La relazione di Gianfranco Francese - Filtea

Relazione introduttiva di Gianfranco Francese
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Graditi ospiti,
prima di avviare la nostra discussione voglio ricambiare il saluto che Alessandra
Vivaldi ci ha portato a nome dell’Amministrazione Comunale di Montopoli in Val
d’Arno, ringraziandola per l’ospitalità e la disponibilità date per la piena riuscita di
quest’iniziativa.
Vogliamo, inoltre, ringraziare voi tutti che avete accettato il nostro invito ed in
particolare le personalità che con i loro interventi, siamo certi, garantiranno
qualificati contributi e ulteriori approfondimenti sul tema che più ci sta a cuore: il
rilancio del settore calzaturiero, nel contesto del sistema moda della provincia di Pisa.
Consideriamo, quindi, quella di oggi una giornata di lavoro e mobilitazione per
la difesa ed il rilancio del Made in Italy pisano, condividendo questo momento
innanzitutto con i molti delegati sindacali qui presenti, con i quali quotidianamente ci
impegniamo per trovare le soluzioni possibili a tutti quei problemi che investono e
coinvolgono i lavoratori e le lavoratrici di questo settore: dalle stagioni produttive
sempre più brevi ed intense che spingono a una estrema flessibilità, al costo della vita
che, fuori da ogni controllo, aumenta erodendo i salari e mettendo in discussione i
presupposti di una vita dignitosa fino all’evento più temuto, la perdita del posto di
lavoro.
Ma spesso, non molto diverse, pur se da un’altra angolatura, sono le
preoccupazioni che agitano molti piccoli imprenditori ed artigiani, persone che fanno
un’enorme fatica ad intravedere una via d’uscita dalle difficoltà attuali e che oggi
condividono con i lavoratori questo stato d’animo di forte incertezza sul futuro.
A questo pezzo di mondo del lavoro e dell’apparato produttivo della nostra
provincia, noi vogliamo, però, subito e con chiarezza dire che oggi siamo qui per
provare ad indicare una via d’uscita ed uno sbocco possibile.
Siamo convinti, infatti, che unendo le nostre capacità ce la potremo fare.
Siamo qui per capire insieme come.
Dobbiamo, in primo luogo, ridare visibilità, coraggio, dignità e, soprattutto,
una prospettiva di sviluppo ad uno dei comparti tradizionali dell’industria pisana che
soffre da molti mesi gli effetti di una lunga fase di difficoltà che ha prodotto
nell’ultimo anno e mezzo la perdita nel nostro territorio di circa mille posti di lavoro.
Un prezzo pesante, inaccettabile per una comunità sana e coesa, che tale vuole
rimanere pur nell’asprezza di una congiuntura che non risparmia, seppur con diverse
accentuazioni, nessuno dei settori trainanti dell’economia provinciale, come
dimostrano tutti i dati congiunturali dell’ultimo anno.
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Un comparto, quello calzaturiero, che secondo i numeri forniti dalla recente
ricerca di Poteco e Pon-tech, basata su dati INPS, risulta essere composto da 522
aziende, di cui 343 accessoristi specializzati in singole fasi di lavorazione, per un
totale di 5.461 addetti: pari praticamente a due Piaggio.
Numeri importanti, come si vede, che corrispondono, nazionalmente, ad un
segmento produttivo fondamentale del Made in Italy, che conta su circa 103.000
addetti distribuiti in 7.283 aziende presenti in 14 distretti industriali. Il distretto
Fermano-Maceratese (nelle Marche) è quello dove, secondo i dati di Unioncamere, è
concentrato il maggior numero di aziende e lavoratori, seguito da quelli di Santa
Croce sull’Arno, e della Riviera del Brenta, in Veneto.
Diverso appare, invece, il quadro se si guarda alla dimensione d’impresa. Le
realtà più grandi si trovano nel distretto di Casarano (in Puglia), dove le imprese
censite hanno una media di 42,8 addetti, ed in quello di Montebelluna (Veneto) con
20,1 addetti in media per ognuna delle 428 imprese locali. I distretti calzaturieri di
Valdinievole-Lamporecchio, Santa Croce sull’Arno e quello Fermano-Maceratese
presentano, invece, la maggiore frammentazione con una media di 6/7 addetti ad
impresa.
L’interscambio commerciale del settore nel 2003 ha confermato la stagnazione
dell’anno precedente. Secondo i dati dell’Associazione Nazionale Calzaturieri il 2003
ha fatto segnare un calo dei flussi di export pari al 7,7% circa in quantità e del 6,8%
in valore malgrado una crescita molto contenuta dei prezzi medi (+ 0,8%). Nel
periodo considerato sono stati complessivamente esportati 298 milioni di paia di
calzature (oltre 21 milioni di paia in meno rispetto all’anno precedente) per un valore
di circa 6.320 milioni di Euro. Contemporaneamente e per contro le importazioni
hanno continuato nel loro tendenziale incremento segnando una crescita del 19,6% in
quantità e del 8,4% in valore, pur a fronte di una riduzione dei prezzi medi di 9,3
punti percentuali. Nel 2003 sono entrati in Italia 269 milioni di paia di calzature per
un valore di circa 2.432 milioni di Euro.
Questi dati di interscambio mostrano che il settore permane in una fase di
fortissima sofferenza aggravata dal fatto che la criticità dei dati congiunturali
prosegue ormai da quasi tre anni come dimostrano i segni negativi, mai così bassi
negli ultimi venticinque anni, nei principali mercati di sbocco della nostra
produzione: Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti.
A tale quadro sfavorevole si aggiunge anche una flessione della domanda
interna generata da minori acquisti delle famiglie italiane per un 1% in quantità,
bilanciata solo parzialmente da una lieve crescita del valore dell’ 1,5%.
La Cina risulta essere il paese di origine della maggior quota di importazioni:
100,3 milioni di paia provengono da Pechino, per un valore di circa 280 milioni di
Euro, con un aumento del 49% pari a 30 milioni di paia in più rispetto all’anno
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precedente. Un aumento fortissimo delle quantità ma appena del 20%, meno della
metà, in termini di valore.
Per capire meglio la situazione basti dire che il prezzo medio delle scarpe
cinesi resta il più basso in assoluto 2,71 euro al paio contro 20,68 euro del prodotto
medio italiano esportato, malgrado la contenuta dinamica dei prezzi italiani
finalizzata alla tenuta dei mercati esteri.
La crisi ha, ovviamente, investito anche l’artigianato. Nel settore sono circa 17
mila le imprese con una dimensione media di 5 addetti. L’80% di queste lavora in
subfornitura per l’industria accusando, quindi, immediatamente le conseguenze della
contrazione della domanda. Secondo un’indagine di Confartigianato il 53,1% opera al
Centro, seguito dal Nordest con il 23,1%, dal Nordovest con il 14,4% e dal Sud con
l’11,2%. Gli artigiani sono i primi ad essere fortemente penalizzati dai processi di
delocalizzazione all’estero della produzione da parte delle aziende committenti.
Gli effetti combinati del calo della domanda e dei volumi prodotti nonché del
decentramento produttivo in paesi terzi ha prodotto nel 2003 saldi occupazionali
pesantemente negativi con una perdita di posti di lavoro del 3,5% nell’industria e del
3% nell’artigianato per un totale di oltre 6.000 persone espulse dal circuito
lavorativo.
Purtroppo i dati disponibili del 2004, i primi 5 mesi dell’anno, mostrano,
raffrontati con lo stesso periodo del 2003, un preoccupante e ulteriore peggioramento
nelle quantità esportate (- 4,3%), accompagnato da un calo in valore del 3,6%.
Nel periodo gennaio-maggio 2004 risultano, infatti, esportate 138 milioni di
paia di calzature con un saldo negativo di oltre 6 milioni di paia.
Viceversa continuano ad aumentare le importazioni. Con un incremento del
21% in volume ed un ulteriore ribasso dei prezzi medi. Nel periodo considerato,
infatti, risultano importati in Italia 198 milioni di paia corrispondenti a 27,4 milioni di
paia in più rispetto allo scorso anno.
Questa situazione ha prodotto, secondo l’ANCI, un calo della produzione pari
al 4,9% con la conseguente perdita di circa 6.000 posti di lavoro, all’impressionante
media di 1.200 posti di lavoro persi al mese.
Ciò evidenzia da un lato la pressione concorrenziale che proviene dalle
produzioni estere, ma dall’altro indica anche una polarizzazione delle filiere
produttive tra produzione a basso valore aggiunto e produzione ad elevato valore
aggiunto che coinvolge i segmenti di mercato tradizionali della realtà produttiva
italiana.
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A dimostrazione che la battaglia per la difesa del made in Italy si può condurre
e vincere solo occupando la fascia medio-alta del mercato.
Cosa significhino i dati appena elencati per un settore con una marcata
vocazione all’export - nella misura di oltre l’80% della produzione - appare a tutti
chiaro.
Malgrado ciò, malgrado cioè la crudezza dei numeri, il comparto calzaturiero
non ridimensiona il proprio ruolo nell’ambito dei settori di punta del Made in Italy.
Le calzature contribuiscono, infatti, alla tenuta di questo pilastro fondamentale
dell’economia nazionale con un saldo attivo commerciale di 3.888 milioni di Euro.
Una performance importante soprattutto se realizzata in un contesto di crisi
generale dell’industria italiana e di difficoltà di penetrazione dei prodotti italiani sui
mercati esteri che ha determinato nell’ultimo biennio una diminuzione generale delle
esportazioni nella misura del 7,3% con un forte indebolimento delle quote di mercato
internazionale passate dal 4,6% al 3%.
Una perdita superiore a quella di tutti gli altri paesi europei che, seppur con
differenti livelli di tenuta, stanno gestendo la difesa delle posizioni acquisite sui
mercati con adeguate e mirate scelte di politica industriale e di sostegno all’export
tese ad attenuare gli effetti di un lunga e perdurante fase di rallentamento
dell’economia mondiale precedente all’11 settembre del 2001, ma acuita dalle
successive tensioni determinate dal bellicismo unilaterale dell’amministrazione Bush
e dal dilagare del fenomeno del terrorismo di origine etnica e religiosa.
Scelte di politica industriale in difesa del sistema produttivo italiano e delle sue
specifiche peculiarità (scarsa presenza della grande industria, forte e radicato tessuto
di PMI più vulnerabile agli effetti della globalizzazione) che sarebbero state e
sarebbero tuttora necessarie.
Scelte di politica industriale che l’attuale esecutivo, in questi tre anni di
governo, non ha mai inserito tra le sue priorità, non ritenendo di dover operare per
rafforzare un apparato produttivo come quello del nostro paese specializzato nei
settori manifatturieri tradizionali a più basso valore aggiunto, e perciò più esposti alla
concorrenza dei nuovi competitori.
Prova di quanto appena detto è l’appello lanciato al governo nei giorni scorsi,
attraverso l’acquisto di una pagina a pagamento sui principali quotidiani, da una serie
di Associazioni del Sistema Moda, compresa quella dei Calzaturieri, affinché sia
avviata finalmente un’iniziativa a difesa del Made in Italy.
A difesa, cioè, di quel fondamentale comparto dell’economia italiana che con i
suoi oltre novecentomila addetti rappresenta dimensioni rilevanti nel complesso
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dell’economia nazionale, in particolare se viene considerato il suo apporto in termini
di contributo all’occupazione ed alla bilancia dei pagamenti.
Le posizioni di leadership acquisite negli anni sui mercati internazionali sono,
però, oggi minacciate dall’affacciarsi di nuovi competitori avvantaggiati da costi di
manodopera assai contenuti e da una notevole capacità di migliorare rapidamente la
qualità del prodotto offerto.
L’inasprirsi delle condizioni concorrenziali ha, infatti, portato prepotentemente
alla ribalta le questioni relative al commercio mondiale anche alla luce della
scadenza, prevista dall’ 1 gennaio 2005, dell’Accordo Multifibre che ha finora
disciplinato i flussi di prodotti verso l’Europa provenienti da paesi in via di sviluppo
e di nuova industrializzazione.
Una scadenza che rischia di aggravare la perdita di competitività delle imprese
europee della moda, ed in particolare di quelle italiane.
L’eliminazione dei contingenti, infatti, unitamente alle riduzioni dei dazi già
introdotte unilateralmente dall’Unione Europea, rischia di rendere l’Europa l’area più
permeabile alle importazioni dei prodotti tessili e dell’abbigliamento a livello
mondiale.
A fronte di ciò molti paesi di recente industrializzazione, continuano a
mantenere elevati dazi sulle importazioni e significative barriere non tariffarie che
rendono estremamente difficile per le imprese europee esportare in quei mercati,
creando le condizioni per l’esplodere di pericolosi fenomeni di dumping sociale ed
economico.
C’è, tuttavia, un altro elemento, per così dire, di civiltà che va sottolineato nel
raggiungimento da parte dell’Unione Europea dell’obiettivo politico economico di
creare un contesto nel quale gli operatori mondiali si trovino di fronte alle stesse
condizioni di accesso al mercato che si avranno dopo il 2005.
L’Unione Europea è, infatti, il principale operatore nel commercio mondiale
dei prodotti del sistema moda e la politica di liberalizzazione degli scambi dei
prodotti tessili e dell’abbigliamento, come delle pelli e delle calzature, espone le
imprese europee a una concorrenza che è anche il frutto del mancato rispetto degli
standard europei di tutela ambientale e di responsabilità sociale.
Non si tratta, perciò, di un mero problema di differenziale di costo del lavoro,
ma anche della mancanza di garanzie rispetto alla sostenibilità ambientale dei
processi produttivi ed alle tutele sociali nei confronti dei lavoratori, in particolare di
quelle fasce più deboli (donne e minori) presenti nelle società locali.
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E’ il fenomeno delle così dette “zone franche”, frontiere estreme della
delocalizzazione. Aree produttive dove la vita e la dignità delle persone vengono
quotidianamente calpestate attraverso condizioni di lavoro indegne per un essere
umano.
Si pone, inoltre, il problema del controllo e della certificazione della salubrità
dei prodotti e dei processi produttivi, con riferimento sia al rispetto dei diritti del
consumatore, sia ai costi aggiuntivi che le imprese europee sostengono per il rispetto
degli standard necessari in materia di tutela del lavoro e dell’ambiente.
Il problema, dal nostro punto di vista, non è, pertanto, solo quello di tutelare le
imprese europee rispetto ai concorrenti esteri ma affermare un’idea di
globalizzazione dell’economia in cui i principi di civiltà, patrimonio comune della
storia europea e del suo modello di sviluppo siano fatti vivere su scala planetaria.
E’ necessario affermare una nuova idea di commercio internazionale fondato
su condizioni di reciprocità negli scambi, nel quadro di una sua completa
liberalizzazione, in cui i flussi delle merci siano accompagnati da processi produttivi
socialmente, eticamente ed ambientalmente sostenibili.
Ecco perché paiono sostanzialmente inefficaci ed inadeguate tutte quelle
posizioni, teorizzate dall’ex superministro Tremonti e presenti soprattutto in alcune
forze politiche che sostengono l’attuale esecutivo, che hanno chiesto in questi mesi e
chiedono tuttora l’introduzione di misure protezionistiche, come filtri o barriere
doganali, per contrastare soprattutto l’ascesa dei paesi emergenti ed in particolare
della Cina.
Non di nuovi dazi abbiamo bisogno, ma di pari condizioni nell’interscambio
commerciale e di rispetto dei diritti sociali, etici ed ambientali, per aprire nuovi
mercati alla qualità delle nostre produzioni.
Purtroppo, in questo senso, la sessione di settembre 2003 dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio, svoltasi a Cancun, non ha dato i risultati auspicati dal
punto di vista dell’affermazione di un sistema di regole nel commercio
internazionale, coerente con un’idea di sviluppo legata alla messa in campo di
politiche di reciprocità, sostenibilità e tracciabilità per le produzioni manifatturiere.
La tracciabilità dei prodotti, infatti, attraverso l’introduzione di regole in
materia di etichettatura, appare per tutto il comparto tessile, abbigliamento cuoio pelli
e calzature, l’altro fondamentale strumento di governo del settore con riferimento sia
alla competizione commerciale internazionale, sia alla tutela del Made in Italy, a
fronte dei processi di delocalizzazione produttiva avviati negli anni passati e tuttora
in corso.
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In particolare nel settore calzaturiero il così detto Traffico di Perfezionamento
Passivo appare un’esperienza da superare quanto prima, al fine di incentivare e
sostenere le imprese che scelgono di rimanere a produrre in Italia.
E’ forse giusto ed accettabile apporre il marchio Made in Italy, che è il vero
patrimonio da difendere, su capi che solo in minima parte sono stati prodotti in Italia?
Noi pensiamo di no e, per fortuna, dopo tanti anni di confronto anche le
Associazioni del Sistema Moda sono d’accordo.
E’ perciò necessario che l’Unione Europea introduca regole in materia di
etichettatura che consentano la tracciabilità dei prodotti commercializzati, sia
importati che prodotti nell’Unione, permettendo in tal modo la corretta informazione
del consumatore sull’origine del prodotto e dei suoi componenti principali.
Quello dell’etichettatura è, altresì, uno strumento decisivo, insieme ad un
adeguato ed efficace sistema di controlli, nella lotta alla contraffazione, alle
importazioni illegali ed alla truffa del falso made in Italy.
Tutte forme di concorrenza sleale che costituiscono un danno enorme al settore
ma che, alimentando lavoro nero ed illegalità, producono ferite profonde
all’economia nazionale ed al tessuto sociale del paese.
Un mondo difficile, come si vede, sempre più complesso.
Un mondo che proprio per questa complessità nel suo sviluppo richiede più
regole, richiede sedi democratiche di confronto in cui ciascun paese sieda con pari
dignità.
Sedi e luoghi in cui si evitino di contrapporre le legittime aspirazioni di crescita
dei paesi emergenti e di nuova industrializzazione, alla fase di stagnazione
dell’economia dei paesi più sviluppati.
Un mondo in cui dovremo imparare a fare ancora meglio quel che già
sappiamo far bene, ma che nel nuovo scenario della competizione globale necessita di
un condiviso sistema di regole che affermi l’idea di una “buona globalizzazione”, per
superare contraddizioni e tensioni destinate altrimenti ad allargare le aree di povertà e
di esclusione sociale.
Appare, perciò, evidente come in un mondo sempre più “villaggio globale” i
legami e le interdipendenze sociali ed economiche fra varie aree del pianeta siano
vieppiù forti, e come queste impattino concretamente e, talvolta, drammaticamente
nella vita materiale di persone collocate in emisferi diversi, a migliaia di chilometri di
distanza le une dalle altre.
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Si evidenzia, quindi, la necessità della messa in campo di politiche che,
sostenute dai governi nazionali, abbiano un respiro europeo e che sappiano
rappresentare nei consessi internazionali gli interessi dei paesi membri sulla base
delle linee strategiche dettate dalla Commissione Europea.
In questo senso ha avuto enorme valore la comunicazione della Commissione
Europea del 29 ottobre 2003 su “Il futuro del settore tessile e dell’abbigliamento
nell’Unione Europa allargata”, che ha assunto il settore dell’industria della moda
come uno di quelli strategici per lo sviluppo sostenibile dell’industria europea.
Nella comunicazione si è voluto, in particolare, sottolineare il ruolo
determinante svolto dal settore, nell’Europa allargata, in termini di dimensione,
occupazione e fatturato. Un fatturato, quello della filiera della moda più che doppio
rispetto alla metallurgia ed all’agricoltura!
La migliore risposta a chi da anni, anche nel nostro paese, straparla di un
settore maturo da accompagnare al tramonto.
Un settore, viceversa, riconosciuto tra quelli innovativi ed in grado, perciò, di
raccogliere la sfida lanciata a Lisbona nel 2000, di fare, dell’Europa entro il 2010,
l’economia più competitiva nel mondo attraverso uno sviluppo basato sulla qualità e
la conoscenza.
Un riconoscimento, la comunicazione della Commissione, al forte impegno ed
al grande lavoro svolto dal sindacato tessile italiano ed europeo per la difesa ed il
rilancio del settore.
Un ruolo svolto ancora in questi mesi insieme alle Associazioni del Sistema
Moda Italia per evitare che venga emanata una normativa europea in cui
l’etichettatura obbligatoria di provenienza dei capi si limiti al Made in Europe.
Una scelta questa che fallirebbe rispetto all’obiettivo che ci si prefigge, ovvero
tutelare sul mercato le produzioni nazionali e, quindi, nel nostro caso il Made in Italy.
Un’etichetta che rischierebbe di definire, in modo indifferenziato, produzioni
realizzate in paesi e realtà produttive molto diverse tra di loro.
Venendo meno, perciò, a quella funzione di informazione al consumatore circa
l’origine effettiva dei capi, l’impiego dei materiali usati e la loro conformità con le
normative comunitarie in materia sanitaria.
Ben più adeguata, rispetto al risultato che si vuole ottenere, è la proposta di
un’etichetta “Made in Italy/Europe” in vista di un’etichetta che in prospettiva
consenta di “tracciare” le principali e diverse fasi di produzione.
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Per la difesa ed il rilancio delle filiere della moda ha operato in questi anni in
modo assiduo anche la Regione Toscana, a sostegno di una componente
imprescindibile dell’economia regionale, cercando di sopperire con una propria
politica industriale e con proprie risorse all’assenza del governo centrale, in un
concerto di iniziative con le parti sociali e con le altre regioni dove è più forte la
presenza produttiva della moda.
In Toscana, infatti, sui 12 distretti industriali individuati dalla delibera del
Consiglio Regionale n. 69, del 21.02.2000, ben 8 appartengono alle filiere della moda
propriamente detta, ma anche gli altri distretti coincidono con settori produttivi legati
comunque all’importanza del marchio Made in Italy.
Appare, perciò, vitale per la tutela dell’economia toscana la salvaguardia di
questo tessuto produttivo caratterizzato dal prevalere di piccole e micro imprese,
come dimostrano le statistiche che ci parlano di un 35,2% di addetti concentrati nelle
imprese con meno di 10 dipendenti, un 39,3% in quelle con un numero di dipendenti
compreso tra 10 e 50 e solo il 25,5% in quelle con più di 50 dipendenti.
Un tessuto di imprese che è stato alla base del modello di sviluppo toscano che
ha garantito per una lunga fase un adeguato ritmo di crescita e di redistribuzione della
ricchezza, come certificato dai dati che indicano uno standard di benessere superiore
alla media delle altre regioni italiane.
Un modello fondato su un forte livello di relazioni industriali ad elevato
contenuto di partecipazione dei lavoratori, e su una feconda cooperazione tra imprese
ed istituzioni locali.
L’attuale congiuntura negativa contrassegnata, secondo i dati dell’IRPET, da
due anni di crescita zero per l’economia regionale, ha fortemente acuito il senso di
incertezza e imprevedibilità sulle linee di evoluzione della situazione a livello
globale.
Nel 2003 il PIL della Toscana ha segnato una contrazione dello 0,3% rispetto
all’anno precedente, cosa che non accadeva da venti anni, a conferma di un quadro
economico critico i cui primi segni erano già visibili verso la fine del 2000 e che ha
seguito un tracciato negativo passando da una fase di rallentamento ad una di
stagnazione con caratteristiche recessive.
Una situazione significativamente condizionata dalle cattive performances
proprio del comparto moda che, pur contribuendo al positivo saldo della bilancia
commerciale toscana, ha visto decrescere fortemente il proprio peso in termini di
export sul totale delle esportazioni regionali (dal 44,4% del 1992 a poco più del 30%
nel 2003).
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L’export toscano ha visto diminuire nel 2003 le sue esportazioni del 7,7% dopo
che già nel 2002 erano calate del 3,3%.
In questo difficile contesto la Regione Toscana ha promosso alla fine del 2002,
dopo una lunga fase di confronto con le parti sociali, il Progetto Pilota Integrato sul
Sistema Moda mettendo a disposizione del sistema d’impresa 50 milioni di euro
l’anno, per il triennio 2003/2005.
Tale progetto, articolato su 17 assi di finanziamento, ha concesso contributi nel
2003 nella misura di circa 49 milioni di euro su azioni legate a investimenti
innovativi, sostegno alla ricerca e sviluppo, sostegno all’internazionalizzazione,
sostegno ai consorzi export, sostegno al trasferimento tecnologico ed agli studi di
fattibilità per l’integrazione tra imprese.
Come si vede risorse pubbliche destinate a interventi selettivi mirati alla
riqualificazione ed innovazione dell’apparato produttivo attraverso l’investimento in
ricerca e sviluppo.
Attività, queste ultime, verso cui il nostro paese mostra una bassa propensione,
occupando una delle ultime posizioni nel novero dei paesi industrializzati: solo
l’1,1% del PIL di investimenti in ricerca e sviluppo. Meno della metà degli altri paesi.
Considerando anche l’apporto dato dal sistema privato, la percentuale scende a 1/3
(un terzo).
Un intervento sostanziale, perciò, di politica industriale, a livello regionale,
teso a iniettare forti dosi di innovazione al sistema per rafforzare qualità e capacità
competitiva che, non a caso, ha voluto privilegiare le misure rivolte a favorire nuovi
investimenti piuttosto che quelle mirate al puro mantenimento del sistema.
Un intervento che oggi, di fronte al permanere di una crisi profonda del
comparto ha saputo accogliere le richieste di parziali modifiche legate al sostegno
della struttura produttiva, considerata anche la ridotta capacità di spesa di molte
imprese.
Con la costituzione di “FABRICA ETHICA” l’iniziativa della Regione si è,
però, saputa qualificare anche sul terreno della certificazione di responsabilità sociale
delle imprese (RSI), come strumento di salvaguardia e riconoscimento della
credibilità delle aziende toscane. La S.A. 8000 (Social Accontability) corrisponde alla
prima certificazione di responsabilità sociale (etica) rilasciata da enti terzi, e non per
autocertificazione come avviene nella maggioranza dei codici di condotta e
comportamento.
Attraverso l’individuazione di vari strumenti finanziari si è iniziata ad
incentivare la diffusione di S.A. 8000 ed alla fine del 2003 l’Italia è diventata il paese
con il maggior numero di aziende socialmente certificate nel mondo (52).
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La Toscana è la Regione che ne ospita la quantità maggiore (16), in attesa che
terminino l’iter di certificazione altre 50 aziende che hanno ricevuto incentivi
finanziari.
“Piccola impresa grande civiltà” era il titolo del convegno organizzato dalla
Regione Toscana nel maggio 2003 ma è anche un’ambizione e un obiettivo da
raggiungere malgrado la difficile e prolungata crisi economica non rinunciando a
coniugare efficienza, innovazione e competitività con i valori di solidarietà e
responsabilità etica su cui questa parte del paese ha costruito la sua peculiare idea di
coesione sociale ed istituzionale.
Le dinamiche in atto sugli scenari globali e le ripercussioni a livello locale
dimostrano come non esistano, in un contesto imprevedibile denso di repentini
cambiamenti, ricette magiche, ma appare altrettanto chiaro che la posta in gioco è
elevatissima e solo sapendo unire tutte le energie sane a disposizione si potrà
governare nel territorio questa storica fase di passaggio dell’economia mondiale,
caratterizzata da un’intensa capacità competitiva dei paesi terzi congiunta ad un
restringimento della domanda interna con effetti depressivi sull’apparato produttivo.
Per questo è stato importante firmare nel mese di maggio da parte di tutti gli
attori sociali, - imprese, sindacati, istituzioni – il “Patto per uno sviluppo qualificato e
per maggiori e migliori lavori in Toscana”.
Si è, infatti, condivisa da parte di tutti l’idea che la nostra capacità competitiva
può seguire solo la via alta dello sviluppo, permeando di qualità non solo i prodotti
ma anche i processi produttivi, perseguendo, in questo modo, un modello innovativo
di governance allargata che veda uniti gli sforzi di tutti i soggetti pubblici e privati.
Investendo, perciò, nella qualità delle produzioni, ma anche e soprattutto nella
qualità delle relazioni industriali ed interistituzionali e nella capacità di fare sistema
di tutti gli attori sociali.
A questo rinnovato modello di governance della dinamica locale sembra ben
corrispondere, per le peculiarità e l’esperienza maturata, l’ambito operativo del
distretto industriale e la sua conseguente cultura.
Una cultura fatta di capacità di interrelazione fra società locale e sistema
produttivo di piccola e media impresa, ad onta di una domanda che spesso viene
posta circa la debolezza di una struttura formata prevalentemente da aziende di
ridotte dimensioni, cui spesso si associano i concetti di precarietà, fragilità e
subalternità.
Ora, se è ampiamente dimostrato che questo tipo di realtà risulta essere
sottodotata in termini di risorse e competenze quali capacità di marketing, ricerca e
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sviluppo e finanza, assolutamente indispensabili nel nuovo scenario competitivo, è
altresì vero e dimostrato che proprio la forma organizzativa del distretto con le sue
relazioni è in grado di fornirle un forte valore aggiunto.
Un valore aggiunto fatto di mobilitazione di energie individuali, propensione
cooperativa e trasmissione di saperi formali e informali.
Purché sappiano coniugare efficienza produttiva, qualità del lavoro ed
innovazione le piccole imprese possono trovare nell’ambiente distrettuale le
condizioni migliori per limitare quel differenziale di competitività incolmabile, a
parità di dimensioni di impresa, in altri contesti come asserito in una ricerca della
Banca d’Italia sulle piccole e medie imprese.
Per comprendere queste condizioni contestuali bisogna, perciò, saper cogliere
quella che l’economista Marshall, nel suo libro “Industria e commercio”, ha definito
l’atmosfera industriale.
Cioè quella tendenza alla concentrazione ad al radicamento di imprese dello
stesso settore in una determinata area favorita sia dalla componente economica delle
economie esterne e della riduzione dei costi aziendali, che, secondo la definizione di
Becattini riguarda il formarsi di intense relazioni di filiera di subfornitura, di
un’estesa trasmissione delle conoscenze e di un forte atteggiamento cooperativo dei
diversi protagonisti sociali ed istituzionali.
Questo modello, coerente con le caratteristiche di specializzazione
internazionale del nostro apparato produttivo, ha rappresentato secondo una
definizione di Romano Prodi del 1998 “l’unica innovazione socioeconomica che
l’Italia abbia sviluppato e portato all’attenzione del mondo intero nel secondo
dopoguerra”.
Il distretto ed il sistema a rete possono, quindi, essere considerati come
l’alternativa italiana alla tradizionale crescita del “modello fordista” ed in generale
della media e grande impresa capitalistica.
Un modello, quindi, che ha consentito nel secondo dopoguerra l’emergere di
sistemi produttivi locali e imprese a rete, in grado di generare “economie di scala di
sistema” alternative alle classiche “economie di scala d’impianto”.
Tuttavia in un contesto di intensa e veloce evoluzione del quadro economico
mondiale, alimentato dalla globalizzazione dei mercati, dai cambiamenti nei modelli
distributivi, dalla diffusione di tecnologie di comunicazione e dalla concorrenza tra
sistemi-paese, si evidenziano alcune necessità di correzione del modello distrettuale.
In particolare in una fase in cui, dopo l’avvento dell’euro, il tasso di cambio
non è più debole, e quindi non è più in grado di fornire un ricorrente sostegno alla
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competitività internazionale di prezzo/costo, emergono significativi problemi di
tenuta competitiva e di crescita in linea con i mercati.
Nei distretti della moda in Toscana questa situazione segnala tendenze
evolutive con l’emersione di imprese leader con caratteristiche più vicine alla mediogrande impresa e quindi con strutture più attrezzate ad affrontare il passaggio da
strategie puramente di esportazione a strategie di insediamento e radicamento nei
mercati, supportati da robusti investimenti in innovazione e ricerca.
Chiusa la fase di “crescita spontanea” dei distretti e sempre meno attuale il
tanto gettonato “piccolo è bello” che ha contraddistinto per anni l’attività delle
imprese distrettuali resta un importante spazio di iniziativa per gli attori istituzionali,
cui compete il diritto/dovere di esprimere una visione dello sviluppo dell’economia
locale di lungo periodo.
Mobilitare energie e risorse attorno a progetti condivisi, valorizzare a pieno la
natura sistemica delle interrelazioni che il territorio esprime, governare le
trasformazioni e le riorganizzazioni delle filiere produttive attraverso processi
innovativi sono le coordinate su cui accettare la sfida della modernizzazione del
modello distrettuale.
Bisogna essere coscienti che siamo di fronte ad una fase di passaggio epocale
dell’economia mondiale destinata a modificarne i poteri con l’ascesa di nuovi
protagonisti nello scenario globale, portatori di nuove logiche produttive ed
organizzative.
In questa fase bisogna saper difendere il modello distrettuale, come uno dei
punti di forza della nostra economia.
Come affermano Enrico Letta e Pierluigi Bersani nel loro libro “Viaggio
nell’economia italiana”, scritto dopo un lungo itinerario che li ha portati a visitare
tutti i distretti della penisola, “……..il modello dei distretti non è finito. Anzi, esso è
la base di partenza per il rilancio reale e concreto dell’economia italiana in
un’autentica prospettiva europea. Proprio i distretti italiani, in passato, hanno segnato
la differenza tra industria manifatturiera di quantità e quella di qualità”.
Questo di Santa Croce sull’Arno è, insieme a Prato, il distretto toscano con il
più alto tasso di specializzazione sul totale di addetti nelle attività manifatturiere. Il
distretto si estende su una superficie territoriale di 330,44 Kmq comprendente sei
comuni della provincia di Pisa (Bientina, Castelfranco di Sotto, Monopoli in val
d’Arno, San Miniato, Santa Croce sull’Arno e Santa Maria a Monte) ed uno della
provincia di Firenze (Fucecchio).
Nel distretto del Cuoio insieme all’attività calzaturiera come fase apicale della
filiera cuoio pelli e calzature è attiva l’industria conciaria con 644 aziende e 6.293
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dipendenti secondo i dati INPS, più o meno equamente suddivise tra concerie e
contoterzisti.
Le aziende conciarie realizzano il 98% della produzione nazionale di cuoio da
suola ed il 35% della produzione nazionale di pelli per calzature, pelletteria ed
abbigliamento.
I clienti del sistema conciario toscano sono per il 70% nel settore calzaturiero,
il 15% è assorbito dalla pelletteria, il 10% dall’abbigliamento ed il restante 5%
dall’arredamento e da altre produzioni.
Il settore calzaturiero pisano ha iniziato a svilupparsi alla fine degli anni ’50
trainato dal sistema conciario e si è specializzato nella produzione di scarpe da donna
di qualità medio-fine e di sandali.
Pisa, secondo dati del Club dei Distretti, è la terza provincia italiana dopo
Ascoli Piceno e Macerata per concentrazione di aziende calzaturiere con il 6,56% del
totale nazionale.
Già questi numeri dicono da soli dell’importanza del Distretto del Cuoio nel
panorama nazionale e della rilevanza del settore calzaturiero insieme agli altri
comparti della moda (maglifici, confezioni ed ombrellifici) nell’economia
provinciale.
Un’economia, quella pisana, che nel 2003 secondo i dati della Camera di
Commercio ha visto una forte contrazione dell’industria manifatturiera dovuta ad un
tracollo delle esportazioni, con una flessione del 9,3% determinata in gran parte dai
pessimi risultati rispetto al 2002 proprio del comparto cuoio, pelli – 15,1% e calzature
– 17,3%.
Se si analizza la situazione di questi due comparti assumendo altri elementi di
valutazione il quadro non migliora, con un andamento negativo in tutti e quattro i
trimestri del 2003 per un saldo finale che per il cuoio e le pelli si riassume in – 14,5%
di produzione, - 15% di fatturato, mentre per le calzature abbiamo – 17,1% di
produzione e – 14,5% di fatturato.
Purtroppo anche i dati, se pur parziali, del 2004 mostrano una tendenza priva di
segnali incoraggianti come evidenziato dall’ultima trimestrale dell’Unione
Industriali.
A questi dati sull’andamento produttivo vanno, inoltre, aggiunti i dati
sull’utilizzo degli ammortizzatori sociali che segnalano, nel calzaturiero, un
fortissimo aumento di Cassa Integrazione Ordinaria e Straordinaria nell’industria e di
sospensioni nell’artigianato.
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Guardando la crudezza di questi dati appare alquanto paradossale, sia detto
senza intento polemico, la discussione che ha animato il confronto dei mesi scorsi
circa l’esistenza o meno nella provincia di Pisa di una situazione di crisi dei comparti
citati.
E’ proprio guardando in faccia questa difficile realtà che FILTEA FEMCA e
UILTA di Pisa, nel luglio del 2003 hanno chiesto alla Provincia di attivare il Tavolo
di Concertazione sul Sistema Moda
Partendo, cioè, dalla convinzione che proprio di fronte a un tale livello di
difficoltà fosse necessario un forte impegno di tutti per provare a dare risposte
positive ai problemi del settore.
Il lavoro del Tavolo in questi mesi ha avuto un andamento alterno fino alla
rottura, verificatasi nel mese di giugno, circa la possibilità di attivare ammortizzatori
sociali straordinari per gestire la sfavorevole congiuntura.
Siamo sempre dell’idea che sia stato un errore non aver utilizzato quella
possibilità, come avvenuto in altri distretti della moda: oggi avremmo uno strumento
in più per rispondere all’acuirsi delle difficoltà.
Vanno, perciò, verificate quelle ipotesi di proroga dei termini rispetto alla data
del 30 giugno scorso che secondo fonti ministeriali e della Regione Toscana
potrebbero consentire di riavviare quel ragionamento.
Tuttavia, attraverso una dialettica talvolta anche aspra ed un nuovo slancio
propositivo del “Tavolo della Moda”, tutti i soggetti, molti dei quali oggi qui presenti,
hanno saputo con rinnovato spirito costruttivo operare per far prevalere l’interesse
generale del settore e del territorio rispetto alle convinzioni di parte.
Grazie a questo atteggiamento nei prossimi giorni tutti i soggetti sociali ed
istituzionali sottoscriveranno un’intesa per il rilancio dell’intera filiera cuoio pelli e
calzature: è la prima volta nella storia della Provincia di Pisa che si realizza un
documento concertativo con queste caratteristiche di unità della filiera, pur nelle
peculiarità di singolo comparto.
E’ un fatto di grande importanza. Così come è di grande importanza la
condivisione da parte di tutti che la nuova sfida competitiva si debba giocare sul
piano della qualità e non sull’abbattimento dei costi, cioè su un’idea alta dello
sviluppo economico, sociale e produttivo.
Qualità, qualità ed ancora qualità.
Qualità dell’innovazione, qualità del trasferimento tecnologico alle imprese,
qualità dei processi produttivi, qualità della formazione, qualità dei prodotti, e qualità
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di relazioni industriali e sindacali per realizzare quei cambiamenti necessari per il
rilancio del settore calzaturiero.
Un’idea di qualità contenuta nell’“Accordo per lo sviluppo, l’occupazione e la
competitività del sistema economico pisano” sottoscritto nel mese di febbraio scorso
e nell’accordo per il settore calzaturiero sottoscritto poco più di un mese fa con
l’Unione Industriale Pisana da CGIL CISL UIL e FILTEA FEMCA UILTA di Pisa.
Un accordo, quest’ultimo, che dovrà trovare rapidamente ulteriori momenti di
approfondimento sui singoli ambiti dell’intervento ivi individuati, avviando
sperimentazioni delle azioni concordate.
Analogo confronto vorremmo svolgere nei prossimi giorni con le Associazioni
Artigiane per arrivare quanto prima ad un comune luogo di discussione e di
elaborazione di iniziative per il comparto calzaturiero.
Le aziende artigiane, per la loro struttura finanziaria, per la loro dimensione e
per le loro caratteristiche di aziende subfornitrici sono infatti le più esposte ai venti
della crisi.
Non disponendo, peraltro, di adeguati ammortizzatori sociali, nell’artigianato si
rischia concretamente la chiusura di diverse aziende con la perdita di molti posti di
lavoro.
Tra le 522 aziende del settore calzaturiero solo 32 vantano più di 30 dipendenti
mentre l’addensamento maggiore di aziende è riscontrabile nella classe fino a 5
dipendenti.
Questi dati, ricavati dall’INPS, la dicono lunga anche sulla necessità di
favorire, attraverso l’adozione di misure incentivanti, alcune delle quali già presenti
nel Progetto Moda, la crescita dimensionale delle imprese.
Tale processo di rafforzamento della filiera potrà essere realizzato attraverso
fusioni, acquisizioni o associazioni temporanee d’impresa, cioè attraverso azioni utili
a sostenere tale strategia di integrazione.
Così come è necessario progettare reti tra imprese utilizzando le moderne
tecnologie telematiche e mettendo in comune competenze ed informazioni.
Programmi di formazione dovranno essere rivolti alla creazione di figure
professionali strategiche per la gestione dei processi di rinnovamento delle forme di
aggregazione delle imprese.
Bisogna puntare sulla realizzazione di consorzi e altre forme di cooperazione
competitiva per la gestione comune di attività. In questo ambito le principali attività
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di
aggregazione
dovranno
riguardare
l’internazionalizzazione,
commercializzazione, l’innovazione e la ricerca, la finanza.
la
Il rapporto con il credito rappresenta per le aziende di questo settore un
ulteriore fattore di difficoltà nella competizione sui mercati.
In Toscana, negli anni scorsi, si è prodotta una situazione che ha allontanato
dal territorio, salvo poche ma importanti realtà, i centri di decisione del sistema
bancario.
Il nostro territorio ha subito piuttosto una accentuazione dell’attività di
sportello, dedita più alla raccolta che al sostegno ed alla promozione dell’apparato
produttivo.
Su questo punto, assai delicato, sarà importante che le istituzioni locali – dai
comuni fino alla Regione- svolgano un’azione coordinata finalizzata ad una maggiore
facilità di accesso al credito a condizioni agevolate per il sistema di impresa, anche
attraverso il rafforzamento delle convenzioni esistenti.
Anche il sistema del credito deve fare la sua parte per recuperare quel ruolo di
promotore dello sviluppo economico e sociale di un paese o, in questo caso di un’area
sistema, a cui negli ultimi anni ha abdicato svolgendo funzioni non sempre proprie
come anche le ultime vicende della Parmalat dimostrano.
Tale funzione di sostegno all’apparato produttivo del territorio è ancor più
necessario alla luce del nuovo accordo di Basilea, sul credito, che introducendo nuovi
criteri di valutazione del rating rischia di mettere fuori mercato la gran parte delle
piccole e medie imprese del sistema.
Gli studi di fattibilità dovranno diventare sempre più lo strumento privilegiato
per ridefinire strategie di offerta produttiva, nonché di riposizionamento sui mercati,
attraverso processi di diversificazione del prodotto accompagnati da idonei percorsi
formativi di riqualificazione del personale.
In questo senso di pari passo alla riqualificazione e innovazione organizzativa
dei modelli produttivi si dovrà investire nella capacità stilistica e modellistica per
sostenere un percorso di emancipazione da una prevalente condizione di
contoterzismo.
Investire nell’innovazione creativa, nello stilismo e nella modellistica significa
investire fortemente sul contenuto moda del settore elevando la qualità e la forza di
penetrazione dei prodotti.
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Significa posizionare la “scarpa pisana” su una fascia di mercato meno
soggetta alla competizione dei paesi a basso costo del lavoro, sottraendola alla
pressione del prezzo ed alle oscillazioni del rapporto di cambio euro-dollaro.
In questo processo è necessario costruire una capacità autonoma di intervento
sulla rete distributiva superando progressivamente la funzione finora svolta dai
buyers e recuperando per questa via margini di redditività.
Ad un prodotto di qualità dovrà corrispondere una ricerca e sviluppo di qualità
sui materiali, sfruttando le straordinarie competenze presenti nel distretto e nel
territorio con le eccellenze rappresentate dai diversi centri e poli di ricerca allocati in
provincia di Pisa.
Questo aspetto potrebbe essere favorito anche dall’istituzione del “Sistema
dell’ High Tech” nell’area pisana, il cui avvio potrebbe realizzarsi nei prossimi mesi,
strutturando, quindi, un rapporto tra il sistema di imprese ed un necessario
trasferimento tecnologico.
Bisognerà sperimentare un ciclo integrato che esalti il processo di trattamento
della pelle e del cuoio mettendolo in relazione con la qualità del prodotto finale, la
scarpa.
Tale sperimentazione potrà rappresentare un tratto distintivo della produzione
di pelli cuoio e calzature del territorio pisano.
Nel ridisegnare il profilo strategico del rilancio del comparto calzaturiero
assume, di conseguenza, enorme importanza il fattore lavoro attraverso percorsi di
formazione continua per il personale in forza e percorsi di inserimento professionale
qualificato per le giovani generazioni interessate ad un ingresso nel settore
calzaturiero.
Tutta questa serie di interventi presuppone, ovviamente, un alto livello di
condivisione degli obiettivi da parte di tutti gli attori sociali ed istituzionali, del
distretto e del territorio.
Il PASL, Patto per lo Sviluppo Locale, così come confermato dal Piano
Regionale per lo Sviluppo Economico 2003/2005, sembra essere, insieme al Progetto
Moda, lo strumento più idoneo per l’individuazione ed il reperimento delle risorse
necessarie al finanziamento del progetto di rilancio del settore calzaturiero.
Ciò potrà avvenire attraverso il raggiungimento di una serie di obiettivi
concreti che consentano di ridefinire le coordinate di una riorganizzazione degli
strumenti di intervento del distretto industriale affiancando il Comitato di Distretto al
Tavolo della Moda.
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Mi avvio a concludere
Questa è, quindi, la nostra proposta, per il rilancio del settore calzaturiero
pisano: fare sistema e puntare sulla qualità.
Fare sistema tra tutti i soggetti sociali ed istituzionali per realizzare politiche
condivise e concertate, azioni mirate a sostenere il riposizionamento competitivo del
distretto e delle aziende calzaturiere sia industriali che artigiane.
Puntare sulla qualità materiale e immateriale, su istruzione e formazione,
coesione sociale, tutela e qualificazione del lavoro e della qualità della vita nel
territorio.
Si tratta, in sostanza, di salvaguardare il “capitale umano” ed il “capitale
sociale” della nostra provincia.
Intendendo per “capitale umano” l’insieme delle competenze e delle capacità
professionali di questa area: il lavoro.
Intendendo per “capitale sociale” l’insieme delle relazioni orientate a fini
comuni fondate sulla fiducia reciproca: il sistema.
Con questa giornata noi abbiamo voluto dare, perciò, il nostro contributo per
rinsaldare la fiducia tra tutti i soggetti sociali ed istituzionali e gli operatori economici
interessati al rilancio del settore calzaturiero e dell’intera filiera distrettuale.
Interessati, cioè, al futuro di questo comparto produttivo e delle persone che vi
operano.
La FILTEA, la CGIL, ed il sindacato tutto continueranno a fare la propria parte
per codeterminare le linee di azione utili alla definizione di una strategia di rilancio
del settore.
Nella certezza che con il contributo di tutti e soprattutto con la forza delle
nostre aziende e dei nostri lavoratori riusciremo a superare anche questo momento di
difficoltà ed a rispondere positivamente alle ansie, alle preoccupazioni ma anche alle
speranze di tante persone.
Ora è il tempo delle scelte.
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