Università degli Studi di Trento – Facoltà di scienze cognitive
Corso di laurea in EDUCATORE PROFESSIONALE SANITARIO
DIRITTO AMMINISTRATIVO
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Documentazione ad uso didattico interno
(a cura di Stefano Malena)
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POSIZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE
ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA
ATTO AMMINISTRATIVO
PROCEDIMENTO
SOGGETTI DI DIRITTO
Una delle funzioni essenziali dell’ordinamento è quella di risolvere i conflitti di interessi
intersoggettivi. Gli interessi sono aspirazioni dei soggetti verso beni ritenuti idonei a
soddisfare bisogni. Situazione giuridica soggettiva è la concreta situazione (o modi d’essere
giuridici) di cui è titolare un soggetto in ordine a interessi protetti dell’ordinamento.
Le posizioni giuridiche soggettive costituiscono il complesso dei diritti, poteri, obblighi di cui
un soggetto giuridico può essere titolare.
Si distinguono in attive (diritto soggettivo, potere e potestà, interesse legittimo, interesse
semplice) e passive (obbligo, dovere, onere).
Il loro riconoscimento viene effettuato dalle diverse norme dell’ordinamento.
La riferibilità effettiva di situazioni giuridiche ad un soggetto presuppone la idoneità di questo
ad esserne titolare: tale idoneità si definisce come “capacità giuridica”.
Persona nel linguaggio giuridico sta a significare “soggetto di diritto”. E’ l’ordinamento
giuridico che stabilisce chi debba essere considerato soggetto di diritto, cioè persona.
Si è “persona” quando l’ordinamento giuridico attribuisce la personalità giuridica e cioè la
idoneità alla titolarità di situazioni giuridiche.
Per le persone fisiche, la capacità giuridica (cioè l’idoneità ad essere titolari di diritti e doveri)
si acquista al momento della nascita (art. 22 Cost. e art. 1 c.c.), mentre la capacità di agire
(intesa come idoneità ad esercitare diritti e ad assumere obblighi) si acquista al compimento del
diciottesimo anno.
Le persone giuridiche sono entità astratte (enti) cui l’ordinamento giuridico attribuisce la
personalità giuridica se presentano determinati requisiti. Elementi essenziali delle persone
giuridiche sono: a) un’organizzazione di persone e di mezzi; b) uno scopo, per cui tale
organizzazione si costituisce; c) il riconoscimento da parte dell’ordinamento a richiesta degli
interessati o per legge.
Le persone giuridiche si possono classificare in base a vari criteri:
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associazioni e fondazioni, la cui distinzione si fonda sulla preminenza dell’elemento
personale o di quello patrimoniale;
pubbliche e private.
Il potere è la potenzialità astratta di tenere un certo comportamento ed espressione della
capacità del soggetto, e perciò da esso inseparabile (es: potere di agire in giudizio; di disporre
di un bene).
Quando la necessità di tenere un comportamento sia correlata al diritto altrui si versa nella
situazione di obbligo, che è appunto il vincolo del comportamento del soggetto in vista di uno
specifico interesse di chi è il titolare della situazione di vantaggio (es: l’obbligazione del
debitore nel diritto di credito).
DIRITTO SOGGETTIVO
Il diritto soggettivo è quella posizione giuridica soggettiva di vantaggio che l’ordinamento
giuridico conferisce ad un soggetto, riconoscendogli determinate utilità in ordine ad un bene,
nonché la tutela degli interessi afferenti al bene stesso, in modo pieno ed immediato.
Il diritto soggettivo può essere definito come la pretesa, direttamente prevista e tutelata
dall’ordinamento, a che tutti gli altri soggetti si astengano da un determinato comportamento
verso un dato bene (c.d. diritto assoluto), ovvero a che un soggetto determinato tenga un dato
comportamento positivo o negativo (c.d. diritto relativo o di credito). La tutela di tali diritti è
rimessa normalmente al giudice ordinario.
Si ha diritto soggettivo perfetto ogni volta che una norma c.d. di relazione, volta a disciplinare
comportamenti intersoggettivi, attribuisca ad un soggetto un potere diretto ed immediato per la
realizzazione di un proprio interesse cui corrisponde necessariamente un obbligo facente capo a
soggetti determinati ovvero alla collettività (elemento caratterizzante: immediatezza e pienezza
della tutela).
Si hanno diritti condizionati qualora l’esercizio di essi è sottoposto a condizione che può essere
risolutiva (> affievolimento dei diritti) o sospensiva (> diritti in attesa di espansione). I diritti
condizionati si hanno normalmente nei rapporti con la pubblica amministrazione.
Ancora: la situazione giuridica di vantaggio definita diritto soggettivo si ha quando la legge
attribuisce al titolare la possibilità di realizzare il proprio interesse indipendentemente dalla
soddisfazione dell’interesse pubblico curato dall’amministrazione. Il diritto soggettivo è
tutelato in via assoluta, in quanto è garantita al suo titolare la soddisfazione piena e non mediata
dell’interesse “bene della vita” finale protetto dalla norma.
Diritto soggettivo è quindi la situazione giuridica di immunità dal potere; essa spetta al
soggetto cui sia accordata dall’ordinamento protezione piena ed incondizionata di interessi da
parte di una norma dell’ordinamento stesso. L’interesse risulta così sottratto alla disponibilità di
qualunque soggetto diverso dal titolare, nel senso che la sua soddisfazione non dipende
dall’esercizio di un potere altrui.
Poiché il potere amministrativo comporta una incisione della sfera dei privati, esso deve essere
tipico e cioè predeterminato dalla legge in ossequio al principio di legalità che esprime la
garanzia delle situazioni dei privati stessi. Le norme che, attribuendo poteri, riconoscono
interessi pubblici vincenti su quelli privati, sono norme di relazione, caratterizzate cioè dal
fatto di risolvere conflitti intersoggettivi di interessi.
Come già detto, la risoluzione dei conflitti quando sono in gioco diritti soggettivi è rimessa,
normalmente, al Giudice Ordinario (salvo i casi previsti dalla legge di giurisdizione del TAR
anche per i diritti soggettivi: detta “giurisdizione esclusiva”).
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INTERESSE LEGITTIMO
Focalizziamo l’attenzione ora sui rapporti tra amministrazione e soggetti privati.
L’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva individuale che ha trovato
riconoscimento nel nostro ordinamento già con la legge 5992 del 1889, che ha istituito la IV
Sezione del Consiglio di Stato, quale giudice di quegli interessi sostanziali diversi dai diritti
soggettivi che erano privi di tutela.
L’interesse legittimo è una posizione soggettiva di vantaggio riconosciuta ad un soggetto del
diritto a condizione che non confligga con la realizzazione da parte della P.A.,
dell’interesse pubblico che viene di volta in volta in questione; la tutela è quindi meno piena
di quella riconosciuta al diritto soggettivo.
La sua tutela è accordata non solo in fase giudiziale ai fini dell’annullamento di atti illegittimi,
ma anche in un momento precedente, ossia in fase di svolgimento del procedimento, al fine di
orientare l’azione amministrativa anche nel senso della giusta considerazione dell’interesse
privato coinvolto (partecipazione, accesso ai documenti o ricorsi amministrativi).
Di interesse legittimo si occupano, senza dare una definizione, espressamente 3 norme della
Costituzione: gli articoli 24, 103 e 113, tese a riconoscere a tali interessi piena dignità e tutela.
Secondo Virga l’interesse legittimo può definirsi come “la pretesa alla legittimità dell’atto
amministrativo riconosciuta a quel soggetto che rispetto al potere discrezionale della P.A. si
trovi in una posizione differenziata rispetto agli altri (posizione legittimante)”. Più
recentemente, la dottrina definisce l’interesse legittimo come “la posizione di vantaggio
riconosciuta ad un soggetto dell’ordinamento in ordine ad un bene oggetto di potere
amministrativo e consistente nell’attribuzione al medesimo soggetto di poteri atti ad influire sul
corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile l’interesse al bene”. Ciò vale
soprattutto dopo la legge n. 241 del 1990: il potere amministrativo si esercita infatti attraverso
una sorta di confronto e di cooperazione con gli interessi privati, che ha la sua sede nel
procedimento.
Posto quindi che sia il diritto soggettivo che l’interesse legittimo hanno alla base un interesse
materiale protetto dall’ordinamento (come confermato da Cassaz. Sez. Un. 500/1999), essi
vanno differenziati secondo il grado di protezione (il DS consta di poteri atti a soddisfare
sempre e pienamente l’interesse materiale, mentre l’IL è tutelato non pienamente, bensì in
funzione della realizzazione dell’interesse pubblico generale attraverso l’esercizio del potere
pubblico) e le forme di protezione (la titolarità del DS legittima il privato ad ottenere solo
pronunce di natura reintegratoria o risarcitoria, mentre l’IL offre tutela più ampia, quale
annullamento, eliminazione dell’atto, partecipazione al procedimento, ecc.).
DS e IL sono due situazioni non comparabili in quanto disomogenee.
Ancora: l’ordinamento riconosce prevalenza agli interessi che possono entrare in conflitto fra
loro attribuendo di volta in volta diritti (se prevale l’interesse del privato) o poteri
amministrativi (quando prevale l’interesse pubblico) i quali ultimi consentono di produrre
vicende giuridiche in ordine a situazioni di terzi. Nei confronti dell’esercizio del potere il
privato si trova in uno stato di soggezione.
Ad esempio: l’interesse di un soggetto che partecipa ad un pubblico concorso, ovvero il potere
di esproprio riconosciuto alla PA su beni immobili dei privati. Nel primo caso il privato
pretende qualcosa dalla PA sicchè la soddisfazione della propria aspirazione passa attraverso il
comportamento attivo della PA (interesse c.d. pretensivo); nel secondo, il privato si oppone
all’esercizio di un potere che potrebbe cagionare una vicenda giuridica svantaggiosa, onde egli
vedrà soddisfatta la propria pretesa in quanto la PA non eserciti il potere (interesse c.d.
oppositivo). In questi casi è chiaro che il privato non ha un diritto soggettivo in quanto la sua
aspirazione al bene finale non è tutelata in via assoluta dall’ordinamento, non è cioè protetta da
una norma di relazione: la fruizione e il mantenimento dell’interesse del privato dipendono
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dall’esercizio di un potere dell’amministrazione; l’interesse privato non è un limite alla
soddisfazione di quello pubblico.
Accanto alla disciplina che attribuisce il potere, vi è quella che regolamenta l’esercizio dello
stesso (norma di azione). Il momento dell’esercizio non è infatti lasciato all’arbitrio della PA,
ma è retto da una serie di disposizioni spesso molto puntuali, e quindi la situazione del privato
non è priva di tutela. Egli ha infatti la pretesa, giuridicamente tutelata dall’ordinamento, che
l’attività della PA si svolga in modo corretto e legittimo. Esistono, dunque, interessi di soggetti
dell’ordinamento, da questo tutelati, che però non trovano nell’ordinamento medesimo alcuna
garanzia di realizzazione dell’interesse finale, perché necessariamente collegati con l’esercizio
del potere amministrativo. Questa antinomia rende controversa e sfuggente la figura
dell’interesse legittimo, situazione soggettiva di vantaggio di fondamentale importanza, ribadita
dalla nostra Costituzione.
Sulla ripartizione esistente tra le diverse posizioni giuridiche soggettive del diritto soggettivo e
dell’interesse legittimo si fonda la ripartizione della giustizia italiana, secondo il principio del
doppio binario: la tutela degli interessi legittimi è infatti affidata ad un Giudice diverso da
quello ordinario che è il Giudice Amministrativo: il Tribunale Regionale di Giustizia
Amministrativa (TRGA o TAR) in primo grado e il Consiglio di Stato in appello.
In tema di tutelabilità dell’interesse legittimo, c’è stata una novità importante con la pronuncia
della Cassazione a Sez. Unite 22.07.1999, n. 500, nel senso che il giudice di legittimità,
ribaltando l’orientamento precedente, ha riconosciuto la risarcibilità dei danni da lesione di
interessi legittimi, cioè la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. .
Tale principio è stato poi ribadito in legge con l’articolo 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205
che ha previsto la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione a tutte le controversie
risarcitorie nell’ambito della sua giurisdizione sia esclusiva che di legittimità.
Gli INTERESSI COLLETTIVI sono definiti (Corasaniti), come le omogenee pretese dei
componenti una classe di persone nell’ambito di una collettività più ampia o della stessa
collettività generale, a che un determinato bene, avente rilevanza sociale, non sia esposto a
pregiudizio. (ad esempio: interessi inerenti la tutela dell’ambiente e la tutela dei consumatori,
cioè relativi a beni non suscettibili di fruizione differenziata).
Questi diritti costituiscono una specie degli interessi legittimi e sono anch’essi tutelabili davanti
al giudice in quanto sono differenziati (fanno capo ad un soggetto individuato, quale è un
organismo di tipo associativo) e qualificati (sono presi in considerazione dal diritto oggettivo).
Lo stesso legislatore ha preso atto della nuova categoria e l’ha espressamente riconosciuta in
varie leggi: legge n. 281 del 1998 (Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti) e legge
n. 383 del 2000 (Disciplina delle associazioni di promozione sociale). La giurisprudenza ha
inoltre riconosciuto la titolarità di interessi collettivi agli ordini professionali e alle
organizzazioni sindacali.
Mentre l’interesse legittimo è la pretesa a che la P.A. eserciti in conformità della legge i suoi
poteri discrezionali o vincolati, l’interesse semplice è invece la pretesa a che la P.A.,
nell’esercizio del suo potere discrezionale, si attenga a quei criteri di opportunità e convenienza
che afferiscono al merito amministrativo, e che sono tutelati dalle norme non giuridiche di
azione. Tali interessi ricevono tutela solamente a livello amministrativo: possono essere fatti
valere con il ricorso gerarchico (es. l’interesse dei cittadini di una via affinchè il comune
provveda all’illuminazione e alla manutenzione della strada).
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ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA
L’attività amministrativa è quella attività mediante la quale gli organi statali all’uopo preposti
provvedono alla cura concreta degli interessi pubblici ad essa affidati. Per svolgere la funzione
amministrativa, le amministrazioni esercitano potere amministrativo.
Tradizionalmente in dottrina si distinguono tre tipi di attività amministrativa:
a) amministrazione attiva, che comprende tutte le attività con cui la P.A. agisce per realizzare i
propri fini (attività deliberative ed esecutive);
b) amministrazione consultiva, che comprende attività dirette a fornire consigli, direttive,
orientamenti ad altre autorità che devono provvedere su un determinato oggetto;
c) amministrazione di controllo, che comprende le attività dirette a sindacare secondo diritto o
buona amministrazione l’operato di chi agisce nell’esecuzione dei compiti di tipo a).
Gli atti giuridici di amministrazione attiva posti in essere dalla P.A. possono essere:
a)
atti di diritto pubblico: posti in essere secondo i principi e le forme del diritto pubblico
(atti amministrativi adottati col potere di imperio, e i contratti di diritto pubblico);
b)
atti di diritto privato: la P.A. può porre in essere negozi di diritto privato (su un piano di
parità rispetto agli altri soggetti). In proposito, la legge 15/2005 ha aggiunto il comma
1bis all’art. 1 della legge 241/90 prevedendo che le P.A. “nell’adozione di atti di natura
non autoritativa” agiscono secondo le norme di diritto privato.
Una novità degli ultimi anni è la tendenza sempre più spiccata all’informatizzazione
dell’organizzazione e dell’azione amministrativa.
Con D.lgs. n. 39 del 1993 è stata istituita l’Autorità per l’informatica nella Pubblica
Amministrazione, oggi CNIPA.
Un passo importantissimo in tale direzione è stato fatto con l’emanazione del D.P.R. 445/2000
(T.U. sulla documentazione amministrativa) che prevede tra l’altro, l’adozione del documento
informatico e la disciplina della firma digitale (oltre alla disciplina delle autocertificazioni).
Il D.lgs. 165/2001, poi, impone alle amministrazioni pubbliche di ispirare la propria
organizzazione al criterio del collegamento delle attività degli uffici e dell’interconnessione
mediante sistemi informatici e statistici pubblici.
Infine, la legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha inserito l’art. 3 bis nella legge 241/90 imponendo
alle amministrazioni pubbliche, al fine di conseguire maggiore efficienza, di incentivare l’uso della
telematica, nei rapporti interni fra le diverse amministrazioni e fra queste e i privati. In proposito, è
stato emanato e poi aggiornato in seguito alla riforma “Brunetta”, il “Codice
dell’Amministrazione digitale” (D.lgs. n. 235 del 2010).
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L’art. 97 Cost., al primo comma sancisce che “I pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione”.
Il principio di legalità afferma la corrispondenza dell’attività amministrativa alle prescrizioni di
legge. Esso costituisce un principio generale dell’ordinamento italiano che attiene particolarmente
ai rapporti fra legge ed attività amministrativa.
Conseguenze di questo principio (richiamato dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990 in cui si
statuisce che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge) sta nel fatto che i
provvedimenti amministrativi hanno il carattere della tipicità e nominatività, quali atti tipici fissati
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dalla legge, e ciascuno con uno specifico scopo da perseguire (poiché il potere amministrativo
comporta una incisione della sfera dei privati, esso deve essere tipico, cioè predeterminato dalla
legge).
Il principio di imparzialità, esplicitamente sancito dagli articoli 97 e 3 Cost. afferma l’obbligo
della P.A. di svolgere la propria attività nel pieno rispetto della giustizia. La Corte Costituzionale
(da ultimo con sentenza n. 333 del 1993) ha precisato che tale principio costituisce un valore
essenziale cui deve uniformarsi l’organizzazione dei pubblici uffici, e si riflette immediatamente in
altri precetti costituzionali, quali gli artt. 51 e 98, attraverso cui si mira a garantire
l’amministrazione e i suoi dipendenti da influenze politiche o di parte. L’imparzialità va quindi
intesa non solo come equidistanza tra più soggetti pubblici o privati che vengono in contatto con la
P.A., ma anche e soprattutto come capacità della P.A., nell’espletamento delle proprie funzioni, di
raggiungere un grado di astrazione tale da far prevalere l’interesse pubblico solo se necessario e
dopo un’attenta ponderazione delle posizioni e dei valori di cui si fanno portatori coloro che si
trovino in potenziale conflitto con essa.
Il principio di buona amministrazione indica l’obbligo per i funzionari amministrativi, e in
genere per tutti gli agenti dell’amministrazione, di svolgere la propria attività secondo le modalità
più idonee ed opportune al fine dell’efficacia, efficienza, speditezza ed economicità dell’azione
amministrativa, con il minor sacrificio degli interessi particolari dei singoli.
Buona amministrazione può quindi ritenersi quella che riesce a soddisfare i seguenti criteri:
economicità, rapidità, efficacia, efficienza, miglior contemperamento degli interessi, minor danno
per i destinatari dell’azione amministrativa. Secondo il principio di ragionevolezza, poi, l’azione
amministrativa, al di là del rispetto delle prescrizioni normative, deve adeguarsi ad un canone di
razionalità operativa , in modo da evitare decisioni arbitrarie e irrazionali.
Dottrina e giurisprudenza hanno individuato un nuovo principio di notevole rilevanza: il principio
di trasparenza dell’azione amministrativa, da intendersi come immediata e facile controllabilità di
tutti i momenti e di tutti i passaggi in cui si esplica l’operato della P.A. onde garantirne e favorirne
lo svolgimento imparziale (controllo democratico, che avvicina il cittadino alla PA in una
prospettiva paritaria). Tale principio ha trovato riconoscimento legislativo nell’art. 1 della legge
241/90, in seguito alle modifiche apportate con legge n. 15 del 2005.
Espressioni del principio di trasparenza sono:
a) il riconoscimento del diritto di accesso agli atti e documenti della P.A. a favore del cittadino;
b) l’obbligatorietà della motivazione del provvedimento amministrativo;
c) il diritto dei privati di partecipare attivamente al procedimento amministrativo.
L’attività che la P.A. pone in essere nel perseguimento dei suoi fini istituzionali, incontra limiti
negativi, propri di qualsiasi attività anche di carattere privato, che sono quelli volti a conservare
l’attività stessa nel limiti della liceità; i limiti di carattere positivo sono invece diretti al
mantenimento dell’attività stessa nell’ambito dei fini pubblici che l’Amministrazione deve
perseguire. I limiti possono essere fissati in modo preciso e puntuale, ovvero in modo elastico, così
da lasciare alla P.A. stessa un certo ambito di valutazione: nella prima ipotesi si parla di attività
vincolata, nella seconda discrezionale.
La DISCREZIONALITA’ (Virga) è la facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente
leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente
alla causa del potere esercitato. Tale definizione risulta, peraltro, incompleta perché non evidenzia
un aspetto fondamentale caratterizzante l’attività discrezionale, rappresentato dal criterio che guida
la P.A. nella scelta. Giannini allora parla di ponderazione comparativa di più interessi secondari in
ordine ad un interesse primario, enucleando e distinguendo il momento del giudizio, che si concreta
nell’individuazione e nell’analisi dei fatti e degli interessi sulla base di una istruttoria per la
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decisione, ed il momento della volontà, che si concreta, viceversa, nella scelta degli interessi
prioritari.
La dottrina e la giurisprudenza del Consiglio di Stato hanno individuato i limiti propri dell’attività
discrezionale, rappresentati da:
- l’interesse pubblico, da intendersi come interesse della collettività, non coincidente con
quello della P.A. né con la somma degli interessi individuali. Tale interesse deve essere
concreto, obiettivo e collettivo;
- la causa del potere, la quale costituisce vincolo fondamentale dell’attività discrezionale che
deve sempre perseguire un fine rispondente alla causa del potere esercitato e si identifica con
il fine specifico per cui il potere è stato conferito;
- i principi di logica, di imparzialità e ragionevolezza, i quali devono sempre reggere
l’attività amministrativa;
- il principio dell’esatta e completa informazione, che si concreta nella necessità di una
adeguata istruttoria compiuta attraverso uffici competenti.
La violazione dei suesposti limiti alla discrezionalità comporta l’illegittimità dell’atto
amministrativo sotto il profilo dell’eccesso di potere, con la possibilità, quindi, di annullare l’atto.
Oggetto della discrezionalità.
La facoltà di scelta della P.A. può inerire a vari aspetti del suo operare. In particolare, essa può
riguardare il “se” emanare un determinato provvedimento, ovvero quando, o in che modo
emanarlo, e anche quale tipo di provvedimento emanare. Quando la discrezionalità concerne tutti
questi aspetti insieme, si tratta di attività politica.
In conclusione la discrezionalità si configura come una facoltà di scelta inerente alla stessa
potestà, di cui è titolare la P.A., laddove per potestà deve intendersi il potere di supremazia
finalizzato al perseguimento di pubblici fini predeterminati.
La discrezionalità tecnica si concreta nell’esame di fatti o situazioni sulla base di cognizioni
tecniche e scientifiche di carattere specialistico. La peculiarità che connota tale discrezionalità
(disciplinata in sede procedimentale dall’art. 17 della legge 241/1990) rispetto a quella
amministrativa è data dalla presenza di una fase di giudizio (e dunque di un’istruttoria attraverso la
quale si procede all’analisi dei fatti supportata dalle regole tecniche volta per volta incidenti) alla
quale tuttavia non si affianca il momento c.d. della volontà, ossia della scelta della soluzione più
opportuna attraverso una valutazione degli interessi prioritari, momento tipico, viceversa, della
discrezionalità amministrativa propriamente detta.
Quando, invece, i limiti all’attività della P.A. sono posti in modo preciso e puntuale dalle norme, si
parla di attività vincolata (es. rilascio di patente di guida o licenza di pesca).
MERITO amministrativo: tradizionalmente è stato collocato in contrapposizione al concetto di
legittimità. Il merito esprimerebbe la conformità della scelta discrezionale alle regole non
giuridiche di buona amministrazione, intese ad assicurare l’efficienza e l’economicità dell’azione
della P.A., e cioè in definitiva, la rispondenza dell’atto a quei criteri di convenienza, opportunità ed
equità, in relazione alla situazione concreta, che consentono alla P.A. di soddisfare adeguatamente
l’interesse pubblico. Tale aspetto attiene al profilo dei risultati dell’azione amministrativa e
rientrerebbe in una sfera riservata alla P.A.. Viceversa alla nozione di legittimità dovrebbe riportarsi
tutto quanto afferisce alla rispondenza dell’atto stesso alle norme giuridiche che governano
l’esercizio del relativo potere di adozione, senza considerare il profilo dei risultati conseguiti.
Con Guarino si può dire che “il merito è la parte di fattispecie del potere discrezionale che
rimane effettivamente libera, pur dopo l’osservanza di tutti i criteri e principi che vincolano la
discrezionalità”. Il merito quindi rappresenta la sfera libera dell’azione amministrativa
discrezionale, ossia l’ambito nel quale la stessa, rispettati i limiti interni alla discrezionalità innanzi
evidenziati, può svolgersi senza essere soggetta ad un sindacato giurisdizionale. Infatti, la
violazione delle regole di convenienza, di opportunità ed equità in cui si sostanzia il merito non è
per legge sindacabile dal G.A., qualora siano rispettati i limiti di legittimità.
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ATTI e PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI
Fra gli atti emanati dalla P.A. che possono assumere forme e contenuti diversi (atti di natura
privatistica, normativa, ecc.) occupano una posizione di rilievo gli atti amministrativi.
Le caratteristiche fondamentali dell’atto amministrativo sono state individuate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza. Un atto può considerarsi amministrativo quando venga emesso da un’autorità
amministrativa (aspetto formale della provenienza di un atto) nell’esercizio di una funzione
amministrativa (aspetto sostanziale-contenutistico).
Degli atti amministrativi si fanno varie classificazioni:
- in relazione all’elemento psichico (di volontà, di conoscenza, di giudizio, misti);
- in relazione alla discrezionalità (atti vincolati e discrezionali);
- in relazione all’efficacia (atti costitutivi e dichiarativi);
- in relazione al risultato (atti ampliativi, atti restrittivi);
- in relazione ai destinatari (atti particolari, atti con pluralità di destinatari, atti generali); ecc.
La dottrina tradizionale definisce i PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI come
manifestazioni di volontà aventi rilevanza esterna, provenienti da una Pubblica
Amministrazione nell’esercizio di un’attività amministrativa, indirizzate a soggetti
determinati o determinabili e in grado di apportare una modificazione unilaterale nella sfera
giuridica degli stessi.
Gli aspetti più rilevanti sono:
A) Forza giuridica – autoritarietà: la forza giuridica dei provvedimenti consiste nell’imporre
unilateralmente modificazioni nella sfera giuridica dei destinatari: tale forza va sotto il nome
di autoritarietà o imperatività;
B) Esecutorietà – esecutività: le P.A., nei casi e con le modalità stabilite dalla legge, possono
imporre coattivamente l’adempimento di obblighi nei loro confronti. Il provvedimento
costitutivo di obblighi deve indicare il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del
soggetto obbligato (se l’interessato non ottempera > diffida > esecuzione coattiva). I
provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente;
C) Tipicità e nominatività: tipicità significa che sono solo quelli previsti dall’ordinamento con
riferimento sia al contenuto che alla funzione; nominatività significa che a ciascun interesse
pubblico da realizzare è preordinato un tipo di atto perfettamente definito dalla legge.
La dottrina più recente ricostruisce la tematica dell’atto amministrativo in base alle due tendenze
principali cui si ispira la moderna attività amministrativa: funzionalizzazione, che si concretizza
nel provvedimento amministrativo caratterizzato dalla manifestazione di volontà e dall’imperatività,
e la procedimentalizzazione, ovvero uno degli schemi principali in cui si esplica l’attività
amministrativa, cioè una serie di atti tra loro concatenati e coordinati, finalizzati all’emanazione
dell’atto finale.
TIPOLOGIA DI PROVVEDIMENTI
AUTORIZZAZIONE
L’autorizzazione è un provvedimento mediante il quale la P.A., nell’esercizio di un’attività
discrezionale in funzione preventiva (normalmente ad istanza dell’interessato) provvede alla
rimozione di un limite legale posto all’esercizio di un’attività inerente ad un diritto soggettivo
o ad una potestà pubblica che devono necessariamente preesistere in capo al destinatario.
Elementi costitutivi dell’autorizzazione sono, secondo Virga: a) esistenza di un limite legale
all’esercizio di un’attività interente ad un diritto soggettivo o ad un potere; b) apprezzamento
discrezionale della P.A. in funzione preventiva (si deve valutare preventivamente se lo svolgimento
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di quell’attività che è oggetto del procedimento giovi o meno all’interesse pubblico primario);
c) rimozione del limite legale che costituisce la funzione propria dell’autorizzazione.
E’ quindi un provvedimento discrezionale che incide su diritti, condizionandone l’esercizio, a
carattere ampliativo della sfera soggettiva dei privati, ma non costitutivo, in quanto esso non crea
diritti o poteri nuovi in capo al destinatario, ma legittima solo l’esercizio di diritti o potestà già
preesistenti nella sfera del soggetto (esempio: il diritto di edificare sul terreno in proprietà).
Dall’emanazione di un atto di autorizzazione nasce un rapporto di diritto pubblico, c.d. rapporto
autorizzatorio, cui titolari sono rispettivamente il soggetto destinatario del provvedimento e la P.A.
(es. autorizzazione sanitaria ad aprire ed esercitare un ambulatorio privato).
NUOVI MODULI PROCEDIMENTALI (artt. 19 e 20 della legge n. 241 del 1990)
Con la legge n. 241 del 1990 i tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazioni, basati
sull’emanazione di provvedimenti espressi, sono stati sostituiti dalla individuazione di modelli
nuovi, ispirati al principio della liberalizzazione (deregulation).
Le due previsioni si inquadrano nel processo di semplificazione dell’azione amministrativa,
derivandone l’attuazione del principio costituzionale di buon andamento e apportando un
miglioramento nei rapporti tra cittadino e P.A.
Denuncia in luogo di autorizzazione (art. 19 l. 241/90), recentemente sostituita dalla
Segnalazione Certificata di Inizio Attività (S.C.I.A.). Prevista all’inizio per semplificare il regime
delle autorizzazioni amministrative concernenti l’esercizio di attività economiche private con
apposite dichiarazioni sostitutive da parte degli interessati, nei settori tassativamente indicati in sede
regolamentare, è stata successivamente ampliata e ammesso in via generale, con riserva del
legislatore di elencare tassativamente i casi di esclusione da tale possibilità.
La norma prevede quindi la facoltà a favore dei privati, di intraprendere l’esercizio di una
determinata attività economica sulla base della presentazione di una denuncia all’amministrazione
competente (ora S.C.I.A.), la quale è tenuta a dar vita ad un apposito procedimento per verificare la
sussistenza in capo al richiedente, dei presupposti e dei requisiti di legge. E’ sancita quindi la regola
dell’immediata legittimazione del privato ad intraprendere l’attività a decorrere dalla
presentazione della denuncia (contenente apposita dichiarazione sostitutiva).
Secondo la Cassazione (2003) l’istituto dell’art. 19 l. 241/90 non è una domanda, ma una
informativa, cui è subordinato l’esercizio del diritto. L’amministrazione poi svolge, attraverso un
apposito procedimento, un controllo successivo.
Silenzio-assenso (art. 20 l. 241/90). L’istituto è strettamente collegato a quello dell’art. 19 essendo
funzionale anch’esso al criterio della liberalizzazione dell’attività dei privati. L’art. 20,
disciplinando in senso profondamente ampliativo un istituto già conosciuto dall’ordinamento,
riguarda ipotesi nelle quali la richiesta di un dato provvedimento autorizzatorio si considera accolta
qualora entro un dato termine la P.A. non comunichi all’interessato il provvedimento di diniego.
Provvedimenti simili all’autorizzazione sono: abilitazione (es. patente di guida), approvazione,
nulla-osta, licenza (es: licenza edilizia, porto d’armi), registrazione, dispensa.
CONCESSIONE
La concessione è il provvedimento amministrativo con cui la P.A. conferisce ex novo posizioni
giuridiche attive al destinatario, ampliandone così la sfera giuridica. Si differenzia
profondamente dall’autorizzazione in quanto non si limita a rimuovere un limite di una posizione
soggettiva preesistente, ma attribuisce o trasferisce posizioni o facoltà nuove al privato.
Ai provvedimenti concessori non si applicano gli articoli 19 e 20 della legge 241/90: per i
provvedimenti concessori il privato può reagire all’inerzia della P.A. solo attivando la procedura del
silenzio-rifiuto. A differenza dell’autorizzazione, da un punto di vista funzionale la P.A. deve
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valutare preventivamente se il bene da concedere sia suscettibile di utilizzazione individuale e se
sussista una convenienza economica.
Le concessioni possono essere essenzialmente di due tipi:
- TRASLATIVE: di poteri e facoltà su beni pubblici (es: concessione di acqua, concessione
mineraria), aventi come presupposti l’appartenenza di un bene all’ente pubblico nonché la
conformità del trasferimento del bene all’interesse pubblico generale;
- COSTITUTIVE: che fanno sorgere diritti ex novo per il destinatario (es: decreto di cambio
nome, apertura di farmacia o sportello bancario).
La materia concessoria ha risentito delle innovazioni introdotte dalla legge n. 241 del 1990: trovano
applicazione i principi dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa e le norme
sulla partecipazione al procedimento.
L’importanza che riveste per gli interessi della collettività l’utilizzazione di un bene pubblico o
l’esercizio di un pubblico servizio, fa sì che il soggetto concessionario sia sottoposto ad un
particolare regime di controlli e di vigilanza da parte dello Stato o degli enti territoriali.
Con l’atto di concessione sorge un rapporto di diritto pubblico tra la P.A. concedente e il
concessionario, disciplinato specificamente dalla legge, in relazione a ciascun caso di concessione. I
principi generali che regolano tale rapporto sono i seguenti:
- nella concessione di beni, il concessionario acquista: il diritto all’uso del bene demaniale; il
diritto di insistenza (interesse al rinnovo della concessione); l’obbligo di pagare la cauzione e
il canone; il dovere di utilizzare il bene; il dovere di sottostare ai controlli della P.A.;
- nella concessione di servizi (es: ferroviaria o tranviaria), il concessionario acquista: diritto
all’esercizio della concessione; diritto all’esclusiva nella titolarità della concessione e nella
gestione del servizio (diritto soggettivo); diritto di conseguire i vantaggi economici; diritto a
particolari sovvenzioni da parte dello Stato; diritto di insistenza; obbligo di pagare cauzione e
canone; dovere di organizzare e far funzionare il servizio; dovere di sottostare ai controlli
della P.A.
Altra tipologia importante di provvedimenti è data dagli ORDINI e dagli ATTI ABLATIVI:
ORDINI: sono quei provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario con i quali la
P.A. a seguito di una scelta discrezionale o di un semplice accertamento, fa sorgere nuovi obblighi
giuridici a carico dei destinatari, imponendo loro un determinato comportamento sulla base della
propria potestà di supremazia. L’obbligo del destinatario di osservare gli ordini può essere ben
determinato (dati per motivi di giustizia, ordine pubblico, pubblica sicurezza, igiene) e penalmente
sanzionato (art. 650 c.p.).
ATTI ABLATIVI REALI: sono quei provvedimenti mediante i quali la P.A. priva il titolare di un
determinato diritto reale, estinguendolo o trasferendolo coattivamente ad altro soggetto, oppure
limitandolo. Sono provvedimenti che incidono sfavorevolmente su diritti, estinguendoli o
comprimendoli (es: espropriazione, sequestro).
ATTI AMMINISTRATIVI DIVERSI DAI PROVVEDIMENTI
Sono atti amministrativi di importanza minore che assolvono per lo più funzioni secondarie,
strumentali e accessorie. Rappresentano una categoria residuale di atti, che non sono dotati di
esecutorietà, non sono dotati di autoritarietà e non sono tutti tipici o nominati. Si possono
raggruppare in tre categorie:
a) atti consistenti in manifestazioni di volontà (atti paritetici, atti facenti parte del
procedimento amministrativo e atti di controllo): es. determinazione dello stipendio,
designazione, accordo preliminare
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b) atti non consistenti in manifestazioni di volontà (atti ricognitivi, atti di valutazione e
intimazioni): es. registrazioni, notificazioni, verbalizzazioni, ispezioni
c) atti consistenti in manifestazioni di giudizio (pareri; giudizio sull’idoneità di candidati;
relazioni delle commissioni di inchiesta).
I PARERI
Sono atti a carattere ausiliario consistenti in manifestazioni di giudizio con cui gli organi
dell’amministrazione consultiva mirano ad illuminare, consigliare, erudire gli organi di
amministrazione attiva e sono emanati dietro loro richiesta. Di regola sono di competenza di
speciali organi collegiali: sono atti privi di autonomia funzionale (vengono resi in seguito ad un
subprocedimento).
I pareri possono essere:
- facoltativi, se è a discrezione degli organi dell’amministrazione attiva richiederli o meno;
- obbligatori, se la legge impone all’organo di amministrazione attiva di richiedere il parere
all’organo consultivo. La mancata acquisizione del parere comporta l’invalidità dell’atto per
violazione di legge. I pareri obbligatori, a loro volta, possono essere: non vincolanti (quando
l’organo di amministrazione attiva è obbligato a richiedere il parere, ma può anche discostarsene,
motivando); vincolanti (se l’organo di amm. attiva è obbligato a richiedere il parere e a conformarsi
ad esso); (anche: parzialmente vincolanti o conformi).
La legge n. 241 del 1990 ha introdotto un’importante innovazione nel quadro normativo dell’attività
consultiva istituendo una figura di silenzio procedimentale. A norma dell’art. 16, gli organi
consultivi delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 29/1993, sono
tenuti a rendere i pareri ad essi obbligatoriamente richiesti entro 45 giorni dal ricevimento della
richiesta. In caso di decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere, è in facoltà
dell’amministrazione richiedente procedere indipendentemente dall’acquisizione del parere
stesso.
Pertanto, un parere non reso, anche se formalmente obbligatorio, non ferma più l’azione
amministrativa: il procedimento può proseguire fino all’emanazione del provvedimento finale. Si
parla di silenzio facoltativo, poiché l’amministrazione procedente ha facoltà di proseguire nell’iter
procedimentale anche senza il parere, ma può anche decidere di attendere comunque l’atto
consultivo. Ne deriva una sostanziale trasformazione del parere da obbligatorio a facoltativo con
l’attribuzione alla P.A. procedente di un potere di valutazione dell’opportunità di attendere o meno
il parere, motivando la decisione (devono comunque essere acquisiti i pareri di competenza di
amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, e alla salute).
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ATTO AMMINISTRATIVO E SILENZIO
ELEMENTI E REQUISITI DELL’ATTO AMMINISTRATIVO
L’atto amministrativo, che sia o meno provvedimento, presenta sempre una realtà oggettiva e
formale composta da elementi essenziali (eventualmente anche accidentali che sono la condizione,
il termine, l’onere) e requisiti, che incidono sulla efficacia e validità dell’atto.
Elementi essenziali:
SOGGETTO (o Agente) – E’ il centro di imputazione giuridica che pone in essere l’atto: deve
essere necessariamente un organo della P.A. competente all’emanazione dell’atto e legittimamente
investito della funzione che esercita.
DESTINATARIO – E’ l’organo pubblico o il soggetto privato nei cui confronti si producono gli
effetti del provvedimento. Il destinatario deve essere determinato o determinabile: la mancanza
comporta nullità dell’atto (Virga). Per Sandulli il destinatario rientra nell’oggetto.
VOLONTA’ – Per Sandulli negli atti amministrativi il momento psichico dell’agente non è
elemento di esistenza dell’atto amministrativo (diversamente dagli atti giuridici privati): ciò che
assume primaria importanza è la statuizione contenuta nell’atto stesso. Secondo Virga, invece, la
volontà costituisce elemento essenziale del provvedimento, perché anche nel diritto pubblico vige il
principio fondamentale secondo il quale nessun atto può considerarsi riferibile all’autore se non è
stato consapevolmente voluto.
OGGETTO – E’ la res (la “cosa”) su cui l’atto amministrativo incide, e può consistere in un
comportamento, un fatto, un bene. Deve essere possibile, lecito, determinato.
CONTENUTO – E’ la parte precettiva dell’atto, ovvero ciò che con esso si intende autorizzare,
disporre, concedere, attestare, ecc. Ogni atto è caratterizzato da un proprio contenuto. Come
l’oggetto deve essere possibile, lecito, determinato.
FINALITA’ – Per Sandulli attiene all’aspetto funzionale dell’atto, allo scopo che esso persegue:
ciascun atto amministrativo è caratterizzato dalla propria funzione istituzionale e ad essa deve
corrispondere.
FORMA – Insieme al soggetto e all’oggetto, la forma costituisce uno degli elementi che
tutta la dottrina riconosce come essenziali dell’atto. Ogni atto amministrativo, affinché venga ad
esistenza, deve essere manifestato dall’organo, esternato, emesso. La dottrina tradizionale
riteneva che la forma scritta fosse necessaria (ad substantiam) a presidio del principio di legalità,
ma si oppone a tale impostazione il principio della libertà della forma.
IL SILENZIO AMMINISTRATIVO
Silenzio = comportamento omissivo della P.A.
Già nel secolo scorso il giudice amministrativo si era posto il problema della tutela da accordare
al cittadino in presenza di comportamenti omissivi della P.A.
Da parte della prevalente dottrina si ritiene che l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 generalizzi
l’obbligo, precedentemente considerato eccezionale, di conclusione esplicita del procedimento,
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determinando l’illegittimità dei comportamenti omissivi e delle inerzie della P.A. ed attribuendo al
privato un vero e proprio diritto alla conclusione del procedimento.
SILENZIO SIGNIFICATIVO – La legge dà rilievo a numerose e diverse ipotesi di inerzia da
parte della P.A. attribuendo al silenzio il valore legale tipico di un atto amministrativo. Si
distinguono:
a)
silenzio-assenso: si configura nei casi in cui la legge attribuisce al silenzio il valore di
accoglimento di un’istanza. Ciò si verifica per le istanze dirette ad ottenere taluni
provvedimenti autorizzativi. Già prima del 1990 la normativa prevedeva numerosi casi di
silenzio assenso, ma un’ampia estensione dell’istituto è stata operata dalla formulazione
dell’art. 20 della legge 241/90, per cui da ipotesi eccezionale l’istituto ha assunto
carattere generale. Esempio: art. 15, comma 9, legge 319/76 in base al quale la domanda
di autorizzazione provvisoria allo scarico in acque pubbliche non rifiutata espressamente
dall’autorità competente, si intendeva concessa ex lege;
b)
silenzio-rigetto: quando la legge conferisce all’inerzia della P.A. il significato di un
diniego di accoglimento dell’istanza o ricorsi (es. art. 6 D.P.R. 1199/1971; art. 25,
comma 4, legge 241/90).
SILENZIO NON SIGNIFICATIVO – Il silenzio-inadempimento (o silenzio-rifiuto) riguarda
le ipotesi in cui la P.A., di fronte alla richiesta di un provvedimento da parte del privato, abbia
omesso di provvedere entro i termini previsti dalla legge (o da norma regolamentare) e questa non
contenga alcuna indicazione sul valore da attribuire al silenzio. Il Consiglio di Stato, già nel 1978,
ha chiarito che l’omissione della P.A. assume valore di silenzio rifiuto solo se sussiste un obbligo
giuridico di provvedere derivante da una norma di legge, da un regolamento o da un atto.
L’esistenza di un dovere di provvedere è stata ricavata dai principi dell’art. 97 Cost.
L’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990 ha sancito in via generale l’obbligo, per l’autorità
competente, di concludere il procedimento (d’ufficio o su istanza di parte) con un provvedimento
espresso nel termine stabilito dalla stessa P.A. in via regolamentare, o in mancanza, in quello legale
di 30 giorni. Una volta decorso il termine per la conclusione del procedimento senza alcuna
risposta da parte dell’amministrazione procedente, l’interessato può ricorrere al TAR ai sensi
dell’art. 21 bis della legge 1034/1971 anche senza bisogno di atto di diffida nei confronti
dell’amministrazione inadempiente.
Per quanto riguarda il sindacato sul silenzio-rifiuto, è previsto il rito accelerato di cui all’art. 2
della legge 205/2000 di riforma del processo amministrativo. Tale norma, inserendo l’art. 21 bis
nella legge 1034/1971 prevede, al comma 1, che “i ricorsi avverso il silenzio dell’amministrazione
sono decisi dal T.R.G.A. in Camera di Consiglio, con sentenza succintamente motivata, entro il
termine di 30 giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle
parti che ne facciano richiesta (decisione appellabile entro 90 gg.).
La disposizione dell’art. 2 prevede che, in caso di accoglimento, il giudice ordina
all’amministrazione di provvedere, ossia di adottare un provvedimento il cui contenuto è rimesso
all’apprezzamento discrezionale della P.A., senza entrare nel merito del tipo di provvedimento
necessario a soddisfare il ricorrente.
STRUTTURA FORMALE DELL’ATTO – Ciascun atto amministrativo presenta una struttura
formale composta da: intestazione (indicazione dell’autorità emanante), preambolo (norme di legge
e regolamenti in base ai quali l’atto è stato adottato), motivazione (consiste in una parte descrittiva
in cui si indicano gli interessi coinvolti e una parte valutativa, nella quale la P.A. valuta
comparativamente gli interessi, motivando le ragioni di scelta), dispositivo (parte precettiva:
dichiarazione di volontà vera e propria), luogo, data e sottoscrizione.
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Quanto alla motivazione, fino alla legge 241/90 non esisteva un obbligo generale di motivazione
per gli atti amministrativi: l’articolo 3 della suddetta legge, in ossequio al principio di trasparenza e
di effettività della tutela giurisdizionale del privato, ha previsto che ogni provvedimento
amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei
pubblici concorsi e il personale, debba essere motivato. Il secondo comma dell’art. 3 esclude
tuttavia l’obbligo della motivazione per gli atti normativi e a contenuto generale (regolamenti), che
sono atti ampiamente discrezionali e a motivo libero.
La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria: per presupposti di fatto
s’intendono i supporti fattuali del provvedimento, ossia gli elementi e i dati di fatto oggetto di
valutazione ai fini dell’adozione dello stesso; le ragioni giuridiche, costituenti il nucleo della
motivazione, sono le argomentazioni giuridiche, i ragionamenti di supporto al provvedimento.
PATOLOGIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO (sola lettura)
INVALIDITA’
L’atto amministrativo (e il provvedimento) è invalido quando è difforme dalla norma che lo
disciplina. In relazione alla natura della norma rispetto alla quale si verifica tale difformità, si
possono individuare due categorie generali di vizi dell’atto amministrativo:
a) se la norma è giuridica, il vizio che ne consegue sarà un vizio di legittimità e l’atto sarà
illegittimo;
b) se la norma è c.d. di buona amministrazione, il vizio sarà di merito e l’atto sarà
inopportuno.
L’atto illegittimo può essere viziato in modo più o meno grave: è nullo se manchevole di qualche
elemento essenziale richiesto dalla legge, se viziato da difetto assoluto di motivazione, se è stato
adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla
legge (ex art. 21septies della legge n. 241 del 1990); è annullabile quando sia stato adottato in
violazione di legge o sia viziato da eccesso di potere o da incompetenza.
ILLEGITTIMITA’
L’atto amministrativo esistente che presenti dei vizi di legittimità che incidono su elementi
essenziali di esso è illegittimo e, come tale, annullabile.
Fonte normativa dei vizi di legittimità è l’art. 26 del R.D. n. 1054 del 1924 (TU delle leggi del
Consiglio di Stato) che menziona tre categorie di vizi: incompetenza, eccesso di potere, violazione
di legge (i tre vizi non hanno una linea chiara di demarcazione).
E’ illegittimo l’atto amministrativo esistente che presenta un vizio di uno dei suoi elementi
essenziali e pertanto risulta difforme dalla normativa che disciplina i requisiti richiesti per la sua
validità. La sanzione predisposta dall’ordinamento consiste nella possibilità di eliminare l’atto in
quanto appunto illegittimo.
La legge n. 15 del 2005 riduce l’ambito delle invalidità degli atti amministrativi: sono da
considerare invalidi solo i provvedimenti amministrativi viziati da violazioni di norme di
carattere sostanziale; le violazioni di carattere formale o procedimentale, invece, non danno luogo
ad annullabilità del provvedimento laddove il contenuto dello stesso non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato (art. 21octies).
L’INCOMPETENZA – quale vizio di legittimità dell’atto che comporta annullabilità, è solo
l’incompetenza relativa, la quale può essere per grado o per materia (mentre l’incompetenza
assoluta è causa di nullità o di inesistenza dell’atto).Esempio: decreto ministeriale su requisiti
igienici delle case di riposo emesso dal Ministro del turismo.
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L’ECCESSO DI POTERE
E’ la figura più importante dei vizi di legittimità. Per aversi eccesso di potere, definito come
“scorrettezza in una scelta discrezionale” occorrono 3 requisiti:
a) un potere discrezionale della P.A. (per gli atti vincolati non può riscontrarsi un vizio della
funzione, essendone il contenuto predeterminato dalla legge);
b) uno sviamento di tale potere, ossia un esercizio del potere per fini diversi da quelli stabiliti
dal legislatore con la norma attributiva dello stesso;
c) la prova dello sviamento, necessaria per far venir meno la presunzione di legittimità
dell’atto.
Altra definizione dell’eccesso di potere è quella che lo definisce “cattivo uso di un potere da parte
della P.A”.
SVIAMENTO DI POTERE – Ricorre tanto nel caso in cui la P.A. usi un suo potere discrezionale
per interessi personali o politici e, più in generale, per un fine diverso da quello per il quale il potere
stesso le era stato conferito (es. imposizione vincolo storico su immobile per sottrarlo a demolizione
prevista dal Piano regolatore), quanto nel caso in cui la P.A. persegua l’interesse pubblico, ma con
un potere diverso da quello previsto a tal fine dalla legge (es. trasferimento di un impiegato per
punizione in sede disagiata, senza procedimento disciplinare; oppure quando nell’emanazione di un
provvedimento la P.A. abbia ritenuto esistente un fatto inesistente o viceversa; ovvero: avendo la
PA collocato a riposo un impiegato, gli affidi poi un altro incarico).
LA VIOLAZIONE DI LEGGE – Deve considerarsi una figura residuale in quanto comprende tutte
quelle specie di vizi che non rientrano nelle altre due categorie. Essa si sostanzia in un contrasto
fra l’atto e l’ordinamento giuridico indipendentemente dalla posizione psicologica (dolosa o
colposa) del soggetto agente. Il contrasto deve sussistere nei confronti di una legge materiale o
formale e consiste o nella mancata applicazione o nella falsa applicazione (es: inosservanza di
regole prescritte per la manifestazione di volontà).
L’annullamento dell’atto non si verifica di diritto, ma soltanto a seguito di apposito provvedimento
dell’autorità amministrativa oppure di sentenza del G.A.. L’annullamento ha efficacia retroattiva.
VIZI DI MERITO
A differenza dei vizi di legittimità, i vizi di merito non sono suscettibili di una vera e propria
classificazione, data la mutevolezza dell’interesse pubblico e quindi di quei criteri di opportunità e
di convenienza cui deve ispirarsi la P.A. nell’esercizio dei propri poteri.
Il fondamento di tali vizi non risiede nella contrarietà dell’atto a norme giuridiche, ma nella
violazione del principio di buona amministrazione (art. 97 Cost.), secondo cui l’attività
amministrativa deve svolgersi nel modo più idoneo riguardo all’uso dei mezzi e al raggiungimento
dei fini. I vizi di merito possono invalidare solo gli atti discrezionali (atti per i quali è concesso
alla P.A. di vagliare l’opportunità, la convenienza ecc. dell’atto stesso).
I vizi di merito, dunque, consistono nella violazione, da parte della P.A. di norme non giuridiche di
opportunità, di equità, di eticità, di economicità (e differisce dall’eccesso di potere che si verifica
per difformità di un atto da una norma giuridica).
RIMEDI CONTRO ATTI ILLEGITTIMI O INOPPORTUNI
Un atto amministrativo viziato può essere eliminato attraverso:
a) una sentenza dell’autorità giurisdizionale amministrativa (TAR o Consiglio di Stato);
b) una decisione amministrativa provocata da un ricorso dell’interessato;
c) un atto amministrativo spontaneo della P.A. diretto a ritirare l’atto viziato (atto di ritiro).
Può, invece, essere preservato con un atto o un procedimento che, anziché eliminare l’atto viziato,
lo sani e ne provochi la conservazione.
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Gli atti di ritiro sono provvedimenti amministrativi a contenuto negativo, emanati in base ad un
riesame dell’atto, compiuto nell’esercizio di un medesimo potere amministrativo esercitato con
l’emanazione dell’atto, al fine di eliminare l’atto viziato.
ANNULLAMENTO D’UFFICIO – L’annullamento è un provvedimento amministrativo di
secondo grado con il quale viene ritirato con efficacia retroattiva (ex tunc, dal momento in cui fu
emanato, annullando anche gli effetti) un atto amministrativo illegittimo, per la presenza di vizi di
legittimità originari dell’atto. Il potere di annullamento d’ufficio è un potere generale della P.A. e
non occorre una espressa previsione di legge per il suo esercizio (è diverso dall’annullamento su
ricorso amministrativo e dall’annullamento in sede di controllo). Può essere esercitato dalla stessa
autorità che ha emanato l’atto (autoannullamento), dall’autorità gerarchicamente superiore, dal
Governo, ovvero dal Ministro su atti dirigenziali.
Il nuovo art. 21nonies della legge 241/90, introdotto dalla legge n. 15 del 2005, dispone che il
provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni
di pubblico interesse, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge.
L’esercizio del potere di annullamento presuppone che l’atto da annullare presenti un vizio di
legittimità e che vi sia un interesse pubblico concreto ed attuale alla eliminazione dell’atto.
REVOCA – E’ un provvedimento motivato di secondo grado, con cui la P.A. ritira, con efficacia
non retroattiva (ex nunc, sopravvivono gli effetti già prodotti in precedenza) un atto inficiato da
vizi di merito in base ad una nuova valutazione degli interessi. La revoca è esercizio di un potere
di amministrazione attiva, e inerisce alla medesima funzione esercitata a suo tempo dalla P.A. con
l’emanazione dell’atto revocato.
Anche in tema di revoca è intervenuto il legislatore, introducendo il nuovo articolo 21quinquies
nella legge 241/90, il quale prevede che il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può
essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato o da altro organo previsto dalla legge nel
caso di sopravvenuti motivi di pubblico interesse, di mutamento della situazione di fatto, ovvero a
seguito di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Esistono due tipi di revoca: l’autorevoca e la revoca gerarchica; mentre non è ammissibile, come
per l’annullamento, un potere generale di revoca da parte del Governo.
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IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Affinché un atto amministrativo sia perfetto (se sussistono tutti gli elementi necessari per la sua
esistenza giuridica) ed efficace (idoneo a produrre gli effetti giuridici propri del tipo al quale l’atto
appartiene) deve essere emanato dopo aver seguito un particolare iter, comprendente più atti ed
operazioni che, nel loro complesso, prendono il nome di procedimento amministrativo. Il
procedimento è quindi l’insieme di una pluralità di atti preordinati allo stesso fine.
Caratteri essenziali del procedimento sono: a) eterogeneità degli atti: gli atti che lo compongono
hanno infatti differente natura giuridica, diversa funzione e vengono posti in essere da differenti
agenti; b) relativa autonomia dei singoli atti del procedimento; c) coordinamento ad unico fine di
tali atti.
Fino all’entrata in vigore della legge 241/90 mancava, nel nostro ordinamento una disciplina
generale del procedimento amministrativo, cosa che comportava un’ampia discrezionalità della P.A.
in sede di gestione del procedimento.
La legge n. 241 del 1990, da ultimo modificata con legge n. 15 del 2005, sancisce regole
generali valide per tutti i procedimenti amministrativi che si svolgono nell’ambito delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali. La legge, in armonia con il dettato dell’art. 97
Cost., fissa alcune regole generali ispirate ai seguenti principi:
1) il principio del giusto procedimento che, garantendo il diritto di partecipazione degli
interessati, consacra la dialettica tra interessi pubblici e privati tendendo alla composizione
dei concreti rapporti;
2) il principio di semplificazione, che introduce taluni istituti diretti, in conformità all’art. 97
Cost., a snellire e rendere più celere l’azione amministrativa (silenzio-assenso, DIA,
conferenze di servizi).
Ai suddetti principi sono informate, in particolare, le regole fondamentali dettate dal Capo I della
legge 241/1990. Tali regole sono:
1) economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza;
2) divieto di aggravamento del procedimento;
3) obbligo di conclusione esplicita del procedimento;
4) obbligo generale di motivazione del provvedimento amministrativo.
La legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante modifiche ed integrazioni alla vigente disciplina del
procedimento amministrativo, riformula l’art. 1, comma 1, della legge 241/90 integrando i principi
generali dell’azione amministrativa oltre che con quelli di fonte comunitaria, con il richiamo
espresso al principio di trasparenza.
Inoltre, viene espresso per la prima volta in una legge ordinaria il principio di leale collaborazione
istituzionale (nuovo art. 22, comma 5, legge 241/90). Tale principio emerge in tutta la sua capacità
espansiva: infatti va al di là dei rapporti fra i diversi livelli governativi ed è utilizzato in maniera più
generalizzata nei rapporti fra i diversi soggetti pubblici.
All’art. 1 della legge 241/90 è poi aggiunto il comma 1 bis, che sancisce il principio generale
secondo il quale le amministrazioni pubbliche, salvo che la legge non disponga diversamente,
agiscono secondo il diritto privato, anche servendosi di moduli negoziali per la realizzazione dei
propri compiti istituzionali, cioè per la cura completa degli interessi pubblici a queste affidati dalla
legge. Tale disposizione racchiude un principio tendenziale dell’attuale ordinamento in favore del
superamento del dogma che attribuiva alla P.A., in generale, il dovere di agire mediante poteri di
imperio e atti unilaterali: si inquadra nelle moderne tendenze alla privatizzazione.
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Il nuovo art. 21 sexies, della legge 241/90 prevede che il recesso unilaterale dei contratti da
parte della P.A. sia ammesso nei soli casi previsti dalla legge o dal contratto. La disposizione è
volta ad estendere all’attività negoziale dell’amministrazione il principio di stabilità degli obblighi
contrattuali, per salvaguardare l’affidamento dei terzi che stipulano contratti con la P.A. e assicurare
in tal modo l’affidabilità del contraente pubblico.
Le norme sul procedimento trovano applicazione nei procedimenti che si svolgono nelle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali. Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle
rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla legge sul procedimento nei rispetto del
sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa: la
Provincia Autonoma di Trento ha recepito i principi della legge n. 241 del 1990 con la legge
provinciale n. 23 del 1992.
Gli articoli da 4 a 6 della 241/90 regolamentano la figura del responsabile del procedimento
ovvero del soggetto a cui è affidata la gestione del procedimento amministrativo. E’ quindi prevista
l’individuazione, nell’ambito dell’unità organizzativa competente, del responsabile del
procedimento, la comunicazione agli interessati dell’unità organizzativa e del nominativo del
responsabile, e la precisazione dei compiti di quest’ultimo. Il responsabile di procedimento ha il
compito di: valutare le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i presupposti
rilevanti per l’emanazione del provvedimento finale; compiere tutti gli atti istruttori necessari;
proporre l’indizione delle conferenze di servizi; curare le comunicazioni; adottare il provvedimento
finale o trasmettere gli atti all’organo competente per l’adozione.
Il Capo III della legge 241/90 si occupa della partecipazione degli interessati al procedimento. Il
legislatore ha recepito, in proposito, i dettami della dottrina del giusto procedimento, prevedendo i
seguenti istituti (che però non si applicano agli atti normativi, amministrativi generali e di
programmazione):
1) l’obbligo di comunicare l’avvio di procedimento (artt. 7-8), contenente la data entro la
quale il procedimento deve concludersi e i rimedi esperibili in caso di inerzia della P.A. La
mancata comunicazione dell’avvio rende il provvedimento finale illegittimo ed annullabile
su ricorso del soggetto nel cui interesse è prevista la comunicazione. La legge 15/2005 ha
introdotto il concetto in base al quale le violazioni di carattere formale o procedimentale non
danno luogo ad annullabilità del provvedimento laddove, per la natura vincolante del
provvedimento, sia palese che il contenuto dello stesso non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato;
2) il diritto di intervento nel procedimento: l’articolo 9 prevede che qualunque soggetto,
portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi, cui possa
derivare un pregiudizio dal provvedimento, possono intervenire nel procedimento stesso (es.
art. 27, comma 2, della legge 383/2000);
3) il diritto di prendere visione degli atti del procedimento e di presentare memorie scritte
e documenti (art.10): è un diritto soggettivo pubblico e la P.A. ha l’obbligo di provvedere.
Nell’ottica di ridurre il contenzioso tra cittadini e P.A. la legge 15/2005 ha aggiunto l’art. 10
bis con il quale viene introdotto il principio per cui, nei procedimenti ad istanza di parte il
responsabile del procedimento, prima della formale adozione di un provvedimento negativo,
deve comunicare tempestivamente agli interessati i motivi ostativi all’accoglimento della
domanda. Gli interessati hanno diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni,
eventualmente corredate da documenti.
4) la stipulazione di accordi procedimentali e sostitutivi (art. 11 modificato dalla 15/05):
agli accordi si applicano i principi e non le norme del codice civile;
5) la predeterminazione dei criteri per l’attribuzione dei vantaggi economici (art. 12): per
garantire trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa, la concessione di un
qualsiasi vantaggio economico è subordinata alla predeterminazione e pubblicazione dei
criteri e delle modalità cui la P.A. deve attenersi.
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Il Capo IV (articoli 14-21) contiene una serie di disposizioni di rilievo dirette a snellire l’azione
amministrativa e quindi ad uniformare la stessa ai principi di economicità e di efficacia di
cui all’art. 1. Dopo la forte spinta semplificatrice derivante dalle leggi c.d. Bassanini (n. 59/97, n.
127/97 e n. 112/98) sono stati ripresi e rafforzati i seguenti istituti:
1) la conferenza di servizi (art. 14), costituisce una forma di collaborazione tra P.A. a cui si
ricorre quando sia necessario un esame contestuale dei diverso interessi in gioco, o quando
sia necessaria l’acquisizione di intese, concerti, nulla osta. (La stessa ratio della conferenza è
alla base dell’istituto dello Sportello unico per le attività produttive;
2) gli accordi tra amministrazioni pubbliche (art. 14): stipulati per disciplinare lo
svolgimento in collaborazione di attività di interesse pubblico;
3) la generalizzazione del silenzio-facoltativo (art. 16): la P.A. può prescindere
dall’acquisizione del parere obbligatorio quando questo non sia stato espresso nei termini di
legge o, in mancanza, entro 90 giorni dalla richiesta;
4) la generalizzazione del silenzio devolutivo (art. 17): se per l’adozione di un provvedimento
debbano essere acquisite valutazioni tecniche di appositi organi e questi non provvedano, il
responsabile del procedimento deve chiedere tali valutazioni tecniche ad altri organi della
P.A., o ad istituti universitari, dotati di qualificazione e capacità tecniche corrispondenti;
5) l’attuazione dell’istituto dell’autocertificazione (art. 18): con questo istituto la P.A.
solleva il cittadino dall’onere di certificare determinati requisiti o dati, ai fini del
conseguimento di un certo atto, accontentandosi di una sua dichiarazione sostitutiva.
(istituto già “inventato” dalla legge n. 15 del 1968 ma non applicato). Il testo unico in
materia di documentazione amministrativa è il D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che nei
suoi 78 articoli contiene le disposizioni legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa;
6) la denuncia in luogo di autorizzazione (art. 19): si riconosce ai privati la facoltà di
intraprendere l’esercizio di una attività sulla base di una mera denuncia, detta dichiarazione
di inizio attività (DIA) e, dopo la modifica del 2010, segnalazione certificata di inizio attività
(S.C.I.A.) senza dover conseguire il prescritto titolo autorizzativo. In tali casi spetta
all’amministrazione competente verificare la sussistenza dei requisiti di legge e disporre,
entro 60 giorni, con provvedimento motivato, il divieto di prosecuzione dell’attività e la
rimozione degli effetti;
7) la generalizzazione del silenzio-assenso (art. 20): parimenti tale articolo, ispirato ad una
liberalizzazione dell’attività dei privati e al miglioramento dei rapporti tra P.A. e cittadini,
opera una sostanziale generalizzazione dell’istituto del silenzio-assenso.
A proposito di snellimento dell’azione amministrativa un inciso e una sottolineatura va fatta per
quanto riguarda l’istituto della dichiarazione sostitutiva, che è un atto del privato capace di
sostituire una certificazione pubblica, rispetto alla quale è alternativa. Tale dichiarazione,
sostituendo l’esercizio di un potere certificativo (tipico della P.A.), è ammessa nei soli casi stabiliti
dall’ordinamento. Le dichiarazioni sostitutive, disciplinate dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445,
sono di due tipi:
- dichiarazione sostitutiva di certificazione: è il documento sottoscritto dall’interessato in
sostituzione dei certificati (es: data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato civile e di
famiglia, nascita del figlio, titolo di studio, qualifica professionale, ecc.);
- dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà: atti con cui il privato comprova, nel proprio
interesse e a titolo definitivo, tutti gli stati, fatti e qualità personali non compresi in pubblici
registri, albi ed elenchi, nonché stati, fatti e qualità personali relativi ad altri soggetti di cui
egli abbia diretta conoscenza (può riguardare anche il fatto che una copia di un atto sia
conforme all’originale).
LE FASI DEL PROCEDIMENTO
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Il procedimento amministrativo si articola in quattro fasi principali, ciascuna caratterizzata da atti e
operazioni tipiche. Talvolta in un procedimento ne confluisce un altro con funzioni strumentali:
detto sub-procedimento dotato di propria autonomia e preordinato alla realizzazione di uno o più
elementi del procedimento principale (esempio: acquisizione del parere della commissione edilizia
per rilasciare un’autorizzazione). La giurisprudenza più recente applica al procedimento le regole
privatistiche della tutela dell’affidamento e dell’obbligo di correttezza, trattandosi di doveri generali
cui è tenuto ogni soggetto di diritto.
Fase dell’iniziativa – E’ la fase propulsiva del procedimento, diretta a predisporre ed accertare i
presupposti dell’atto da emanare. Con essa viene introdotto l’interesse pubblico primario nonché gli
interessi secondari di cui sono titolari i privati interessati all’oggetto del procedimento da emanare.
Si possono avere procedimenti ad iniziativa privata i cui atti tipici sono: istanze, denunce, ricorsi;
oppure ad iniziativa d’ufficio.
Fase istruttoria – E’ la fase nella quale si acquisiscono e si valutano i singoli dati pertinenti e
rilevanti ai fini dell’emanazione dell’atto. Normalmente è di competenza della stessa autorità cui
spetta l’adozione del provvedimento finale, ma il privato può collaborare indicando mezzi di prova
e producendo documenti. All’istruttoria si applicano: il principio inquisitorio (la P.A dispone del
più ampio potere di iniziativa per il compimento degli atti istruttori); il principio della libera
valutazione delle prove da parte della P.A.; il principio di non aggravamento del procedimento. Le
attività della fase istruttoria tendono alla: a) acquisizione dei fatti, ossia le condizioni di
ammissibilità, i requisiti di legittimazione, e le circostanze di fatto; b) acquisizione degli interessi,
pubblici e privati coinvolti nel procedimento (anche attraverso le conferenze di servizi); c)
elaborazione di fatti ed interessi, nella quale rientrano le richieste di parere.
Fase decisoria – E’ la fase deliberativa del procedimento, in cui si determina il contenuto dell’atto
da adottare e si provvede alla formazione ed emanazione dello stesso. In base a legge 127/97 e a
D.lgs. 165/2001 la competenza ad emanare le statuizioni è definitivamente passata ai dirigenti. La
fase decisoria può esprimersi attraverso manifestazioni di volontà che si traducono in un atto
semplice, oppure attraverso più manifestazioni di volontà tra loro collegate. In questa fase è
ammissibile la partecipazione dei privati al procedimento: possono derivare accordi con la P.A. al
fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale. Anche in questa fase
l’autorità competente ad emanare il provvedimento valuta ulteriormente, rispetto a quanto avvenuto
nella fase istruttoria, i presupposti e gli elementi di fatto e di diritto a base dell’atto.
Fase integrativa dell’efficacia – E’ un momento solo eventuale, ricorrente nelle sole ipotesi in cui
sia la stessa legge a non ritenere sufficiente la perfezione dell’atto, richiedendo il compimento di
ulteriori atti od operazioni. In proposito, può essere necessario assumere atti di controllo, oppure
comunicazione, pubblicazione e notificazione. In caso di atti recettivi, gli effetti decorrono ex nunc,
dal momento della notificazione o comunicazione.
CONTROLLI SUGLI ATTI AMMINISTRATIVI
Il termine controllo indica un’attività secondaria e accessoria, diretta a riesaminare un’altra attività
principale, per verificarne la corrispondenza a determinati requisiti. Secondo Virga per “controllo”
s’intende il riesame degli atti di amministrazione attiva al fine di accertarne la conformità a
determinate disposizioni di legge (c.d. controllo di legittimità) ovvero la corrispondenza a quei
criteri di opportunità e di convenienza cui la P.A. deve ispirarsi nell’esercizio dei suoi poteri
discrezionali (c.d. controllo di merito). Si distinguono in:
a) controlli sugli atti, se diretti a valutare la sola legittimità o anche l’opportunità di un singolo
atto amministrativo;
b) controlli sui soggetti o organi, diretti a riesaminare e valutare l’operato, i comportamenti, la
funzionalità di un organo o di un ente pubblico. Si tratta di un controllo che attiene alla
gestione, ed è qualificato, pertanto, controllo funzionale.
L’atto di controllo ha una natura composita, essendo da considerarsi nello stesso tempo quale
manifestazione di volontà e di giudizio.
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I controlli di legittimità sono diretti a valutare e garantire la corrispondenza formale dell’atto o
dell’attività del soggetto alle norme di legge; la loro funzione è qualificata vigilanza.
I controlli di merito sono diretti a valutare l’atto o l’attività dell’organo sotto il profilo dell’utilità ed
opportunità, cioè della convenienza per l’amministrazione. Tali controlli entrano nel merito
dell’atto, valutandone il contenuto e la regolarità formale; la funzione da loro esercitata è quella
della tutela (Virga).
Controlli interni sono quelli che l’amministrazione esercita nel proprio ambito in forza del potere di
supremazia gerarchica che le consente di vigilare sui propri atti, e di disporre eventualmente
l’annullamento o la revoca (c. interorganici); esterni sono quelli provenienti da soggetti diversi
dall’amministrazione interessata (c. intersoggettivi, es: Corte dei Conti).
Rispetto al diverso momento in cui il controllo interviene sull’atto si distinguono:
- controlli preventivi, se intervengono su un atto già formato (perfetto), ma prima che produca i
suoi effetti: si configurano come condizione sospensiva dell’efficacia (es. visto,
approvazione);
- controlli successivi, se intervengono dopo che l’atto sia divenuto efficace: tale è
l’annullamento in sede di controllo; hanno anch’essi efficacia retroattiva;
- controlli sostitutivi, quando l’autorità gerarchicamente superiore, dotata del relativo potere,
accertata l’inerzia dell’autorità inferiore, si sostituisce ad essa nell’emanazione del relativo
provvedimento (es. art. 120 Cost.).
Controllo sull’attività – Si esplica sulla gestione amministrativa di un organo o un ente entro un
dato arco temporale ed è finalizzato alla verifica dell’efficacia e dell’efficienza dei risultati ottenuti.
Il controllo di gestione è un tipo di controllo interno, istituito nell’ottica della privatizzazione del
pubblico impiego e dell’incentivazione conseguente alla produttività: servizi ispettivi interni e
nuclei di valutazione sono diretti a verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei
rendimenti, la realizzazione degli obiettivi, la corretta gestione delle risorse, nonché l’imparzialità e
il buon andamento dell’azione amministrativa (art. 20 D.lgs. 165/2001).
EFFICACIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO
L’efficacia consiste nell’attitudine dell’atto a produrre effetti. L’atto amministrativo diviene
produttivo di effetti, a seguito del positivo completamento della fase di integrazione dell’efficacia
(controllo + comunicazione all’interessato). Gli effetti dell’atto possono essere: costitutivi,
dichiarativi, ampliativi, restrittivi. Quanto all’inizio dell’efficacia: per gli atti recettizi gli effetti
decorrono dalla comunicazione, mentre per gli atti non recettizi gli effetti si producono dal
momento in cui l’atto è posto in essere.
Ai sensi dell’art. 21quater della legge 241/90 i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti
immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento (es: proroga,
sospensione). Le cause di cessazione dell’efficacia possono essere: la scadenza del termine o la
morte dell’interessato; la rinuncia da parte del soggetto; atti di ritiro della P. A. .
ESECUTORIETA’ DELL’ATTO AMMINISTRATIVO
Il provvedimento amministrativo, in quanto dotato del carattere di autoritarietà, ha l’idoneità a
produrre, unilateralmente, modificazioni giuridiche favorevoli e sfavorevoli nella sfera giuridica del
destinatario. La modificazione può talora operare subito, senza che occorrano atti di esecuzione
(provvedimenti autoesecutivi). Il più delle volte, però, è necessario procedere ad un’attività di
esecuzione per adeguare la situazione di fatto alla situazione di diritto disposta con il
provvedimento. Per i provvedimenti comportanti obblighi per i destinatari, ove costoro non vi
ottemperino, la P.A., nelle ipotesi e con le modalità previste dalla legge, può, previa diffida,
provvedere all’esecuzione coattiva degli stessi provvedimenti (ordinanza del Sindaco di sgombero
di un edificio per motivi igienici, avvalendosi della forza pubblica).
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