Caverne di ebbrezza/ebbre caverne

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Mirko Servetti
Caverne d’ebbrezza/ebbre caverne
Il luogo, lo sguardo
La raccolta di Serena Stefani segna un esordio poetico di compiuta maturità stilistica e
semantica configurandosi come luogo aporetico di una paradossale potenza della
disseminazione. Venendo a mancare una topologia, questa fallirebbe fin dall’inizio se
tentasse di assegnare delle coordinate in un territorio fatto di spaesamento; la topica
dell’ebbrezza, in quanto topica dell’immaginario ebbro, trova ovunque casse di
risonanza. La Caverna: amplificazione che non perde nulla di ciò che va a diradarsi, nel
gioco antieconomico di un fragore che non subisce le cosiddette leggi dell’entropia.
Dialettizzare l’ebbrezza per (co)involgerla nella spinta rivoluzionaria significa procedere
per accrescimento (F. Masini – La via eccentrica – Marietti – 1986) contro il dettato
hegeliano del “togliere conservando”. La Caverna diviene il terreno di coltura
dell’immaginario, la sovversione dell’economia dei concetti, la potenza non già del
‘negativo’ ma della disseminazione stessa come affermazione vitale (“Mi empivano,
allora quei discorsi-caverna/contro un sospetto di disgregazione./E dentro covavo le
protesi, l’identità/di femme spartita,troncone – pag. 61). Ne va del concreto, della
corporeità. E secondo questo sguardo, la mano poetante si erge a figura ebbra per
eccellenza; aprendo un varco da cui fuoriesce la percezione messianica (e profana)
portatrice di una ‘rivelazione’ immanente. Qui sta il senso del “meraviglioso”, non
nell’apertura mistica ad un altrove (l’Altro, l’Es, e tutte le teologie residuali), bensì
nell’affiorare della contraddizione che resiste ad ogni tentativo di risoluzione. Il
meraviglioso appartiene alla superficie, alle increspature che pervadono come un brivido
il corpo metamorfico della caverna-labirinto (“Ci sono caverne più grandi del
mondo./L’Uno contiene il binario e l’orizzonte si chiude./Caverna significa fine del
viaggio,/fine persino dei naufragi.” – pag. 19). Tutto consiste in un rivolgimento dello
sguardo, forse nell’adozione di quella che gli espressionisti amavano chiamare “seconda
vista”.
Lo sguardo “storicistico” non vede altro che il feticcio di un passato ricostruito a propria
immagine e somiglianza, non la Storia, quindi, ma la sua finzione. Un prodotto di
laboratorio. Riscrivere la funzione stessa della memoria, riaprire la ferita che appartiene
al corpo dei cosiddetti “ricordi”: è il tratto specifico di questa poetica (“Da eroe ho
vissuto,/scegliendo di esserlo fuori di me./In patria, ho combattuto battaglie di
altri:/avevo orrore del personale, dei vasi comunicanti,/degli uteri vuoti (che pure
esploravo)./Tutti hanno amato il riflesso/che solo lasciavo apparire, come Medusa.” –
pag. 39). Superata l’adiacenza tra pubblico e privato, si mostra pertanto che non esiste un
“vedere” individuale separabile o separato dall’ambito del collettivo, nella misura in cui
quest’ultimo non venga poi omologato con la dimensione anonima del “pubblico”. Non
c’è dubbio che lo sguardo che diventa politico sia innanzitutto malato, ebbro (“Dov’è
questo dire(“…nature… bla bla…”)?/Lo voglio vedere graffito sul libro del mondo/di
fronte alle spose e ai guerrieri, di fronte ai dottori.) La dialettizzazione dello sguardo
ebbro finisce con il ricominciare ogni volta da capo, come se l’infinito diventasse un
basso ostinato, e lo sguardo un canto che ne raccoglie la luce nascosta nel fitto delle
pieghe più oscure. La “rappresentazione” storicistica è sempre stata sorda.
Caverne: labirinti dei ricordi
Il ricordo, assenza di libro, assenza di opera, disfa e scompagina gli ordini testuali
faticosamente costruiti attraverso la rimozione. Se è caratteristico del rimosso il ritornare,
il riaffiorare tra le pieghe del dire in corso come una seconda voce nella prima, il ricordo
assomiglia piuttosto alla “pausa” nel senso musicale del termine. Voce senza suono che
ferisce il tessuto mnestico senza lasciar intravedere nulla “al di sotto”(“Era caverna
illusione del Nero/senza statuto d’essenza(Non era) – pag. 23). Il rimosso è
complementare al lavoro di rimozione, è la controparte della memoria. I due sono
inscindibili ed abitano sotto lo stesso cielo, territori limitrofi e distinti ma entro una sola
legislazione. Ammesso che sia valida la distinzione freudiana, potremmo dire che il
rimosso, in quanto figura della nevrosi, sfugge al carattere distruttivo insito nel ricordo, in
quanto figura della psicosi (“Siamo nel cieco. Pur senza Edipo/questa è una storia di
madri, di padri./E di figli, bien sûr.” – pag. 21). Qui lo strappo è sberleffo, non si
produce per esibire un’altra versione dell’accaduto, per raccontare altrimenti ciò che il
memoriale non riporta o falsifica. Il ricordo non “fa testo” e si rifiuta al lavoro mnestico
(“Non posso che fare cappello a beffa cotanta./Beffa di terra e di sangue. La legge del
genos/respira,/è qui nel nanosecondo, nel bit./Come spiegarlo a noi bianchi, fatti
comunque di carne?” – ibid.) Alla versione alternativa del rimosso, alla sua pretesa di
porsi come discorso sottostante, inter/testo piagnucolante, il ricordo “rammemora”
l’impossibilità di stilare “versioni”, comunque si voglia chiamare l’esito del vaniloquio
difensivo. E ciò in quanto il ricordo è intransitivo, asimmetrico e riflessivo (“Non ero una
donna all’origine, ma un continente/che lascio a suo figlio/(mi solcherà, per
partenogenesi) – pag. 33). Disattende se stesso con un gesto suicida. Una scheggia.
E quando il linguaggio cessa di esistere nella sua forma servile, vien meno anche il
sistema difensivo sul quale si instaura la sintassi. Non c’è più un tempo vuoto e
omogeneo da riempire con le sedimentazioni dell’esperienza e del significare. Dissenso
dal parlare, allora: da cui scaturisce una scrittura inattesa, impossibile, costellata di
ricordi senza alcuna presa sulla memoria (“Ti proverai ad essere pietra/- qui lo siamo da
sempre ./Più che vedova bianca: schermo perfetto/per il sistema, pianto ultra-emisfero.”
– pag. 79).
Serena Stefani – CAVERNE/CAVERNES – prefaz. Mario Lunetta – pagg. 82
Edizioni Gazebo 2005
Giugno 2005
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