PARLAMENTO EUROPEO
1999
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2004
Commissione per i problemi economici e monetari
PROVVISORIO
2000/2040(INI)
Parte 2
28 settembre 2000
PROGETTO DI RELAZIONE
sui progressi in materia di coordinamento fiscale nell'Unione europea
(2000/2040(INI))
Commissione per i problemi economici e monetari
Relatrice: Christa Randzio-Plath
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INDICE
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MOTIVAZIONE ........................................................................................................................ 4
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MOTIVAZIONE
1.
Armonizzazione fiscale nell’Unione europea o concorrenza fiscale tra gli Stati membri?
Da tre decenni l’Unione europea sta tentando di realizzare progetti di armonizzazione fiscale.
Nessun altro tema dà adito a così tante discussioni come quello della fiscalità, tema legato al
dibattito sulla sensibile questione della sovranità, che ha acquisito una nuova dimensione con
l’Unione monetaria. A tale riguardo è giustificato chiedersi in che misura vi sia ancora una
sovranità nazionale in materia fiscale, vista la disastrosa concorrenza fiscale intesa ad attirare
l’insediamento di imprese. La propensione ad assumere decisioni è tuttavia ostacolata anche
da discussioni ideologiche, che partono dal presupposto che una concorrenza fiscale non
regolamentata riduca l’“appetito” di entrate dello Stato. In tali discussioni non si tiene conto
del fatto che qualsiasi governo ha bisogno di procurarsi delle risorse per poter adempiere ai
propri compiti. Con l’orientamento neoliberale della politica economica l’armonizzazione
fiscale non aveva più alcuna prospettiva, perché si faceva affidamento sulle forze di mercato
per ridurre le imposte e la spesa pubblica. Sebbene nell’Unione europea, dove l’onere fiscale
grava pesantemente sui cittadini, sia sicuramente auspicabile una riduzione delle imposte, i
regimi fiscali non possono tuttavia perturbare la libera ed equa concorrenza nel mercato
interno.
E’ necessario distinguere tra una piena armonizzazione fiscale, con basi imponibili e aliquote
uniche, come previsto dall’articolo 93 del trattato CE per le imposte indirette, e il
coordinamento fiscale, che tende a ravvicinare le politiche fiscali degli Stati membri
dell’Unione europea basandosi, a tal fine, su codici di condotta, raccomandazioni e accordi o
anche direttive. Il coordinamento fiscale europeo non dovrebbe in alcun modo creare un
sistema fiscale uniforme applicabile a tutti. Proprio nel mercato interno dell'Unione europea è
necessario un certo grado di convergenza che permetta un suo efficace funzionamento.
L’armonizzazione fiscale si scontra con problemi fondamentali. Da un lato vi è la questione
della sovranità nazionale, che ha acquisito un’ulteriore importanza in seguito all'introduzione
dell’euro, visto che gli Stati membri non hanno più alcun margine di manovra nel settore della
politica monetaria e che il loro margine di manovra nella politica di bilancio è stato
fortemente limitato dal trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. A ciò si
aggiunge il fatto che gli Stati membri dell’UE derivano le proprie entrate fiscali da fonti molto
diverse e il peso della fiscalità è distribuito in modo molto ineguale tra imposte indirette e
dirette. Per tale ragione, senza una completa armonizzazione dei sistemi, che peraltro non è
prevista nell'Unione europea, non è possibile giungere a un'armonizzazione delle aliquote. La
politica fiscale dell'Unione europea non tende alla riscossione o all’imposizione di imposte
comunitarie. E’ tuttavia possibile realizzare dei progressi per quanto concerne
l’armonizzazione o il coordinamento fiscale, che sono sostenuti da valide motivazioni. Da un
lato nell’Unione europea il potere di imposizione fiscale appartiene agli Stati membri e non
all’Unione. Diversamente da quanto avviene negli Stati Uniti, dove i 2/3 delle entrate fiscali
sono riscossi a livello centrale, nell’Unione europea esistono differenze e una concorrenza per
quanto riguarda le basi imponibili, le aliquote e le esenzioni fiscali e gli Stati membri non
sono nemmeno tenuti a un obbligo d’informazione reciproco. Nel mercato interno dell'Unione
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europea le possibilità di evasione e di frode fiscale sono considerevoli, vista la
frammentazione dei mercati dal punto di vista fiscale. Ciò non causa solo la concorrenza e la
diminuzione del gettito fiscale, ma svuota anche di senso il principio dell’equità fiscale. A ciò
si aggiunge il fatto che negli Stati membri esistono normative che offrono benefici fiscali alle
persone e alle imprese originarie di altri Stati membri dell’UE, benefici che non sono concessi
ai residenti.
Il trattato di Roma prevedeva l'armonizzazione delle imposte indirette. Finora ciò non è
avvenuto né per quanto riguarda l'imposta sul valore aggiunto né per quanto riguarda le
accise. È interessante notare che queste imposte hanno un’importanza secondaria per quanto
riguarda la competizione tra gli Stati membri per attirare le imprese. Gravando sul
consumatore finale, esse non hanno alcuna ripercussione a livello di concorrenza. La prova è
fornita in particolare dalla Repubblica federale tedesca e dal Lussemburgo, che non hanno
tratto alcun vantaggio in termini di insediamento di imprese dal fatto di applicare le aliquote
IVA più basse dell’intera Unione europea.
Per questo motivo è difficile capire perché le imposte sulle imprese, che possono provocare
distorsioni della concorrenza, non sono oggetto delle disposizioni del trattato. Le basi
giuridiche per l’armonizzazione delle imposte dirette, e quindi anche delle imposte sulle
imprese, sono molto limitate. A tale riguardo si può tutt’al più fare riferimento all'articolo 94,
che concerne le misure che incidono sulla creazione e sul funzionamento del mercato interno.
Le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in materia sono però decise in base
al principio dell’unanimità. Inoltre, si può fare riferimento all'articolo 293, che tra l'altro invita
gli Stati membri ad avviare negoziati per garantire l’eliminazione della doppia imposizione
all'interno della Comunità. Di conseguenza, gran parte delle disposizioni che devono essere
adottate esula dalla competenza della legislazione comunitaria, per cui la tassazione dei
redditi transfrontalieri è coperta da una fitta rete di accordi fiscali bilaterali, che interessano
sia gli Stati membri sia i paesi terzi.
La Commissione europea e il Parlamento europeo chiedono pertanto a ragione la sostituzione
del principio dell'unanimità con il principio della maggioranza qualificata, per le votazioni in
sede di Consiglio dei ministri, quando si tratta di garantire il buon funzionamento del mercato
interno e di evitare distorsioni della concorrenza. La Conferenza intergovernativa dovrebbe
prendere una decisione a tale riguardo, sebbene vi siano scarse prospettive di successo.
2.
I tentativi di armonizzazione fiscale sono vani?
Mentre il processo di armonizzazione fiscale comunitaria nel settore delle imposte indirette è
iniziato già nel 1967 con l'adozione della prima direttiva sull'imposta sul valore aggiunto, la
storia dell’armonizzazione delle imposte dirette nell’Unione europea è molto più breve,
essendo iniziata solo nel 1990 con l'adozione della direttiva “madre-figlia” e della direttiva
sulle fusioni. Tuttavia, già molti anni prima erano stati fatti tentativi di realizzare dei progressi
in questo settore. Sia la relazione Neumark del 1962 sia la relazione van Tempel del 1970
avevano chiesto un'armonizzazione delle imposte sulle imprese, sebbene con sistemi diversi.
Nel 1975 la Commissione aveva presentato un progetto di proposta di direttiva relativa
all'introduzione di un ulteriore sistema di ravvicinamento delle aliquote tra il 45-55% in tutti
gli Stati membri, che tuttavia si è dimostrata inaccettabile. La Commissione ha quindi
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riconosciuto l’impossibilità di attuare un’armonizzazione sistematica su scala europea e alla
fine degli anni Ottanta ha deciso di concentrare la propria azione su misure limitate importanti
per il completamento del mercato interno. Questo nuovo approccio ha portato, nel 1990,
all'adozione delle due direttive summenzionate (che erano state presentate già dal 1969) e
della convenzione sulla procedura arbitrale, con il quale viene introdotta questa procedura nel
caso di rettifica degli utili di imprese associate in diversi Stati membri. La proposta di
armonizzazione del 1975 è stata invece ritirata nel 1990.
Un ulteriore importante passo sulla via dell'armonizzazione dell'imposizione fiscale delle
imprese dell'Unione europea è stata l’istituzione, nel 1991, del Comitato di esperti
indipendenti Ruding (dal nome del suo presidente, il ministro delle Finanze olandese Onno
Ruding). Nella relazione presentata nel 1992 il Comitato ha illustrato una serie di proposte di
ampia portata, raccomandando un programma d'azione in tre fasi per eliminare la doppia
imposizione, armonizzare le imposte sul reddito delle persone giuridiche entro una fascia dal
30 al 40% e garantire la trasparenza delle diverse agevolazioni fiscali concesse dagli Stati
membri per promuovere gli investimenti. Il Comitato ha chiesto soprattutto l’adozione di
uguali definizioni per la base imponibile e altri concetti fiscali importanti. Queste
raccomandazioni non hanno però avuto alcun seguito.
Un nuovo approccio più ampio della politica fiscale europea ha fatto seguito nel 1997 con il
cosiddetto pacchetto Monti. Oltre alle due proposte di direttiva relative all’imposizione fiscale
degli interessi e ai versamenti di interessi e di diritti tra le imprese, il pacchetto conteneva
anche una proposta di un Codice di condotta sulla tassazione delle imprese, in base al quale
gli Stati membri si dovevano impegnare politicamente a rispettare i principi della concorrenza
leale e astenersi dall’adottare misure fiscali dannose. Questo Codice, che era stato
espressamente appoggiato dal Parlamento europeo, è stato approvato dal Consiglio ECOFIN
nel dicembre 1997. Nel marzo 1998 è stato costituito il cosiddetto gruppo Primarolo,
presieduto dalla signora Dawn Primarolo, Paymaster General britannica, con il compito di
fissare le disposizioni fiscali alle quali il Codice si poteva applicare. Dopo aver presentato la
propria relazione conclusiva al Consiglio ECOFIN il 29 novembre 1999, il gruppo Primarolo
ha ricevuto il mandato di sorvegliare la trasposizione delle misure proposte. Il Consiglio
ECOFIN ha inoltre incaricato la Commissione di elaborare uno studio sull’imposizione delle
imprese in cui vengano analizzate da un lato i diversi livelli effettivi di imposizione fiscale
delle imprese e, dall’altro, le barriere fiscali rimanenti per le attività economiche nel mercato
interno. I risultati di questo studio dovrebbero essere presentati alla fine di quest’anno.
3.
La politica della concorrenza dell’Unione europea quale strumento di coordinamento
fiscale nel mercato interno?
Nel settore della concorrenza fiscale la Commissione europea esita a ricorrere a misure del
diritto della concorrenza. A norma degli articoli 92 e 93 del trattato CE, la Commissione
europea può vietare agevolazioni o esenzioni fiscali qualora queste ultime causino distorsioni
della concorrenza. Nel caso in cui queste agevolazioni fiscali non siano assimilabili a misure
generali di politica fiscale nel quadro della politica congiunturale, possono rappresentare aiuti
vietati. Quando non sono giustificate deroghe per motivi di coesione economica e sociale o di
protezione dell’ambiente è necessario imporre un divieto. Qualora le decisioni di politica
fiscale di questo tipo non siano compatibili con il mercato interno, potrebbero essere adottate
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anche misure a norma degli articoli 94, 96 e 293 del trattato di Amsterdam.
Le agevolazioni fiscali possono rappresentare una sovvenzione indiretta ed equivalere quindi
nella pratica a un aiuto di Stato (articoli 87, 88, 96 e 97 del trattato di Amsterdam). Con la
concessione di agevolazioni fiscali si ha una riduzione dell’imposizione fiscale e lo Stato deve
far fronte a perdite di gettito fiscale, vale a dire che le agevolazioni producono una riduzione
dell’imposizione. Affinché l’agevolazione fiscale non si traduca in un aiuto di Stato illegale,
essa deve favorire in modo selettivo determinate imprese o determinati settori economici. Ciò
è confermato dalla recente sentenza della Corte di giustizia europea, del 19 settembre 2000
(causa C-156/98). Negli altri casi l’agevolazione fiscale può essere considerata quale legittima
misura generale di politica economica e congiunturale.
La concorrenza ha bisogno di regole o almeno di norme minime. Anche le esperienze
acquisite con la creazione della Comunità economica europea e del mercato interno
dimostrano che le forze del mercato non possono regolare tutto. I principali progressi
realizzati mediante la creazione del mercato interno sono stati realizzati sulla base
dell’armonizzazione o del ravvicinamento all’interno di un quadro legislativo e non solo sulla
base dei meccanismi della concorrenza del mercato comune.
I ministri delle Finanze dell’Unione europea ritengono, giustamente, che si sia in presenza di
una concorrenza fiscale dannosa quando misure fiscali, valutate in rapporto al livello di
imposizione fiscale normale nel paese considerato, producono un’imposizione fiscale effettiva
nettamente più bassa o un’imposizione nulla. Queste misure, che possono riguardare
l’aliquota nominale dell’imposta, la base imponibile o altri elementi, sono dannose soprattutto
nel caso in cui vengono concesse particolari agevolazioni solo a soggetti non residenti nello
Stato membro interessato o solo nel caso di transazioni con non residenti, quando l’economia
nazionale non beneficia delle agevolazioni e le attività non hanno alcuna relazione con
l’attività economica in senso stretto o le regole per la determinazione degli utili delle attività
interne di una multinazionale divergono dai principi dell’OCSE. Con l’approvazione del
Codice di condotta gli Stati membri si sono impegnati a non adottare alcuna nuova misura
fiscale dannosa, a riesaminare ed eventualmente modificare le proprie regole e pratiche in
vigore, a eliminare quanto prima le misure dannose e a informarsi reciprocamente sulle
misure fiscali in vigore o previste che rientrano nel campo di applicazione del Codice. Il
Codice di condotta fiscale è un passo nella giusta direzione, perché non vieta le concorrenza
fiscale di per sé ma solo quella dannosa. Poiché esso è vincolante solo dal punto vista politico
e non giuridico e in caso di violazione gli Stati membri non devono temere alcuna misura
sanzionatoria, sono necessari ulteriori miglioramenti. In particolare, in futuro il codice deve
contenere norme positive vincolanti e sanzioni.
Inoltre, nell’Unione europea esistono paradisi fiscali, non solo in Corsica, a Gibilterra, nelle
Antille olandesi, ecc., ma anche per esempio in Spagna, sotto forma di centri di
coordinamento nei Paesi baschi, e in Svezia sotto forma di agevolazioni per le società
d’assicurazione straniere; questi paradisi fiscali favoriscono l’evasione fiscale e le distorsioni
della concorrenza. Anche i cosiddetti centri di coordinamento in Francia, Belgio e Olanda
causano concorrenza sleale, perché privilegiano dal punto di vista fiscale le imprese straniere
rispetto alle imprese locali. La concorrenza fiscale negli Stati membri da un lato rafforza la
competitività delle imprese che hanno beneficiato di agevolazioni fiscali e dall’altro concentra
gli investimenti sulle imprese agevolate. Un esempio a tale riguardo sono i centri di servizi
finanziari internazionali. In questo caso non si hanno distorsioni della concorrenza solo al
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livello delle imprese ma anche al livello del mercato di capitali, come dimostra il seguente
esempio:
Una holding olandese si procura la parte essenziale dei propri finanziamenti con capitale
straniero proveniente da una società controllata in seno all’“International Financial Service
Centre” irlandese versando a quest’ultima gli interessi corrispondenti. Questi interessi
vengono detratti nei Paesi Bassi a titolo di spese aziendali, mentre gli interessi percepiti dalla
società controllata in Irlanda sono soggetti a un’aliquota ridotta del 10% anziché alla normale
aliquota del 35%. In questo caso si è in presenza di una doppia agevolazione: da un lato vi è la
possibilità di detrarre gli interessi per l’importo totale e, dall’altro, viene applicata l’aliquota
ridotta del 10%.
Il summenzionato gruppo di lavoro “Codice di condotta” dei ministri della Finanze
dell’Unione europea (gruppo Primarolo) ha elaborato una lista di 66 misure dannose per la
concorrenza, che secondo il Codice di condotta concordato dovrebbero essere soppresse.
Riflessioni e strategie relative alla politica del mercato interno sono il punto di partenza per
giungere a un accordo relativo all’attribuzione di queste misure “nemiche” ai seguenti settori:
- servizi all’interno di un gruppo di imprese;
- servizi finanziari;
- centri off-shore;
- misure specifiche in altri settori
- sistemi di agevolazione fiscale.
4.
Armonizzazione delle imposte indirette - Fallimento definitivo del principio del paese di
origine?
Il gettito delle imposte indirette nell’Unione europea è pari quasi a 1000 miliardi di euro,
importo che rappresenta il 13,8% del prodotto interno lordo (19971).
L’attuale sistema dell’imposta sul valore aggiunto, sebbene sia espressamente previsto quale
sistema transitorio da applicare fino all’introduzione del sistema definitivo basato sul
principio del paese di origine, è in vigore ormai da quasi otto anni. In questo periodo il
sistema si è dimostrato complicato, burocratico e in particolare estremamente vulnerabile alle
frodi. Di conseguenza, nella sua relazione concernente la cooperazione amministrativa nel
settore delle imposte indirette (IVA) (COM(2000) 28), la Commissione constata che
attualmente il sistema non è privo di ostacoli e che questi anni “a quanto pare, sono serviti ai
frodatori per escogitare le possibilità di arricchirsi offerte dal sistema transitorio, mentre gli
Stati membri non si sono rivelati, nel complesso, capaci di contrastare l'attività fraudolenta”
(pag. 5). In tal modo gli Stati membri devono controllare operazioni intracomunitarie esenti
IVA, per un importo pari a circa 930 miliardi di euro, che prima del 1993 erano oggetto di
controlli formali alle frontiere, nonché circa 100 milioni di dichiarazioni IVA all’anno. La
complessità del sistema, con i suoi vari regimi particolari complessi, con le possibilità di
scelta e le sue deroghe invita proprio alla frode. Particolarmente problematico è il fatto che i
frodatori possano agire in un mercato interno mentre i controlli rimangono legati alle frontiere
nazionali. Sebbene gli Stati membri non abbiano ancora pubblicato dati concreti sulle perdite
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L’UE e l’OCSE non hanno ancora fornito dati più recenti.
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di entrate fiscali, è probabile che gli importi siano estremamente elevati.
In considerazione di queste difficoltà e del fatto che per il momento non si prospetta una
maggioranza in sede di Consiglio a favore dell’introduzione del principio del paese di origine,
nella sua ultima proposta la Commissione ha optato per una soluzione minima pragmatica:
non si mira più alla rapida introduzione del regime IVA definitivo ma piuttosto a migliorare il
regime transitorio. Uno dei problemi fondamentali del regime europeo dell’imposta sul valore
aggiunto è dato dalla mancanza di definizioni uniformi e di una sua applicazione uniforme
negli Stati membri. Pertanto è urgente procedere a una maggiore armonizzazione. Il comitato
IVA è sicuramente uno strumento importante per garantire un’applicazione più uniforme, ma
non deve escludere il Parlamento europeo. Ulteriori problemi sono legati alle forti differenze
tariffarie tra gli Stati membri e all’insufficiente disponibilità a giungere a un numero minimo
di norme uniformi. Nel 1999 tre Stati membri dell’Unione europea applicavano quattro
aliquote IVA diverse e quattro Stati membri dell’Unione europea applicavano tre aliquote
IVA diverse, mentre in realtà vi dovrebbero essere solo due aliquote, quella normale e quella
ridotta.
Il Parlamento europeo ha giustamente sottolineato a più riprese che un regime IVA basato sul
principio del paese di origine agevolerebbe l’efficace funzionamento del mercato interno,
ridurrebbe la vulnerabilità alle frodi e modificherebbe il regime transitorio, troppo complesso
e oneroso soprattutto per le piccole e medie imprese. Gli Stati membri non hanno approvato
né la “proposta di getto” presentata dalla Commissione nel 1987, né le proposte di graduale
transizione al principio del paese di origine. Il fatto è che gli Stati membri hanno delle riserve
nei confronti di un sistema di clearing ed evidentemente sono poco interessati a un’ulteriore
armonizzazione delle strutture fiscali e per nulla interessati a un’armonizzazione delle
aliquote. Ciò va visto anche in relazione alle difficili riforme fiscali negli Stati membri. La
Commissione dà quindi prova di grande realismo optando, senza abbandonare l’obiettivo del
principio del paese di origine, per una nuova strategia volta a migliorare il funzionamento del
regime IVA nel mercato interno (COM(2000) 348), mirata a semplificare e modernizzare le
disposizioni esistenti, a garantire una loro applicazione più uniforme e a favorire la
cooperazione amministrativa, come richiesto a più riprese dal Parlamento europeo. Il
programma d’azione presentato va accolto con favore. Il Parlamento europeo ricorda che nel
programma d’azione deve essere considerata prioritaria l’efficacia sul piano occupazionale di
aliquote ridotte per i servizi ad alta intensità di manodopera, visto che non ancora tutti gli Stati
membri vi partecipano.
5.
Quali sono gli approcci più promettenti in materia di armonizzazione dell’imposizione
delle imprese?
Le entrate delle imposte dirette equivalgono a quasi 1.000 miliardi di euro, che derivano
principalmente dall’imposta sul reddito delle persone fisiche e non dall’imposizione delle
imprese; le imposte sulle imprese rappresentano solo l’1,9% del prodotto interno lordo della
Germania ma raggiungono il 6,0% nel Lussemburgo e il 4,2% in Gran Bretagna.
L’imposizione varia notevolmente anche per quanto riguarda il diritto societario. Per quanto
concerne le imposte sulle persone giuridiche, le rispettive normative concernenti la riduzione
o la soppressione della doppia imposizione sugli utili da partecipazione rivestono una
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notevole importanza. Il Belgio, la Danimarca, i Paesi Bassi e la Svezia applicano il sistema
classico, fondato su un’imposizione uniforme degli utili delle società e su un’imposizione dei
dividendi distribuiti agli azionisti. La Gran Bretagna, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna
applicano il sistema dell’imputazione parziale delle imposte sugli utili distribuiti agli azionisti
all’imposta sul reddito degli azionisti. A differenza della Repubblica federale tedesca, che
applica il sistema dell’aliquota distinta, l’Italia, la Finlandia e la Francia applicano il sistema
della piena imputazione all’azionista.
I sistemi fiscali esistenti sono complicati e poco trasparenti e causano una crescente iniquità
fiscale. L’introduzione di un’imposta minima potrebbe costituire un rimedio a tale riguardo. A
livello di Unione europea si dovrebbe prevedere un’imposizione minima con un’aliquota del
18% al 20%, per permettere un’estensione della base imponibile. Questa soluzione
consentirebbe inoltre di mantenere la sovranità degli Stati membri nella scelta del sistema
fiscale nel rispetto del principio di sussidiarietà. Nell’Unione europea non sarà possibile
introdurre un’imposta minima nel breve termine, ma sono tuttavia necessarie alcune misure di
armonizzazione fiscale nell’imposizione delle imprese tra cui, in particolare, l’uniformazione
delle definizioni dei principali concetti fiscali, come per esempio la base imponibile, gli
accantonamenti e gli ammortamenti, nonché una maggiore cooperazione tra le
amministrazioni finanziarie e un coordinamento della collaborazione tra le autorità fiscali per
lottare efficacemente contro l’evasione fiscale.
Per quanto riguarda le imprese, le riforme fiscali nazionali hanno già parzialmente svolto un
ruolo di coordinamento positivo, visto che sta assistendo a una lenta armonizzazione della
base imponibile, tanto da avvicinarsi a una normativa media europea, come per esempio nella
prima fase della riforma fiscale tedesca del 1° gennaio 1999. Un elemento importante per le
imprese sarebbe la sostituzione degli accordi sulla doppia imposizione con un accordo
multilaterale sulla base della convenzione OCSE, allo scopo di evitare le discriminazioni e un
ulteriore onere burocratico. E’ altresì opportuno prevedere un’imposizione per le
telecomunicazioni e il commercio elettronico, per non discriminare il commercio tradizionale.
Anche in questo settore è giustificato e utile un approccio a livello comunitario.
6.
Un mercato dei capitali europeo richiede un’armonizzazione dell’imposizione fiscale?
Il mercato finanziario comune europeo permette l’investimento extraterritoriale di capitali
senza alcun problema solo da una prospettiva fiscale. Poiché ciò non produce un’allocazione
efficiente dei flussi di capitali, in questo settore è necessario una certo grado di
ravvicinamento dei sistemi fiscali, come richiesto dallo spirito alla base della Comunità e dal
mercato interno ma anche dal trattato CEE e CE. In definitiva è opportuno creare un sistema
che protegga il mercato interno da distorsioni della concorrenza, attraverso il ravvicinamento
delle legislazioni nazionali (articolo 3, lettere g) e h)). Anche gli articoli 100-102 del trattato
CEE o gli articoli 94-97 del trattato CE prevedono un obbligo generale di ravvicinamento
delle legislazioni, che riguarda anche la legislazione fiscale. Ciò vale in particolare per quanto
concerne il principio di non discriminazione delle persone fisiche o giuridiche di diversa
origine geografica. Con l’eliminazione dei rischi legati ai cambi, le differenze tra i sistemi
fiscali negli Stati membri sono diventate più evidenti e hanno acquisito, come già detto, una
maggiore importanza per i flussi di capitali. La creazione di un vero proprio mercato dei
capitali europeo continua ad incontrare ostacoli. Le norme fiscali degli Stati membri, che
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continuano a variare in funzione del luogo di residenza o di stabilimento dell’impresa, non
sono ammissibili ai sensi del diritto comunitario. I dividendi provenienti da altri Stati membri
non possono essere soggetti a un’imposizione più sfavorevole rispetto ai dividendi nazionali.
Le aliquote delle imposte sui redditi delle persone giuridiche devono essere adeguate tenendo
conto alla sentenza della Corte di giustizia europea relativa alla causa Verkooijen. Le imposte
sui dividendi segmentano il mercato azionario europeo; allo stesso modo anche il settore degli
investimenti privati ostacola l’instaurazione di un mercato dai capitali comune europeo,
perché vengono mantenute aliquote diverse per la tassazione degli interessi. Va accolto con
favore il fatto che, in linea con le decisioni del Consiglio europeo di Feira del 19 e 20 giugno
scorso, si terranno ulteriori negoziati sull’imposizione degli interessi dei conti a risparmio il
che fa auspicare in un coordinamento dei progressi in questo settore e in relazione alla
direttiva “madre-figlia” (COM …). Nell’Unione economica e monetaria, almeno per quanto
riguarda il capitale finanziario, sarà lo Stato membro che applica le aliquote più basse a
determinare il livello dell’imposizione anche per gli altri Stati membri, anche se si tratta di un
paese piccolo. Sono pertanto necessari un ravvicinamento dei sistemi e una stretta
cooperazione e coordinamento.
7.
Quali sono le ragioni del fallimento dell’introduzione di un’imposta comunitaria
sull’energia e sul CO2?
Finora il tentativo di introdurre un’imposta sull’energia e sul CO2 a livello comunitario
applicabile a tutte le fonti energetiche è fallito. Attualmente esiste un sistema fiscale
comunitario solamente per gli oli minerali e le relative accise. Poiché l’imposta sull’energia e
sul CO2 costituisce per gli Stati membri una nuova fonte di gettito fiscale e offre loro la
possibilità di ridurre i costi salariali, negli ultimi anni otto Stati membri dell’UE hanno
introdotto imposte nazionali che, a causa delle differenze per quanto concerne il campo di
applicazione, il metodo di calcolo e le aliquote, possono ostacolare il buon funzionamento del
mercato interno. Per esempio dal 1993 il Belgio impone alle famiglie un’imposta sull’energia
e in Danimarca, oltre all’imposta sul CO2, esiste anche un’imposta sull’energia. Nel contesto
della riforma fiscale prevista per il 2001, il governo dei Paesi Bassi intende addirittura
raddoppiare, entro il 2002, la tassa ecologia sull’elettricità e sul gas naturale introdotta nel
1996. All’inizio di quest’anno l’Italia ha introdotto un’imposta sull’energia e sul CO2.
Secondo i dati forniti dall’Agenzia europea per l’ambiente, la quota delle tasse ecologiche al
gettito fiscale complessivo degli Stati membri è pari a 6,71%. L’ultima proposta di direttiva
della Commissione sull’imposizione dei prodotti energetici propone solamente un quadro
comunitario per le imposte nazionali sull’energia. L’imposizione riguarda i prodotti
energetici, quali il gas naturale, l’energia elettrica, il carbon fossile, la lignite, il coke, il
bitume e i combustibili. A differenza della vecchia proposta di direttiva della Commissione
europea relativa all’introduzione di un’imposta sul CO2, che si applica già nella fase in cui si
ricavano i prodotti derivati ed equivale quindi a un’imposta sul fatturato iniziale, questa
imposta verrà applicata solamente al fatturato finale. In tal modo viene per esempio tassata
l’energia elettrica ma non la materia prima utilizzata per produrre l’elettricità. La tassazione
del fatturato finale permette l’applicazione del principio dell’uniformità dell’imposizione
indiretta mediante l’applicazione dell’imposta nel paese di consumo. Agli Stati membri
vengono imposte alcune condizioni vincolanti, quali l’oggetto dell’imposizione, le aliquote
minime, per esempio per l’elettricità 1 euro per megawatt/ora, ed è prevista una serie di
deroghe per determinati prodotti energetici, per esempio il carburante per i trasporti aerei e
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navali, per il trasporto ferroviario di merci e passeggeri e per le imprese ad alto consumo
energetico. Nonostante l’impegno dell’Unione europea a favore della tutela dell’ambiente e il
Protocollo di Kyoto, non si constatano progressi né nel settore dell’energia né del CO2.
Il principio dell’unanimità nel settore della legislazione fiscale ostacola tutti i progetti di
imposte ambientali, sebbene anche queste ultime possano causare distorsioni della
concorrenza nel mercato interno. Un codice di condotta fiscale per l’imposte europee
sull’energia, sulla base della proposta delle Commissione del 1997, costituirebbe una buona
base di partenza per la Comunità. L’adozione di un codice di questo tipo è urgente se non si
vuole provocare una concorrenza fiscale dannosa in considerazione del triplicarsi dei prezzi
del petrolio in un anno.
8.
Conclusioni
Gli Stati membri dell’Unione europea dovrebbero concordare alcuni principi di politica
fiscale nel settore delle imposte dirette, per evitare un’ulteriore erosione della base
imponibile, garantire una concorrenza fiscale equa, ridurre l’incoerenza della tassazione
dell’imponibile e ostacolare nel contempo la concorrenza fiscale sleale, che causa distorsioni
della concorrenza nel mercato interno. Nel settore dell’imposizione delle imprese sono
sufficienti processi di ravvicinamento, che dovrebbero iniziare con l’eliminazione dei paradisi
fiscali e con l’applicazione e l’osservanza del Codice di condotta. Per quanto riguarda le
imposte sull’energia e sull’ambiente, è necessario adottare un quadro legislativo comunitario
che abbia un effetto di orientamento sul consumo di energia e sull’ambiente, mentre per
quanto concerne le imposte nel mercato europeo dei capitali è necessario realizzare notevoli
progressi. A tale riguardo, l’abolizione delle imposte sul fatturato delle imprese e sulle
operazioni di borsa in alcuni Stati membri dell’UE è solo un inizio. Nel settore
dell’imposizione dei redditi da capitale è importante giungere a un accordo sull’imposizione
degli interessi dei conti a risparmio. Nel settore delle imposte indirette sono necessari ulteriori
progressi e l’applicazione del principio del paese di origine dovrebbe costituire un obiettivo a
medio termine.
I progressi nel ravvicinamento fiscale falliscono regolarmente a causa del principio
dell’unanimità. Secondo gli Stati membri dell’UE si tratta di questioni di sovranità nazionale.
Il diritto dell’imposizione fiscale è senza dubbio una manifestazione della sovranità di uno
Stato nazionale. In un mondo globalizzato con imprese che operano a livello transnazionale e
con un commercio elettronico in crescita sarà sempre più difficile individuare i soggetti fiscali
mobili. Pertanto, in un quadro coerente, è necessario organizzare la sovranità a livello
regionale ed europeo, perché il grande mercato interno esercita una grande attrattiva per le
imprese. In tale contesto è quindi possibile attuare una politica regolamentare nazionale e
quindi una politica fiscale armonizzata. In considerazione delle grandi differenze tra i sistemi
e le politiche fiscali degli Stati membri dell’UE, è necessario trovare “soluzioni globali”, che
da un lato possano tener conto degli interessi specifici degli Stati membri e, dall’altro, non
ostacolino il buon funzionamento del mercato interno previsto dal trattato. Si auspica pertanto
che la Conferenza intergovernativa e il Consiglio europeo di Nizza accolgano le proposte
della Commissione e del Parlamento europeo e decidano di adottare la regola della
maggioranza qualificata anche in materia fiscale.
PE 285.541/B
IT
12/12
PR\419441IT.doc