CAPITOLO TERZO
HEGEL
1. Gli scritti giovanili
Nato a Stoccarda il 27 agosto 1770, Georg Wilhelm Friedrich Hegel frequentò, da giovane, i corsi
di teologia dell'Università di Tubinga, dove ebbe come colleghi Hölderlin e Schelling, che tanta
importanza avranno, in seguito, nella sua esistenza privata e nella sua vita pubblica. Completati gli
studi, nel 1793 accettò l'incarico di precettore privato a Berna; qui si trattenne fino al 1796. In
questo periodo egli «respirò» cultura francese, specie quella illuministica, s'interessò alle
discussioni, allora molto vivaci, sulla Rivoluzione Francese e riempí quaderni di appunti in cui, tra
l'altro. s'intrecciano temi filosofici e osservazioni e valutazioni sugli eventi politici e sociali di quel
tempo. Quindi tornò in Germania, e visse a Francoforte sul Meno. In questo «periodo bernesefrancofortese» redasse quei saggi che, restati inediti fino al 1906, costituiscono un utile avvio alla
comprensione dello Hegel «maturo», specie quelli scritti tra il 1795 e il 1800, cioè fino ai suo
ingresso nel mondo accademico. Il titolo che fu attribuito a questi saggi, Scritti teologici giovanili di
Hegel, indica solo l'«orizzonte» di discorso, perché, in effetti, in essi s'intrecciano temi di diversa
natura che rivelano la molteplicità degli interessi hegeliani. Qui indicheremo solo alcuni di questi
temi, e non esporremo analiticamente il contenuto delle singole opere.
Uno degli argomenti significativi è il rapporto tra mondo antico e mondo moderno, la cui
elaborazione è il frutto di un sentito interesse per l'antichità e di una profonda riflessione critica
sugli eventi a lui contemporanei. Il mondo greco, pensa Hegel, è la matrice di quello moderno;
pertanto ogni tentativo di comprendere il secondo senza indagare sui fili che lo legano al primo,
risulterà inevitabilmente sterile. Certo, tra le due civiltà c'è una profonda diversità; anzi una
contrapposizione. Il mondo antico è il positivo, quello moderno il negativo, afferma Hegel in
armonia con le idee di Hölderlin e di Schiller. Tuttavia, a differenza di Schiller, Hegel sostiene che
il mondo moderno saprà «risorgere» con la piena realizzazione degli ideali che hanno ispirato la
Rivoluzione Francese, di cui il filosofo offre una valutazione positiva. Ma quali sono le ragioni
della contrapposizione? Hegel riprende il tema schilleriano dell'armonia tra uomo e natura
nell'antichità greca, ch'egli vede realizzata in tutti i momenti della vita umana, anche in quello
economico (non c'era sostanziale sperequazione economica) e in quello politico (il cittadino
partecipava in prima persona alla vita dello stato, e quindi alla formazione delle leggi e al
funzionamento delle istituzioni); tale armonia costituiva la condizione della libertà e della felicità
dell'uomo antico che, perciò, non avvertiva il bisogno di proiettarsi in una dimensione ultraterrena,
come fa l'uomo moderno, indottovi dalla mancanza di libertà e dalla profonda insoddisfazione per la
propria esistenza.
Altro punto di piú intensa riflessione giovanile fu il tema della religione, tema che legò l'interesse di
Hegel all'Illuminismo, di cui La rifiutava gli estremismi materialistici e irreligiosi (d'Holbach), ma
accettava, tesaurizzandole, la critica alle religioni positive (Lessing) e la riduzione delle istanze
religiose che le sostengono a «esigenze dello spirito» (Kant). Come per Lessing, per lui tutte le
religioni «positive» sono «false», in quanto s'alimentano di un inutile spirito di competizione e lotta
reciproca, e, al loro interno, della scissione, dell'estraneità tra leggi e dogmi (che cadono dall'alto
con la loro astrattezza) e le concrete esigenze umane; ma sono anche, o possono essere, tutte «vere»
se il credente esprime in esse la sua «religiosità naturale», che gli assicura l'«armonia» con sé e con
gli altri. Anche in questo caso la «scissione», la «separazione», la «lotta» è il negativo, e
l'«armonia» è il positivo, per cui l'evoluzione della civiltà dovrà portare alla ricostruzione
dell'armonia.
La ricerca di una religione «autentica» porta poi Hegel a «misurarsi» con Kant. Della Critica della
Ragion Pratica apprezza la teoria dei postulati. Di contro alla forma «oggettiva» di una religione
che si fonda su astratti dogmi e su principi estranei alla vita umana, come di contro alla forma
«privata» di una religione che si risolve in credenza e pratiche rituali utili solo ad offrire sostegno e
conforto nelle contingenze avverse della vita, per Hegel la teoria kantiana dei postulati offre la base
di una religione «soggettiva», espressione di esigenze che l'uomo sa essere interiori a se stesso, di
ideali ch'egli sa essere innati in lui. Ma anche la teoria kantiana non è soddisfacente, nonostante il
suo nucleo di verità. Una vera religione (sostiene Hegel fondendo gl'insegnamenti tratti da Lessing,
Kant e Schiller) dev'essere «religione popolare»; religione di uomini liberi viventi in armonia con sé
e con gli altri, armonia che raggiunge il culmine in quella dell'individuo con la vita del proprio
popolo. Essa caratterizzò il mondo antico, e decadde solo, a partire dal Medio Evo, con l'affermarsi
delle religioni positive. Tra queste c'e anche quella «cristiana», che, nata bene, acquistò i suoi
caratteri «moderni» proprio nel Medio Evo, cioè quando divenne espressione di una speranza in una
vita ultraterrena e di un atteggiamento passivo nei confronti della legge divina concepita come
lontana, «obiettiva», in conseguenza della perdita di ogni libertà politica e sociale e del sentimento
di estraneità dello stato rispetto alla vita concreta, quotidiana. Ciò che inficia, dunque, la concezione
etica kantiana è la teoria dell'imperativo categorico. Infatti l'adeguamento passivo della volontà alla
ragione, astrattamente intesa e quasi separata dagli altri aspetti dell'uomo concreto, è, per Hegel, I
analogo dell'atteggiamento di accettazione passiva richiesto dalle religioni positive di fronte alla
Legge.
L'esigenza di una concezione dell'uomo come realtà unitaria senza separazioni tra le sue funzioni
spirituali, avvicina inoltre Hegel ai Romantici. Come questi egli critica la separazione, proposta dall
Illuminismo, tra intelletto e cuore, e l'assunzione del primo ad unico strumento di spiegazione della
realtà.
Ma questa, per Hegel, è caratterizzata da una variegata complessità, per cui l'intelletto, «astraendo»,
cioè separando e isolando col pensiero ciò che nel fatti è connesso, non comprende in modo
autentico il reale. Certo anche l'intelletto svolge una funzione utile (infatti spiega le differenze, le
fratture fra i vari momenti della realtà); ma esso non deve essere assolutizzato, pena il suo
estraniarsi dalla vita dell uomo. Se I Illuminismo ha proposto un distacco tra intelletto e sensibilità,
il compito della civiltà futura è il superamento, la risoluzione di questa contrapposizione. L'uomo
futuro dovrà vivere cioè in una condizione di saggezza, in cui trovino sistemazione organica ed
armonica le esigenze razionali e la vita emotiva e passionale. Ma non fu solo questo l'elemento di
affinità coi Romantici. Anzi, viene addirittura definita «fase romantica» quella vissuta da Hegel
nella sua permanenza a Francoforte, dal 1797 al 1800. In quegli anni l'Athenaeum elaborava il
concetto di «sin-filosofare» «filosofare insieme», in termini polemici contro la concezione della
filosofia come «sistema» uscito dalla mente di un pensatore solitario e costruito con solitarie
dimostrazioni deduttive. Per i Romantici tali filosofie erano estranee alla vita, perché non nate dal
confronto delle idee, dal dialogo, dalla dialettica dei pensieri, che sola interpreta il reale ed esprime
la vera elaborazione culturale. Hegel condivide il concetto di «pensare dialettico». Anche il
pensiero di un singolo individuo deve muoversi dialetticamente, per posizione di concetti e per
negazione di essi. Per lui la contraddizione è nei fatti, per cui l'evoluzione è la negazione del già
avvenuto. Pertanto per interpretare la storia bisogna individuare le contraddizioni tra i momenti che
la costituiscono; anzi la sua unità attraverso le sue Opposizioni, com'egli fa delineando il rapporto
tra mondo antico, moderno e futuro. La contraddizione, egli sostiene con i Romantici, è dunque la
legge logica che rende fecondo e vitale il pensiero, in quanto non gli consente di «immobilizzarsi»,
bensì di sviluppare continuamente sé da se stesso.
C'è un saggio, però, in cui il concetto romantico di dialettica viene superato in una concezione
filosofica piú articolata, che prelude alle teorizzazioni future. Esso è Lo spirito del cristianesimo e il
suo destino. Qui Hegel, riprendendo la riflessione sulle religioni positive (confessionali e basate su
dogmi oggettivi ed astratti), introduce il concetto di «popolo infelice», cioè di quello che ha perduto
l'armonia della «religione popolare» e vive una «coscienza infelice», caratterizzata dalla scissione,
separazione tra sé e Dio, e dal bisogno di cercare fuori di sé, cioè in un Dio «lontano», la ragione di
se stesso. Ma, sostiene Hegel, questa condizione di scissione interna allo spirito non è da
considerarsi come semplicemente negativa; essa, sí, è in opposizione alla «antica» armonia, ma
questa armonia era vissuta dagli antichi in modo inconsapevole; pertanto la consumazione della
condizione di infelicità, di scissione dell'uomo, gli permette di ricostituire consapevolmente
quell'armonia; dunque essa ha anche un ruolo positivo. Pertanto l'evoluzione futura dell'umanità
non deve muoversi sulla base della «distruzione» dell'esperienza della scissione, ma deve
tesaurizzarla, conservarla, come momento necessario dello sviluppo dello spirito, nella ricostituita
armonia; la quale quindi rappresenterà il superamento consapevole di quella scissione. Il concetto
romantico di dialettica si congiunge ora a quello di «superamento» degli opposti.
Hegel comincia, insomma, a delineare quello che successivamente indicherà come processo per
tesi-antitesi-sintesi, laddove la tesi, in questo caso, è costituita dall'armonia primitiva e
inconsapevole, l'antitesi dalla rottura di essa, e la sintesi dalla riconquista di quell'armonia (tesi)
attraverso l'esperienza, tesaurizzata, della rottura (antitesi). Se poi consideriamo che in questa
prospettiva è leggibile anche l'idea che la legge dialettica non è solo legge dei «fatti», e non è solo
legge del pensiero logico, ma anche legge dello sviluppo dello spirito umano, sia considerato
storicamente come spirito dell'umanità, sia considerato come spirito dell'uomo individuale,
dobbiamo allora concludere che nella fase giovanile di Hegel si presentano tutti quei temi che
costituiranno i fondamenti della concezione elaborata successivamente in forma di sistema.
2. L'insegnamento a Jena
Nel 1801 Hegel entra nell'ambiente accademico di Jena, su presentazione di Schelling, che già era
professore in quella Università e che, a quel tempo, già aveva pubblicato il suo Sistema
dell'idealismo trascendentale. Era una grossa occasione per Hegel, perché quell'Università era nota
come centro culturale di eccezionale importanza. Il suo «periodo jenese», che va dal 1801 al 1807,
ebbe inizio con la pubblicazione del saggio Differenza fra i sistemi filosofici di Fichte e di
Schelling, redatto in polemica con Reinhold che in un suo scritto aveva dichiarato di non rilevare
molta differenza tra i sistemi dei due filosofi. Mutuando da Kant il termine ed il concetto di
«riflessione» (Kant infatti aveva distinto, come si ricorderà, il giudizio determinante da quello
riflettente), Hegel designa come filosofie della riflessione quelle che, posta una contrapposizione tra
soggettività e oggettività, coscienza ed essere, affidano solo ed esclusivamente alla soggettività la
possibilità di cogliere l'essenza della realtà. Sono degli idealismi, ma idealismi soggettivi: essi
infatti partono dall'Io e all'Io riconducono e riducono il senso del rapporto conoscitivo e pratico con
la realtà. Queste filosofie, tra le quali Hegel annovera oltre che la stessa concezione di Kant anche
quelle di Jacobi, Schleiermacher e Fichte, teorizzano la chiusura dell'Io su se stesso. Schelling,
invece, a suo giudizio, ha «superato» la contrapposizione tra coscienza ed essere, «riconciliando»
gli opposti; cosí ha spezzato l'isolamento dell'Io.
C'è dunque, per Hegel, un rapporto preciso tra la filosofia di Fichte e quella di Schelling. La prima
svolge, nei confronti della seconda un ruolo analogo a quello da Hegel indicato per la «coscienza
infelice». Il sistema fichtiano ha evidenziato l'opposizione, la scissione tra pensiero e realtà; ma ha
costituito pure un momento utile, necessario, anzi indispensabile perché l'unità soggetto-oggetto
potesse ritrovarsi riconquistata ed arricchita di consapevolezza nella concezione di Schelling. La
difesa di Schelling fatta da Hegel rinsaldò l'amicizia e favorí la collaborazione tra i due: i quali,
appunto, fondarono, nel 1802, il «Giornale critico della filosofia», su cui Hegel pubblicò dei saggi
in cui riprendeva il discorso sulle filosofie della riflessione, la cui origine talvolta indicava nel
pensiero illuministico. Contemporaneamente, però, Hegel s'apprestava a dare corpo ad un suo
proprio sistema, com'è rilevabile dagli appunti per le lezioni, redatti tra il 1801 e il 1804; appunti
pubblicati postumi in due opere: la Logica di Jena, in cui sono raccolti quelli d'argomento logico e
metafisico, e la Filosofia del reale di Jena, in cui sono raccolti quelli relativi alla filosofia della
natura e alla filosofia dello spirito. Dei lavori di questo periodo daremo qui solo una presentazione
sommaria e complessiva. Hegel sostiene la necessità di una «logica dialettica», cosí indicata in
opposizione alla aristotelica «logica dell'identità». Ogni concetto risulta «astratto» e insignificante
se considerato in sé, cioè se non è relazionato al suo opposto e se, insieme al suo opposto, non viene
individuato «superato» in un concetto superiore che li sintetizzi entrambi, cioè conservandoli nella
loro reciproca relazione. Tale argomento ricorrerà, con piú ricchezza di articolazione, nella
successiva Scienza della Logica, e quindi cercheremo d'approfondirlo quando tratteremo di
quest'opera. Decisa è comunque la convinzione hegeliana che questo tipo di logica è il solo
strumento utile per la conoscenza del reale. Infatti anche i fenomeni naturali possono e debbono
esser letti ed interpretati secondo la logica della contraddizione, in quanto, a ben vedere, ad ogni
fenomeno corrisponde, nella realtà, un fenomeno opposto ed entrambi si ritrovano, conservati ma
superati, «riconciliati» in un altro fenomeno che, appunto, li comprende insieme. Tipico, nell'area
del reale, è l'esempio dell'uomo, lo spirito, che si presenta come sintesi di puro pensiero e naturalità,
elementi che, opposti tra di loro, si trovano armonizzati, relazionati, nella realtà umana.
C'è dunque in Hegel l'idea che alla «dialettica» come legge del pensiero corrisponda una
«dialettica» come legge della realtà; cosa che rappresenta una notevole premessa alla successiva
affermazione dell'unicità della legge del pensiero e della realtà, alla tesi dell'identità di razionale e
reale.
3. La fenomenologia dello spirito e la ragione dialettica
Intanto matura il distacco da Schelling. Nell'articolo Le maniere di trattare scientificamente il
diritto naturale Hegel dichiarava che l'intuizione, che per Schelling era la suprema facoltà
conoscitiva del reale, è inadeguata a conoscere la realtà nella sua interna struttura, perché non arriva
mai all'astrazione del concetto razionale, che solo può dare organizzazione e sistematicità a quella
conoscenza. Ma il distacco diventa netto ed esplicito nella Fenomenologia dello Spirito. Nella
Prefazione infatti Hegel sostiene che Schelling ha enunciato il principio dell'identità degli opposti
come principio interpretativo del reale, ma non ha mostrato come tale pnncipio sia riscontrabile in
ogni forma e grado particolare della realta. Quel principio resta cosí indeterminato, simile alla
«notte in cui tutte le vacche sono nere». C'è, dunque, per Hegel, un'unione degli opposti che egli,
però, non considera già posta, ossia immediatamente esistente, ma frutto di un processo insito nella
realtà. E, sul piano del pensiero, tale unione non è il risultato di un'astratta ideazione, ma una verità
che il pensiero conquista in virtù del suo interno movimento.
Lo strumento della filosofia, ribadisce Hegel contro l'intuizione di Schelling e contro l'entusiasmo
mistico o fideistico dei Romantici e di Jacobi, è la ragione; ma non si tratta della ragione
illuministica, bensí della ragione dialettica, che si esercita secondo la legge della contraddizione,
cioè opera ponendo una tesi, a cui contrappone un'antitesi, per giungere ad una sintesi degli
elementi concettuali contraddittori. Tale ragione, anzi, è l'unico strumento utile di conoscenza,
perché il reale si svolge proprio secondo la legge degli opposti, cioè per tesi, antitesi e sintesi.
La dialettica, per Hegel, è quindi non solo la legge del pensiero, ma anche quella della realtà; anzi è
l'essenza stessa della realtà. Tutto si svolge secondo la legge della razionalità, perché un unico
«spirito universale» si manifesta, si rivela nella struttura della realtà naturale, nello snodarsi degli
eventi storia, nel succedersi dei prodotti dello spirito (istituzioni, arti etc). Come pure nelle vicende
stesse della coscienza umana individuale. È un unico pensiero, un unico logos, che costituisce
insieme il motore e la legge della realtà fisica e l'elemento attivo, dinamizzante, tipico dell'uomo,
considerato sia come individuo che come umanità. E quando si parla del «pensiero» come «attività
razionale» dell'uomo, esso deve intendersi, per Hegel, come quel «pensiero universale», quel
«logos» del tutto, che proprio nell'uomo - anche come individuo - diventa «cosciente di sé», si
rivela pienamente a se stesso. Quella razionalità universale che circola «inconsapevole» nelle cose e
negli eventi diventa autocosciente nell'uomo, diventa «sapere di sé». E poiché questo sapere è il
sommo possibile per l'uomo, esso è «sapere assoluto», frutto di uno «spirito assoluto», libero,
giunto alla pienezza dei suoi poteri e delle sue capacità.
Ma l'approdo ad un sapere assoluto, cioè ad una conoscenza filosofica di sé e del mondo, o meglio
del logos che permea e dà forma al divenire del tutto, tale approdo, dicevamo, non è un fatto
separato dal pensiero comune dell'uomo comune, anzi è il culmine a cui arriva il pensiero dell'uomo
comune. In altri termini, la coscienza dell'uomo che si pone filosoficamente di fronte a sé e alla
realtà, è la stessa coscienza dell'uomo comune che, però, è pervenuta ad un alto grado di sviluppo
(cosí come, ad esempio, il pensiero di un adulto è lo stesso pensiero che lo caratterizzò come essere
umano da fanciullo, ma «maturato», sviluppato, arricchito, e infine consapevole di sé). Insomma c'è
uno sviluppo dal «sapere comune» al «sapere assoluto», che altro non è che lo sviluppo dalla
«coscienza comune» alla «coscienza filosofica». Ossia c'è un divenire interno al sapere che si snoda
nel passaggio da una «coscienza irriflessa», da uno «spirito immediato», fino alla «coscienza
riflessa», al pensiero autocosciente e conoscente per concetti.
Un tal divenire della scienza in generale o del sapere è appunto ciò che questa fenomenologia dello
spirito presenta. Il sapere, come esso è da prima, o lo spirito immediato, è ciò ch'è privo di spirito, la
coscienza sensibile. Per giungere al sapere propriamente detto, o per produrre quell'elemento della
scienza che per la scienza medesima è anche il suo puro concetto, il sapere deve affaticarsi in un
lungo itinerario.
(Fenomenologia dello spirito)
Questo sviluppo della coscienza, e del sapere, ossia questo sviluppo dello spirito, ha luogo sia a livello di singole
persone, che a quello dell'intera umanità. Gli stessi meccanismi e le stesse modalità di sviluppo che portano l'individuo
dall'infanzia alla maturità della coscienza, sono infatti individuabili nei passaggi di civiltà della storia universale. E
viceversa; gli stessi momenti tipici del progresso dei popoli e dell'intera umanità, sono individuabili come momenti
caratteristici della maturazione della coscienza nello sviluppo della singola persona. Perché è sempre lo stesso «logos»
che si sviluppa, come coscienza, nel singolo e nell'umanità. Sicché le vicende di questo sviluppo progressivo possono
essere indicate attraverso «tipi» o «figure» riferibili allo stesso tempo sia alla storia d'un individuo che alla storia
dell'umanità. Gli stessi «fenomeni» che caratterizzano le vicende evolutive degli individui, contrassegnano quelle dello
spirito dei popoli e dell'intera umanità nel suo complesso cammino. Pertanto, fare una fenomenologia dello spirito, per
Hegel, significa ripercorrere le fasi significative di questo cammino dall'incultura alla cultura nell'individuo, e dalla
rozzezza alla civiltà nell'umanità.
Il compito di accompagnare l'individuo dalla sua posizione incolta fino al sapere era da intendersi nel
suo senso generale, e consisteva nel considerare l'individuo universale, lo spirito autocosciente nel suo
processo di formazione, rispetto al quale l'individuo particolare è lo spirito non compiuto.
(Fenomenologia dello spirito)
Infatti, ogni individuo particolare è solo un momento transeunte dello spirito universale nel suo
cammino verso il compimento di sé, anche se in ogni individuo che tende alla cultura si riproduce
l'intero travaglio dello sviluppo dello spirito universale.
Fare una fenomenologia dello spirito significa per Hegel, allora, molte cose. Significa descrivere le
tappe attraverso cui il pensiero dell'individuo passa dalle forme piú elementari di conoscenza
empirica alla conoscenza concettuale o filosofica; ma anche, allo stesso tempo, descrivere le fasi
attraverso cui l'umanità nella sua storia è passata dalla condizione primitiva alla civiltà; il che, poi,
non è altro che raccontare i modi in cui l'individuo, come l'intera umanità, è passato dallo stato di
inconsapevolezza alla piena consapevolezza di sé, cioè all'autocoscienza tradotta in termini
filosofici, concettuali. E significa pure, se consideriamo questo sviluppo dal punto di vista del suo
«principio», cioè da quello del «logos», descrivere il progressivo manifestarsi del Pensiero,
nell'individuo come nella storia, dalle forme primitive a quelle razionali; cioè narrare la storia di un
Assoluto che non è una «sostanza» immobile e già compiuta (come in Spinoza e in Schelling), ma è
«spirito vivente» che conquista progressivamente se stesso attraverso i singoli e l'umanità, spirito
che conosce, e si arricchisce nella conoscenza, sia a livello d'individuo che a quello d'umanità.
In definitiva la fenomenologia dello spirito non è altro che un romanzo filosofico; cioè una storia
romanzata scritta da uno spirito individuale giunto alla consapevolezza filosofica, in cui esso
racconta di sé, rendendosi personaggio del suo racconto; e narra del cammino ricco e articolato, in
continuo progresso, ma anche angustiato da inevitabili e anzi fruttuose insidie e sofferenze, verso la
sua condizione di consapevolezza filosofica; racconta delle fasi attraverso cui esso, lungo la storia,
come nel suo intimo, è pervenuto alla cognizione di essere un momento finito di un Pensiero
infinito, un evento particolare in cui s'incarna il «logos» eterno, l'Assoluto; descrive lo sforzo
incessante compiuto nel «crescere», nel «maturarsi», nei tentativi messi in atto per ritrovare la sua
pienezza; indica i momenti dell'incessante ricerca, dell'opera continua e progressiva di
appropriazione conoscitiva di se stesso, cioè delle sue origini e della sua matrice infinita e divina; e
rivela, nella narrazione, che in questa ricerca è proprio lo «spirito infinito» che nel suo pensiero
individuale si è riconosciuto come pensiero che «si svolge» e «si manifesta» in tutta la realtà.
L'individuo percorre questo suo passato, la cui Sostanza è quello spirito che sta piú su, proprio come
colui che è sul punto di avventurarsi in una scienza superiore percorre le cognizioni preparatone, già
in lui da lungo tempo implicite, per rendersi presente il loro contenuto; e le rievoca senza che quivi
indugi il suo interesse. Il singolo deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale,
anche secondo il contenuto, ma come figure dallo spirito già deposte, come gradi di una via già
tracciata e spianata. Similmente noi, osservando come nel campo conoscitivo ciò che in precedenti età
teneva all'erta lo spirito degli adulti è ora abbassato a cognizioni, esercitazioni e perfino giochi da
ragazzi, riconosceremo nel progresso pedagogico, quasi in proiezione, la storia della civiltà. Tale
esistenza passata è proprietà acquisita allo spirito universale; spirito che costituisce la sostanza
dell'individuo e, apparendogli esteriormente, costituisce la sua natura inorganica. Mettendoci per
questo riguardo dall'angolo visuale dell'individuo, la cultura consiste nella conquista di ciò ch'egli
trova davanti a sé, consiste nel consumare la sua natura inorganica e nell'appropriarsela. Ma ciò può
venire considerato anche dalla parte dello spirito universale, in quanto esso è sostanza; in tal caso
questa si dà la propria autocoscienza e produce in se stessa il proprio divenire e la propria riflessione.
(Fenomenologia dello spirito)
4. Il padrone e il servo: coscienza, autocoscienza, ragione
Il discorso della Fenomenologia prende avvio, dunque, dall'analisi dell'esperienza, e descrive come
dalla certezza sensibile lo spirito passa alla percezione e quindi all'intelletto, che costituiscono le
articolazioni interne alla coscienza. Dalla coscienza, poi, lo spirito, nel suo processo, passa
all'autocoscienza; e quando l'autocoscienza matura nella consapevolezza del soggetto assoluto, lo
spirito perviene alla ragione. Non rifaremo, qui, la descrizione analitica dei gradi della vita dello
spirito. Noteremo solo che, sia nel passaggio coscienza-autocoscienza-ragione, sia nella
articolazione interna di ognuno di questi momenti, Hegel vede il dinamismo dello spirito che si
sviluppa per tesi-antitesi-sintesi, sicché il primo elemento vien «negato», «tolto», producendosi esso
stesso nel suo opposto, e vien recuperato, «superato», nella risultante finale. Infatti, lo spirito, ad
esempio, come coscienza (tesi) vive l'opposizione, l'estraneità tra sé e le cose fuori e di fronte a sé;
quindi diventa autocoscienza negando proprio quella estraneità e riconoscendo se stesso nel mondo
ch'esso riteneva esterno ed estraneo a sé; quindi diventa ragione quando la coscienza acquista
certezza razionale, appunto, di essere tutte le cose.
Come ragione l'autocoscienza... è infatti certa di se stessa come realtà, ossia è certa che ogni realtà
non è niente di diverso da lei; il suo pensare è esso stesso, immediatamente, l'effettualità... La ragione
è la certezza della coscienza di essere ogni realtà.
(Fenomenologia dello spirito)
A livello di ragione quindi lo spirito conquista la verità dell'identità tra razionalità e realtà, pensiero ed essere. Ciò che
è, è l'articolarsi e il dispiegarsi della razionalità, del logos; e ciò che, in me che penso, è pensiero, è il logos del tutto che
in me diventa autoriflettentesi.
Nel passaggio dalla coscienza alla ragione lo spirito attraversa la fase della conquista di sé come
autocoscienza. Sul piano della storia come su quello dell'individuo, questo dell'autocoscienza è un
momento di grosso travaglio, che Hegel rappresenta attraverso una sene di «figure» tratte dalla
«storia ideale» dell'umanità. Su queste ci fermeremo, per la ricchezza e finezza d'analisi che Hegel
ha esplicitato sia nell'esame della vita interna dell'anima umana che in quello di alcuni momenti
della vita culturale dell'umanità.
La prima «figura» presentata è quella del rapporto «signore»-«servo». Gli uomini, come
«autocoscienze», sono in rapporto conflittuale tra loro. L'affermazione della propria spiritualità
autocosciente può avvenire solo attraverso l'affermazione sull'altra autocoscienza. Tale
conflittualità induce al rapportarsi degli uomini tra loro secondo lo schema signore-servo. In questo
rapporto il «vincitore» è il signore, che afferma la sua autocoscienza come coscienza della libertà di
fronte e sul servo, cui non riconosce uguale libertà. Infatti il servo è legato al mondo materiale ed è
vincolato ad esso attraverso il lavoro per soddisfare, proprio col suo lavoro, i desideri del signore.
Ma il rapporto non deve includere la negazione della coscienza del servo, perché allora il rapporto
stesso non sussisterebbe piú. Infatti il servo deve conservare tanta coscienza da riconoscersi diverso
e dipendente dal signore, e quindi da riconoscere al signore la libertà. Dunque l'autocoscienza del
signore ha un punto debole: dev'essere riconosciuta dalla coscienza del servo per poter realizzarsi.
Il signore è la coscienza che è per sé... la quale è mediata con sé da un'altra coscienza, cioè da una
coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere sintetizzata con un essere indipendente o con la
cosalità in genere. Il Signore si rapporta a questi due momenti: a una cosa come tale, all'oggetto, cioè,
dell'appetito; e alla coscienza cui l'essenziale è la cosalità... Il signore si rapporta al servo in guisa
mediata attraverso l'essere indipendente, ché proprio a questo è legato il servo; questa è la sua catena,
dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua
indipendenza nella cosalità. Ma il signore è la potenza che sovrasta a questo essere; ... siccome il
signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro
individuo, cosí, in questa disposizione sillogistica, il signore ha sotto di sé questo altro individuo.
Parimente il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata attraverso il servo.
(Fenomenologia dello spirito)
Dunque, mentre il signore è coscienza per sé, quella del servo è coscienza per altro, per il signore. E mentre il signore
non ha rapporto con la realtà, oggetto dei suoi appetiti, se non attraverso il seno, questa realtà è il vincolo che lega in
rapporto di dipendenza il servo al signore. Però, la realtà è anche il mezzo attraverso cui il servo trova l'unica
indipendenza possibile: infatti la sua trasformazione della realtà dipende unicamente da lui. Sicché proprio in questa
trasformazione il servo scopre che il signore non è veramente indipendente, in quanto dipende dal suo lavoro, e che egli,
invece, nel suo lavoro è indipendente per davvero.
La verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile. Questa da prima appare
bensí fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma... la servitù nel proprio compimento
diventerà piuttosto il contrario di ciò ch'essa è immediatamente, essa andrà in se stessa come
coscienza riconcentrata in sé, e si volgerà nell'indipendenza vera.
(Fenomenologia dello spirito)
Il «servo» allora giunge, con l'elaborazione della realtà, alla sua autocoscienza. E il rapporto prima esistente col
«signore» ora si capovolge.
Agli occhi del «servo» l'autocoscienza signorile mostra la sua debolezza proprio mentre egli
conquista, attraverso la paura ch'egli vive in ogni attimo della sua esistenza, la propria
autocoscienza. A questo punto il servo non riconosce piú come «signore» il signore.
Alla coscienza senile l'essere-per-sé che sta nel signore è un essere-per-sé diverso, ossia è solo per lei,
nella paura l'essere per sé è in lei stessa (coscienza); nel formare (elaborare la realtà) l'essere-per-sé
diviene il suo proprio per lei, ed essa giunge alla consapevolezza di essere essa stessa in sé e per sé.
(Fenomenologia dello spirito)
Pertanto, sia il lavoro che la paura conducono il servo alla «riappropriazione» di sé e alla «negazione» del signore. Con
la figura del rapporto signore-servo Hegel ha mostrato il primo momento della «liberazione» dell'autocoscienza. Le
altre «figure» sono indicate dal filosofo nello stoicismo e nello scetticismo. Il problema, infatti, che non è stato ancora
risolto è la dipendenza della coscienza dalla realtà, dalla natura. L'autocoscienza del servo liberato è, sí, indipendente
dal signore, ma non dalla realtà. Nell'atteggiamento stoico Hegel vede il primo tentativo di questa nuova liberazione; lo
stoico, infatti, si rifugia nel mondo astratto del pensiero, dichiarando la sua indifferenza alla realtà e dichiarandosi
autosufficiente. Ma questa sua «libertà» non è altro che il «concetto della libertà», non libertà effettiva, effettiva
indipendenza e autosufficienza. Insomma lo stoico non supera la condizione di precarietà della sua concreta esistenza.
Tale coscienza (stoica) è quindi negativa verso la relazione signoria-servitù. Il suo operare non è né
quello del signore, che trova la propria verità nel seno, né quello del seno, che trova la propria verità
nella volontà del signore e nel servizio resogli. Anzi il suo operare è di essere libera sul trono, e in
catene e in ogni dipendenza del suo singolo esserci; è di riservarsi l'inerzia che dal movimento
dell'esistenza... si rifugia sempre nell'essenza semplice del pensiero. Lo stoicismo è la libertà che uscendo sempre da lei stessa - ritorna nella pura universalità del pensiero... Pur tuttavia l'essenza di
questa autocoscienza è in pari tempo soltanto un'essenza astratta. La libertà dell'autocoscienza è
indifferente verso l'esistenza naturale e quindi la ha, alla sua volta, liberamente dimessa. La libertà nel
pensiero... è quindi soltanto il concetto della libertà, ma non proprio la libertà vitale.
(Fenomenologia dello spirito)
Lo stoico quindi «dipende» dalla realtà perché non coglie che la realtà è la sua stessa essenza, il suo stesso Pensiero
estrinsecatosi spazio-temporalmente. Un passo verso questa concezione lo compie lo scettico. Colui che ha assunto
l'atteggiamento scettico «nega» la realtà in se stessa, riconoscendo come realtà solo ciò ch'è nella sua stessa coscienza.
È un passo avanti, ma monco: per lui, sí, la realtà di una cosa non consiste nella fisicità della cosa stessa; la realtà della
cosa sta nel suo pensiero, quando egli la pensa; tuttavia lo scettico crede reale solo ciò che è nella sua propria,
individuale, particolare coscienza. Il che porta inevitabilmente al contrasto con le altre coscienze e ad una
contraddizione con se stesso, come vedremo.
Ora nello scetticismo si palesa per la coscienza la totale inessenzialità e dipendenza di questo «altro»,
cioè della realtà, nei cui confronti egli opera una negazione consapevole di sé mediante la quale
l'autocoscienza si procura per se stessa la certezza della propria libertà (da essa), e l'innalza cosí a
verità... Nel mutamento di tutto ciò che per lei tenderebbe a consolidarsi, l'autocoscienza scettica fa
esperienza della sua propria libertà, come di una libertà che essa stessa si è data e mantenuta,
l'autocoscienza scettica è l'atarassia del pensare se stesso; è la certezza immutabile e verace di se
stesso.
(Fenomenologia dello spirito)
Lo scettico comprende che non egli dipende dalla realtà, ma la realtà, svuotata in se stessa di ogni contenuto, ne assume
uno nella sua coscienza, e dipende cosí dalla sua coscienza. Ma c'è l'altra faccia della medaglia di questa libertà.
Svuotando la realtà del suo contenuto in sé, la coscienza scettica avverte di trovarsi instabile, perennemente mutevole,
nel caos.
Ma, in effetti, invece di essere coscienza eguale a se stessa, qui la coscienza non è altro che un
accidentale arruffio; è soltanto l'imbroglio di un disordine che sempre si riproduce. Ciò essa è per sé,
perché essa stessa nutre e produce il movimento di questo disordine. Essa fa professione di ciò;
professa quindi di essere una coscienza del tutto accidentale e singola; una coscienza che è empirica e
che va dietro a ciò che per essa non ha realtà alcuna, che dà retta a ciò che ad essa non è un'essenza,
che fa - elevandolo ad effettualità - ciò che ad essa non ha verità.
(Fenomenologia dello spirito)
Dunque la coscienza scettica, ponendo per «vero» ciò che essa percepisce e valuta come «vero», produce due effetti
negativi: non coglie che il «reale» è «razionale», e che il «vero» non è relativo alla sua singola coscienza; e inoltre
scava un abisso tra sé e le altre coscienze, tra la «sua» verità e quella degli altri. Infine raggiunge la somma
contraddizione con sé quando proclama che l'unica realtà e verità è quella ch'è per lei, e proclama ugualmente che non
esiste realtà e verità; in particolare quando afferma se stessa come coscienza immutabile, stabile, uguale a se stessa, e,
d'altra parte, deve riconoscere che questa sua coscienza è sempre mutevole.
Questa contraddizione viene sciolta, ma artificiosamente, dalla coscienza infelice, che Hegel
presenta come ulteriore «figura» nel processo di formazione dell'autocoscienza. Essa è la coscienza
dell'uomo religioso «medievale», che risolve la contraddizione separando i due elementi opposti.
Egli attribuisce a Dio la coscienza immutabile e lascia a se stesso quella mutevole. Ma è un
atteggiamento spirituale, esistenziale, non piú una posizione di pensiero.
Tale atteggiamento si esprime con la devozione e, al suo culmine, con l'ascetismo. Ma proprio con
l'ascetismo l'uomo, vittima della carne e spiritualmente infelice, tende al superamento dell'abisso tra
sé e Dio, tende ad unificarsi con Dio; tende cioè ad unire la sua coscienza finita (mutevole) con la
coscienza assoluta, infinita, di Dio, riconoscendo nella sua coscienza empirica la coscienza assoluta
di Dio.
E' questa la premessa che condurrà lo spirito umano alla condizione di soggetto assoluto, cioè che
porterà l'uomo dalla fase dell'autocoscienza a quella della ragione, in cui vede Dio dispiegarsi nel
mondo, l'ideale nel reale, l'eterno nel tempo, l'assoluto nel contingente, in un continuo, incessante
divenire.
5. La logica dialettica: essere, essenza, concetto
A causa dell'occupazione francese della città di Jena, Hegel fu costretto a trasferirsi prima a
Bamberga, poi a Norimberga, dove accettò l'incarico di rettore e di professore di filosofia nel locale
ginnasio, e infine ad Heidelberg, chiamato presso l'Università. Questo periodo, che va dal 1808 al
1817, viene convenzionalmente chiamato «periodo sistematico» perché il filosofo attese alla
sistemazione organica e definitiva della sua concezione. Negli anni tra il 1812 e il 1816 elaborò la
Scienza della logica, ch'egli considerava come la prima parte del suo sistema; sistema che, poi,
troverà compiuta articolazione nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, pubblicata
nel 1817.
Della logica norimberghese, i cui termini fondamentali si ritroveranno, sintetizzati, nella
Enciclopedia, non presenteremo un'esposizione dettagliata, ma solo gli aspetti piú importanti e il
significato generale.
Nella Fenomenologia Hegel ha mostrato come lo spirito umano «si muove» nei suoi modi
d'esistenza e nelle sue forme storiche di vita, secondo modelli che possono essere interpretati come
«logici»; anzi il suo stesso «muoversi» segue le regole di una «logica dialettica» interna; sicché chi
analizza il «movimento» dell'umanità, anche a livello di comportamento dei singoli uomini, deve
adottare un procedimento mentale, un processo logico, anch'esso di tipo «dialettico», per
comprendere nel profondo, nelle sue trame, lo sviluppo dell'uomo come spirito che conosce ed
agisce.
Nella Scienza della logica Hegel intende astrarre le regole della logica dialettica dal suo contenuto
reale, e studiarle in sé; ossia vuole studiare le regole del reale come regole, in sé, del pensiero che
pensa e conosce il reale. La logica, pertanto, è il versante soggettivo della metafisica, che è lo studio
delle leggi di sviluppo del reale oggettivo. E poiché nella Fenomenologia Hegel ha rilevato che la
funzione conoscitiva dello spirito si articola nei tre momenti di coscienza, autocoscienza e ragione,
e dal momento che la coscienza attinge l'essere nella sua indeterminatezza, l'autocoscienza coglie
l'essenza e la ragione si eleva al concetto, nella Logica Hegel individua come strutture fondamentali
del pensiero proprio le categorie: essere, essenza e concetto. Di queste il concetto viene considerato
lo strumento logico della ragione perché coglie, della realtà, l'esterno e l'interno, l'apparenza e
l'essenza, il reale e l'ideale; solo una ragione cosí intesa Hegel considera lo strumento proprio della
«concezione idealistica» perché non implica frattura tra i termini opposti tra loro, e quindi non cade
nei limiti delle concezioni «soggettivistiche» e di quelle «realistiche» o dogmatiche.
Anche la Scienza della logica dunque è fondata sull'identità di reale e razionale già indicata nella
Fenomenologia. Anzi Hegel mostrerà che tale identità sarà la grande scoperta che lo spirito farà
quando renderà il suo stesso pensiero oggetto della sua riflessione.
Qual è, dunque, il concetto stesso di «logica» che Hegel propone?
Il concetto che fino a qui si è avuto della logica è basato sulla separazione, presupposta una volta per
sempre nella coscienza ordinaria, del contenuto della conoscenza dalla forma di essa, sulla
separazione cioè della certezza e della verità. Si presuppone in primo luogo che la materia del
conoscere sussista già in sé e per sé quale un mondo bell'e compiuto al di fuori del pensiero, che il
pensiero sia di per sé vuoto, che sopravvenga a quella materia estrinsecamente quale una forma, si
riempia di essa e solo con questo acquisti un contenuto, e cosí diventi un conoscere reale.
Questi due elementi poi... vengono ordinati l'uno di fronte all'altro per modo che l'oggetto sia un che
di già per sé compiuto, un che di già pronto, che per la sua realtà possa perfettamente fare a meno del
pensiero e che all'incontro il pensiero sia qualcosa di manchevole cui occorra completarsi in una
materia, e cioè rendersi a questa adeguato quale una cedevole forma indeterminata. Verità è l'accordo
del pensiero con l'oggetto, e al fine di produrre questo accordo (poiché esso non sussiste in sé e per sé
bisogna allora che il pensiero si adatti e si acconci all'oggetto.
(Scienza della logica)
Ma questa concezione della logica, che Hegel vede ancora circolare ai suoi tempi, in realtà sacrifica quanto c'era di piú
vero nella vecchia metafisica.
La vecchia metafisica aveva un concetto assai piú alto del pensiero, che non quello ch'è venuto di
moda ai nostri tempi. Metteva cioè per base che quello, che per mezzo del pensiero si conoscesse
delle cose, e nelle cose, fosse il solo veramente vero che le cose racchiudessero. Il vero, per quella
metafisica, non erano quindi le cose nella loro immediatezza, ma soltanto le cose elevate nella forma
del pensiero, le cose come pensate. Quella metafisica riteneva perciò che il pensiero e le
determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti, ma anzi fossero la loro
essenza, ossia che le cose e il pensare le cose coincidessero in sé e per sé, che il pensiero nelle sue
determinazioni immanenti, e la vera natura delle cose, fossero un solo e medesimo contenuto.
(Scienza della logica)
La separazione del pensiero dalla realtà è il peccato commesso da quelle che Hegel chiama «filosofie della riflessione»;
filosofie che si fondano non già sulla «ragione», che unifica relazionando, bensí sull'«intelletto», che separa astraendo il
concetto dall'essenza. È chiaro il riferimento a Kant e Jacobi.
Ma l'intelletto riflettente s'impadroní della filosofia... Per l'intelletto riflettente o riflessivo è da
intendere in generale l'intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto
contro la ragione, cotesto intelletto... fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile...
e che la ragione... non dia fuori che sogni. Ora in questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto
della verità va perduto, la ragione viene ristretta a conoscere soltanto una verità soggettiva..., soltanto
qualcosa cui la natura dell'oggetto stesso non corrisponda. Il sapere è tornato ad essere l'opinione.
(Scienza della logica)
Certo
l'accennata riflessione consiste nel sorpassare il concreto immediato, e nel determinarlo e dividerlo
traducendolo in concetti: e in ciò sta la sua funzione utile. Ma
la riflessione deve anche sorpassare queste sue determinazioni divisive, e metterle anzitutto in
relazione tra loro. Ora in questo punto del metterle in relazione vien fuori il loro contrasto. Codesto
riferire della riflessione appartiene in sé alla ragione; il sollevarsi sopra a quelle determinazioni che
va fino alla visione del loro contrasto, è il gran passo «negativo» verso il vero concetto della ragione.
(Scienza della logica)
Sicché la logica per Hegel è la scienza delle relazioni tra i concetti, o meglio scienza che riporta sul piano del pensiero
le relazioni tra le cose, che indica come leggi del pensiero le leggi che connettono la realtà. Poiché la realtà «si muove»,
la logica deve mostrare come il movimento del pensiero corrisponda a quello della realtà, come ne segua lo stesso
ritmo. Poiché la realtà si evolve secondo un ritmo dialettico, per cui ogni momento «finito» è sintesi, cioè riunificazione
e superamento dei due momenti opposti tra loro, la logica dev'essere anch'essa dialettica, cioè mostrare che ogni
concetto nasce come sintesi, cioè riunificazione e superamento, di due concetti tra i quali sussiste relazione di
opposizione. La scienza della logica è dunque la scienza della individuazione dei contrasti tra concetti e della
riunificazione degli opposti logici in un concetto superiore.
Ma come avviene il passaggio dalla opposizione al superamento, cioè alla sintesi? Prendiamo ad
esempio un tema che sarà sviluppato nell'Enciclopedia; ci permetterà di vedere meglio come alla
trama che lega gli eventi corrisponda una trama di concetti.
La «famiglia» è, sí, una realtà in sé, è caratterizzata da una «individualità», ma nessuna famiglia
vive e potrebbe vivere in sé, chiusa nella propria individualità; per poter vivere deve aprirsi al
rapporto con le altre famiglie, deve entrare in un rapporto societario con esse; quindi, per esistere, le
famiglie devono costituire una «società civile»; ma la società è la «negazione» della famiglia, nel
senso che le famiglie, per costituire una società, devono negare la propria individualità, devono
rompere esse stesse la propria particolarità. La società, che è l'opposto della famiglia, nasce dunque
dalla autonegazione della stessa famiglia; sicché la famiglia, come individualità, cioè fuori dalla
società, è una pura «astrazione»; anzi, sussiste come individualità (negata) solo nel rapporto
societario. Tuttavia la società non è meno «astratta» della famiglia, perché un vincolo Societario
non sussiste senza le famiglie, da un lato, e senza norme e istituzioni organizzative che lo
favoriscano, lo garantiscano e lo tutelino, dall'altro. Quindi la società, come realtà in sé, non esiste
fuori delle famiglie e fuori di un'organizzazione statale. La società deve pertanto «negare» la sua
presunta realtà assoluta, cioè la sua «astrattezza», e deve recuperare la sua natura concreta di
vincolo tra famiglie garantito da leggi e istituzioni. La società non esiste come punto d'arrivo; anzi,
non esiste se non in uno stato. Sicché lo «stato» costituisce l'unica vera «realtà», cioè ciò che dà vita
concreta alla «famiglia» e alla «società», relazionandole, comprendendole in sé, «conservandone»
l'essenza e «togliendone» la particolarità, l'assolutezza, e in definitiva l'astrattezza. Se consideriamo,
allora, sul piano logico, il rapporto tra il concetto di famiglia, quello di società e quello di stato,
noteremo che essi si dispongono, rispettivamente, in una relazione di «tesi», «antitesi» e «sintesi»,
di cui i primi due elementi sono «astratti», e troveranno «concretezza» e «verità» solo nel terzo;
d'altra Parte la «sintesi» è il prodotto di un processo di «doppia negazione», nel senso che la sintesi
è il prodotto dell'autonegazione dell'antitesi che, a sua volta, è l'opposto nato dall'autonegazione
della tesi. Cosí che (costituendo queste le leggi insieme della realtà e del pensiero) solo il rapporto
al concetto di società ci permette di comprendere il concetto di famiglia, e solo il rapporto al
concetto di famiglia e a quello di stato ci permette d'intendere il concetto di società. Come pure, i
concetti di famiglia (tesi) e quello di società (antitesi) sono insignificanti in sé e per sé, e
indeterminabili se non visti nella loro unità sintetica costituita dal concetto di stato, che, d'altra
parte, non ha alcun senso se non come unità di quei due, che tra loro sono «contrari».
Come nel processo reale, cosí pure in quello logico è indispensabile dunque il momento della
negazione; negazione che, come nella realtà, non distrugge, sul piano logico, non annienta;
insomma tale negazione permette la relazione sul piano reale e permette la comprensione sul plano
logico.
L'unico punto, per raggiungere il procedimento scientifico,... è la conoscenza di questa proposizione
logica: che il negativo è insieme anche positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve
nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto
particolare; vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di
quella cosa determinata che si risolve ed è perciò negazione determinata. Bisogna, in altre parole,
saper conoscere che nel risultato è essenzialmente contenuto quello da cui esso risulta. Quel che
risulta, la negazione, in quanto è negazione determinata, ha un contenuto. Codesta negazione è un
nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e piú ricco che non il precedente. Essa infatti è
divenuta più ricca di quel concetto. Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di piú,
ed è l'unità di quel concetto e del suo opposto.
(Scienza della logica)
Una logica dunque che voglia «comprendere» la realtà, non può essere «logica dell'identità» del
concetto con se stesso (che è propria del pensiero astratto, di quello, cioè, che astrae immobilizzandolo - il concetto dal reale in continuo divenire; e definisce il concetto singolo come
un'entità fissa, assoluta e autosufficiente), ma dev'essere una «logica della contraddizione» (che è il
solo modo con cui il pensiero può cogliere una realtà in movimento, e può comprendere ogni
singolo momento reale relazionandolo agli altri e all'intera realtà diveniente).
Del metodo logico-dialettico, come unico strumento di comprensione del reale, Hegel afferma:
So ch'esso è l'unico vero. Questo risulta già di per sé da ciò: che un tal metodo non è nulla di diverso
dal suo oggetto e contenuto..., nessuna esposizione (del reale) può valere come scientifica, la quale
non segua l'andamento di quel metodo e non si uniformi al suo semplice ritmo, perché è l'andamento
della cosa stessa.
Ordinariamente si prende la dialettica come un procedimento estrinseco e negativo (rispetto alla
realtà), che non appartenga alla cosa stessa... Il metodo assoluto, invece, non si conduce come
riflessione estrinseca, rna prende il determinato dal suo oggetto stesso, poiché ne è appunto il
principio immanente e l'anima.
(Scienza della logica)
La logica dialettica si fonda quindi su «universali» (concetti) non «astratti» ma «concreti», non «soggettivi» ma
«oggettivi»; essi non sono frutto della separazione del pensiero dalla realtà, ma strumenti che rispecchiano sul piano del
pensiero soggettivo l'oggettività del reale. Anzi, a rigor di termini, l'«oggetto» trova la sua verità solo nel «concetto»
inteso «dialetticamente».
L'oggetto - com'è senza il pensare e senza il concetto - è una rappresentazione ovvero anche un nome;
son le determinazioni di pensiero e di concetto quelle in cui esso è quel che è. Nel fatto è quindi da
loro sole che tutto dipende. Esse sono il vero oggetto e contenuto della ragione. Non si deve pertanto
attribuire a colpa di un oggetto e del conoscere se, per l'indole loro e per un collegamento esteriore, si
dimostrino dialettici.
(Scienza della logica)
6. La logica come scienza dell'idea pura
Dopo che, nel 1816, ha accettato l'incarico d'insegnamento di filosofia all'Università di Heidelberg,
Hegel si appresta a dare ristrutturazione, completa nelle sue parti e definitiva nella forma, al suo
sistema con la redazione della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che viene
pubblicata una prima volta nel 1817 e, in altre due edizioni ampliate, nel 1827 e nel 1830.
Quest'opera, che fu definita «la Bibbia dello hegelismo», denuncia nello stesso titolo il suo
programma: presentare organicamente tutti gli aspetti dello scibile, in una visione del mondo
articolata filosoficamente, per concetti, e secondo il metodo logico-dialettico. Dopo una prima parte
riservata ai problemi generali e preliminari, Hegel presenta il suo sistema incardinato sulla «triade»
fondamentale, il cui primum è l'Idea, il Pensiero nella sua forma pura, cioè come pensiero che
pensa, di cui la scienza corrispondente è la Logica. L'Idea, poi, che costituisce la tesi, nel processo,
per movimento interno, supera la sua «astrattezza» e produce il suo contrario, l'antitesi, ossia la
Natura, che pertanto è oggetto della Filosofia della natura, e che viene studiata nella sua
articolazione interna e nelle sue caratteristiche specifiche, cioè quelle fisiche, opposte al pensiero.
Ma poiché anche la Natura rivela un interno movimento che mostra come la realtà materiale tende
ad una sempre piú complessa organizzazione e ad una sempre piú evidente «negazione» delle sue
caratteristiche puramente fisiche, Hegel pone come terzo elemento del processo lo Spirito, l'uomo,
come sintesi dei due elementi prima opposti (Pensiero e Natura), presentandolo come la natura che
ha acquistato consapevolezza, come materia che ha finalmente recuperato in sé il pensiero - cioè il
primum da cui è derivata -, o come pensiero che ha acquistato particolarizzazione fisica: la scienza
corrispondente è la Filosofia dello spirito.
Ognuno di questi tre momenti poi viene studiato nelle sue articolazioni interne; ma in modo da
individuare in esso sempre il movimento dialettico tra le fasi della sua evoluzione. Cosí, per
anticipare un esempio, lo spirito, cioè l'uomo, viene considerato prima in se stesso, come spirito
soggettivo (tesi), poi nel suo aprirsi agli altri uomini con le organizzazioni e le istituzioni civili,
ossia come spirito oggettivo (antitesi), e infine nelle funzioni che lo caratterizzano come spirito
assoluto (sintesi), ossia quelle in cui la sua vita soggettiva e quella oggettiva, la sua dimensione
finita e quella infinita si sintetizzano.
Ma anche queste fasi particolari dello sviluppo intrinseco ai tre momenti della triade fondamentale
vengono studiate dialetticamente, che è il solo modo per cogliere l'ulteriore articolazione internaSicché (tanto per restare nell'esempio già indicato) dello spirito assoluto vengono considerati,
disposti secondo lo schema dialettico-triadico, l'arte, la religione e la filosofia come elementi che
contraddistinguono la sua vita interna.
Ma passiamo ora all'esposizione delle linee essenziali dell'opera.
Nel chiedersi che cos'è la filosofia, quale ne è l'oggetto, il metodo, quali i fini, Hegel, in apertura
dell'opera, afferma, in modo apparentemente sconcertante, che a tali domande non è possibile dare
una risposta. La filosofia è... la filosofia: che cosa essa sia lo si può capire solo seguendo il suo
discorso; insomma essa si spiega da sé, senza preventive dichiarazioni di metodo e di contenuto.
Certo, essa può esser definita, in un primo modo rozzo e approssimativo, come «la considerazione
pensante della realtà». Ma tale definizione non è applicabile anche alla religione, o anche alle altre
scienze? Soprattutto alla religione: infatti
la filosofia ha i suoi oggetti in comune con la religione, perché oggetto di entrambe è la verità, e nel
senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio e Dio solo è la verità. Entrambe inoltre trattano il
dominio del finito, della natura e dello spirito umano, e della relazione che hanno tra loro e con Dio,
come loro verità.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Allora la filosofia è sí «considerazione pensante»; ma qui il pensiero agisce in un modo diverso da quello della
religione. Il pensiero è, certo, uno solo; ma molteplici sono le forme in cui esso esprime se stesso; quella superiore è la
filosofia, cioè il pensiero che pensa il reale con gli strumenti della razionalità, ossia per concetti. Sicché, parlando per
distinzione e per esclusione, mentre la religione è la considerazione «rappresentativa» della realtà, la filosofia ne è la
considerazione «concettuale».
Altro è avere sentimenti e rappresentazioni... e altro è avere pensieri sopra di essi. Solo i pensieri
prodotti dalla riflessione sopra quei modi della coscienza, sono ciò che s'intende per riflessione
ragionamento e simili, ed anche per filosofia.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Insomma: della realtà noi ci formiamo immagini sentimentali, rappresentazioni sensibili, creazioni fantastiche; questi
sono tutti frutti dell'unico pensiero, ma ciascuno in una sua diversa forma e funzione. Quando poi elaboriamo questi
frutti del pensiero, liberandoli dalla loro specifica forma e traducendoli in astrazioni, allora abbiamo una conoscenza
concettuale, cioè filosofica, del reale
Il contenuto, del quale è riempita la nostra coscienza, ... dà il carattere determinato ai sentimenti,
intuizioni, immagini, ai fini, doveri, e via dicendo. E anche ai pensieri e concetti. Sentimento,
intuizione, immagine ecc. sono, dunque, le forme di quel contenuto, il quale resta uno e medesimo.
Sentimenti, intuizioni, appetizioni, volizioni ecc. in quanto se ne ha coscienza, vengono denominati,
in genere, rappresentazioni. Si può dire perciò, in generale, che la filosofia pone al posto delle
rappresentazioni pensieri, categorie, e, piú propriamente concetti...; la riflessione fa, in ogni caso
almeno questo: trasforma i sentimenti, le rappresentazioni ecc. in pensieri.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Ma il campo non è ancora libero da equivoci; infatti anche le «scienze empiriche», ad esempio, traducono le esperienze
in concetti, il particolare nell universale, il concreto in astratto Qual è la differenza, allora, tra esse e la filosofia? Hegel
fornisce ulteriori precisazioni. L'oggetto della filosofia è il reale, ma non propriamente l'accidentale.
Il suo contenuto non è altro se non quello che originariamente si è prodotto e si produce nel dominio
dello Spirito vivente, e divenuto mondo, mondo esterno ed interno della coscienza, il suo contenuto è
la realtà. La prima coscienza di questo contenuto noi chiamiamo esperienza Ma già una
considerazione intelligente del mondo distingue ciò che dei vasto regno dell'esistenza, interna ed
esterna, è semplice apparizione, fuggevole ed insignificante, da ciò che in sé merita veramente il
nome di realtà.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Dunque, la realtà oggetto della filosofia è la razionalità che sottende a tutte le manifestazioni empiriche che noi
percepiamo come apparenze; sicché il compito della filosofia è mostrare l'accordo tra il reale e le sue apparizioni, tra la
realtà e l'esperienza.
Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Queste semplici proposizioni sono sembrate
strane a parecchi... Per ciò che riguarda il significato filosofico è da presupporre tanta cultura che si
sappia non solo che Dio è reale, che è la cosa piú reale, e che è la sola veramente reale, ma anche...
che l'esistenza è, in parte, apparizione e solo in parte realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio
realtà ogni capriccio. Ma già anche per l'ordinario modo di pensare, un'esistenza accidentale non
meriterà l'enfatico nome di reale: l'accidentale è un'esistenza che non ha altro maggior valore di un
possibile, che può non essere allo stesso modo che è. Pertanto per sommo fine della filosofia è da
considerare il produrre... la conciliazione della ragione cosciente di sé con la ragione quale è
immediatamente, con la realtà.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Se per reale è da intendersi la trama razionale immanente alle manifestazioni accidentali, allora la filosofia non
s'interessa di pure «chimere» o di astratti «ideali», perché l'immagine «ideale» dell'universo persiste nell'universo
stesso; la sua struttura razionale non è fuori di esso - in una dimensione divina «separata» da esso, o anche nella nostra
mente - ma nel mondo stesso.
Sicché la differenza fra scienze empiriche e filosofia consiste proprio nella materia, nel contenuto.
Le scienze empiriche elaborano gli accidentali traducendoli in universali, in misure costanti, in
leggi necessarie. La filosofia «legge» l'universale dietro, oltre gli accidentali, come la base della
loro oggettiva relazione.
Noi quelle scienze... denominiamo invece scienze empiriche, dal punto di partenza che assumono,
anche se l'essenziale che esse hanno di mira e producono sono leggi, proposizioni generali, una
teoria; sono i pensieri di ciò-che-esiste. Per quanto siffatta conoscenza possa soddisfare nel suo
proprio campo, c'è, in primo luogo, un'altra cerchia di oggetti che non sono compresi in quella: la
libertà, lo spirito, Dio, che non sono appresi per esperienza sensibile. Quegli oggetti escono fuori dal
campo empirico perché si dimostrano subito, per il loro contenuto, infiniti.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Dunque le scienze empiriche hanno ad oggetto il finito, la filosofia ha per contenuto l'infinito. Tuttavia, qual è la vera
filosofia? E quante filosofie esistono?
La filosofia, ha detto Hegel, è la riflessione consapevole e concettuale della verità della realtà, cioè
della sua razionalità; ma questa riflessione si snoda nel tempo; la riflessione consapevole è un
processo che si svolge per gradi, per tentativi ed errori, lungo la storia. Perciò le filosofie
storicamente formulate sono momenti di quell'unico processo, momenti di un'unica filosofia, o
meglio, i tentativi messi in opera dallo spirito umano per giungere alla pienezza della riflessione
razionale. In questo senso la filosofia è essa stessa «storia della filosofia»; ossia il Pensiero, proprio
mentre si svolge storicamente e diventa realtà, si dispiega e diventa anche pensiero di e su quella
realtà, secondo un piano di sviluppo progressivo nel tempo.
Questa forma (della storia della filosofia) presenta i gradi di svolgimento dell'Idea come una
successione accidentale e una semplice diversità dei principi e dei loro svolgimenti nei rispettivi
sistemi filosofici. Ma l'artefice di questo lavoro di millenni è quell'Uno Spirito vivente, la cui natura
pensante consiste nel recarsi alla coscienza ciò ch'esso è, e, fatto di questo il suo oggetto, sollevarsi
piú su e costruire in sé un grado piú alto. La Storia della filosofia mostra, da una parte, che le
filosofie, che sembrano diverse, sono la medesima filosofia in diversi gradi di svolgimento dall'altra
che i principi particolari, di cui ciascuno è a fondamento di un sistema, non sono altro che rami di un
solo e medesimo tutto La filosofia che è ultima nel tempo, è insieme il risultato di tutte le precedenti e
deve contenere i principi di tutte: essa è perciò... la piú sviluppata, ricca, concreta.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Tale «ultima» filosofia, che Hegel riteneva fosse la propria doveva presentarsi come un vero e proprio sistema totale. Se
il reale è razionale e il razionale è reale, ciò significa, per lui, che come l'universo è organizzato in un sistema in cui
tutte le parti sono razionalmente collegate, cosí anche la filosofia, che costituisce la «lettura» della trama razionale del
mondo, deve configurarsi in sistema nella forma di una enciclopedia delle scienze filosofiche in cui risultino
armonicamente collegati tutti gli aspetti del filosofare E poiché la «realtà» è costituita da Pensiero che si fa Natura e si
concreta nell'Uomo, quel sistema si articolerà, parallelamente, in tre parti:
1. La Logica, la scienza dell'Idea in sé e per sé. 2. La Filosofia della Natura, come la scienza dell'Idea
nel suo alienarsi da sé. 3. La Filosofia dello Spirito, come scienza dell'Idea, che dal suo alienamento
ritorna in sé.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Non ci soffermeremo sulla trattazione della Logica, i cui elementi essenziali sono quelli già delineati nella Scienza della
Logica. Ricorderemo solo che qui la logica viene definita
la scienza dell'idea pura, cioè dell'idea nell'elemento astratto del pensiero. Si può ben dire che la
logica sia la scienza del pensiero, delle sue determinazioni e leggi: ma il pensiero come tale
costituisce solo la caratteristica generale o l'elemento in cui l'Idea è in quanto logica. L'Idea è il
pensiero non come alcunché di formale, ma come la totalità che si svolge nelle sue peculiari
determinazioni e leggi, le quali esso si dà da se stesso, e non già le ha semplicemente e trova in sé.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
In sostanza qui Hegel ribadisce l'identità di logica (studio delle leggi del pensiero che pensa il reale) e metafisica (studio
delle leggi che regolano e strutturano la realtà nel suo divenire).
In modo conforme a queste spiegazioni, i pensieri possono essere chiamati pensieri oggettivi. La
logica coincide perciò con la metafisica, con la scienza delle cose poste in pensieri, i quali pensieri
per ciò appunto si tennero atti ad esprimere le essenze delle cose. Infatti mentre il pensiero cerca di
farsi un concetto delle cose, questo concetto... non può consistere di caratteri e relazioni che siano
estrinseci ed estranei alle cose.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
7. Dalla natura allo spirito
La seconda trattazione, quella della filosofia della natura, è concettualmente piú debole, per il noto
disinteresse che Hegel nutriva per la realtà naturale e per le scienze empiriche. Tuttavia essa è
importante per la relazione che il filosofo istituisce tra l'Idea - ossia la realtà divina considerata in
sé, nella sua eterna essenza di Pensiero - e la Natura.
La Natura si è dimostrata come l'idea nella forma dell'essere «altro». Poiché l'idea è per tal modo la
negazione di se stessa, ossia è esterna a sé, la natura non è esterna solo relativamente, rispetto a questa
idea (o rispetto all'esistenza soggettiva di essa, lo spirito), ma l'esteriorità costituisce la
determinazione nella quale essa è come natura.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Dunque la natura «nasce» come autonegazione dell'Idea, cioè dalla negazione che Dio, il «puro» Pensiero, fa della sua
«purezza» o «astrattezza»; nasce dall'«uscir fuori di sé» dell'Idea per divenire «altro da sé», realtà dotata di caratteri
opposti ai suoi propri. Per cui la natura ha come carattere determinante la «esteriorità»; non solo nel senso che è
esteriore relativamente al pensiero del soggetto pensante, ma anche - e soprattutto - nel senso ch'essa costituisce la
«manifestazione esteriore», cioè spaziale, e quindi molteplice e finita, dell'unità astratta dell'Idea; costituisce la
rivelazione del puro Pensiero nella varietà dei fenomeni e delle forme contingenti naturali. Per cui è vero che la natura
appare come la serie degli eventi accidentali, ma è pur vero ch'essa cosí nasconde la sua matrice divina e la sua legge
unificante.
In questa esteriorità, le determinazioni concettuali hanno l'apparenza di un sussistere indifferente e
dell'isolamento le une verso le altre: il concetto sta perciò come qualcosa di interno. Onde la natura
non mostra, nella sua esistenza, libertà alcuna ma solamente necessità e accidentalità.
La natura, considerata in sé, nell'idea, è divina, ma nel modo in cui essa è, l'esser suo non risponde al
suo concetto; essa è, anzi, la contraddizione insoluta. Il suo carattere proprio è questo: di esser posta,
di esser negazione; e gli antichi hanno infatti concepito la materia in genere come non-ens. Cosí la
natura è stata definita come la decadenza dell'idea da se stessa poiché l'idea in quella forma
dell'esteriorità è inadeguata a se stessa. Tuttavia, quantunque nell'elemento della esteriorità, la natura
è rappresentazione dell'idea; e perciò si può bene - e si deve - ammirare in essa la sapienza di Dio.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Questa sapienza è appena coglibile nel caos delle forme accidentali; essa si mostra soprattutto nell'ordinamento per
gradi degli enti che costituiscono l'universo.
La natura è da considerare come un sistema di gradi di cui l'uno esce dall'altro necessariamente ed è la
prossima verità di quello da cui risulta non già nel senso che l'uno sia prodotto dall'altro naturalmente,
ma nei senso che è cosí prodotto nell'intima idea che costituisce la ragione della natura.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
La caratteristica delle forme e degli eventi naturali è il loro «divenire» nel tempo. Il che significa che l'Idea, negandosi,
esteriorizzandosi, spazializzandosi nella Natura, perde la sua eternità e acquista temporalità. La temporalità, quindi,
come la spazialità, è una dimensione propria della «esteriorità», del mondo nel suo divenire. Il quale divenire poi
consiste nel passaggio, disteso appunto nel tempo, dal «non essere» all'«essere» e dall'«essere» al «non essere»; per cui
una forma «è» in quanto «prima non era» e in quanto «non è ancora» quel che poi essa diventerà.
Si diceva piú su che il segno della divinità della natura sta nel disporsi dei suoi enti in gradi,
secondo un piano unitario ed organico. Infatti la natura mostra un interno movimento dalle forme
inferiori alle forme umane. Sicché l'uomo rappresenta l'apice dell'evoluzione interna alla natura; o,
il che è lo stesso, la natura tende a compiersi come uomo, come spirito. Perché questo avvenga la
natura quindi «nega» progressivamente se stessa, «toglie» progressivamente a se stessa il suo
carattere di esteriorità, «abbandona» gradualmente la sua pura naturalità, e riconquista,
parallelamente, in se stessa la sua origine, cioè il Pensiero divino. Pertanto al culmine dello sviluppo
naturale sta l'uomo come spirito, ossia come sintesi di Idea, pensiero, e Natura, fisicità.
La natura è in sé un tutto vivente: il movimento attraverso la sua serie di gradi consiste, piú
precisamente, nel porsi dell'idea come ciò che essa è in sé; o, ciò che è il medesimo, l'idea, dalla sua
immediatezza ed esteriorità - che è la morte - torna in sé, per esser dapprima il vivente; e poi supera
anche questa determinatezza, nella quale è soltanto vita, e si produce nell'esistenza dello spirito: che è
la verità e lo scopo finale della natura, ed è la vera realtà dell'idea.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
In sintesi: l'Idea, morendo come pensiero astratto e intemporale (autonegandosi) diventa natura; ma nell'articolarsi e
dispiegarsi in gradi della natura, l'Idea muore di nuovo; meglio, essa muore nella sua forma della pura naturalità; cosí
essa si riconquista come pensiero; ma poiché negarsi non significa annullarsi, essa si riconquista come pensiero
«congiunto» alla natura.
E qui comincia la hegeliana filosofia dello spirito. Lo spirito è quindi l'idea che, incarnandosi nelle
forme naturali, si individualizza, diventa individuo umano, soggetto di pensiero e di azione storica,
volontà libera, coscienza e conoscenza di sé.
Hegel presenta la filosofia dello spirito come il cammino che l'Idea compie per giungere alla
conoscenza di sé; conoscenza che avviene, e può avvenire, solo nel concreto soggetto che pensa.
Ma la conoscenza di sé compiuta dal e nel soggetto pensante non può ridursi, per lui, alla
conoscenza delle proprie particolarità empiriche, contingenti; il soggetto individuale deve, al
contrario, cogliere in sé la propria essenza divina.
Conosci te stesso, questo precetto assoluto non ha - né preso per sé, né dove lo si incontra
storicamente espresso - il significato di una conoscenza di sé medesimo come delle proprie capacità
particolari (carattere, inclinazioni e debolezza dell'individuo); ma significa invece la conoscenza di
ciò che è la verità dell'uomo, la verità in sé e per sé, dell'essenza stessa in quanto spirito.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Nella conoscenza «vera» di sé, l'uomo si riconosce come spirito che è uno anche se s'individualizza nella molteplicità
degli uomini. Lo Spirito è dunque insieme uno e molteplice: uno come «spirito universale», molteplice come individui
umani. Inoltre uno e molteplice esso è anche nello stesso individuo singolo: una è la sua essenza spirituale, molteplici le
sue funzioni e manifestazioni. La possibilità infinita che lo spirito, uno, ha di esprimersi in un'infinità di uomini e nelle
piú diverse funzioni, lo caratterizza, poi, come libertà. Lo spirito, dunque, «idea giunta al suo esser-per-sé» è libertà;
«l'essenza dello spirito è la libertà».
Prima di riassumere ora i modi e i gradi attraverso cui lo spirito «cresce» e «manifesta» se stesso (le
sue potenzialità) bisogna fare qualche considerazione. Abbiamo già notato che tutta la realtà, nel
suo sviluppo, segue un movimento dialettico; abbiamo visto pure che il compimento della sintesi è
il risultato di una doppia negazione: la tesi si nega nei suoi caratteri specifici e si trasforma nel suo
opposto, l'antitesi; questa, a sua volta, si nega nelle sue caratteristiche essenziali, e dà luogo alla
sintesi. La sintesi è possibile perché le due negazioni «tolgono» qualcosa senza annullare la realtà a
cui quel qualcosa è stato tolto; proprio come quando si dice che nel rapporto d'amore ognuno nega
se stesso, il suo egocentrismo, per ritrovarsi in unità con l'altro; anche in questo caso
l'autonegazione non comporta l'autoeliminazione! Dunque, la «negazione», per Hegel, è un
«togliere» ma nel senso del «superare». Sicché nella sintesi «si ritrovano» insieme, congiunte, la
tesi e l'antitesi, ma «superate» nei loro specifici caratteri che costituivano il motivo della loro
reciproca opposizione e che, permanendo, non avrebbero mai dato origine alla riunificazione.
«Qualcosa è tolto dice Hegel - solo in quanto è entrato nell'unità col suo opposto».
Tale legge dialettica del reale, che abbiamo considerato nella relazione Idea-Natura-Spirito,
caratterizza anche l'articolazione interna sia dell'Idea in sé che della Natura. La stessa legge
dialettica domina pure lo sviluppo dello Spirito. Hegel infatti segnala che lo spirito in quanto
«coscienza che si desta a se stessa», ai suoi albori, è coscienza dell'individualità dell'uomo,
coscienza delle facoltà dell'individuo. Perciò la filosofia dello spirito comincia con la trattazione
relativa allo spirito soggettivo. Ma l'uomo non può sussistere come pura individualità; egli deve
aprirsi necessariamente al rapporto con gli altri; per essere veramente se stesso, insomma, deve
negare se stesso, cioè deve negarsi come pura soggettività individuale e deve «oggettivarsi» nel
rapporto con gli altri. Quindi allo spirito soggettivo Hegel contrappone, come suo opposto, lo
spirito oggettivo. L'uomo tuttavia non può sopportare la separazione tra la sua dimensione
«soggettiva» e quella «oggettiva». Vuole, e deve, scoprire l'unità tra le due dimensioni
apparentemente irriducibili nella loro opposizione; vuole conoscere se stesso come luogo dell'unità
di se stesso, e dell'unità di sé con la sua essenza divina e infinita; ciò può fare soltanto elevandosi
nella forma dello spirito assoluto. Al punto culmine dello spirito assoluto, cioè con l'attività
filosofica, egli conosce concettualmente la sua collocazione come momento finito in una realtà
infinita; o, il che è lo stesso, egli rivela a se stesso, nella riflessione razionale, la sua divina essenza.
La sua verità è che egli è l'Essere, cioè l'Idea, che in lui si autoconosce come articolantesi ed
esplicitantesi negli esseri finiti (sia intesi come individualità soggettive, che come individualità
oggettivatesi nei rapporti familiari, giuridici, politici, ecc.).
Dalla stessa legge dialettica sono regolati i gradi dello sviluppo interno sia dello spirito soggettivo,
sia dello spirito oggettivo e sia dello spirito assoluto.
8. La filosofia dello spirito e la storia universale
Fatte queste considerazioni, seguiamo il discorso hegeliano sullo spirito soggettivo.
L'anima universale, in quanto anima del mondo... è soltanto la sostanza universale, la quale ha la sua
verità effettiva solo come individualità, soggettività. L'anima è singolarizzata nel soggetto
individuale. Ma questa soggettività si considera qui soltanto come singolarizzamento della
determinazione naturale. Essa è come il modo del diverso temperamento ingegno, carattere,
fisionomia, e delle altre disposizioni e idiosincrasie delle famiglie e dei singoli individui.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
L'individuo, in quanto tale, nasce quindi dalle determinazioni ch'egli acquista dall'ambiente
naturale, dalla razza cui appartiene, dal carattere del suo popolo; e il corso intero della sua vita è
segnato da queste determinazioni. Ma l'individuo avverte pure il bisogno di superarle, di rompere
l'isolamento in cui si trova la sua individualità «naturale»; cosa che tenta con la relazione sessuale.
Tuttavia egli, anche a questo livello, vive pur sempre nella condizione di «essere naturale»,
condizione che, nel suo sviluppo, dev'essere «superata»; egli deve diventare «persona», cioè
«coscienza». Perciò il passaggio è determinato dal «sentire». Egli si apre alla sensazione, la prima
forma di vita cosciente, di vita spirituale vera e propria Ma con la sensazione egli avverte la
separazione tra corpo e anima, tra sensazione e sentimento. Da questo «avvertimento» anima sorge
il sentimento di sé, che è la condizione perché l'uomo acquisti l'unità di se stesso, cioè l'unità psicofisica. Tale unità rende l'uomo anima reale, anima che finalmente inizia a rompere i vincoli che la
tengono spiritualmente centrata su se stessa, ed inizia ad esteriorizzarsi esprimendosi in gesti e
parole, e a realizzare in tal modo la sua libertà. E come soggetto libero l'uomo è pronto a compiere
il passo verso la sua nuova condizione di spirito oggettivo, cioè è pronto a negare la sua singolarità
per aprirsi al rapporto con gli altri.
Quali sono i gradi attraverso cui ha luogo l'oggettivazione dello spirito? La prima forma viene
indicata da Hegel nel diritto, a cui segue, per contrapposizione dialettica, quella della moralità;
l'oggettivazione poi trova compimento nell'eticità, che costituisce la forma in cui le precedenti si
ritrovano negate ma recuperate e unificate, e che rappresenta, secondo il linguaggio hegeliano, la
verità di quei momenti antitetici, che, considerati in sé, sono «astratti» e «unilaterali».
Come avviene dunque il passaggio dallo spirito soggettivo a quello oggettivo? Attraverso il
possesso, sostiene Hegel.
Lo spirito, nell'immediatezza della sua libertà per sé, è individuale; ma conosce la sua individualità
come volere assolutamente libero. Esso è persona, il sapersi di questa libertà; il quale come in sé
astratto e vuoto non ha la sua particolarità e il suo compimento ancora in se stesso, ma in una cosa
esterna. Questa, di fronte alla soggettività dell'intelligenza e dell'arbitrio, sta come alcunché privo di
volontà... e vien da essa resa suo accidente, sfera esterna della sua libertà, possesso.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Dell'oggetto del suo possesso la persona dichiara la proprietà, che, sola, comporta il riconoscimento altrui.
Nella proprietà... la cosa è astrattamente esterna e l'io in essa è astrattamente esterno. Il ritorno
concreto di me in me è, nella esteriorità, che io ho l'esistenza della mia personalità nell'essere di altre
persone, nella mia relazione ad esse e nel riconoscimento di me da parte di esse, che è cosí
riconoscimento reciproco. La cosa è il termine medio per il quale gli estremi si congiungono.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Tale riconoscimento trova forma giuridica nel contratto. L'oggetto, in cui ripongo la mia libertà, è oggetto «a
disposizione» del mio arbitrio, nel senso che posso anche passarlo ad altri. Il contratto perciò formalizza questo
passaggio e pone il riconoscimento reciproco della proprietà.
L'aspetto accidentale della proprietà è che io pongo in questa cosa il mio volere. Ma in quanto il mio
volere sta in una cosa, posso soltanto io stesso trarnelo fuori; e la cosa può solo col mio volere passare
ad un altro, di cui altresí diventa proprietà col suo volere. Si ha cosí il contratto.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Ma il contratto è anche il modo attraverso cui le coscienze riconoscono la validità del diritto in sé, del diritto in quanto
regola e tutela i diritti individuali; infatti è rispetto al diritto in sé che si configura il torto (con cui viene riconosciuto il
valore della proprietà in generale, ma disconosciuta la proprietà ad una data persona), la frode (con cui l'uomo riconosce
solo formalmente la legge, ma ne nega il valore nella sua applicazione concreta), e il delitto (in cui viene negato anche il
diritto in se).
Contro la violazione del diritto l'unico rimedio è la costrizione.
Il farsi valere del diritto in sé è mediato: a. da ciò che un volere particolare, il giudice, è adeguato al
diritto e ha l'interesse di volgersi contro il delitto; b. dal potere, che ha l'esecuzione, di negare la
negazione del diritto fatta dal malfattore. Questa negazione del diritto ha la sua esistenza nel volere
del malfattore: la vendetta o pena, perciò: 1. si volge alla persona o alla proprietà del malfattore; 2. ed
esercita costrizione contro di questo.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Il diritto quindi regola i rapporti tra le persone solo nella loro forma esterna. Ma, per esempio, il riconoscimento di un
diritto 2) La altrui potrebbe non corrispondere ad un mio reale convincimento; moralità potrei cioè non sentirmi
interiormente obbligato al rispetto del diritto altrui, pur rispettandolo formalmente. Di qui il passaggio, nella trattazione
hegeliana, dalla forma del diritto a quella della moralità, cioè il passaggio dalla considerazione dei rapporti umani come
determinati dalla forza che la società esercita sulle volontà individuali, a quella per cui essi sono determinati dalla
razionalità dell'individuo. Nella forma della moralità
l'individuo libero, che nel diritto (immediato) è soltanto persona, è qui determinato come soggetto;
volontà riflessa in sé, in modo tale che la determinazione della volontà in genere, esistendo
nell'individuo come sua propria, sia distinta dall'esistenza della libertà in una cosa esterna.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Dunque: il volere soggettivo è moralmente libero in quanto esso si riconosce interiormente libero, e in quanto le azioni
che lo esprimono vengono riconosciute dal soggetto agente come manifestazioni proprie di quella libertà, ossia
espressione della propria razionalità.
Scopo dell'agire morale è la ricerca del
bene in sé e per sé... (che) è il dovere per il soggetto; il quale deve avere intelligenza del bene,
prenderlo a sua intenzione, e produrlo mediante la sua attività.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Ma il bene in sé e per sé è realtà «astratta»; la sua ricerca comporta interne contraddizioni. Ad esempio: il bene, a
livello concreto, si individua in molteplici beni (giustizia, carità, coraggio) che implicano doveri non sempre
armonizzabili tra loro. Oppure: è un bene che l'individuo segua le sue inclinazioni alla ricerca del proprio benessere, ma
questa ricerca spesso è in contraddizione con quella del bene universale.
Pertanto, la contraddizione interna al dovere induce il soggetto umano, nella sua evoluzione, a
«negare» l'unilateralità della moralità cosí come ha negato quella del diritto, e a recuperare la
libertà nella sua duplice dimensione esteriore ed interiore, a livello di eticità; forma in cui l'uomo,
concretamente, armonizza la sua razionalità con la relazione giuridica con le altre persone. Sicché
nella famiglia, nella società civile e nello stato viene a concretarsi sia l'evoluzione dello spirito
soggettivo, sia quella dello spirito oggettivo, sia il rapporto tra questi due momenti, antitetici, dello
spirito stesso.
L'eticità è il compimento dello spirito oggettivo, la verità dello stesso spirito soggettivo ed oggettivo.
L'unilateralità dello spirito oggettivo è nell'avere la sua libertà, da una parte, immediatamente nella
realtà, e quindi nell'esterno, nella cosa; dall'altra parte, nel bene in quanto universale astratto. Anche
l'unilateralità dello spirito soggettivo consiste in ciò, che esso, di fronte all'universale, è astrattamente
autodeterminante della sua individualità interna. Soppresse queste unilateralità, la libertà soggettiva
diventa il volere razionale universale in sé e per sé; il quale ha: a. il suo sapere di sé e la sua
disposizione d'animo nella coscienza della soggettività individuale, ma: b. la sua attuazione e la sua
realtà immediata e universale nel costume dell'ethos; onde è la libertà consapevole di sé, diventata
natura.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Nell'eticità, dunque, la libertà autocosciente diventa veramente «concreta» e si rivela come la
natura, l'essenza stessa dell'uomo. L'azione pertanto non nasce dalla costrizione esterna (diritto) né
dall'obbligo interiore (moralità) ma dalla fiducia che caratterizza le forme della convivenza a livello
di eticità. Inoltre, nella dimensione etica e nelle forme che la incarnano, svanisce la frattura tra il
riconoscimento dell'essere (diritto) e le esigenze del dover essere (moralità), coincidendo
perfettamente l'obbligo interiore con la legge che costringe esteriormente la volontà; come pure
scompare la frattura tra felicità e dovere, perché quel che l'uomo compie come dovere è ciò ch'egli
desidera spontaneamente come sua condizione di benessere.
Ma lasciamo la parola a questo passo di Hegel, il cui senso è stato da noi anticipato nella trattazione
della Scienza della logica.
La sostanza etica è: a. come spirito immediato o naturale la famiglia b. come totalità relativa delle
relazioni relative degli individui come persone indipendenti gli uni verso gli altri in un'universalità
formale: la società civile; c. la sostanza consapevole di sé, come lo spirito che si è sviluppato in una
realtà organica: la costituzione dello Stato.
Lo spirito etico, nella sua immediatezza, contiene il momento naturale, che cioè l'individuo ha la sua
esistenza sostanziale nella sua universalità naturale, nel genere. Questa è la relazione dei sessi ma
elevata a determinazione spirituale; è l'accordo dell'amore e la disposizione di animo della fiducia; lo
spirito, come famiglia, è spirito senziente.
La differenza naturale dei sessi appare altresí come una differenza della determinazione intellettuale e
etica. Queste personalità si congiungono, secondo la loro individualità esclusiva, in una sola persona,
e l'intimità soggettiva, determinata come unità sostanziale, fa di questa riunione una relazione etica: il
matrimonio.
La sostanza, che, in quanto spirito, si particolarizza astrattamente in molte persone (la famiglia è una
sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sé in libertà indipendente e come esseri
particolari, perde il suo carattere etico, giacché queste persone in quanto tali non hanno nella loro
coscienza e per loro scopo l'unità assoluta, ma la loro propria particolarità e il loro essere per sé:
donde nasce il sistema dell'atomistica. La sostanza diventa per questa guisa nient'altro che una
connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti e dei loro interessi particolari. la totalità
sviluppata in sé di questa connessione è la società civile.
Lo stato è la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società
civile nella forma di universalità saputa Lo stato è: a. dapprima la sua formazione interna, come
svolgimento che si riferisce a sé, il diritto interno degli stati, o la Costituzione. E poi: b. individuo
particolare, e quindi in relazione con altri individui particolari, il che dà luogo al diritto esterno degli
stati. Ma: c. questi spinti particolari sono solo momenti dello svolgimento dell'idea universale dello
spirito nella sua realtà; e questa è la storia del mondo o storia universale.
L'essenza dello stato è l'universale in sé e per sé, la razionalità del volere. Ma, Come tale che è
consapevole di sé e si attua, essa è senz'altro soggettività; e, come realtà, è un individuo. La sua opera
in genere, considerata in relazione con l'estremo dell'individualità come moltitudine degli individui,
consiste in una doppia funzione. Da una parte, deve mantenerli come persone, e, per conseguenza,
fare del diritto una realtà necessaria, e poi promuover il loro bene, che dapprima ciascuno cura per sé,
ma che ha un lato universale: proteggere la famiglia e giudicare la società civile. Ma dall'altra parte,
deve ricondurre entrambi... nella vita della sostanza universale; e, in questo senso, come potere libero,
deve intervenire nelle sfere subordinate e conservarle in immanenza sostanziale.
Le leggi esprimono le determinazioni di contenuto della libertà oggettiva In primo luogo, per il
soggetto immediato, per il suo arbitrio indipendente e per il suo interesse particolare, esse sono limiti.
Ma sono, in secondo luogo, lo scopo finale assoluto. E in terzo luogo sono la sostanza della loro (cioè
dei singoli) volontà libera e della loro disposizione d'animo; e cosí si configurano come costume in
vigore. Lo stato, in quanto spirito vivente, è soltanto come una totalità organizzata e distinta in attività
particolari. La Costituzione è tale organizzamento del potere dello stato. La Costituzione è la giustizia
esistente, come realtà della libertà nello svolgimento di tutte le sue determinazioni razionali.
La garanzia di una costituzione, cioè la necessità che le leggi siano razionali, e la loro realizzazione
venga assicurata, è riposta nello spirito di tutto il popolo, secondo cui esso ha l'autocoscienza della
sua ragione.
La totalità vivente, la conservazione, cioè la produzione continua dello stato in generale e della sua
costituzione, è il governo... che ha per fine intenzionale la conservazione di quelle parti (famiglia e
società), e che insieme concepisce e attua i fini universali del tutto, i quali stanno al di sopra della
sfera della famiglia e della società civile. L'organizzazione del governo è, insieme, il suo
differenziarsi in poteri, ma che si compenetrano nella soggettività di questo, in unità reale.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Il discorso hegeliano sullo stato continua con l'affermazione che «il potere governante del principe è
l'unità che compenetra il tutto», e che «la costituzione monarchica è perciò la costituzione della
ragione sviluppata: tutte le altre costituzioni appartengono a gradi piú bassi dello svolgimento e
della realizzazione della ragione»; passa poi attraverso la teoria della divisione del potere del
governo in legislativo, giudiziario ed amministrativo; sviluppa quindi la tesi che il sistema
parlamentare è il sistema delle «rappresentanze di classi»; presenta infine l'argomentazione relativa
alla guerra; questa è in funzione della «conservazione dell'autonomia Lo spirito del dello stato di
fronte agli altri» quando la condizione conflittuale tra popolo e la gli stati non viene regolata dal
«diritto internazionale». Quindi il discorso hegeliano approda alla teoria dello spirito del popolo e
della storia universale.
Lo spirito determinato di un popolo, essendo reale - ed essendo la sua libertà come natura - ha sotto
questo aspetto naturale il momento della determinatezza geografica e climatica. Esso è nel tempo; e
rispetto al contenuto, ha essenzialmente un suo principio particolare, e deve percorrere uno
svolgimento determinato da questo, della sua coscienza e della sua realtà. Ha una storia dentro di sé.
Come spirito limitato, la sua indipendenza è qualcosa di subordinato; esso trapassa nella storia
universale, le cui vicende sono rappresentate dalla dialettica degli spiriti dei vari popoli particolari.
Questo movimento è la via per la liberazione della sostanza spirituale il fatto mediante cui lo scopo
assoluto del mondo si adempie nei mondo; lo spirito, che prima è solo in sé, giunge alla coscienza e
all'autocoscienza, e per tal modo alla rivelazione e realtà della sua essenza in sé e per sé, e diventa
anche esternamente universale, diventa spirito del mondo.
(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Nella trattazione della filosofia dello spirito Hegel ha mostrato come l'uomo, unità dialettica di
pensiero infinito (Idea) e realtà fisica (Natura), realizza, nella sua evoluzione, nelle sue forme
storiche, la sua essenza eterna. Ma ha mostrato pure come l'uomo, spirito che si fa infinito,
parallelamente si conosce come infinito. Nei momenti che caratterizzano lo spirito assoluto Hegel
indica come l'uomo, nella sua stessa finitezza, realizza e insieme conosce, nelle forme dell'arte,
della religione, e della filosofia, la sua piena infinità. O, il che è lo stesso: come la sostanza eterna,
Dio, si rivela, attraverso lo sforzo estetico, religioso e filosofico dell'uomo storicamente
determinato. L'unità di finito e infinito, di contingente e di assoluto, di temporale e di eterno viene
dunque attuata e conosciuta con l'arte, nelle forme dell'intuizione sensibile, con la religione, nelle
forme della rappresentazione, e con la filosofia, nella forma del concetto, della riflessione
razionale.
9. Il periodo berlinese: diritto, arte e religione
L'ultimo periodo dell'attività filosofica di Hegel, quello compreso tra il 1818 ed il 1831 (anno della
sua morte), viene indicato come «periodo berlinese». Infatti nel 1818 il filosofo fu chiamato a
succedere sulla cattedra di Fichte a Berlino; e in questa città risiedette finché, dopo essere stato
nominato anche Rettore dell'Università ed aver acquistato un certo potere «politico», non morí,
colpito da colera. In questa fase della sua attività, egli si dedicò ad approfondire alcuni argomenti
trattati nell'Enciclopedia, in particolare quelli relativi alla filosofia dello «spirito oggettivo» e dello
«spirito assoluto». Di questi approfondimenti una sola trattazione era destinata alla pubblicazione in
stampa, cioè i Lineamenti della filosofia del diritto (1821); gli altri conservavano il carattere di
manoscritti per le lezioni, e furono pubblicati solo dopo la sua morte, in un'edizione integrata con i
contributi dei riassunti redatti dai suoi discepoli. Questi testi postumi sono quattro: Lezioni di storia
della filosofia, Lezioni sulla filosofia della storia, Lezioni di estetica e Lezioni di filosofia della
religione. Rispetto all'Enciclopedia essi introducono anche elementi nuovi, che tuttavia vengono
inseriti nelle linee fondamentali di discorso di quell'opera. Pertanto, nel trattare di quest'ultima
produzione hegeliana, ci soffermeremo solo su alcune questioni.
I Lineamenti di filosofia del diritto sollevarono al loro primo apparire una ondata di polemiche, in
quanto sembravano costituire la «base razionale» della politica dello stato prussiano.
L'argomentazione hegeliana viene condotta sul filo dell'attacco al movimento della «gioventù
tedesca rivoluzionaria», molto insofferente a quel tempo, a cui Hegel muove l'accusa di
«irrazionalismo» e che, perciò, rimprovera di esser lontana da un vero spirito rivoluzionario, quale
quello che s'era rivelato nella Rivoluzione francese.
Hegel teorizza uno stato che esprima scopi e bisogni dei singoli cittadini e in cui venga tutelata e
difesa la proprietà privata; tale teorizzazione, però, conserva lo schema di base enunciato
nell'Enciclopedia che vede lo stato come sintesi dialettica, e quindi superamento, di famiglia e
società civile, e come punto culmine della vita «etica», in cui l'uomo acquista finalmente una
«coscienza pubblica».
Nonostante gli utilissimi approfondimenti, i Lineamenti spesso non indicano, però, la soluzione
approfondita di problemi da Hegel stesso sollevati.
Come quello, ad esempio, connesso alla polemica tra giusnaturalisti (conservatori che ritenevano
che le leggi degli stati dovessero fondarsi sul diritto naturale, sui principi immutabili che
appartengono alla natura stessa dell'uomo, inscritti nel suo spirito) e liberali (eredi dello spirito
illuministico, che riducevano il ruolo politico dell'organizzazione statale, rivalutando quello dei
singoli individui; e quindi erano disponibili ad una piú vasta «democratizzazione» della vita dello
stato). Hegel resta in una posizione intermedia e conciliatrice; e poiché il giusnaturalismo
caratterizzava gli ambienti che sostenevano il governo assolutistico e una politica antiprogressista,
mentre la posizione liberale caratterizzava i movimenti politicamente progressisti, Hegel resta
sospeso, per dirlo in schema, tra conservatorismo e progressismo.
Altro problema su cui il filosofo ondeggia: la costituzione dello stato deve essere rigida o flessibile?
Nel primo caso essa non può esser modificata dal potere legislativo, nel secondo sí. Nel primo essa
risulta stabile, nel secondo è piú soggetta agli umori dei tempi, e perde in autorevolezza. Ma c'è
anche l'altra faccia della medaglia: nel primo non recepisce le novità che i tempi introducono nella
vita politica, e s'allontana sempre piú dai cittadini; nel secondo i cittadini godono di maggior potere
nel rendere le istituzioni piú confacenti ai nuovi bisogni. Coerentemente Hegel «media» le due
posizioni; ma resta cosí sospeso tra «potere assoluto» e «partecipazione politica dei cittadini»; ossia,
di nuovo, tra concezione conservatrice e concezione progressista della vita statale.
Ricche di utilissimi approfondimenti, anche le Lezioni di estetica tuttavia non mancano di
ambiguità. L'arte, secondo quanto già detto nell'Enciclopedia, ha in comune con la religione e la
filosofia il suo scopo ultimo: la «rivelazione del divino», la «manifestazione dell'idea». Ma mentre
la religione lo raggiunge attraverso le rappresentazioni, e la filosofia attraverso i concetti, essa lo
attua nelle forme sensibili. Nelle forme naturali dell'arte si rivela ed è intuibile il Pensiero, in quanto
esse «dipendono» dallo spirito che vi riversa dentro il suo contenuto, cioè la sua stessa essenza; ma
in modo che il soggetto e l'oggetto dell'opera d'arte in questa si compenetrano; in modo che l'infinito
(l'Idea, essenza e contenuto dello spirito) e il finito (la forma naturale) costituiscono un'unità. C'è
tuttavia un'articolazione interna al momento spirituale dell'arte che Hegel descrive disponendo,
secondo lo schema dialettico già noto, i diversi «tipi» di arte. Egli pone come tesi l'arte simbolica,
come antitesi l'arte classica e come sintesi l'arte romantica (invertendo, rispetto all'Enciclopedia,
l'ordine tra le prime due). La prima rivela la scissione tra forma e contenuto, in quanto il linguaggio
simbolico non è «aderente» al contenuto, e quindi «non lo rende» adeguatamente; la seconda invece
armonizza i due opposti elementi con la scoperta della figura umana; la terza infine ripresenta lo
squilibrio tra forma e contenuto, ma nel senso che lo spirito avverte la sua insufficienza, ora
consapevole, ad esprimere nelle forme finite un contenuto infinito, assoluto. Quasi paradossalmente
quel che per Hegel è il culmine dell'arte costituisce la consapevolezza della necessità della sua
dissoluzione, perché lo spirito possa accedere alle successive fasi - quella religiosa e quella
filosofica - del suo sviluppo. Quando l'arte compie il suo fine, sancisce con ciò la sua fine. Ma
osserviamo: la disposizione triadica «non torna». L'arte classica, come armonizzazione della
separazione tra contenuto e forma, dovrebbe figurare come sintesi, e non come antitesi. L'arte
romantica, che poi vien posta come sintesi, non... sintetizza, anzi ripresenta lo squilibrio tra i due
elementi, sia pure per aprire la via dello spirito a livelli piú alti di «vita assoluta».
Ma il problema di maggior rilevanza è quello relativo al rapporto tra arte e forme, rispetto ad essa,
superiori. Con l'arte l'infinito si produce e si presenta nelle forme naturali, cioè nel mondo delle
«apparenze»; pertanto essa non può rappresentare per lo spirito il grado supremo della
manifestazione della sua essenza, cioè dell'Idea, del Pensiero divino. Lo spirito sente il bisogno di
liberarsi dai condizionamenti delle forme sensibili, vuol trovare forme piú libere di
autorealizzazione e autorivelazione. Pertanto all'arte deve succedere la religione, come momento
ulteriore, piú pieno, e come momento antitetico, in quanto in questo il soggetto, libero dai vincoli
della finitezza materiale, esprime il suo contenuto e la sua stessa essenza eterna nelle forme libere
della rappresentazione. Alla religione, poi, deve succedere, come fase di completa pienezza della
vita dello spirito assoluto, la filosofia, in cui il contenuto e l'essenza del soggetto pensante, cioè la
sostanza divina, si rivelano totalmente a se stessi - proprio nel soggetto individuale - nella forma dei
concetti, con la ragione.
Tuttavia Hegel, nella riflessione sullo stato della civiltà ai suoi tempi, dichiara con convinzione che
nella sua epoca l'evoluzione dello spirito è giunta al compimento con la religione cristiana, che
ormai permea tutta la vita degli uomini, e col trionfo della «ragione dialettica», cioè della filosofia,
anzi del piú alto grado della filosofia, quello da lui stesso raggiunto, in cui si è pervenuti finalmente
all'autentica visione razionale del reale. Pertanto l'arte, che nello sviluppo dello spirito ha il compito
di preparare l'avvento delle forme superiori, non ha piú... nulla da preparare; cioè essa, come forma
inferiore, non ha piú alcun ruolo da svolgere, anche se nel passato ne ha svolto uno
importantissimo. Dice Hegel testualmente:
Sotto tutti questi rapporti l'arte è e rimane per noi, quanto al suo supremo destino, una cosa del
passato. Essa ha perduto per noi la sua propria verità e vitalità, ed è relegata nella nostra
rappresentazione sicché non afferma piú nella realtà la sua necessità e non occupa piú il posto piú alto
(Lezioni di estetica)
Cosa del passato, dunque, sia sul piano soggettivo, per colui che si è elevato all'altezza della visione
idealistico-dialettica del reale, sia sul piano storico, in cui la civiltà è distinta dal contrassegno della
filosofia. Non a caso, perciò, i giovani hegeliani videro in questo discorso l'annuncio della «morte
dell'arte». Ma videro bene? L'arte, cioè, per Hegel deve sparire dall'orizzonte della cultura
individuale e della civiltà futura? Il discorso è complesso. Hegel dice pure che l'artista deve
continuare ad esprimere l'assoluto nelle forme sensibili, ma non può piú farlo attribuendo alla sua
esperienza spirituale il valore supremo e l'antico ruolo essenziale. Ma il problema resta: quale
senso, infatti, può avere l'arte per l'artista consapevole, filosoficamente, di produrre solo forme
«primitive» e «inadeguate» di rivelazione dell'Idea?
Il tema della religione, che Hegel ha fatto oggetto di riflessione in ogni fase della sua evoluzione
speculativa, nel «periodo berlinese» viene approfondito sistematicamente; e tale approfondimento è
condensato nelle pagine delle Lezioni di filosofia della religione. La religione consiste in un
rapporto tra Dio e la coscienza finita dell'uomo; in esso il soggetto religioso si abbandona, con la
fede, al suo oggetto, Dio, allo scopo di «unificare» la sua realtà finita con quella infinita
dell'Assoluto. Questo rapporto assume varie forme a seconda del grado di sviluppo della coscienza.
La prima è quella del sentimento, in cui l'uomo vive solo la «certezza» che Dio esiste, certezza
individuale, «soggettiva» e... fragile, non riuscendosi a costituire come verità oggettiva. La seconda
è l'intuizione, in cui lo spirito presenta a sé, in modo «oggettivo», la realtà di Dio, cogliendola come
verità immediata; resta però l'abisso tra Dio e l'uomo. La terza forma, che è quella piena, è la
rappresentazione, in cui soggetto e oggetto si presentano alla coscienza come «unificati»; o meglio
essa è la raffigurazione dell'unificazione fra Dio e l'uomo. In questa fase oltre agli attributi divini
vengono «rappresentati» anche il rapporto Dio-mondo con la «creazione», e il rapporto di Dio con
l'uomo e con la storia attraverso la «Provvidenza». La forma rappresentativa raggiunge il suo apice
con la religione cristiana, che Hegel definisce «assoluta», in quanto coglie il rapporto di Dio con
l'uomo attraverso la «incarnazione»; tale verità, poi, trova il suo fondamento teologico nel dogma
della «trinità». Dio, realtà in sé, «si manifesta» «fuor di sé», nell'altro da sé, generando da sé il
«mondo dell'apparenza», la natura e l'uomo, fino a «ritornare» a sé con la «riconciliazione»
dell'uomo con Dio. Questi sono i tre momenti che la teologia caratterizza come Regno del Padre,
Regno del Figlio e Regno dello Spirito. Il Regno dello Spirito è dunque quello dell'avvenuta
«riconciliazione» attraverso la «redenzione» di Cristo, o riconciliazione vissuta nella «comunità
cristiana».
Il contenuto religioso però deve diventare, per Hegel, mediato, consapevole, cioè oggetto di
conoscenza; ossia, la coscienza religiosa deve autochiarirsi e autogiustificarsi con riflessione
razionale. Perciò Hegel dice - contrariamente a Kant - che le dimostrazioni razionali dell'esistenza
di Dio hanno un loro valore proprio al fine del passaggio dalla fede immediata alla riflessione
filosofica. Esse sono momenti del sapere religioso, e svolgono al tempo stesso una precisa funzione
nella vita religiosa.
L'uomo conosce Dio solo in quanto Dio conosce se stesso negli uomini. Questo sapere è
l'autocoscienza di Dio, ma è anche il sapere che Dio ha degli uomini e questo è il sapere che gli
uomini hanno di Dio. Lo spirito degli uomini, in quanto conoscono Dio, è lo spirito di Dio stesso.
(Lezioni di filosofia della religione)
Quando la riflessione nello spirito religioso diventa riflessione sulla religione, si ha la filosofia della
religione. Questa non è piú in senso stretto religione, né crea religione (ora infatti si passa alla
riflessione per concetti sul fatto religioso), ma è da considerarsi pure il piú elevato culto divino;
infatti essa costituisce la consapevolezza che l'uomo ha di Dio e, insieme, la piena rivelazione di
Dio come pensiero al pensiero dell'uomo. E poiché la filosofia, in generale, è tradurre in concetti le
verità che nella religione si presentano in rappresentazioni, essa è la forma che porta a compimento
e supera quella religiosa.
Alla filosofia è stato fatto il rimprovero di porsi al di sopra della religione; ma questo è già falso in
linea di fatto perché essa ha per contenuto soltanto la religione e nient'altro. Essa dà questo contenuto
nella forma del pensiero e si pone cosí soltanto al di sopra della forma della fede; il contenuto è lo
stesso.
(Lezioni di filosofia della religione)
Con questa formulazione, Hegel, mentre dice cose in cui crede, tenta anche di sottrarsi alle accuse
rivoltegli dai teologi protestanti; questi infatti vedevano nella teoria hegeliana lo svuotamento del
valore della religione e della sua autonomia rispetto alla filosofia.
10. Storia della filosofia e filosofia della storia
L'approfondimento dello «spirito assoluto» si completa con le Lezioni di storia della filosofia.
Che cos'è dunque la filosofia? È la forma della riflessione logica dello spirito, con cui l'uomo
individua nel puro Pensiero il principio, l'essenza e la legge di sviluppo di se stesso e di tutta la
realtà. Oppure, detto in altro modo, essa costituisce il momento in cui il puro Pensiero, dispiegatosi
inconsapevolmente nel reale, trova piena coscienza e conoscenza di sé nell'attività logica dell'uomo,
si riconosce come origine e norma del reale.
Dunque lo stesso Pensiero, che come Idea in sé è l'origine del processo del reale, ora, come
filosofia, lo conclude, si pone come sua fine e compimento. Questa è la circolarità del Pensiero di
cui parla Hegel; la fine del processo del reale non è altro che la conquista consapevole del suo
principio. Pertanto la filosofia «conosce» la realtà quando questa è già tutta dispiegata; perciò non
ha il compito di indicare come deve essere il mondo, ma di spiegare concettualmente come è,
mostrarne l'intrinseca razionalità.
Del resto, a dire anche una parola sulla «dottrina di come dev'essere il mondo», la filosofia arriva
sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare nel tempo... dopo che la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta...; la nottola di Minerva inizia il suo volo solo
sul far del crepuscolo.
(Prefazione alla Filosofia del Diritto)
La sapienza, quindi, simboleggiata dalla nottola di Minerva, La nottola non propone un astratto
ideale, ma spiega il reale. La filosofia si di Minerva eleva dalle viscere del mondo come sguardo sul
mondo, per comprenderlo. Essa è il supremo sforzo dell'umano pensiero nella sua pienezza.
Essa sorge infatti solo dove l'individuo per sé si riconosce come individuo e sa di essere, in quanto
individuo, qualcosa di universale, di essenziale: sorge solo dove l'individuo ha valore infinito, dove il
soggetto ha raggiunto la coscienza della sua personalità.
(Introduzione alla storia della filosofia)
Essa sorge quando l'unificazione tra uomo e Dio, vissuta nella religione, si traduce concettualmente
nella sintesi dei due termini. In tal senso essa integra e supera la religione, sia sul piano della storia
dell'umanità che su quello dello sviluppo dell'individuo come «spirito assoluto».
L'autentico inizio della filosofia è quindi da cercarsi in quel punto in cui l'assoluto non è piú
rappresentazione... Cosí il semplice essere sovrasensibile che gli Ebrei hanno pensato come Dio non è
argomento della filosofia; bensí lo sono ad esempio le proposizioni: «l'essenza o il principio delle
cose è l'acqua o il fuoco o il pensiero».
(Introduzione alla storia della filosofia)
In queste proposizioni, tratte evidentemente dalla filosofia antica, il principio infinito infatti è
l'ordine razionale del finito. La storia della civiltà offre la testimonianza dei tentativi che lo spirito
filosofico ha compiuto per far sí che la visione concettuale del mondo giungesse alla sua forma
piena ed adeguata. Non è legittimo parlare, perciò, di molte filosofie, ma di una sola filosofia che
storicamente si dà varie forme, alla ricerca di quella perfetta.
È ormai senz'altro un fatto indiscutibile che vi furono e vi sono molte filosofie; ma la verità tuttavia è
una sola e l'istinto della ragione mantiene questa fede o questo sentimento invincibile. In tal caso
soltanto una filosofia deve essere la vera, e poiché le filosofie sono cosí diverse tutte le altre - si
conclude - devono essere false; senonché ognuna di esse assicura, sostiene e dimostra di essere la
vera. Questo è il solito ragionamento ed è una concezione apparentemente giusta, propria di chi
ragiona freddamente col buon senso. Ma questo pensiero che ragiona in tal modo non è altro che
morto intelletto. Per quanto le filosofie siano cosí diverse tuttavia hanno pur sempre questo in
comune, di essere filosofie. Perciò chi ha studiato e compreso una filosofia, se pur questa è solo una
delle filosofie, ha tuttavia compreso la filosofia. Quel pretesto e quel ragionamento che guardano solo
alla diversità... non vogliono comprendere e riconoscere questa universalità. Ma occorre invece
essenzialmente avere un concetto piú profondo di ciò che sia questa diversità dei sistemi filosofici. La
conoscenza filosofica di ciò che sono la verità e la filosofia ci fa riconoscere che questa diversità
riveste un significato ben diverso da quello di un'opposizione astratta tra la verità e l'errore.
(Introduzione alla storia della filosofia)
Infatti nel succedersi dei sistemi filosofici ogni momento di questa «storia» è «vero», in quanto
integra e supera quelli precedenti, facendo propria tutta la tradizione che l'ha preparato. È ovvio che
l'ultimo sistema è quello piú vero.
Niente si perde, tutti i principi si conservano; la filosofia ultima è di fatto la totalità delle forme.
Quest'idea concreta è la conclusione dei conati dello spirito in quasi due millenni e mezzo di lavoro
serissimo, per diventare oggettivo a se stesso, per conoscersi.
(Introduzione alla storia della filosofia)
Ma l'«ultima» filosofia, per Hegel, era quella sua, e non solo in senso cronologico; egli era convinto
che nel suo sistema la forma corrispondesse in modo assoluto al contenuto finalmente totalmente
esplicitato. Insomma, per Hegel, egli ha compiuto lo sforzo massimo e definitivo che lo spirito
potesse compiere. Ma allora si pone un problema: cosa pensava che dovessero fare i filosofi dopo di
lui?
Anche nelle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel sviluppa temi già precedentemente enunciati.
La storia, egli dice, è governata dalla ragione; ogni evento, di qualunque natura, è guidato dalla
ragione, e, pur nella sua transitorietà, è momento del compimento di un piano razionale; sicché
anche le azioni individuali sono solo momenti di questo piano che, nella sua complessità e nei suoi
scopi, sfugge alla coscienza individuale. Hegel parla addirittura di un'«astuzia della ragione» che ha
il potere di indirizzare eventi e comportamenti, anche al di là delle intenzioni e della volontà degli
individui che li producono (insomma per Hegel gli individui, in quanto tali, sul piano della storia,
valgono ben poco, solo come «strumenti»), di indirizzarli, si diceva, verso scopi meta-individuali. È
chiara la natura «religiosa» di questo governo del mondo.
Ma come doveva intendersi questa ragione? In senso trascendentistico o immanentistico? Cioè,
agente come una mente divina al di fuori degli eventi, o come complesso di forze divine interne alla
stessa realtà e alla storia? Anche qui Hegel media, senza dare risposte convincenti. Poi c'è, in queste
Lezioni, un problema che lascia non poca perplessità. Nel discutere se il fine della storia coincida
con la sua fine, Hegel sostiene che il progresso storico non può essere infinito, perché ciò
significherebbe che la storia manca di uno scopo, di un obiettivo da realizzare, mentre questo esiste,
ed è il compimento della razionalità. Questo fine dev'essere dunque accessibile ed attuabile. E
quando la storia è arrivata al punto in cui essa ha realizzato ed esplicitato totalmente la sua
razionalità, il fine coincide con la fine. Inoltre Hegel, qua e là, indica il fine della storia attuato
nell'epoca in cui egli stesso vive; egli è convinto, anzi, che la razionalità ha espresso pienamente se
stessa proprio con la sua filosofia Ora l'affermazione della coincidenza del fine con la fine dovrebbe
significare che Hegel è convinto che dopo di lui c'è... il diluvio, cioè che nessun'altra energia
creatrice e nessun altro progresso lo spirito umano può piú produrre. Il che è veramente discutibile.
In verità l'argomento è complesso; e non è legittimo muovere semplicemente accuse di presunzione
ad un filosofo della stazza di Hegel. Resta però il fatto che la mancanza di chiarezza su questo tema
espone Hegel anche a questo tipo di critica.
11. La storia e il «pensatore»
Che il pensiero hegeliano, pur nella manifesta organicità e monoliticità, si prestasse a molteplici
interpretazioni, è testimoniato dalla divisione della sua scuola in «destra» e «sinistra» (ma non
mancano anche posizioni di «centro»). E che si prestasse pure a critiche, persino severe, è rilevabile
dal moto antidealista che vide la luce già quando egli stesso era ancora vivo. In ogni caso è
opportuno sottolineare un elemento di valutazione. Per Hegel tutto ciò che esiste trova, nel fatto
stesso che esiste, la sua legittimazione razionale. Non c'è errore nella storia, come non c'è nella
struttura e nel funzionamento della natura: ciò che è reale è razionale. Ma, come in natura già tutto è
predeterminato, costituendo ogni ente ed ogni evento ciò ch'è contenuto già, a livello implicito,
nell'Idea in sé, cosí pure nella storia tutto, sia pur non nella specifica determinazione empirica, ma
nel suo schema evolutivo, è già preordinato; niente di nuovo quindi avrà luogo nella storia, come
niente di male e di erroneo può aver collocazione storica. Cosí ogni singola esistenza umana ha
valore e significato in quanto, e solo in quanto, manifesta in sé una realtà che la sovrasta e la
sommerge. Sicché la storia non può apparire, nella visione hegeliana, se non il palcoscenico su cui
gli individui recitano la propria parte, senza reale spazio inventivo e creativo; una singola parte di
una sceneggiatura già scritta per intero, per cui è già nota la fine come lo è il fine.
E' chiaro che una siffatta concezione ben si prestava ad interpretare e legittimare, sul piano
ideologico, la politica restauratrice europea e quella autoritaria prussiana. Lo stato rappresenta
l'incarnazione della razionalità; i suoi fini sovrastano l'individuo, al quale non resta altro che
conformarsi ad essi, che svolgere il proprio ruolo sapendo che esso ha un significato attribuitogli dal
potere politico. Dunque davvero Hegel fu, come ha detto G. Mann, il «filosofo della
Restaurazione».
Ma nell'ultima stagione della sua esistenza il clima storico s'andava mutando. Ormai s'estendeva
sempre piú in Europa la ribellione alla politica restauratrice, e le idee «liberali» acquistavano spazi
sempre piú ampi. Il Luglio francese del 1830, il Reformbill inglese, e le conseguenze che questi
eventi comportarono nell'assetto europeo, turbarono profondamente il filosofo, stimolando in lui un
atteggiamento che sul piano politico diremmo «di conservazione» e che sul piano culturale
definiremmo «aristocratico». Atteggiamento manifesto, se poco prima di morire, nella prefazione
alla seconda edizione della Scienza della logica, parlò delle difficoltà del lavoro filosofico nelle
«circostanze di una necessità esteriore», cioè in un clima storico che gli appariva dominato dalla
«dispersione inevitabile per la grandezza e la estensione degli interessi» e dal «chiassoso strepito
quotidiano». Anzi addirittura si lamentava con Göschel: «Oggi lo straordinario interesse politico ha
assorbito tutti gli altri»; ormai dominano «ignoranza» «prepotenza» e «passioni malvage»; sono
tempi di crisi, «di una crisi in cui tutto ciò che una volta aveva valore sembra esser diventato ora
problematico» (argomento caro ai «conservatori» di tutti i tempi). Ma Hegel, che pure aveva
valutato positivamente la Rivoluzione francese, non fece un solo sforzo per capire che cosa stesse
succedendo. Anzi in questo contesto non riuscì ad immaginare altro che proporre il «silenzio
imperturbabile di una conoscenza assolutamente pensante»; cioè il silenzio di una chiusura
aristocratica del pensiero su se stesso, un narcisismo spirituale che assume il senso di una
separazione dalla storia; proprio da quella storia ch'egli aveva creduto di spiegare nelle sue intime
leggi.