominati
controlli di regolarità amministrativa e contabile. Tali controlli sono in primo
luogo interni: ogni amministrazione (ente pubblico) ha un proprio ufficio,
variamente denominato (spesso, ufficio di ragioneria) che ha funzioni di verifica
della copertura della spesa e spesso di liquidazione e ordine di pagamento.
Questi controlli interni dovrebbero però non limitarsi alla mera verifica di
regolarità delle singole operazioni finanziarie, ma dovrebbero dare,
periodicamente, il quadro della situazione finanziaria dell’ente, segnalando
agli organi di governo eventuali situazioni di squilibrio, di potenziale disavanzo,
anche ai fini dell’adozione delle necessarie misure. Una funzione di
supervisione generale sull’andamento della gestione è assicurata nella gran
parte degli enti pubblici (compresi quelli territoriali) da organi collegiali, i
revisori dei conti, chiamati a dare il proprio parere sia sul bilancio preventivo
che sul conto consuntivo, ma spesso privi di indipendenza (rispetto agli organi
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di governo) e di poteri vincolanti o sanzionatori in caso di gestione non corretta.
Sono controlli interni anche quelli che guardano alla gestione sotto il profilo
economico e patrimoniale, magari rilevando costi e risultati dei diversi uffici
(centri di costo). Questi controlli sono affidati ad uffici di controllo di gestione,
resi obbligatori, per tutte le amministrazioni pubbliche, dal d .lgs. n. 286 del
1999.
L’attivazione necessaria di controlli interni non elimina del tutto la necessità di
controlli esterni, la cui applicazione è problematica per gli enti ad autonomia
costituzionalmente garantita, mentre è da ritenersi coerente con la posizione
degli enti dipendenti e strumentali, a finanza. Lo stesso non vale per i soggetti
di diritto privato (S.p.A., fondazioni o associazioni), anche in controllo (e a
finanziamento) pubblico. Per questi, come sappiamo, il legame fondamentale
con l’ente territoriale di riferimento sta nella nomina degli amministratori: sono
questi a dover garantire la corretta gestione e a rispondere della gestione
economica (in sede di consuntivo) e dei risultati raggiunti.
La posizione di autonomia o di dipendenza non dovrebbe incidere sulla
possibilità di attivare controlli esterni diversi da quelli svolti da un ente
sovraordinato, nei quali, come si è detto parlando di controlli in generale, nella
verifica degli atti si possono confondere obiettivi di garanzia della funzionalità
dell’azione dell’ente con obiettivi di conformazione della loro attività
all’indirizzo politico dell’ente che esercita il controllo. Qui invece ci occupiamo
dei controlli indipendenti e in particolare dei controlli della Corte dei conti,
che, secondo l’art. 100 della Costituzione «esercita il controllo preventivo di
legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio
dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla
gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce
direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito ». La Corte, che è organo
dello Stato cui la legge deve garantire indipendenza dal Governo, svolge il
controllo preventivo solo sugli atti dello Stato, mentre per gli altri enti pubblici
(e per i soggetti privati a finanziamento pubblico) il suo controllo è solo
successivo, regolato dalla legge n. 20 del 1994 (integrata dalla legge n. 131 del
2003). Secondo la prima la Corte svolge il «controllo successivo sulla gestione del
bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche». La legge n. 131 del 2203
(all’articolo 7) prevede un diverso controllo, affidato alle sezioni regionali della
Corte dei conti, sulla verifica del «perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi
statali e regionali di principio e di programma», nonché «la sana gestione finanziaria».
Si tratta sempre di controlli che si concludono con relazioni (“referti”), che
sovente segnalano irregolarità anche gravi nella gestione finanziaria (o
nell’insufficiente attivazione di efficaci controlli interni) indirizzati alle
assemblee elettive (Parlamento nazionale, consigli degli enti territoriali) perché
adottino le misure necessarie. Tali controlli sono anche qualificati come
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“controlli collaborativi”, ma si tratta di una contraddizione in termini. Se sono
collaborativi, cioè totalmente affidati, per la valutazione delle conseguenze dei
rilievi, agli stessi enti, non sono controlli, perché alla constatazione di uno
scarto con le previsioni di legge non si accompagnano poteri di tipo
sanzionatorio (l’annullamento di un atto viziato, la sanzione irrogata al
funzionario responsabile, la corresponsione di una sanzione finanziaria
all’amministrazione). Anche l’apporto collaborativo è, poi, scarsamente efficace
data la scarsissima attenzione che ai referti dedicano le assemblee elettive (non
è prevista neanche un’apposita seduta).
La critica più ricorrente che viene mossa al complesso dei controlli (interni ed
esterni) che abbiamo passato in rassegna riguarda la loro scarsa efficacia. Molti
controlli, pure minuti (si pensi alle singole fasi contabili), sono interpretati in
termini prevalentemente formali e non sono in grado di assicurare né maggiore
funzionalità né maggiore imparzialità dell’amministrazione. Si pensi, sotto il
primo profilo, ad un atto di spesa perfettamente regolare quanto alle
procedure contabili (l’impegno è coperto dal capitolo di bilancio; la liquidazione
è corretta, corrisponde ad una fattura presentata regolarmente per una spesa
già impegnata), ma che produca un rilevante danno finanziario (un’opera
pubblica, grazie a continue revisioni di prezzo, si rivela molto più onerosa delle
previsioni iniziali; un’esternalizzazione di servizi e attività invece di migliorare
peggiora lo svolgimento di quelle attività; l’assunzione di personale si rivela in
eccesso rispetto ai compiti affidati ad un ufficio). Sotto il secondo profilo si
pensi ad un atto di spesa perfettamente regolare dal punto di vista contabile (o
che non abbia prodotto conseguenze negative sul bilancio) che poi si rivela
adottato sulla base di impropri condizionamenti esterni sulla decisione del
funzionario, che ha premiato una ditta amica o che gli ha promesso un’utilità
economica (corruzione). Visti i limiti del sistema in vigore è in atto un vasto
dibattito sulla necessità di rivedere per intero la problematica dei controlli per
renderli più penetranti e più efficaci. In generale si considera indispensabile che
le attività di controllo e le attività amministrative siano oggetto di una maggiore
trasparenza (vedi il capitolo 22), ai fini del controllo democratico dei cittadini
sul bilancio e sulla gestione finanziaria.