ministero di grazia e giustizia

MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA
Ufficio Legislativo
RELAZIONE DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE PER LA RIFORMA DEL CODICE PENALE
ISTITUITA CON D. M. 1 OTTOBRE 1998
INDICE - Allegati
Osservazioni preliminari in materia di oggetto e metodo del lavoro
I. Necessaria offensività e irrilevanza penale del fatto
1. Necessaria offensività penale del fatto; 2. Irrilevanza penale del fatto
II. Superamento o mantenimento della dicotomia delitti-contravvenzioni
III. Realizzazione del principio di colpevolezza
1. Principi generali; 2. Dolo e colpa; 2.1. Questioni relative al dolo; 2.2 Questioni relative alla colpa; 3. La
disciplina dell'errore; 3.1. L'errore sul precetto; 3.2. L'errore sul fatto; 3.3.Errore sugli elementi
differenziali fra più reati ed errore sulle scriminanti; 4. Eliminazione delle residue ipotesi di responsabilità
oggettiva od anomala; 4.1. Linee generali e specifiche della riforma; 4.2. In particolare sul reato diverso da
quello voluto da taluno dei concorrenti e sul concorso dell'estraneo nel reato proprio; 4.3. Reati a mezzo
stampa o radiotelevisione; 4.4. Le circostanze del reato.
IV. Reati omissivi e posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse
1. I reati omissivi; 1.1. I reati omissivi propri; 1.2. Reati commissivi mediante omissione; 2. Le posizioni
di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse.
V. Le cause di giustificazione
1. L'esercizio del diritto, l'adempimento di un dovere, l'ordine illegittimo vincolante; 2. Difesa legittima e
stato di necessità; 3. L'uso legittimo delle armi; 4. Consenso dell'avente diritto; 5. Una nuova scriminante
generale?
VI. Tentativo e delitti di attentato
1. Il delitto tentato; 1.1. Suo campo di applicazione; 1.2. Sua struttura e trattamento sanzionatorio; 1.3.
Dolo e tentativo; 2. Desistenza volontaria e recesso attivo; 3. I delitti di attentato.
VII. Concorso di persone nel reato e reati associativi
1. La tipizzazione delle condotte di partecipazione; 2. Il trattamento sanzionatorio delle condotte di
partecipazione; 3. La partecipazione omissiva nel reato commesso mediante azione; 4. Le circostanze ex
artt. 111 e 112 c.p.; 5. Il concorso nei reati colposi; 6. Istigazione e accordo non seguiti dalla commissione
del reato; 7.La responsabilità del partecipe per il reato da lui non voluto e il concorso nel reato proprio; 8.
La disciplina delle circostanze e delle cause di giustificazione; 9. I reati associativi.
VIII. Il sistema delle pene
1. Gli obbiettivi della riforma del sistema delle pene; 2. Una nuova articolazione delle pene; 3. La
reclusione; 4. Le pene diverse dalla reclusione; 5. La pena pecuniaria; 6. La confisca; 7. La sospensione
condizionale della pena; 8. L'oblazione; 9. La commisurazione della pena; 10. Le circostanze del reato; 11.
La disciplina sanzionatoria del concorso di reati; 12. Cenni sulla revisione della disciplina delle misure
alternative alla reclusione; 13. Incentivazione di condotte di riparazione dell'offesa; 14. Astensione dalla
pena; 15. Cenni sulla prescrizione; 16. La funzione rieducativa della pena.
IX. L'imputabilità
1. Necessità di mantenere la distinzione fra soggetti imputabili e non; 2. Questioni di tecnica legislativa; 3.
Infermità di mente ed altre anomalie; 4.Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti; 5. Minorenni; 6.
Trattamento dei soggetti non imputabili; 7. Mantenimento di fattispecie di capacità ridotta?
X. La responsabilità delle persone giuridiche
XI. Struttura del codice ed indicazione dei beni giuridici
1. La centralità del codice; 2. La organizzazione della parte speciale.
XII. Esemplificazione di riforma della parte speciale: una nuova tipologia dei delitti contro lo Stato
Composizione della Commissione:
Presidente: Prof. Avv. Carlo Federico Grosso.
Componenti: Dott. Giovanni Canzio, Avv. Fabrizio Corbi, Prof. Francesco Palazzo, Prof. Paolo Pisa, Prof. Avv.
Domenico Pulitano', Avv. Ettore Randazzo, Prof. Sergio Seminara, Prof. Avv. Filippo Sgubbi, Avv. Filippo
Siciliano, Dott. Giovanni Silvestri, Dott. Giuliano Turone, Dott. Vladimiro Zagrebelsky, Avv. Giampaolo Zancan.
Composizione del Comitato Scientifico della Commissione:
Coordinatore: Dott. Elisabetta Cesqui.
Componenti: Dott. Raffaele Cantone, Dott. Piero De Crescenzio, Dott. Ombretta Di Giovane, Dott. Giacomo Fumu,
Dott. Giovanni Masi, Dott. Andrea Padalino Morichini, Dott. Carlo Piergallini, Dott. Ancrea Vardaro.
Hanno partecipato ai lavori, personalmente o con loro delegati, il Capo di Gabinetto, il Capo dell'Ufficio Legislativo
e il direttore generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia.
OSSERVAZIONI PRELIMINARI SU OGGETTO E METODO DEL LAVORO.
In data 21 ottobre 1998 il Ministro di Grazia e Giustizia, premesso che "occorre procedere a una riforma del codice
penale che, muovendo dai lavori già svolti in materia dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, approfondisca
in particolare a) il tema delle sanzioni in una prospettiva che tenda a una loro razionalizzazione nel quadro del
contemperamento delle esigenze di prevenzione generale e di prevenzione speciale; b) il tema della riduzione
dell'ambito dell'intervento penale previa la ricognizione dei beni giuridici meritevoli di tutela penale e l'indicazione
di massima delle relative fattispecie di reato", ha proceduto alla costituzione di una Commissione di esperti
costituita da docenti universitari, da magistrati e da avvocati penalisti finalizzata alla "stesura di un documento nel
quale siano esposti gli orientamenti e le priorità di una riforma di parte generale e di parte speciale del codice penale
e siano inoltre prospettati gli eventuali criteri di un disegno di legge-delega coordinato fra l'altro con i provvedimenti
all'esame del Parlamento e con le elaborazioni che su aspetti collegati sono in corso da parte di altri gruppi di lavoro
costituiti presso il Ministero di Grazia e Giustizia (specie in materia di responsabilità penale delle persone giuridiche
e depenalizzazione)". Il termine per la conclusione dei lavori è stato fissato al 30 giugno 1999.
La Commissione, tenendo conto delle indicazioni contenute nel Decreto istitutivo, valutato che i tempi stretti
concessi alla stesura del documento non consentivano una elaborazione che affrontasse con la medesima attenzione
l'analisi dei temi di parte generale e di quelli di parte speciale, ha ritenuto di privilegiare il primo di tali aspetti e di
riservare per il momento ai profili di parte speciale considerazioni riguardanti soprattutto i criteri generali ai quali
dovrebbe ispirarsi la relativa disciplina. Ciò è apparso tanto più opportuno considerato che le indicazioni desumibili
dai disegni di legge in discussione al Parlamento, o già approvati dallo stesso, apparivano non del tutto univoche, e
soprattutto perché una analisi dettagliata della parte speciale presupponeva il consenso sulle scelte di fondo della
parte generale e sugli stessi criteri generali cui ispirare i dettagli di quella speciale.
La Commissione, seguendo le indicazioni ricevute dal Ministro, è partita dalla analisi dei lavori già svolti in materia
di riforma del codice penale dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, facendo particolare riferimento alla
proposta di legge-delega elaborata dalla Commissione Pagliaro (1992) ed al disegno di legge di riforma della parte
generale elaborato dalla Commissione Giustizia del Senato nel corso della XII legislatura (c. d. Progetto Riz),
ripresentato in sede referente alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 26 gennaio 1999 con
ampia relazione illustrativa.
In alcuni punti qualificanti la Commissione si è discostata dalle soluzioni suggerite in tali progetti, proponendo
soluzioni talvolta fortemente innovative, ad esempio in materia di disciplina delle sanzioni penali, nella attenzione
dedicata al problema delle garanzie in taluni settori di diritto penale sostanziale (es., realizzazione complessiva del
principio di colpevolezza, disciplina delle c.d. forme di manifestazione del reato, disciplina della imputabilità), nella
considerazione, tradizionalmente negletta, del problema della responsabilità delle persone giuridiche.
I lavori della Commissione si sono articolati attraverso la attività di ricerca, di approfondimento e di stesura di
documenti intermedi svolto da Sotto-commissioni costituite per settori, e discussione e revisione di tali documenti
da parte della Commissione plenaria. Approvate, nel corso di una serie di riunioni concluse il 12 giugno 1999,
singole determinazioni, nelle quali si è dato comunque atto delle divergenze di opinioni emerse su alcuni problemi
affrontati, la Commissione ha dato mandato al Presidente di procedere alla stesura della Relazione finale sulla base
del materiale complessivamente elaborato nelle Sotto-commissioni e nelle sedute plenarie. I documenti predisposti
dalle Sotto-commissioni, o prodotti da singoli commissari, anche se in alcuni punti superati dalla discussione
plenaria, sono stati raccolti in materiale numerato da 1 a 13.
I. NECESSARIA OFFENSIVITA' E IRRILEVANZA PENALE DEL FATTO.
Sia il tema della necessaria offensività del fatto, sia, soprattutto, quello della sua irrilevanza penale, sono destinati a
suscitare, e già hanno suscitato, discussioni e fermento fra i penalisti. La Commissione, dopo avere affidato ad una
Sotto-commissione una prima riflessione sui due temi, li ha poi discussi in seduta plenaria, formulando le proposte
'alternative' di seguito indicate, rinviando comunque ai risultati di un più ampio dibattito fra i tecnici, e soprattutto
fra i politici, le scelte definitive.
1. Necessaria offensività del fatto. La Commissione prende innanzitutto atto del fatto che il principio di necessaria
offensività costituisce ormai connotato pressochè costante dei più recenti progetti riformatori. Esso ha trovato
ingresso nello schema di legge-delega Pagliaro, che in uno dei primi articoli, collocato non a caso subito dopo la
enunciazione del principio di legalità, invita a "prevedere il principio che la norma sia interpretata in modo da
limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico" (art. 4 comma 1). Ed è stato enunciato a tutto campo nel
Progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione
Bicamerale: "non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia
determinato una concreta offensività".
La Commissione ritiene che, al di là delle opinioni specifiche di ciascuno sulle modalità di inserimento di tale
principio nel codice, le posizioni sopra enunciate esprimano la esigenza insopprimibile di ancorare, anche
visivamente, la responsabilità penale alla offesa reale dell'interesse protetto, nel quadro di un diritto penale
specificamente finalizzato a proteggere i (più rilevanti) beni giuridici, e centrato sulla tassativa descrizione di fatti
costituenti reato già di per sé costruiti in modo da assicurare, nei limiti del possibile, la punibilità di condotte
offensive dell'interesse protetto. Che di conseguenza il nuovo codice penale non possa rinunciare ad enunciare
espressamente fra i suoi capisaldi il principio secondo cui un fatto di reato, per risultare punibile, deve avere offeso
l'interesse tutelato dalla norma penale incriminatrice.
Divergenze si sono invece manifestate con riferimento alle modalità di configurazione della regola ed alle specifiche
conseguenze pratiche connesse alla introduzione della stessa. Queste divergenze hanno costituito l'inevitabile
riflesso delle differenti posizioni emerse in dottrina sul principio di offensività nel dibattito degli ultimi trent'anni.
Una parte della Commissione sostiene la necessità di introdurre nel codice penale il principio di necessaria
offensività del reato grosso modo nel modo in cui esso è stato formulato dagli estensori della Commissione
Bicamerale: non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato
concretamente la offesa dell'interesse protetto. Il significato di questa scelta è evidente. Si tende a cristallizzare in
una norma esplicita quanto una parte della dottrina ritiene già oggi desumibile dall'art.49 comma 2 c.p., con
l'obbiettivo di inserire la offesa fra gli elementi strutturali del reato, e consentire di conseguenza al giudice di
escludere la responsabilità penale ove dovesse accertare che un fatto, che pure riproduce gli elementi astrattamente
configurati dalla norma penale incriminatrice, non ha in concreto offeso il bene che tale norma era destinata a
proteggere.
L'importanza pratica di questa di questa impostazione è stata individuata da una parte dei componenti della
Commissione soprattutto sul terreno dei reati di pericolo, che, si è sostenuto, per risultare concretamente offensivi
dell'interesse tutelato devono per forza assumere la veste della reità a pericolosità concreta. Non è un caso che sul
solco della sopra menzionata interpretazione dell'art. 49 comma 2 c.p. una parte della dottrina, e della stessa
giurisprudenza, abbia sostenuto che già oggi i reati di pericolo astratto previsti dal codice penale Rocco, o
quantomeno la maggior parte di essi, devono essere intesi tutti come reati di pericolo concreto.
Altra parte della Commissione sostiene invece che il principio di offensività debba essere introdotto nel codice
penale come criterio di interpretazione, secondo il modello offerto dallo schema di legge-delega Pagliaro.
Muovendo dal presupposto secondo cui il contenuto offensivo deve essere espresso dalla struttura della fattispecie,
nella quale integralmente si identifica, si afferma che non vi è alcun spazio per ammettere un elemento costitutivo
aggiuntivo rispetto a quelli essenziali indicati dalla singola norma incriminatrice. L'offesa deve svolgere invece un
ruolo ermeneutico, sia pure essenziale e primario, per l'accertamento del significato e della portata della fattispecie.
Come è stato osservato, mentre per la concezione strutturale gli elementi descrittivi del reato concorrono insieme
alla offesa ad individuare l'area della tipicità, per la concezione interpretativa essi segnano il limite esterno della
tipicità, all'interno della quale l'offesa può operare come ulteriore criterio selettivo.
In questa prospettiva alcuni componenti della Commissione hanno, in particolare, esplicitamente sostenuto che
recepire il principio di offensività non deve significare presa di posizione contro la configurabilità di reati a pericolo
astratto, né deve attribuire al giudice la facoltà di sostituire alla struttura della fattispecie una struttura diversa.
2. La irrilevanza penale del fatto. La Commissione ha innanzitutto preso atto dei precedenti in materia e del
contesto in cui si è cominciato a parlare di attribuzione alla magistratura della possibilità di dichiarare improcedibili,
o non punibili, situazioni in cui elementi di marginalità potrebbero indurre a non considerare rilevante penalmente
un fatto nonostante la sua corrispondenza al modello di un reato.
Si è rilevato da un lato che l'ipotesi di irrilevanza del fatto è già presente nel nostro ordinamento limitatamente al
diritto minorile, ove l'art. 27 comma 1 D.P.R. 22 settembre 1998, n. 448 dispone che "durante le indagini
preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice
sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le
esigenze educative del minorenne".
Si è osservato dall'altro che il problema è diventato di attualità nel momento in cui alcuni disegni di legge,
nell'intento di contribuire al decongestionamento delle aule di giustizia, hanno previsto di dare rilievo alla
irrilevanza del fatto dapprima sotto la veste di causa di improcedibilità (disegno di legge C/4625, contenente
disposizioni in tema di definizione del contenzioso civile pendente), e successivamente di causa di non punibilità
(testo unificato delle proposte di legge n. 411, 4625 bis/C e abbinate: c.d. testo unificato Carotti), prevedendo che "1.
Per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena
pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando risulta la irrilevanza penale del fatto; 2.
L'imputato non è punibile quando rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato,
nonché le modalità della condotta, la sua accasionalità, valutata anche in relazione alla capacità a delinquere del reo,
e il grado di colpevolezza non giustificano l'esercizio della azione penale; 3. L'irrilevanza penale del fatto può essere
dichiarata solo se vi è stata la richiesta del pubblico ministero o dell'imputato. Se è stata esercitata l'azione penale
l'irrilevanza del fatto può essere dichiarata se l'imputato non si oppone".
Si è ulteriormente considerato che il disegno di legge-delega in materia di competenza penale del giudice di pace,
approvato dalla Camera dei Deputati e successivamente anche dalla Commissione Giustizia della Camera, prescrive
(art. 16 comma 1 lett. c) "la introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare
tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l'ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le
esigenze di lavoro, di studio, di famiglia, di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato".
Nonostante che l'istituto di maggiore rilievo, perché destinato ad operare in via generale sul terreno della giustizia
penale, sia stato stralciato dal testo unificato Carotti, e pertanto oggi la sua introduzione nel sistema penale sia
tutt'altro che imminente, la Commissione ha ritenuto di affrontare comunque i problemi aperti dalla prospettiva di
una sua possibile utilizzazione, tanto più che non mancano in Europa esempi di utilizzazione di istituti similari.
Una parte della Commissione si è espressa in termini del tutto contrari alla introduzione del nuovo istituto, a causa
della eccessiva discrezionalità che esso attribuirebbe alla magistratura, e dei problemi di costituzionalità che esso,
comunque venga definito, porrebbe con riferimento al principio di obbligatorietà della azione penale.
Altra parte della Commissione, pur non nascondendosi i problemi, ha assunto invece un atteggiamento di maggiore
apertura. Si è rilevato che l'istituto ha funzionato comunque bene in materia minorile. Si è soggiunto che se si
considerano le prassi seguite in sede di archiviazione (o di dichiarazione di 'inoffensività'), si constata che 'di fatto' il
criterio viene già usato con una certa ampiezza al di fuori da qualunque regolamentazione e da qualunque controllo,
per cui una sua disciplina contenuta e razionale potrebbe risultare positiva sul terreno della legalità. Si è affermato
che in fondo l'idea soggiacente al criterio della esiguità della offesa o della tenuità del fatto è quella della esclusione
dall'area del penalmente rilevante della fascia di criminalità bagatellare che ben può annidarsi all'interno di
fattispecie costruite in termini espressivi di un disvalore quantitativamente molto differenziato (come ad es. i reati
patrimoniali, i reati fiscali, nei quali fra l'altro l'utilizzazione di soglie quantitative di punibilità, sia pure tipizzate,
costituisce una costante). Si è sostenuto che i dubbi di incostituzionalità costituiscono un falso problema, in quanto il
principio di obbligatorietà della azione penale non esclude che l'ordinamento possa prevedere ipotesi specifiche e
predeterminate in cui l'obbligo del pubblico ministero è subordinato al contemperamento tra gli interessi della
giustizia ed interessi di altra natura, privatistici e pubblicistici, con la prevalenza dei secondi; è essenziale che tale
bilanciamento non possa avvenire in modo da pregiudicare i valori sottostanti al principio di obbligatorietà quale
garanzia di non discriminazione, e si moduli pertanto "sulla base di situazioni predeterminate dalla legge, di
categorie generali e non di casi in cui al potere politico sia attribuita la facoltà di impedire il promovimento
dell'azione penale per motivi contingenti e estemporanei".
Piuttosto, hanno osservato i componenti della Commissione non ostili alla introduzione del nuovo istituto, occorre
riflettere con attenzione sui limiti entro i quali esso (che, non si dimentichi, è comunque istituto 'di favore') può
essere utilizzato senza scardinare il sistema della responsabilità penale.
Al riguardo sono stati evidenziati alcuni requisiti: a) necessità di una rigorosa delimitazione dell'area applicativa
dell'istituto attraverso limiti quantitativi di pena edittale; b) per il giudizio in concreto di irrilevanza, considerazione
primaria degli elementi 'interni' al fatto: la particolare tenuità del fatto, scaturente dalla esiguità del danno o del
pericolo e dal grado della colpevolezza; c) la considerazione dei requisiti esterni al fatto, quali la occasionalità dello
stesso, o la prognosi in ordine alla sua non ripetibilità da parte dell'autore, dovrebbero essere costruiti come 'limiti
negativi' alla dichiarazione di irrilevanza nonostante la sussistenza dei requisiti indicati sub a) e sub b); d) possibilità
di allargare i criteri di valutazione a situazioni di non esigibilità in concreto di una condotta diversa.
Alcuni componenti della Commissione si sono dichiarati non contrari alla introduzione dell'istituto alla condizione
che sia configurato sul terreno del processo come causa di improcedibilità e non su quello del diritto penale
sostanziale come causa di non punibilità
II. SUPERAMENTO O MANTENIMENTO
DELLA DICOTOMIA DELITTI-CONTRAVVENZIONI.
La bipartizione dei reati in delitti e contravvenzioni ha costituito oggetto di ampia discussione prima in Sottocommissione, poi in Commissione.
Una parte dei componenti ritiene che sia giunto il momento di abolire le contravvenzioni, superando un modello che
lo schema di legge-delega Pagliaro ed il progetto di legge Riz avevano invece previsto di conservare, pur
contemplando incisive modificazioni in materia di pena (rispettivamente, semidetenzione in luogo dell'arresto,
eliminazione dell'arresto).
Le ragioni di questa proposta, tendente a semplificare il sistema dei reati depenalizzando le infrazioni veramente
bagatellari, e configurando come delitti tutte le altre, con esplicita articolazione nella veste dolosa e colposa
(differentemente punita) delle fattispecie per le quali si ritiene opportuna anche la ipotesi della responsabilità
colposa, possono essere sintetizzate nei seguenti profili: a) frequente irrazionalità e casualità delle scelte operate
nell'inserimento dei reati nell'una piuttosto che nell'altra categoria, rivelata fra l'altro dalla presenza di delitti puniti
con la sola multa e dalla collocazione fra le contravvenzioni di fatti di notevole gravità; b) appiattimento in una
unica cornice edittale delle condotte colpose e di quelle dolose; c) facile preda della prescrizione di contravvenzioni
di notevole rilevanza ma di lungo e complesso accertamento; d) frequente non esecuzione, o addirittura
ineseguibilità, delle pene irrogate, e conseguente significato meramente simbolico della previsione di numerose
contravvenzioni; e) inflazione delle previsioni di reati conseguente alla possibilità di ricorrere al modello
contravvenzionale.
Altra parte della Commissione giudica invece utile la conservazione del modello contravvenzionale. A sostegno di
questo assunto si sottolinea: a) il pericolo di un appesantimento eccessivo della categoria dei delitti a fronte della
difficoltà di realizzare una depenalizzazione che superi determinate soglie di incisività; b) la persistente validità del
modello contravvenzionale in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione
dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva
poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata, ecc.); c) la esistenza di contravvenzioni non
trasformabili agevolmente in delitti (es., contravvenzioni concernenti la sicurezza del lavoro), e che è opportuno
sottrarre comunque alla depenalizzazione allo scopo di continuare a sottoporle al controllo giurisdizionale; d) la
validità del modello di reato contravvenzionale individuato dallo schema di legge-delega Pagliaro nelle tre categorie
dei reati consistenti nella violazione di regole cautelari, dei reati integranti un irregolare esercizio di attività
sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza, e dei fatti di ridotta
offensività.
Né, si è soggiunto, ha pregio il riferimento alla prescrizione, che può essere agevolmente modulata in modo da
evitare una troppo agevole prescrittività delle contravvenzioni complesse, o alla frequente 'ineffettività' delle
sanzioni, che può essere anch'essa superata attraverso idonea disciplina. Si concorda comunque sulla eliminazione
della pena dell'arresto, e sulla sua sostituzione con pene diverse da quella detentiva carceraria secondo il modello
dello schema di legge-delega Pagliaro.
III. REALIZZAZIONE DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA.
1. Principi generali. L'individuazione del principio di colpevolezza quale uno dei principi fondamentali ed
inderogabili del diritto penale costituisce opinione comune in dottrina. La rilevanza costituzionale del principio è
stata affermata dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza n. 364/88. L'adeguamento completo al
principio di colpevolezza appare obbiettivo fondamentale d'una riforma del codice penale.
Per quanto concerne la struttura dell'imputazione soggettiva si ritiene valida la struttura di fondo del sistema vigente,
con le modifiche finalizzate alla piena attuazione del principio di colpevolezza, e con una semplificazione tendente
ad eliminare disposizioni ridondanti.
In questa prospettiva si ritiene di confermare: a) la previsione del dolo e della colpa come forme base
dell'imputazione soggettiva; b) l'esclusione della responsabilità penale nel caso di errore o ignoranza di fatto e nel
caso di errore o ignoranza incolpevole sull'illiceità del fatto secondo l'indirizzo dettato dalla Corte Costituzionale; c)
nell'ambito dei delitti, responsabilità per dolo, salvo l'espressa previsione di figure di delitto colposo; d) nell'ambito
delle contravvenzioni (se confermate: v. retro punto II), responsabilità indifferentemente per dolo o per colpa.
2. Dolo e colpa. Le definizioni del codice Rocco hanno contribuito più a far sorgere problemi che ad additare
soluzioni. La scelta che si pone in sede di riforma è fra la loro sostituzione con definizioni nuove e più idonee ad
orientare la prassi, ovvero la rinuncia a qualsiasi definizione legale, lasciando l'elaborazione degli istituti alla
razionalità interna della cultura giuridica.
L'opzione a favore di definizioni legislative è ritenuta preferibile per esigenze di certezza del diritto.
2.1. Questioni relative al dolo. Relativamente al dolo (forma più grave di colpevolezza e criterio normale di
imputazione soggettiva dei delitti) v'è sostanziale concordia sui tratti fondamentali: dolo significa volontà
consapevole di realizzazione del fatto illecito; la consapevolezza deve abbracciare tutti gli aspetti da cui dipende la
tipicità penale del fatto commesso.
L'ambito problematico, nella teoria e nella prassi, è il c.d. dolo eventuale.
Lo schema Pagliaro, con il richiedere (art. 12) una definizione di dolo "univocamente comprensiva del dolo
eventuale", si limita ad esprimere l'esigenza che l'imputazione per dolo sia estesa a fatti che l'agente si è
rappresentato non in termini di certezza, come conseguenza della propria condotta. In realtà l'esigenza di fondo, in
sede di riforma, non è quella di consolidare il già incontroverso ancoraggio normativo della figura del dolo
eventuale, ma, al contrario, quella di precisare i limiti di tale forma di dolo: la formula corrente della 'accettazione
del rischio' ha carattere essenzialmente retorico, e la prassi applicativa evidenzia il pericolo di slabbramenti della
figura del dolo, sia sotto il profilo definitorio, sia sotto il profilo probatorio e applicativo.
Si tratta allora di determinare le condizioni minime in presenza delle quali resti fondato il rimprovero di volontaria
realizzazione del fatto illecito, ancorchè la previsione dell'evento o (più in generale) la rappresentazione del fatto
non siano in termini di certezza. Alla luce dell'esperienza, il legislatore potrebbe utilmente stabilire: a) che occorre
comunque, per l'imputazione per dolo, una rappresentazione della realizzazione del fatto tipico in termini di alta
probabilità, e non di generica possibilità; b) che l'oggetto della rappresentazione, sia pure in termini di probabilità e
non di certezza, deve essere il fatto realizzato in concreto, e non una generica rappresentazione di qualcosa d'illecito.
2.2. Questioni relative alla colpa. Relativamente alla colpa lo schema di base resta quello della attribuzione di
responsabilità per avere realizzato il fatto con inosservanza di regole di comportamento aventi funzione cautelare.
Rispetto alla formula del codice Rocco, ed alla prassi che su di essa si è formata, si pongono diversi problemi:
a) Individuazione delle regole cautelari pertinenti al giudizio di colpa. Resta valido il modello vigente, nel quale
hanno rilievo sia regole 'non formalizzate' (di diligenza prudenza perizia), ricostruibili secondo i criteri della
prevedibilità e prevenibilità, sia regole tipizzate a livello normativo (inosservanza di leggi ecc.).
b) Questione della prevedibilità: la prevedibilità dell'evento (o meglio, di un fatto del tipo di quello in concreto
realizzato) deve o non deve essere considerata un autonomo elemento caratterizzante della fattispecie colposa, non
necessariamente assorbito nella violazione della regola cautelare? La rilevanza del tema è bene evidenziata da
vicende giudiziarie come quella dei processi relativi a tumori per esposizione ad amianto in anni remoti:
l'imputazione per omicidio colposo è sufficientemente fondata sulla violazione di regole cautelari generiche, relative
alla esposizione a polveri, o richiede la prevedibilità di eventi di morte da tumore, alla luce delle conoscenze
disponibili al momento del fatto?
c) Questione della prevenibilità: si può affermare la responsabilità per colpa quando risulti che l'evento non si
sarebbe evitato nemmeno tenendo una condotta conforme alla regola di diligenza?
d) Metro della colpa. Lo schema Pagliaro propone (art. 12) di formulare la definizione della colpa "in modo che in
tutte le forme di imputazione si fondino su di un criterio strettamente personale". L'indicazione, pur poco chiara,
sottende l'esigenza di ancorare la colpa ad un criterio non meramente oggettivo. A tal fine è sufficiente il criterio
dell'agente modello, diversificato per tipi di attività, o si può (si deve) riconoscere rilevanza a condizioni personali di
incapacità?
e) Metro della colpa relativamente alle attività professionali: il limite della colpa grave, previsto dal codice civile per
le prestazioni professionali di speciale difficoltà, vale anche in materia penale? Con motivazioni apparentemente
contrastanti, la prassi recepisce l'esigenza di una delimitazione della colpa per imperizia, che tenga conto delle
peculiari difficoltà di certe prestazioni. A livello normativo potrebbe essere espressamente sancito il principio che
eventuali limitazioni di responsabilità, previste in altri settori dell'ordinamento, valgono anche per il diritto penale.
f) Rischio consentito. Relativamente allo svolgimento di attività pericolose è affermazione comune che i confini del
rischio permesso dipendono da un bilanciamento d'interessi: da un lato l'interesse allo svolgimento dell'attività,
dall'altro la misura del rischio ad essa connesso (in funzione della natura e della probabilità di eventi lesivi). La
concretizzazione di tale bilanciamento rappresenta un punto critico (di incertezza) nella disciplina delle attività
pericolose.
Rispetto alla colpa, vengono in rilievo sistemi più o meno complessi di regole cautelari formalizzate da leggi,
regolamenti ecc.: vi è spazio, ove tali sistemi esistano, per ulteriori riferimenti ai criteri della colpa generica? In via
di principio sembra ragionevole tenere ferma la corrente risposta affermativa, con l'avvertenza che il riferimento alla
colpa generica non può essere adoperato per spostare le soglie del rischio accettabile che fossero riconoscibilmente
individuate dal legislatore con la determinazione di valori soglia o di altri parametri definiti.
La criticità del rapporto fra esigenze inderogabili di tassatività del precetto ed esigenze di tutela 'a tutto campo' è
bene esemplificata dal tipo di questioni esaminato dalla Corte Cost. 312/96 (rinvio della legge a 'misure tecniche,
organizzative e procedurali' necessarie per la riduzione al minimo del rischio rumore) . La soluzione interpretativa
proposta dalla Corte (riferimento agli standard generalmente adottati nei diversi settori), volta a salvare la
determinatezza del precetto, rischia di disperdere la dimensione 'normativa' propria delle regole cautelari, la cui
funzione è di controllo (non dunque di mera convalida) delle prassi. Si pone qui l'interrogativo radicale, se clausole
generali come quella della 'riduzione al minimo' di dati rischi possano trovare diretta applicazione in sede penale,
senza la mediazione di più puntuali specificazioni da parte di fonti autorizzate, che traducano la direttiva generale in
precetti sufficientemente determinati.
3. La disciplina dell'errore.
3.1. L'errore sul precetto. La disciplina dell'errore sul precetto, rimodellata dalla Corte Costituzionale con la
sentenza n. 364/88, rappresenta un ragionevole punto d'equilibrio. L'errore (o ignoranza) sull'illiceità del fatto
commesso esclude (per vincolo costituzionale) la colpevolezza, se si tratta di errore o ignoranza incolpevole.
La questione (su cui v'è contrasto sia in dottrina che in giurisprudenza) se occorra avere riguardo alla
consapevolezza dell'illiceità penale o della generica illiceità giuridica, dovrebbe essere risolta nel senso di ritenere
sufficiente, per affermare la colpevolezza dell'agente, la possibilità di conoscere l'illiceità giuridica del fatto
commesso Andare oltre, verso una più ampia rilevanza scusante dell'errore (anche 'evitabile') sul precetto,
rischierebbe di indebolire le condizioni d'efficacia generalpreventiva dell'ordinamento penale, senza che ciò trovi
giustificazione in serie esigenze di garanzia dell'individuo da interventi arbitrari della potestà punitiva. L'attribuzione
di responsabilità per dolo (cioè secondo la forma più grave di colpevolezza, e con conseguenze sanzionatorie
consistenti) appare sufficientemente fondata sulla volontaria realizzazione del fatto, sempre che l'illiceità di questo
fosse riconoscibile dall'agente.
Resta ovviamente prioritaria l'esigenza di ridurre al minimo lo spazio di credibili errori sull'illiceità mediante una
adeguata selezione e formulazione delle fattispecie di reato.
3.2. L'errore sul fatto. La rilevanza dell'errore 'essenziale' sul fatto costitutivo di reato è il riflesso logico dei principi
sul dolo e sulla colpa, ed è destinata ad essere riconosciuta anche indipendentemente da una sua eventuale espressa
riaffermazione. L'errore sul fatto esclude il dolo, non esclude la colpa se dovuto a colpa, la esclude se incolpevole.
Un problema particolare si pone peraltro per l'errore su legge extrapenale, trattandosi di questione controversa, con
una contrapposizione fra giurisprudenza e dottrina. In una prospettiva di riforma non interessa tanto prendere
posizione su quale sia l'interpretazione corretta del vigente art. 47 u.c., quanto individuare la soluzione preferibile,
avendo riguardo innanzi tutto ai vincoli posti dal principio di colpevolezza, e trovare una formulazione normativa
capace di trasmettere un messaggio chiaro, superando le attuali incertezze interpretative. Anche se, teoricamente,
una norma espressa potrebbe apparire a qualcuno non necessaria, una disciplina specifica sembrerebbe opportuna
nella prospettiva della necessità di una correzione della prassi, con un messaggio puntuale in grado di correggere i
principi giuridici affermati in materia dalla giurisprudenza, probabilmente per ragioni di semplificazione probatoria.
L'obiettivo è di evitare che, in sede applicativa, vengano sottratti alla applicazione dei principi generali tipi di errore
che incidono sulla comprensione del fatto, ricadendo su profili giuridici o comunque 'valutativi' da cui dipende la
tipicità penale dello stesso.
3.3. Errore sugli elementi differenziali tra più reati ed errore sulle cause di giustificazione. In tema di errore "sugli
elementi differenziali tra più reati" la soluzione concordemente ritenuta preferibile (e già leggibile, però non senza
incertezze, nel vigente art. 47, 2° comma) è quella della punibilità per il reato meno grave (schema Pagliaro, art. 15).
I criteri generali di disciplina dell'errore vanno tenuti fermi anche in materia di errore sulle cause di giustificazione,
come già nel sistema vigente (art. 59) e come propone lo schema Pagliaro (art. 15).
4. Eliminazione delle residue ipotesi di responsabilità oggettiva o anomala.
4.1. Linee generali e specifiche della riforma. L'indirizzo di "escludere qualsiasi forma di responsabilità
incolpevole" (schema Pagliaro, art. 12) esprime una posizione comune della dottrina, e costituisce la doverosa
attuazione di un principio affermato dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 364/88 e 1085/88). Come è noto, in
proposito la Corte ha affermato, in un importante obiter dictum della sentenza n. 364/88, che pur non essendo posto
dall'art. 27 Cost. un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, "va, di volta in volta, stabilito quali sono gli
elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere 'coperti' almeno dalla colpa dell'agente perchè
sia rispettata la parte del disposto di cui all'art. 27, primo comma, Cost., relativa al rapporto psichico tra soggetto e
fatto". Nel modello delineato dalla Corte, l'inserzione fra i presupposti della punibilità di elementi meramente
obiettivi, non toccati dalla colpevolezza dell'agente, potrebbe mantenere un ambito residuale ed eccezionale,
all'interno di un sistema nel quale siano comunque assicurate le condizioni dell'imputazione per un fatto illecito
colpevolmente realizzato.
Dalla funzione garantista del principio di colpevolezza deriva dunque -per vincolo costituzionale- l'inaccettabilità
dell'imputazione meramente oggettiva di elementi i quali siano a) significativi rispetto all'offesa, nel senso che
(anche) da essi dipenda la realizzazione dell'offesa o messa in pericolo dell'interesse protetto, e quindi la
riconoscibilità dell'illecito; b) oppure significativi rispetto alla pena, nel senso che da essi venga fatta dipendere la
misura della sanzione: in un ordinamento conforme al principio di colpevolezza, condizioni obiettive di maggiore
punibilità non possono avere spazio, come del resto il legislatore ha (parzialmente) riconosciuto superando il criterio
della rilevanza meramente obiettiva delle circostanze aggravanti.
L'unica categoria ammissibile di presupposti 'meramente oggettivi' della responsabilità è ravvisabile in condizioni di
punibilità che, accedendo ad un fatto illecito già riconoscibile come tale indipendentemente dalla condizione,
delimitino ulteriormente la risposta penale per ragioni 'estrinseche' d'opportunità.
Una riforma ispirata ai criteri sopra enunciati dovrebbe comportare:
a) la eliminazione di disposizioni (tipo art. 42, 3° comma, del vigente codice) legittimanti forme d'imputazione
dell'illecito 'altrimenti' che per dolo o per colpa.
b) la modifica della disciplina delle condizioni obiettive di punibilità. La disposizione vigente (art. 44) è una formula
tautologica, che equivale ad una sorta di riconoscimento dell'esistenza di condizioni oggettive di punibilità, ma non
pone limiti contenutistici espliciti alla possibilità del legislatore di prevedere condizioni 'operanti oggettivamente', e
nemmeno indica all'interprete delle disposizioni di parte speciale criteri idonei a far riconoscere le condizioni
oggettive, distinguendole da altri presupposti della punibilità. A livello di parte generale, una disposizione sulle
condizioni obiettive di punibilità può avere un concreto significato normativo in quanto indichi un criterio di
identificazione degli elementi riconducibili a tale categoria.
c) l'abrogazione della figura generale della preterintenzione e (anche mediante una clausola abrogativa di carattere
generale) delle singole figure di delitti preterintenzionali e di delitti aggravati dall'evento, nelle quali l'imputazione
dell'evento aggravante non sia conseguenza prevedibile (colposa) della commissione del reato-base doloso, ma sia
fondata sul mero criterio del versari in re illicita. Realizzata questa operazione, si tratta di disciplinare in sede di
parte speciale ipotesi di eventi di morte, di lesione o di 'disastro' cagionati involontariamente mediante condotte
dolosamente aggressive o pericolose per l'incolumità delle persone o di beni collettivi, previsti espressamente sotto il
profilo della responsabilità per colpa, e muniti di un trattamento sanzionatorio adeguato alla peculiare forma di
colpevolezza: più grave rispetto alle altre ipotesi di colpa, ma in misura comunque agganciata al carattere colposo
dell'evento realizzato.
d) l'abrogazione della attuale disciplina (art. 83) della aberratio delicti, con conseguente riconduzione ai principi
generali sulla responsabilità per colpa.
e) nella parte speciale e nella legislazione penale speciale: a) radicale eliminazione di ogni ipotesi di condizioni
obbiettive di maggiore punibilità; b) abrogazione di disposizioni che escludano l'esigenza della colpevolezza con
riguardo ad elementi del fatto costitutivo di reato (dai quali dipenda l'offesa o messa in pericolo dell'interesse
protetto); c) riforma delle figure di reato (in particolare, dei reati fallimentari) in cui attualmente sia attribuito un
ruolo centrale a condizioni obiettive di punibilità o di maggiore punibilità.
f) in materia di aberratio ictus: sono stati prospettati argomenti sia per l'eliminazione dell'istituto, con conseguente
applicabilità dei criteri generali, sia per il mantenimento della disciplina attuale.
4.2. In particolare sul reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti e sul concorso dell'estraneo nel
reato proprio. Sia l'attuale disciplina della responsabilità per reato diverso da quello voluto (art. 116) interpretata
secondo le indicazioni della Corte Costituzionale (sentenza n. 42 del 1965), sia la proposta di modifica dello schema
Pagliaro (agevolazione colposa del reato realizzato da altri), presentano i medesimi scarti dal modello normale
dell'imputazione soggettiva: una responsabilità che strutturalmente è per colpa viene imputata a titolo di dolo,
comporta una pena la cui misura è agganciata (sia pure con il correttivo di una forte diminuzione) alla pena prevista
per il reato doloso realizzato, e l'ambito della responsabilità strutturalmente colposa copre anche delitti non previsti
fra le figure di reato colposo.
Tali modelli di disciplina, poco conciliabili con il principio di colpevolezza, non sono nemmeno giustificati da
esigenze di politica criminale. L'estensione dell'ambito della responsabilità sulla base della colpa in relazione a fatti
non previsti come reati colposi, appare incoerente con la selezione delle figure di delitto colposo operata dal
legislatore 'di parte speciale'. La mancata punizione di eventuali contributi colposi alla realizzazione di eventi dolosi,
come tali ascritti a responsabilità degli autori, non aprirebbe alcuna lacuna rispetto alle esigenze di tutela
generalpreventiva, così come valutate dal legislatore della parte speciale. Con riguardo ad eventi previsti anche
come delitti colposi, realizzati dolosamente da altri, è conforme al sistema l'attribuzione di responsabilità a titolo di
colpa al partecipe che abbia dato un contributo colposo, con applicazione della pena prevista per il delitto colposo.
Un aggravamento di pena, comunque agganciato alla pena base per il delitto colposo, potrebbe essere giustificato
(soltanto) quando la condotta di concorso nel reato voluto costituisca una consapevole violazione di una regola
cautelare volta a prevenire l'evento realizzato, e siano in gioco interessi di particolare importanza.
In concreto, il problema si rivela essere 'di parte speciale': come dimostra la casistica applicativa dell'art. 116 cod.
pen., si tratta essenzialmente di assicurare adeguata tutela all'integrità o alla libertà della persona, in relazione a
prevedibili sviluppi di azioni esecutive di determinati delitti. Meglio, allora, rinunciare a clausole generali di
estensione della punibilità secondo modelli 'anomali', e riportare il problema alla parte speciale. Individuate le
situazioni tipiche per le quali si ritenga opportuno intervenire (delitti contro la persona, rapina, eventuali altre ipotesi
'nominate') si potrà provvedere o con la previsione 'mirata' di eventuali figure specifiche di agevolazione colposa, o
con circostanze aggravanti speciali, evitando in ogni caso di agganciare le pene per la realizzazione colposa a quelle
previste per la realizzazione dolosa.
Mentre, se proprio si volesse mantenere una (sostanzialmente inutile) disciplina di carattere generale, essa non
potrebbe che riflettere nella fattispecie i principi generali sulla responsabilità soggettiva (ciascuno dei concorrenti
risponde nei limiti della sua colpevolezza; se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei
concorrenti, questi ne risponde quando nel suo comportamento sia ravvisabile almeno la colpa, ed il fatto sia
previsto dalla legge come delitto colposo).
Analogamente, in materia di concorso dell'estraneo nel reato proprio la Commissione, superato il testo proposto
dallo schema di legge-delega Pagliaro (non risultando chiaro come si concili la persistente vigenza della fattispecie
speciale con il collegamento al principio di colpevolezza), ritiene che l'unico modo di realizzare senza ambiguità il
principio di colpevolezza sia di procedere alla abrogazione pura e semplice dell'art. 117 c.p., sottoponendo la
disciplina di tale tipo di concorso di persone ai principi generali sulla responsabilità soggettiva.
4.3. Reati a mezzo stampa o radiotelevisione. La vigente disciplina dei reati a mezzo stampa (artt. 57 s.) presenta gli
stessi caratteri strutturali dell'art. 116: anche qui un meccanismo 'di parte generale' estende l'ambito della
responsabilità sulla base della colpa in relazione ad eventi non previsti come reati colposi nella parte speciale, ed
aggancia la pena per un fatto strutturalmente colposo a quella prevista per delitti dolosi.
Lo schema Pagliaro (art. 31) si muove nel solco della disciplina vigente, con importanti innovazioni: la
considerazione congiunta della stampa e della radiotelevisione; la previsione - quali destinatari della norma penale
accanto al direttore o vicedirettore responsabile - di soggetti 'delegati' a svolgere la funzione di controllo; una
accentuata riduzione di pena per il caso di omesso impedimento colposo.
Il problema concerne sostanzialmente un gruppo delimitato di reati d'opinione previsti nella parte speciale come
reati dolosi. Per ciascuno di essi può essere posta autonomamente la questione se sia opportuno estendere la
responsabilità penale a soggetti 'garanti', incriminando condotte di mancato impedimento colposo. Un meccanismo
'di parte generale' sottende una risposta globalmente affermativa, e prefigura un modello tendenzialmente accentrato
di impresa giornalistica o radiotelevisiva, caratterizzato dalla presenza obbligatoria di poteri di controllo gerarchico.
Appare preferibile lasciare la soluzione alla disciplina di singole figure di reato, o ad una organica riconsiderazione
della legislazione sui mezzi di comunicazione. Se proprio si ritiene di mantenere un meccanismo unitario nel codice
penale, occorre: rendere effettivo l'aggancio al criterio della colpa, prevedere per il mancato impedimento colposo
una pena svincolata da quella prevista per il fatto doloso, ed evitare di bloccare, con l'imposizione di un modello di
responsabilità necessariamente accentrata al vertice, le opzioni relative alla disciplina dell'impresa giornalistica o
radiotelevisiva.
4.4. Le circostanze del reato. Lo schema Pagliaro mantiene il criterio della colpa per l'imputazione delle aggravanti,
e lo estende alle attenuanti nel senso di attribuire rilevanza alle attenuanti "supposte per errore non dovuto a colpa".
Si tratta d'un adeguamento a esigenze imposte dal principio di colpevolezza, da considerare positivamente. Una
compiuta valutazione delle soluzioni prospettabili non può essere tuttavia fatta se non nell'ambito di una revisione
complessiva della disciplina delle circostanze, anche con riguardo al profilo sanzionatorio.
IV. REATI OMISSIVI E POSIZIONI DI GARANZIA
NELL'AMBITO DI ORGANIZZAZIONE COMPLESSE.
1. I reati omissivi. L'indirizzo di fondo dovrebbe essere nel senso di una forte selezione delle figure di reato
omissivo, per la più penetrante incidenza dei comandi di agire nella sfera di libertà dei destinatari e per il peculiare
rischio di forzatura dei criteri della responsabilità personale. Da ciò la opportunità di uno speciale fondamento della
responsabilità per omissione, da ricercare in esigenze non altrimenti soddisfacibili di tutela di beni giuridici
importanti, e la conseguente necessità di una costruzione particolarmente attenta delle fattispecie di reato omissivo,
che ne assicuri, ad un tempo, la 'tenuta' garantista e la funzionalità generalpreventiva.
1.1. I reati omissivi propri. Nei casi in cui la fattispecie di reato omissivo è autonomamente e compiutamente
configurata dal legislatore di parte speciale (reati omissivi propri), il problema fondamentale, per quanto concerne la
costruzione delle fattispecie, attiene alla determinazione dei presupposti del dovere di agire penalmente sanzionato.
L'indirizzo di fondo, per il legislatore di parte speciale, è che il comando d'agire sia agganciato (con la chiarezza
imposta dal principio di legalità) a situazioni tipiche ben profilate e di significato pregnante, tali cioè da evocare
immediatamente il problema dell'attivarsi in un certo modo per la salvaguardia di riconoscibili interessi, e da
costituire perciò, ad un tempo, il fondamento del carattere offensivo dell'omissione, e un solido punto di riferimento
per il giudizio sulla colpevolezza dell'omittente.
1.2. Reati commissivi mediante omissione.
1. Il problema dell'individuazione delle posizioni di garanzia rilevanti. Secondo il modello generalmente adottato
(anche dal codice Rocco, nell'interpretazione ormai consolidata) il presupposto dell'obbligo d'attivarsi (di
'impedimento dell'evento') dipende da una 'posizione di garanzia' il cui fondamento non è dato dalla norma penale 'di
parte speciale', ma questa recepisce come rilevante ai fini dell'equiparazione del non impedimento alla realizzazione
positiva del fatto. Il rispetto del principio di legalità, e comunque esigenze di certezza del diritto, esigono che le
posizioni di garanzia penalmente rilevanti abbiano fondamento legale.
I progetti di riforma mantengono la struttura formale della disciplina, che affida ad una disposizione di parte
generale il compito di dettare il criterio generale di individuazione delle posizioni di garanzia penalmente rilevanti,
fondamentalmente con rinvio a figure disciplinate da altri settori dell'ordinamento. Nello schema Pagliaro si propone
(art. 11) di introdurre una distinzione fra obblighi di garanzia ed obblighi di sorveglianza, limitando la rilevanza
penale di questi ultimi ai soli casi specificamente previsti dalla legge.
Il modello vigente, che comporta un rinvio del diritto penale ad altri settori dell'ordinamento mediante una
disposizione costruita come clausola generale, tende ad assicurare coerenza e completezza del sistema di tutela, a
prezzo però di un deficit di determinatezza e di rinuncia a selezionare le posizioni di garanzia rilevanti secondo
valutazioni specificamente penalistiche.
Può essere opportuno cercare di individuare, preliminarmente alla definizione di formule normative, quali siano le
posizioni di garanzia che appaia necessario selezionare per una adeguata tutela dei beni penalmente protetti, o delle
quali sia opportuno discutere.
Un abbozzo di casistica, suscettibile di integrazioni, può essere il seguente:
a) Posizioni di protezione nei confronti di persone incapaci (minori, infermi, soggetti che si siano affidati a un
esperto nello svolgimento di attività rischiose).
b) Posizioni di controllo su fonti di pericolo. Viene qui in rilievo, in particolare, la gestione di attività pericolose da
parte di organizzazioni complesse, di natura imprenditoriale o anche non imprenditoriale. Gli interessi rilevanti sono
quelli dell'incolumità individuale, della sicurezza individuale e collettiva, della tutela dell'ambiente. Nella medesima
prospettiva si inquadra il problema della custodia di cose che possano costituire un pericolo, nonché quello della
rilevanza della attività pericolosa precedente.
c) Funzioni di gestione di affari altrui (ruoli di direzione, amministrazione e controllo entro persone giuridiche, e
simili).
d) Svolgimento di attività terapeutica, o di funzioni relative al soccorso di privati o pubblici infortuni.
e) In tutti gli ambiti sopra indicati si pone il problema dell'impedimento di fatti illeciti ad opera di terze persone, che
ricorre con profili peculiari relativamente ai corpi di polizia.
2. Il problema della causalità dell'omissione. Sul piano sistematico, la disciplina delle posizioni di garanzia dovrebbe
essere sganciata dal problema della causalità, cui nel codice Rocco è collegata. Le posizioni di garanzia determinano
non già la causalità, ma la tipicità dell'omissione 'non impeditiva'.
Circa i presupposti 'materiali' della causalità, dovrebbero valere i criteri generali.
Ciò comporta l'esigenza di un ripensamento, e della eventuale correzione con una disposizione ad hoc dell'indirizzo
giurisprudenziale che afferma la causalità dell'omissione, anche quando l'impedimento dell'evento si sarebbe
ottenuto con un grado di probabilità lontano dalla certezza. Alle possibili lacune di tutela, di fronte ad
inadempimenti colpevoli ma dei quali sia dubbia la rilevanza causale ('non impeditiva'), si potrebbe ovviare con la
previsione di figure di reato omissivo proprio, di mera condotta (eventualmente con la condizione di punibilità del
prevedibile verificarsi dell'evento lesivo, ma con livello sanzionatorio comunque dimensionato secondo il disvalore
della condotta omissiva).
Con riguardo alla disciplina vigente (art. 40 cpv.) del reato commissivo mediante omissione, un indirizzo dottrinale
sostiene che essa concerne i soli reati con evento naturalistico. Tale delimitazione è di fatto disattesa dalla
giurisprudenza, e non poggia su ragioni sostanziali: non la struttura dei fatti da impedire, ma la funzione delle
posizioni di garanzia è il criterio razionale di determinazione dell'ambito della responsabilità omissiva.
2. Le posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse. Nel ridisegnare i principi generali in materia
di responsabilità penale appare opportuno definire i principi generali sui 'soggetti responsabili' nelle organizzazioni
complesse (impresa et similia), quale che sia poi la sede opportuna per la loro formulazione. La previsione nel
codice penale dei principi portanti del sistema servirebbe a dare fondamento più certo e maggiore coerenza a
soluzioni che, già oggi sostenibili e sostenute, sembrano dar corpo ad una sorta di diritto giurisprudenziale, insicuro
nei fondamenti e non privo di aspetti controversi.
I problemi fondamentali sono i seguenti: a) se mantenere, modificare o abbandonare il sistema che individua come
posizione di garanzia fondamentale quella di soggetti 'al vertice' dell'organizzazione; b) se e come costruire un
sistema di posizioni di garanzia a più livelli; c) quali debbano essere l'ambito e le condizioni di rilevanza della
delega di funzioni.
Su questi punti esiste una copiosa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, dalla quale è dato desumere un
modello passabilmente accettabile ed unitario, anche se non privo di incertezze, e del quale non è indicato con
chiarezza il fondamento normativo. A livello legislativo, il più significativo testo di riferimento è la disciplina
introdotta dal d.lg. 626/94 e successive modificazioni relativamente alla sicurezza del lavoro.
Criterio fondamentale per la determinazione delle posizioni di garanzia nelle organizzazioni complesse deve essere
quello della corrispondenza fra poteri e doveri. La garanzia dei beni in gioco, là dove esiga la previsione di doveri di
attivarsi, non può che essere affidata a soggetti i quali abbiano il potere (giuridico e fattuale) di assicurare
l'adempimento.
Ne derivano i seguenti corollari (relativamente all'ambito delle posizioni di garanzia, impregiudicata l'esigenza che
la responsabilità penale sia ulteriormente delimitata in funzione della soggettiva colpevolezza):
a) mantenimento del sistema che individua il garante primario nel soggetto al vertice dell'organizzazione, munito del
potere (e del correlativo dovere) di organizzare le strutture e l'attività in modo adeguato alla salvaguardia degli
interessi in gioco.
b) determinazione del tipo di garanzia dovuta dal soggetto al vertice, mediante la selezione di un ristretto nucleo di
adempimenti 'non delegabili' propri del ruolo di direzione complessiva dell'organizzazione. Il riferimento alla previa
valutazione dei rischi ed alla programmazione generale della sicurezza, che sta alla base del sistema del d. lg.
626/94, è un modello che può essere opportunamente generalizzato per qualsiasi rischio al quale interessi
penalmente protetti siano esposti in relazione all'esistenza ed all'attività dell'organizzazione; la garanzia dovuta dal
soggetto al vertice, rispetto agli interessi penalmente protetti, sta nella organizzazione generale della sicurezza sulla
base di una adeguata informazione. Per quanto concerne gli aspetti tecnici delle valutazioni e delle misure da
programmare, resta ferma la possibilità di avvalersi di soggetti tecnicamente qualificati (la cui cooperazione alla
valutazione dei rischi, nel sistema del d. lg. 626/94, è anzi obbligatoria). Il dovere 'non delegabile' del soggetto al
vertice consiste nell'assicurare le condizioni di idoneo svolgimento del lavoro dei tecnici, nel verificarne
l'effettuazione, e nell'adottare le misure organizzative conseguenti.
c) identificazione dell'organizzazione cui riferire la posizione di garanzia, avendo riguardo non alla forma giuridica
di per sé considerata (struttura societaria) ma alla effettiva articolazione organizzativa e di potere (rilevanza della
'direzione unitaria' di gruppi di società, nell'ambito e nella misura in cui sia esercitata; rilevanza delle diverse
articolazioni dotate di sufficiente autonomia finanziaria e tecnico - funzionale, come già oggi nel sistema del d.lg.
626/94).
d) correlazione fra poteri e responsabilità ai diversi livelli della struttura: ai compiti (decisionali, operativi, di
consulenza) assegnati a ciascun livello, dal cui esercizio dipende la salvaguardia di beni penalmente protetti, deve
corrispondere una specifica posizione di garanzia, secondo il modello a più stadi oggi espressamente previsto in
materia di sicurezza del lavoro.
e) ammissibilità della delega indipendentemente dalle dimensioni dell'organizzazione. Ciò che interessa, in vista
della tutela dei beni giuridici, non è la 'necessità' della delega, ma l'idoneità del sistema organizzativo adottato. In via
di principio devono ritenersi ammissibili, in quanto possano essere ugualmente funzionali per la protezione degli
interessi in gioco, modelli diversi di ripartizione di poteri: la scelta fra di essi compete a chi abbia la responsabilità
complessiva dell'organizzazione. Ai diversi modelli organizzativi corrisponderà un diverso ambito e un diverso
rapporto (che potrà essere di concorrenza o di reciproca esclusione) fra i doveri dei diversi soggetti del sistema. La
questione interessa, in particolare, la ripartizione dei poteri di spesa: limitazioni di poteri di spesa non ostano alla
valida attribuzione di altri poteri e dei correlativi doveri, e correlativamente ogni riserva di poteri di spesa definisce
un ambito di residua (potenziale) responsabilità del delegante. L'esigenza che la delega sia espressa, affermata da
una parte della giurisprudenza, appare superabile dove vi sia l'effettiva assunzione di dati compiti implicanti
problemi di salvaguardia degli interessi penalmente protetti.
Nello schema Pagliaro viene proposta (art. 11) una distinzione fra obblighi di garanzia e obblighi di sorveglianza.
Per questi ultimi si prevede una rilevanza più limitata: la loro violazione non fonderebbe una responsabilità 'per
omesso impedimento', ma verrebbe in rilievo ove 'espressamente prevista come reato' (omissivo proprio, sembra di
capire). Tale distinzione, estranea al diritto vigente e vivente, eliminerebbe le attuali incertezze circa i contenuti dei
doveri di vigilanza, e i conseguenti rischi di dilatazione della responsabilità secondo una logica di 'responsabilità di
posizione'; per altro verso, comporterebbe delimitazioni della responsabilità penale non facilmente giustificabili, alla
luce della garanzia affidata a ruoli il cui esercizio sia caratterizzato in modo pregnante anche da doveri di vigilanza.
Più razionale appare un sistema che continui a considerare il dovere di vigilanza, là dove previsto, come un aspetto
essenziale della garanzia dovuta dai diversi ruoli, che assuma però contenuti ben delimitati in relazione ai compiti
propri di ciascun garante. Per il soggetto al vertice, in particolare, il dovere di vigilanza dovrebbe rientrare nel
nucleo indelegabile del dovere di buona organizzazione.
V. LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE.
La disciplina vigente delle cause di giustificazioni, in larga misura condivisibile, solleva alcuni problemi di migliore
definizione e tipizzazione delle singole fattispecie esimenti.
Lo schema di legge-delega Pagliaro, seguendo l'orientamento di una parte della dottrina, ha ritenuto di dovere
distinguere la categoria delle esimenti nelle due sottospecie delle cause (oggettive) di giustificazione (art.16) e delle
cause soggettive di esclusione della colpevolezza (art. 17). Questa differenziazione, che suscita problemi pratici
soprattutto con riferimento all'istituto (sdoppiato) dello stato di necessità, è stata criticata da una parte della
Commissione, che ha giudicato preferibile mantenere l'impianto unitario del codice in vigore.
1. L'esercizio del diritto, l'adempimento di un dovere, l'ordine illegittimo vincolante.
Le figure dell'esercizio di un diritto e dell'adempimento di un dovere non sollevano problemi di rilievo. La riforma
dovrebbe di conseguenza confermare la disciplina vigente.
Con riferimento all'ordine illegittimo vincolante occorrerebbe procedere ad una tipizzazione, ed eventuale
ridimensionamento (all'interno dei tradizionali settori della gerarchia militare, dei corpi civili dello Stato organizzati
militarmente e degli ausiliari della giustizia), delle ipotesi in cui opera il principio della insindacabilità dell'ordine.
Per esigenze di chiarezza sarebbe d'altronde opportuno enunciare espressamente che la insindacabilità concerne
soltanto la illegittimità sostanziale, e che la manifesta criminosità dell'ordine obbliga il subordinato a non eseguirlo,
soggiungendo che la percezione di una criminosità comunque non manifesta obbliga (o in ogni caso autorizza) a
rifiutare l'esecuzione dell'ordine.
Quanto al tema dei limiti della dipendenza gerarchica dei dipendenti civili dello Stato disciplinata dagli artt. 16 e 17
D.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, la Commissione si è domandata se sia opportuno mantenere il principio della necessaria
esecutività dell'ordine palesemente illegittimo reiterato per iscritto.
Tradizionalmente l'ordine privato viene escluso dal novero delle esimenti. Al riguardo si può comunque osservare
che delle due l'una: o il contenuto dell'ordine è conforme alle leggi, ed allora deve (o può) essere eseguito, o non è
conforme alle leggi, ed in caso di esecuzione comporta responsabilità, a seconda dei casi penale o civile, sia a carico
di colui che lo ha impartito, sia a carico di colui che lo ha eseguito. Lo schema di legge delega Pagliaro, nel tentativo
di dare rilievo alla situazione di disagio in cui si può venire a trovare l'impiegato privato che riceve un ordine,
prevede sotto il profilo delle cause soggettive di esclusione della responsabilità "l'ordine di un privato rivestito di
un'autorità specificamente riconosciuta dalla legge, quando l'ordine si riferisca ad attività inerenti al rapporto di
dipendenza e l'agente confidi ragionevolmente nella sua liceità" (art. 17 n. 2). In realtà in tale caso non è tanto
l'esistenza dell'ordine e della posizione di subordinazione a funzionare come causa di esclusione della
riprovevolezza soggettiva, quanto "la ragionevole fiducia nella sua liceità", cioè, in ultima analisi, l'erronea opinione
di liceità di un ordine invece illegittimo. Si tratta pertanto di una (opportuna) estensione dell'ambito dell'errore
rilevante, che, se riconosciuta, non si vede tuttavia perché non dovrebbe diventare principio generale in materia di
ordine dell'autorità.
2. Difesa legittima e stato di necessità. La disciplina vigente della difesa legittima e dello stato di necessità, in
larga misura esaustiva, esige alcune precisazioni in parte dirette a dare veste formale a quanto risulta comunque
pacificamente sostenuto in sede interpretativa, in parte rivolte a risolvere problemi allo stato non risolti.
Occorrerebbe in particolare:
a) chiarire se le due esimenti operano oggettivamente sulla linea della disciplina generale attualmente tracciata
dall'art. 59 comma 1 c.p., ovvero se la loro efficacia sia subordinata alla percezione della situazione di pericolo;
b) definitivamente superato il concetto della c.d. 'proporzione fra i mezzi', chiarire che la proporzione fra i beni deve
essere valutata diversamente nella difesa legittima e nello stato di necessità in considerazione della differente
posizione in cui si trovano i titolari degli interessi contrapposti nelle due situazioni (tema affrontato dallo schema
Pagliaro, che nell'art. 16 nn.3 e 4 ha distinto il modo di valutare la proporzione nelle due cause di giustificazioni);
c) chiarire in quale misura il requisito del 'pericolo non altrimenti evitabile' rilevi anche nella difesa legittima;
d) nella difesa legittima prevedere che la scriminante non operi nel caso in cui l'aggressione sia stata suscitata ad arte
allo scopo di potere colpire impunemente l'aggressore (in questo senso si è pronunciato lo schema di legge-delega
Pagliaro);
e) in tema di stato di necessità, a fronte dei dubbi interpretativi suscitati dalla espressione "danno grave alla
persona", chiarire quali beni siano effettivamente "salvabili" (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra considerare
rilevanti agli effetti della esimente tutti gli interessi personali propri o altrui, siano essi oggetto di pericolo di un
danno grave o non grave, attengano alla integrità fisica o a quella morale della persona, compensando tuttavia questo
ampliamento con una drastica delimitazione della scriminante sul terreno della proporzione).
f) ove si intendesse continuare a circoscrivere agli interessi di natura personale l'ambito di applicazione dello stato di
necessità, con riferimento agli interessi di natura patrimoniale sarebbe opportuno disciplinare espressamente la
situazione di chi, per salvare un diritto patrimoniale altrui minacciato, danneggia un bene di valore minore della
stessa persona: per escludere, come sembrerebbe naturale, la responsabilità del soccorritore oggi si può fare
riferimento, in via interpretativa, agli istituti della negotiorum gestio o del consenso presunto, mentre sarebbe
preferibile disporre di una norma che regolasse esplicitamente il caso (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra
fare riferimento, nell'art. 16 n. 2, al consenso presunto).
g) definire i rapporti fra l'istituto del soccorso di necessità disciplinato dall'art. 54 c.p. e quello del c.d. 'dovere di
soccorso', che secondo una parte della dottrina sarebbe desumibile dall'art. 593 c.p.; eliminare alcune improprietà
riscontrabili nella attuale dizione lessicale della disciplina del soccorso di necessità.
h) in tema di inapplicabilità dello stato di necessità a chi ha un particolare dovere di esporsi al pericolo, attenuare la
rigidezza della disciplina vigente precisando, sul solco della proposta Pagliaro, che la scriminante non è applicabile
a chi "essendo tenuto da esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di
particolare rilevanza".
Nodo di fondo concernente la figura dello stato di necessità riguarda la opportunità del suo sdoppiamento nelle
figure, previste dallo schema di legge-delega Pagliaro, della causa oggettiva di giustificazione e della causa
soggettiva di esclusione della responsabilità (c.d. necessità cogente).
Si è già rilevato come una parte della Commissione si è dichiarata contraria allo sdoppiamento, e più in generale alla
configurazione di una categoria di cause soggettive di esclusione della responsabilità da affiancare a quella delle
cause oggettive di giustificazione. Se questa dovesse essere la scelta in sede di stesura del nuovo codice, lo stato di
necessità unitario (inteso come causa di giustificazione) dovrebbe essere comunque ancorato ad un concetto di
proporzione che tenga conto della equivalenza degli interessi contrapposti, evitando il rigore eccessivo della
proposta Pagliaro, che postula che l'interesse salvato abbia un valore 'superiore' a quello sacrificato.
Più in generale, quanto allo schema complessivo delle cause soggettive di esclusione della responsabilità configurato
dal progetto Pagliaro la Commissione osserva che due di esse, quella già considerata (retro n. 1) prevista nel n. 2
dell'art. 17, e quella prevista nel suo n. 4 (l'affidamento nel consenso altrui, qualora il fatto sia commesso
nell'interesse privato proprio, ma l'agente ragionevolmente confidi che il titolare del bene disponibile avrebbe
consentito), consistono nella sostanza in ipotesi di errore, e come tali sono 'naturalmente' destinate ad operare come
cause incidenti sulla colpevolezza indipendentemente dalla loro inclusione in una specifica categoria nuova di cause
soggettive di esclusione della responsabilità.
3. L'uso legittimo delle armi. La Commissione fa proprie le istanze di una revisione di tale causa di giustificazione.
L'alternativa è fra la abolizione della stessa, che ripristini la situazione vigente al tempo del codice Zanardelli,
ovvero una riforma che inserisca nella sua struttura i requisiti della necessità e della proporzione (soluzione proposta
dallo schema di legge-delega Pagliaro, art. 16 n. 6) od opti per soluzioni più sofisticate, ma sicuramente meno 'facili'
da realizzare (es., sdoppiamento della esimente a seconda che la forza pubblica sia costretta ad affrontare situazioni
di violenza o di resistenza attiva, ovvero situazioni di resistenza passiva, legittimando nei primi casi anche l'uso
delle armi, consentendo nei secondi soltanto l'impiego di mezzi di coazione fisica meno aggressivi).
4. Consenso dell'avente diritto. In tema di consenso dell'avente diritto è emersa qualche incertezza vuoi con
riferimento alla delimitazione di taluni diritti indisponibili (fede pubblica, libertà personale, integrità fisica), vuoi,
soprattutto, riguardo ad alcuni dei requisiti di validità del consenso (età).
Lo schema di legge-delega Pagliaro si è fatto carico di questo secondo profilo. Nell'art. 16 n. 2 ha disposto che
occorre prevedere "il consenso dell'avente diritto, rispetto ai reati aventi ad oggetto interessi disponibili,
disciplinandone la validità con particolare riferimento alla capacità del titolare in relazione alla natura dell'atto". Ha
d'altronde opportunamente previsto che occorre "riconoscere, nei limiti suddetti, la rilevanza del consenso
presumibile, stabilendone i presupposti e, fra questi, in particolare, la verosimile utilità obbiettiva, al momento del
fatto, per il titolare dell'interesse e la mancanza di un suo dissenso". In questo modo è andato incontro alla esigenza
di disciplinare espressamente i casi in cui un soggetto danneggia un bene patrimoniale di una persona nell'intento di
salvare un altro bene patrimoniale di valore maggiore della stessa.
5. Una nuova scriminante generale? Lo schema di legge-delega Pagliaro è intervenuto in un settore delicato, fino
ad oggi affidato ai principi non scritti delle scriminanti tacite e delle regole di perizia professionale: la attività
terapeutica e gli interventi medico chirurgici. Nell'art. 16 n. 5 ha stabilito che occorre prevedere come causa di
giustificazione "l'attività terapeutica, sempre che: a) vi sia il consenso dell'avente diritto o, in caso di impossibilità a
consentire, il suo consenso presumibile e la urgente necessità del trattamento; b) il vantaggio alla salute sia
verosimilmente superiore al rischio; c) siano osservate le regole della migliore scienza ed esperienza".
La Commissione esprime dubbi circa la opportunità di intervenire in questo settore, e soprattutto di intervenire con
una norma strutturata nel modo indicato:
a) intervenire, significa rischiare di irrigidire una disciplina che pare più opportuno riservare ai canoni ormai
consolidati della prassi e della giurisprudenza.
b) il tema del consenso presupposto di liceità dell'intervento medico esige a sua volta che si affronti quello
delicatissimo della informazione corretta del malato: un tema sul quale sussiste tutt'ora incertezza in dottrina, e che
lo schema di legge-delega si è ben guardato dall'affrontare.
c) determinare quando il vantaggio alla salute sia superiore al rischio non è sempre agevole; di qui il pericolo di
inserirlo quale requisito esplicito di una scriminante.
d) il requisito indicato sotto la lettera c) del progetto Pagliaro più che alla struttura di una esimente sembra attenere
al profilo della mancanza di colpa.
e) non si affronta il problema che, invece, parrebbe più urgente affrontare: prendere posizione nei confronti dei più
recenti orientamenti giurisprudenziali che in caso di consenso ritenuto non sufficientemente 'informato' hanno
ritenuto la configurabilità a carico del medico di delitti dolosi o preterintenzionali contro la persona.
VI. TENTATIVO E DELITTI DI ATTENTATO.
Un inventario dei principali profili dell'istituto del tentativo suscettibili di riforma può essere redatto ordinandoli in
tre grandi gruppi: profili attinenti a) al campo di applicazione del tentativo; b) alla struttura e al trattamento
sanzionatorio del tentativo; c) alla disciplina degli istituti connessi o interferenti col tentativo (desistenza
volontaria, recesso attivo, delitti di attentato).
1. Il delitto tentato
1.1. Per quanto riguarda il campo di applicazione del tentativo la Commissione, preso atto di soluzioni diverse
presenti in alcuni paesi europei, si è domandata se sia opportuno mantenere la disciplina vigente o preferibile
suggerire delimitazioni ulteriori dell'ambito di applicazione dell'istituto. La maggioranza della Commissione, esclusa
sul terreno general-preventivo la opportunità politico-criminale di una riduzione, ha sostenuto che si potrebbe tutt'al
più pensare di escludere la applicazione dell'istituto nei confronti dei reati omissivi propri (contestata da una parte
della dottrina), osservando che la modesta incidenza pratica della questione potrebbe comunque consigliare di
continuare a rimettere la sua soluzione all'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Alcuni commissari hanno invece sostenuto la opportunità di prendere in considerazione prospettive di limitazione
anche marcata dell'area di applicazione del tentativo, circoscrivendo l'anticipazione dell'intervento penale a reati
esplicitamente individuati, in linea di principio i delitti più gravi.
1.2. In materia di struttura e di trattamento sanzionatorio del tentativo, la disciplina vigente può essere
annoverata tra quelle maggiormente ispirate ad un orientamento soggettivista.
Quanto alla struttura, il codice penale italiano, sganciata la configurazione dell'istituto da qualsiasi riferimento
diretto alla condotta costitutiva del corrispondente delitto consumato, costruisce il delitto tentato facendo riferimento
agli incerti confini del concetto di "atti idonei" e "diretti in modo non equivoco" a commettere il delitto. Poiché il
requisito della idoneità non è in grado di contribuire in modo decisivo alla tipizzazione della condotta di tentativo, e
poiché il requisito della direzione non equivoca degli atti non aggiunge a sua volta profili sufficienti di tipicità, il
giudice rimane sostanzialmente libero di determinare contenuto e limiti dell'istituto.
Nella maggior parte dei sistemi di civil law europei la condotta del tentativo continua invece ad essere individuata
attraverso il concetto dell'inizio di esecuzione della azione tipica. In alcuni casi si fa riferimento puro e semplice a
tale concetto (codice francese, codice svizzero, avamprogetto dello stesso); in altri la formula dell'inizio di
esecuzione è arricchita dall'ulteriore riferimento ai "fatti esteriori" (codice belga, codice spagnolo) o ci si impegna in
una definizione analitica degli "atti di esecuzione (codice portoghese), senza che questa specificazione sia in grado
di recare un reale contributo alla precisazione della condotta, essendo evidente che l'esigenza di una manifestazione
esteriore della risoluzione criminosa discende già dal principio generale di materialità del reato, mentre il problema è
quello dell'individuazione del grado di sviluppo della condotta punibile, alla cui soluzione intende provvedere il
criterio dell'inizio di esecuzione.
Mentre la formula degli atti idonei e diretti in modo non equivoco non consente una tipizzazione adeguata della
condotta di tentativo, la formula dell'inizio di esecuzione ha il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del
tentativo da quella della fattispecie di riferimento di parte speciale. Pur non costituendo una "formula magica"
utilizzando la quale ogni problema di riduzione dei margini della discrezionalità giudiziale risultano risolti, è
comunque formula più garantista, e quantomeno sul terreno dei 'segnali lanciati' indica la necessità di porre
comunque una barriera ad una anticipazione indiscriminata degli atti qualificabili come penalmente rilevanti.
Come è noto, il pregio rilevabile sul piano della maggiore delimitazione concettuale della condotta punibile viene in
qualche modo controbilanciato dalla impossibilità di ricondurre all'inizio di esecuzione gli atti che, pur essendo
totalmente atipici, sono però immediatamente antecedenti all'inizio di esecuzione, e con riferimento a molti dei quali
si pone concretamente una esigenza di punibilità. Era stata d'altronde proprio la denuncia di questa esigenza (o di
esigenze simili) a giustificare, nel 1930, la scelta di abbandonare da formula dell'inizio di esecuzione utilizzata dal
codice penale Zanardelli sostituendola con quella della idoneità ed univocità degli atti.
Il diritto comparato offre tuttavia esempi di soluzioni legislative che tendono a realizzare una conciliazione delle due
contrapposte esigenze. Nel codice tedesco del 1975 ed in quello austriaco del 1974, ad esempio, il criterio di
individuazione della condotta tipica continua ad essere costituito dal concetto di "esecuzione della fattispecie", ma la
soglia di punibilità è anticipata attraverso il riferimento agli atti che precedono "direttamente", "immediatamente",
gli atti esecutivi. Analogamente, il codice portoghese equipara agli atti esecutivi "quelli che, secondo la comune
esperienza , sono di natura tale da far prevedere che ad essi seguano" gli atti esecutivi.
Nella prospettiva di una maggiore delimitazione possibile della anticipazione della attività punibile e di un
inserimento della disciplina italiana nel panorama delle legislazioni europee, la Commissione ritiene opportuno
orientare la nuova disciplina del tentativo in una direzione oggettiva, centrata sul concetto della punibilità degli atti
esecutivi della condotta tipica.
Il ritorno alla formula dell'inizio di esecuzione della condotta tipica dovrebbe essere tuttavia accompagnata da
correttivi, finalizzati da un lato ad evitare rigidezze eccessive del criterio adottato, dall'altro a superare obbiezioni di
eccessiva restrizione dell'area di punibilità che potrebbero essere avanzate soprattutto con riferimento ai reati
causalmente orientati. In questa prospettiva il criterio sussidiario della "immediatezza" sembra dotato, più di altri
possibili, di efficacia espressiva e delimitativa, e sembrerebbe pertanto preferibile.
Anche nei più recenti progetti di riforma italiani (schema di legge-delega Pagliaro e progetto Riz) si avverte la
esigenza di "meglio fondare la materialità del fatto di tentativo, svincolandone la struttura, per quanto possibile, da
riferimenti di carattere personale-soggettivo". Tale scopo viene perseguito aggiungendo l'avverbio "oggettivamente"
ai requisiti degli atti idonei diretti in modo non equivoco. Peraltro non pare che l'aggiunta di tale avverbio sia in
grado di recare un contributo alla precisazione della condotta del tentativo, vuoi perché, come si è rilevato, il
riferimento alla oggettività della condotta è già implicito nel principio generale di materialità del reato, vuoi perché,
nel contesto specifico della definizione dello schema di legge-delega Pagliaro, l'indicazione della oggettività
potrebbe semmai esprimere l'intento legislativo di privilegiare l'accezione oggettivistica del requisito della direzione
non equivoca degli atti.
Per quanto attiene al trattamento sanzionatorio, pur non mancando ordinamenti a noi geograficamente vicini che
prevedono la parificazione del tentativo alla consumazione (Austria, per certi versi Inghilterra), oppure una
attenuazione di pena per il tentativo soltanto facoltativa (Svizzera, Germania), la Commissione, in considerazione
del diverso peso delle offese rispettivamente causate dal delitto tentato e dal delitto consumato, ritiene preferibile
mantenere il regime di diminuzione previsto dal codice penale vigente.
1.3. Per quanto riguarda l'annosa questione del dolo del tentativo, e più precisamente della compatibilità tra
tentativo e dolo eventuale, la maggioranza della Commissione ritiene che la soluzione migliore sia di prendere
sostanzialmente atto dell'orientamento ormai maturato dalla giurisprudenza nel senso della esclusione. In questo
senso vanno del resto sia il "progetto Pagliaro" sia il "progetto Riz". Dei due testi, la formula più corretta risulta
comunque quella del primo ("chi, con l'intenzione o la certezza di cagionare l'evento, compie atti ...") in quanto
mette in luce la compatibilità del tentativo anche con il c.d. dolo diretto oltre che con quello intenzionale, a
differenza invece del "progetto Riz" ("compie atti [...], con l'intenzione di cagionare l'evento").
Alcuni componenti della Commissione hanno peraltro osservato che, una volta esplicitato che il dolo eventuale
dovrebbe consistere in una rappresentazione della realizzazione del fatto in termini di alta probabilità (v. retro, parte
III, n.2.1), nulla osterebbe a rendere compatibile tentativo e dolo eventuale. Se questa dovesse essere la scelta in
sede di riforma, non sarebbe tuttavia, forse, necessario formulare una norma ad hoc; esaurendosi la definizione del
tentativo nella indicazione dei suoi requisiti oggettivi, potrebbe trovare automaticamente applicazione la disciplina
generale.
2. Desistenza volontaria e recesso attivo. In materia di desistenza volontaria e di recesso attivo lo schema di leggedelega Pagliaro ed il progetto Riz inclinano verso la conservazione dell'esistente, limitandosi (il secondo) alla mera
previsione di un più consistente effetto attenuante del recesso attivo.
Il panorama europeo è caratterizzato invece dalla tendenza a parificare gli effetti dei due istituti sul terreno della non
punibilità dell'autore (codice tedesco, austriaco, spagnolo, portoghese, avamprogetto del codice svizzero). La
Commissione, tenuto conto di questa realtà, e considerato che fra gli obbiettivi della riforma dovrebbe collocarsi
anche l'incentivazione premiale per chi si sia attivato a tutela della vittima del reato (parte VIII, n. 13), è favorevole
ad allineare la disciplina italiana a quella testé indicata, prevedendo la non punibilità anche in caso di recesso attivo.
Per quanto concerne il ravvedimento del concorrente, il quadro europeo rivela una analoga accentuazione verso la
rilevanza dell'istituto, non solo quando si sia determinato l'impedimento del reato, ma anche quando il concorrente si
sia limitato ad attivarsi in modo serio per impedire il risultato senza riuscire nell'intento. Tenuto conto di questa
realtà, e considerate le sopra menzionate spinte di politica criminale, la Commissione propone di dichiarare non
punibile il concorrente che sia riuscito ad impedire la esecuzione del reato, non escludendo di trattare allo stesso
modo il concorrente che si sia attivato in modo serio per impedire tale realizzazione senza riuscirvi.
Un cenno merita infine l'ipotesi in cui, nonostante il ravvedimento dell'autore, il reato non sia venuto a
consumazione per altre cause. Secondo la disciplina vigente è difficile giungere ad una conclusione diversa
dall'irrilevanza del ravvedimento, nonostante che l'esigenza della repressione penale appaia modesta. Ed in effetti
negli ordinamenti stranieri è diffusa la previsione espressa della non punibilità (codice penale tedesco, portoghese,
avamprogetto svizzero). Anche qui la Commissione auspicherebbe un allineamento a tali posizioni.
3. I delitti di attentato. Sia il progetto Pagliaro che il progetto Riz affrontano il problema equiparando i delitti di
attentato al tentativo quanto ad elementi costitutivi e contenuto offensivo: "per la punibilità dei delitti di attentato e
dei delitti in cui la condotta tipica sia descritta come volta alla produzione di un evento lesivo, devono sussistere i
presupposti e i requisiti di punibilità del delitto tentato". Si tratta di una modifica dagli intenti di fondo condivisibili,
che non pare tuttavia adeguata ad un inserimento razionale e sufficientemente 'garantito' di tale categoria di delitti
nell'ordinamento giuridico. Ad avviso della Commissione il problema della tipizzazione dei delitti di attentato non
può essere risolto con un semplice richiamo alla struttura del delitto tentato.
Tale richiamo può, ad esempio, svolgere un ruolo 'correttivo' nelle fattispecie nelle quali l'evento finale è costituito
da un risultato naturalistico in cui si concentra il disvalore lesivo del reato, sul modello di omologhe fattispecie
'comuni' a condotta libera (es., attentato contro il Presidente della Repubblica, offesa alla sua libertà, attentato per
finalità terroristiche o di eversione, ecc.). Non lo può, invece, quando l'evento finale dell'attentato è identificato in
risultati di proporzioni macroscopiche (es., attentato contro la Costituzione dello Stato, devastazione saccheggio e
strage, guerra civile), ovvero direttamente nella stessa offesa al bene protetto (es., attentati contro la integrità, la
indipendenza o l'unità dello Stato). In questi casi l'innesto del tentativo, ed in particolare dell'idoneità, può forse
assicurare un (apparente) grado di offensività, a totale scapito, però, della tipicità della fattispecie. Rispetto ai
macro-eventi la differenza di scala è tale da rendere del tutto improbabile che il giudizio di idoneità possa saldare la
sfasatura, consentendo di individuare condotte sufficientemente tipiche.
Alla luce di queste considerazioni la Commissione ritiene che il nodo dei delitti di attentato debba essere risolto in
modo del tutto diverso da quello pensato tradizionalmente. Non già facendo ricorso a criteri generali, ma risolvendo
il problema caso per caso, o per gruppi di casi, tenendo conto delle specificità di ciascun gruppo. Questo approccio
si salda alla soluzione che si è testè proposta in materia di delitto tentato. In materia di tentativo si è cercato di
fornire una definizione la più tipizzante possibile, in grado di superare il coefficiente di discrezionalità che connota
la vigente definizione di cui all'art. 56 c.p. In materia di delitti di attentato, la cui politicità di obbiettivi di tutela è
fuori discussione costituendo la ragione stessa della loro previsione nel sistema giuridico, il livello di garanzia può
essere abbassato tenendo conto delle ragioni peculiari che giustificano l'adozione del modello. La scelta del modello
di tipizzazione più adeguato potrà essere tuttavia trovato, come appunto si diceva, sul terreno delle scelte di parte
speciale.
Come è noto, i delitti di attentato si ritrovano oggi soprattutto fra i delitti contro la incolumità pubblica e fra i delitti
contro la Stato. Nei primi la ragione della anticipazione di tutela è ravvisabile nel carattere ultra individuale del bene
protetto, e soprattutto nella diffusività di certe manifestazioni aggressive, che induce ad intervenire prima che la
condotta abbia prodotto tutta la sua carica offensiva. Nei secondi l'anticipazione trova la sua ragion d'essere talvolta
nel carattere 'supremo' di taluni beni, talaltra nell'impossibilità di subordinare la tutela alla loro lesione senza
compromettere radicalmente la stessa possibilità dell'intervento penale. In entrambi i casi c'è dunque una ragione
'politica' della previsione del modello.
La disciplina dei primi fornisce già oggi un quadro di soluzioni ispirate a grande varietà di tecniche di tutela idonee
a contemperare adeguatamente le esigenze di anticipazione della tutela con quelle della tipizzazione della condotta.
Tecniche di tutela riassumibili nella previsione: a) di reati di pericolo concreto, caratterizzati peraltro da un grado
molto differenziato di descrittività della fattispecie, che vanno da quelle a forma libera ove il risultato è costituito
dallo stesso pericolo concreto per la pubblica incolumità, a quelle a condotta vincolata o comunque sufficientemente
descritta, a quelle infine ove oltre alla condotta è indicato anche un evento naturalistico intermedio; b) di reati di
pericolo astratto, ove la presunzione assume gradi di verosimiglianza prognostica anche in considerazione della
differente portata descrittiva della fattispecie, che può essere di mera condotta, di evento, di evento particolarmente
significativo; c) di reati consistenti in atti preparatori, che sembrano peraltro ridursi alla sola fattispecie di cui all'art.
435 c.p.
La previsione dei secondi presenta invece la totale assenza di analoghi dettagli tipicizzanti di previsione normativa,
ma secondo una scelta politico-legislativa tradizionale appare appiattita sulle formule di stile "chiunque compie atti
diretti a...", chiunque "attenta". In questo campo il lavoro di riforma dovrebbe essere pertanto particolarmente
incisivo.
Esso dovrebbe avvenire distinguendo nettamente due gruppi di fattispecie, a seconda che tutelino beni "personaliindividuali", oppure beni "istituzionali" o comunque "macrooffensivi" (v. retro). Realizzando nel primo l'esigenza di
tipizzazione tramite la utilizzazione del criterio del pericolo concreto (l'idoneità può apparire criterio generale
inadeguato in materia di delitti comuni, ma può essere utilizzato senza grandi obiezioni in fattispecie dalla forte
connotazione politica). Puntando nel secondo su tecniche di definizione specifica, e quindi potenzialmente variegata,
dei requisiti della condotta o dell'evento (a questo scopo si potrebbe ad esempio trarre ispirazione dall'art. 283 c.p.,
ove è previsto che l'attentato contro la Costituzione avvenga "con mezzi non consentiti dall'ordinamento
costituzionale dello Stato, e dove si potrebbe ulteriormente giocare sulle due tipologie fondamentali delle condotte
violente e di quelle abusive delle funzioni pubbliche, rispondenti alle aggressioni provenienti rispettivamente dagli
estranei o dagli intranei).
Se specifiche esigenze di tutela giuridica dovessero indurre a ritenere opportuno punire attività meramente
preparatorie, nulla impedirebbe di operare in tal senso, purché attraverso una adeguata descrizione della condotta
preparatoria che si intende eccezionalmente punire.
VII. CONCORSO DI PERSONE NEL REATO E REATI ASSOCIATIVI.
1. La tipizzazione delle condotte di partecipazione. Il concorso di persone (come il tentativo ed il reato omissivo
improprio) concorre ad ampliare la tipicità dei singoli reati. Tale estensione, per quanto necessaria, rischia di
indebolire la tassatività delle fattispecie, onde l'esigenza che si realizzi sulla base di criteri improntati al principio di
determinatezza.
A differenza del tentativo e del reato omissivo improprio, che pur non sufficientemente garantiti sul terreno della
tipicità, fanno comunque riferimento a requisiti intrinseci od a contenuti precettivi, l'art. 110 c.p. è norma priva di
contenuti positivi, limitandosi ad operare in (generica) funzione incriminatrice ex novo di condotte atipiche e di
equiparazione della pena per i concorrenti.
La scelta legislativa di appiattire sul terreno della pena tutti i concorrenti, indipendentemente dalla condotta in
concreto esplicata, determina d'altronde un indebolimento di tassatività anche con riferimento alla sanzione, che non
risulta adeguatamente modulata tenendo conto della specificità della condotta posta in essere.
L'abbandono da parte del legislatore del 1930 di ogni descrizione delle condotte concorsuali trova fondamento per
un verso nel fallimento dell'esperienza registrata sotto il codice penale del 1889, per altro verso nell'adozione di un
criterio causale che sarebbe stato in grado, nell'idea dei suoi compilatori, di consentire l'individuazione di ogni forma
di partecipazione punibile.
La valutazione espressa nei confronti della disciplina del c. p. Zanardelli può essere condivisa. La combinazione
della descrizione delle figure concorsuali con la previsione di un trattamento sanzionatorio differenziato si era infatti
risolto in soluzioni compromissorie e in definizioni evanescenti, che avevano condotto ad arbitrio e, soprattutto,
avevano innescato un meccanismo per cui il giudice, con una evidente inversione logica, qualificava la condotta alla
luce della pena che intendeva infliggere.
Il ripudio di tale disciplina non implicava però necessariamente l'accoglimento della soluzione causale nei termini
generici espressi dall'art. 110. La problematica del concorso si scinde infatti in due profili, l'uno concernente la
descrizione delle condotte punibili e l'altro il trattamento sanzionatorio. E il carattere insoddisfacente di una loro
congiunta regolamentazione non escludeva una diversa disciplina intesa a mantenere la determinatezza delle forme
di partecipazione e a ricercare per altra via una loro diversificazione sul piano della pena.
Sul piano comparato, una soluzione differenziata è accolta ad esempio dal codice francese, che definisce il complice
come "colui che consapevolmente, mediante aiuto o assistenza, ha agevolato la preparazione o la consumazione di
un crimine o di un delitto. E' egualmente complice colui che con doni, promesse, minacce, ordini, abuso di autorità o
di potere, abbia provocato taluno all'illecito o dato istruzioni per commetterlo" (art. 121.7; similmente dispone l'art.
67 del codice belga; una elencazione delle condotte di concorso è invece contenuta nel § 25 ss. del codice tedesco,
nel § 12 del codice austriaco e nell'art. 26 s. del codice portoghese).
I vantaggi di tale soluzione possono cogliersi nella sua funzione orientativa nei confronti del giudice, e nell'onere di
motivazione conseguente alla qualificazione del partecipe come complice morale o materiale; tali vantaggi
acquistano poi ulteriore consistenza a fronte della situazione vigente in Italia, ove l'adozione di un modello
indifferenziato ha esaltato il ruolo creativo della giurisprudenza e la figura del concorrente è divenuta l'archetipo di
ogni affermazione di responsabilità ai sensi dell'art. 110 c.p.
E' significativo, d'altronde, il fatto che al momento di procedere nella parte speciale alla tipizzazione delle condotte
di partecipazione al suicidio (art.580), il legislatore non ha utilizzato l'ambigua formula "chiunque concorre", ma ha
preferito prevedere, "accanto alla determinazione che si riferisce ad un'attività diretta a formare l'altrui
proponimento, anche il rafforzamento di questo, e cioè qualsiasi attività diretta a rendere definitivo un proposito già
formato" nonché "l'agevolazione, in qualsiasi forma prestata, alla esecuzione della volontà suicida". Un chiaro
segnale della opportunità di un'espressa previsione delle condotte concorsuali, dal quale è derivato un incentivo per
la giurisprudenza a ricostruire la causalità delle condotte di partecipazione al suicidio con una profondità che non
conosce confronti rispetto alle problematiche generali del concorso di persone nel reato.
La opzione "causale" proposta dal legislatore del 1930 come soddisfacente criterio di tipizzazione delle condotte
concorsuali ha dato invece, come era prevedibile, pessima prova di sé. Alla luce di un consolidato orientamento, la
Cassazione ha affermato genericamente la punibilità di ogni "contributo di ordine materiale o psicologico idoneo,
con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o
esecuzione dell'azione criminosa posta in essere da altri soggetti". E con una sentenza che può essere considerata la
sintesi delle opzioni teoriche e politico-criminali della Suprema Corte è stato deciso che "perché si configuri la
fattispecie del concorso di persone non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul
piano causale, dell'evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso contrasta con il dettato dell'art. 110 c.p. e la
funzione estensiva cui la normativa sul concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti che di
per sé ne sarebbero privi quando abbiano in qualsiasi modo contribuito alla realizzazione collettiva; mentre, d'altro
canto, lo stesso codice, con la previsione dell'attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette la possibilità
di condotte non condizionali, non potendosi considerare condizione indispensabile per la realizzazione di un reato
un'attività di minima importanza. In quest'ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che
la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento che arrechi un contributo apprezzabile alla
commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri
concorrenti e, in sostanza, che il partecipe, per effetto della sua condotta idonea a facilitarne l'esecuzione abbia
aumentato le possibilità di produzione dell'evento, perché in forza del reato associativo diventano sue anche le
condotte degli altri concorrenti" (Cass., 11-3-1991, in Riv. pen., 1992, 498).
Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a contributi anche non rigorosamente causali, fa rilevare sul terreno del
concorso condotte che si sono limitate ad incrementare il rischio della produzione dell'evento, concede
indiscriminata rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato in sede di riforma.
Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a condotte sicuramente causali in ordine alla condotta di un
altro concorrente o al comune evento criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte tipiche.
In via esemplificativa, una formulazione possibile che tenga conto delle sopramenzionate esigenze di tipicizzazione
degli apporti causali potrebbe essere la seguente: concorre nel reato chiunque abbia partecipato o istigato alla sua
esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro concorrente o agevolato l'esecuzione fornendo aiuto o assistenza.
Essa concorrerebbe a delineare con una certa precisione i contorni del contributo di tipo materiale, individuato nella
'partecipazione' e in una 'agevolazione' qualificata dalla menzione delle condotte di aiuto o assistenza. E porrebbe le
basi per affrontare entro confini anch'essi delineati il problema della rilevanza del concorso morale: dovrebbe
trattarsi di istigazione alla esecuzione (cioè di condotta che influisce direttamente sull'esecuzione del fatto) o di
rafforzamento del proposito di altro concorrente, una sottolineatura che dovrebbe marcare la necessità che sia
effettivamente provato che la condotta dell'agente ha cagionato un rafforzamento del proposito dell'altro concorrente
incidendo concretamente sulla realizzazione del fatto di reato (con conseguente esclusione di responsabilità penale
ove questa prova non sia stata raggiunta, ove esista soltanto la prova della idoneità della condotta posta in essere a
determinare il rafforzamento del proposito ma non quella del rafforzamento realizzato, ove vi sia stata mera
adesione astratta o approvazione dell'altrui disegno delittuoso senza avere contribuito positivamente all'illecito, ove
l'attività psichica sia risultata ininfluente perché rivolta ad un soggetto già pienamente determinato o perché
l'esecutore ha agito sulla base di diverse motivazioni).
L'esigenza di una riforma dell'istituto del concorso di persone nel reato nella duplice direzione di identificare le
condotte di partecipazione secondo principi di maggiore determinatezza, e di ricondurre la responsabilità del
compartecipe nell'ambito del principio di colpevolezza è stata riconosciuta dallo schema di legge-delega Pagliaro.
La Commissione ritiene che la formulazione proposta: "prevedere che concorra nel reato chi, nella fase ideativa,
preparatoria o esecutiva, dà un contributo necessario, o quantomeno agevolatore, alla realizzazione dell'evento
offensivo. Si concorre per agevolazione solo nei casi in cui la condotta ha reso più probabile, più pronta o più grave
la realizzazione dell'evento offensivo", come del resto riconoscono gli stessi estensori nella relazione introduttiva
all'articolato, realizzi in una misura ancora insufficiente le esigenze di tipizzazione degli apporti causali idonei a
rilevare come concorso nel reato.
2. Il trattamento sanzionatorio delle condotte di partecipazione. La maggioranza dei sistemi penali europei
prevede una riduzione di pena in favore del complice (codice tedesco, svizzero, spagnolo, portoghese). Tale
soluzione va approvata, giacché consente di articolare le cornici edittali di pena in considerazione del disvalore
oggettivo delle condotte concorrenti, mentre la soluzione unitaria ex art. 110 trasferisce la valutazione dei diversi
contributi sul piano della commisurazione della pena, realizzando una indebita assimilazione tra il fatto e la
personalità dell'imputato, che vale a spiegare anche la desuetudine in cui è caduto l'art. 114 c.p.
Tuttavia, l'esperienza comparata dimostra anche come la diminuzione della pena si leghi, più che alla qualificazione
nominalistica della condotta, alla sua rilevanza nel quadro della realizzazione comune; onde appare opportuno
prevedere altresì una circostanza attenuante legata alla oggettiva minore importanza del contributo.
Nella prospettiva delineata si colloca l'art. 28.1. dello schema di legge-delega Pagliaro, il quale ipotizza di
"prevedere responsabilità differenziate per i compartecipi, non in rapporto alla forma astratta di partecipazione, ma
in dipendenza del contributo effettivo di ciascuno alla realizzazione criminosa. Prevedere come circostanza
attenuante l'avere apportato un contributo soltanto agevolatore alla realizzazione del reato (...)". Qualche perplessità
suscita tuttavia il riferimento della circostanza attenuante alla specifica condotta dell'agevolatore, contrapposta nel
sistema dello schema di legge-delega a quella del contributo necessario. Tale differenziazione, inconferente agli
effetti della determinazione del carico sanzionatorio, ove rileva esclusivamente la oggettiva minore importanza della
condotta in rapporto alla vicenda concursuale, rischia oltre tutto di diventare fonte di dispute interpretative (quando,
ad esempio, la fornitura di un'arma integra un contributo necessario o un'agevolazione?).
In questa prospettiva si propone la previsione di una circostanza attenuante, di applicazione obbligatoria, riferita alle
condotte "di rilevanza modesta"
3. La partecipazione omissiva nel reato commesso mediante azione. Posto che il mancato impedimento di un
evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale alla sua causazione attiva (art. 40 cpv.), anche la
consapevole inerzia da parte del titolare di una posizione di garanzia dà vita ad una condotta causalmente rilevante
rispetto all'evento. Da ciò deriva la sicura possibilità di qualificare come concorrente chi, nell'ambito di un piano
criminoso concordato con altri, si impegna ad astenersi dalla condotta per lui giuridicamente obbligatoria.
Qualche difficoltà si pone quando l'omissione del garante avviene al di fuori di un previo accordo. In questa ipotesi
l'affermazione di una responsabilità concorsuale esige, in capo all'omittente, il dolo di concorso, cioè la volontà di
cooperare con altri alla realizzazione del fatto criminoso. Tuttavia, a causa della peculiarità dell'elemento
psicologico negli illeciti omissivi, tale volontà finisce con il coincidere con quella di non impedire l'evento, da
qualunque ragione essa dipenda e qualunque sia l'atteggiamento del soggetto rispetto alla verificazione dell'evento
stesso; donde il rischio di una sfasatura tra il dolo dell'omittente e il titolo del reato di cui è chiamato a rispondere.
Né appare decisiva l'osservazione che "per evitare certi rigorismi od oscillazioni giurisprudenziali, occorre un
attento accertamento dei requisiti soggettivi, cioè del dolo di concorso (es.: se la madre abbia assistito, inerte, allo
stupro della figlia infraquattordicenne per paura o per compiacimento, cioè rifiutando o volendo il fatto)", giacché il
problema sorge ogni volta che, senza esservi costretto, il garante rimane inerte (si noti che in tali ipotesi il dolo viene
spesso desunto dal comportamento successivo dell'omittente, es., la mancata denuncia del fatto, con l'ulteriore
rischio di un ricorso al c.d. dolo susseguente).
La questione non consente però alcuna via d'uscita sul terreno della partecipazione criminosa, apparendo
eccessivamente restrittiva sia la tesi che vorrebbe circoscrivere il concorso mediante omissione ai reati causali puri,
sia la tesi che vorrebbe escluderlo in presenza di un dolo indiretto o eventuale, sia l'idea di attribuirgli rilevanza
esclusivamente nei casi di previo accordo.
Premessa la esigenza di carattere generale di delimitare il problema a monte attraverso una consapevole
individuazione degli obblighi giuridici di impedire l'evento, la Commissione ritiene comunque opportuno prevedere
un'ulteriore circostanza attenuante (non obbligatoria ma facoltativa) per le condotte omissive, disponendo che la
pena può essere diminuita per le condotte omissive concorrenti nel reato commissivo fuori dei casi di previo
accordo.
4. Le circostanze ex artt. 111 e 112 c.p. Con riferimento all'oggetto dell'art. 111 la Commissione riconosce
l'opportunità di prevedere una norma specifica al fine di evitare incertezze applicative, sottolineando l'esigenza di
raccordare la disciplina con quella cui si opterà rispetto agli attuali artt. 46, 48 e 54. Si conviene comunque sulla
linea grosso modo tracciata dallo schema di legge-delega Pagliaro: le disposizioni sul concorso di persone si
applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per cause personali; la pena è aumentata
per colui che determina al reato la persona non imputabile o non punibile.
Con riferimento alle circostanze aggravanti si propone la sostituzione della vigente ridondante previsione dell'art.
112 con una disciplina più semplice: la pena è aumentata a carico degli organizzatori e dirigenti dell'attività
criminosa nonché di coloro che abbiano determinato al reato persone a loro soggette o di ridotta capacità.
5. Il concorso nei reati colposi. La Commissione a) considerato che la previsione dell'istituto risulta confermata sia
dal progetto Pagliaro sia da quello Riz , mentre in dottrina è da tempo aperto il dibattito relativo alla opportunità di
una abrogazione della norma, b) ritenuto che le ragioni addotte a sostegno del mantenimento non appaiono decisive,
in quanto riguardano una (presunta) funzione incriminatrice dell'art. 113 che risulta comunque adempiuta dalla
previsione generale del concorso di persone nel reato e dei reati colposi, c) considerata altresì l'assoluta originalità
della norma nel contesto europeo, si è orientata nel senso della abrogazione.
A fronte delle univoche posizioni assunte sul punto dalla Cassazione, riterrebbe altresì inopportuno prevedere un
concorso colposo nel fatto doloso altrui.
6. Istigazione e accordo non seguiti dalla commissione del reato. La Commissione ritiene utile mantenere la
formulazione relativa all'impunità dell'istigazione e dell'accordo non seguiti dalla esecuzione del reato, osservando
che il tema dovrebbe essere affrontato, unitamente a quello del reato impossibile, nella prospettiva di una generale
enunciazione del principio di necessaria offensività.
7. La responsabilità del partecipe per il reato da lui non voluto e il concorso nel reato proprio. Si rinvia a
quanto già esposto in materia nel capitolo dedicato alla eliminazione delle ipotesi di responsabilità oggettiva o
anomala (parte III, n. 4.2).
8. La disciplina delle circostanze e delle cause di giustificazione. Lo schema di legge-delega Pagliaro dispone
all'art. 30: "prevedere che si comunichino ai concorrenti soltanto le cause di giustificazione e le circostanze
oggettive, nonché le circostanze soggettive che siano servite ad agevolare l'esecuzione del reato"; analoga
statuizione si rinviene nel progetto Riz. Si tratta di una opzione che recepisce le critiche rivolte dalla dottrina all'art.
118 e gli esiti interpretativi cui è pervenuta la più recente giurisprudenza, e deve dunque essere condivisa attraverso
la proposta di una norma - destinata a ricomprendere i vigenti artt. 118 e 119 - grosso modo formulata nei seguenti
termini: le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che sono servite ad
agevolare la commissione del reato, hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato.
9. I reati associativi. La Commissione è concorde nel rilevare l'esigenza di procedere ad una caratterizzazione del
concetto di associazione attraverso la sua idoneità a perdurare nel tempo. In sede di sessione plenaria alcuni
commissari hanno sostenuto, senza sollevare obbiezioni, che l'organizzazione criminosa oltreché dalla sua idoneità a
perdurare nel tempo dovrebbe essere caratterizzata dalla sua idoneità a realizzare i reati scopo.
Per contro, si sono delineati diversi orientamenti rispetto alla possibilità di restringere l'ambito applicativo della
fattispecie di associazione per delinquere mediante una specificazione delle tipologie dei reati per la cui
commissione è costituita l'associazione, ovvero attraverso un limite generale riferito al massimo di pena edittale
prevista per il reato-scopo.
Per quanto riguarda i rapporti intercorrenti tra il reato di associazione e la problematica del concorso esterno, dopo
ampia discussione la maggioranza della Commissione ha ritenuto preferibile proporre una tipizzazione, conforme ai
risultati della più recente elaborazione giurisprudenziale e alle posizioni di una parte della dottrina, delle nozioni di
associato e di concorrente esterno. In questa prospettiva ha pensato a formulazioni grosso modo di questo tipo: è
associato chi è inserito consapevolmente nella struttura organizzativa della associazione; fuori dei casi di
partecipazione all'associazione, le pene stabilite sono applicabili a chi fornisce un rilevante contributo consapevole e
volontario al conseguimento dei fini della associazione o alla sua conservazione e stabilità.
Una parte della Commissione ha sostenuto invece che una formulazione di tipo generale del concorso esterno non
evita il pericolo di applicazioni eccessivamente discrezionali da parte del giudice. Pur riconoscendo la serietà del
problema concernente coloro (politici, professionisti, imprenditori, ecc.) che, pur non facendo parte della
organizzazione criminale, favoriscono con il loro comportamento il perseguimento dei fini della stessa o
contribuiscono alla sua conservazione e stabilità, ha affermato che esso deve essere affrontato sul terreno della parte
speciale attraverso la previsione di un complesso di specifiche, e quindi più tassative, fattispecie di favoreggiamento.
Salvo talune proposte di modifiche formali, la Commissione non ritiene si debba intervenire sulla vigente
definizione dell'associazione di tipo mafioso, che costituisce il frutto di una consolidata tradizione giurisprudenziale,
essendo comunque ovvio che a tale tipo di associazione dovranno applicarsi i criteri generali di specificazione
delineati per il reato associativo.
Dopo ampia discussione, nel corso della quale si sono delineati contrastanti orientamenti a favore della soppressione
o del mantenimento del vigente art. 416-ter, è prevalsa quest'ultima soluzione, arricchita peraltro dall'inserimento
della "promessa" e della "altra utilità", la cui assenza ha finora pregiudicato l'operatività della fattispecie ("fuori dei
casi di cui all'art. 416 bis, la pena ivi stabilita si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal comma 1
del medesimo art. 416 bis in cambio della erogazione o promessa di denaro o altra utilità").
Per le fattispecie associative di tipo politico si rinvia alla trattazione dei profili di riforma dei delitti contro lo Stato
(parte XII).
VIII. IL SISTEMA DELLE PENE.
1. Gli obbiettivi della riforma del sistema delle pene. Con riferimento al sistema delle pene la Commissione è
stata unanime nel ritenere la assoluta urgenza di una profonda revisione del sistema delle pene attualmente in vigore,
caratterizzato da una insostenibile situazione di incertezza e di 'imprevedibilità' della sanzione concretamente
scontata dal condannato; incertezza ed imprevedibilità dovuta all'eccessivo potere discrezionale concesso al giudice
penale in sede di determinazione in concreto della pena, alla mancanza di criteri-guida affidabili in ordine a tale
determinazione, al sovrapporsi disordinato di interventi normativi di diritto penale sostanziale, penitenziario e
processuale penale in materia di irrogazione ed esecuzione delle pene, al gioco spesso irrazionale e contraddittorio di
istituti premiali, di facili perdonismi, di istituti di prevenzione speciale disciplinati con non sufficiente rigore nei
presupposti della loro applicazione.
Sulla base di questa prima considerazione si è concordato che fra gli obbiettivi primari di una riforma del sistema
delle pene dovrebbero essere considerati: a) la configurazione di un quadro normativo organico che attui una
semplificazione ed una razionalizzazione della legislazione vigente; b) la conseguente delineazione di un sistema di
sanzioni penali caratterizzato da requisiti di certezza e prevedibilità dei risultati, e che circoscriva per quanto
possibile gli scarti fra quanto avviene al momento della irrogazione della pena e ciò che si verifica al momento della
sua esecuzione; c) quale presupposto primario per ottenere questo risultato, un forte ridimensionamento del potere
discrezionale del giudice, che muova da una indicazione di carattere generale che imponga, nella revisione della
parte speciale, l'adozione di cornici edittali assai più contenute di quelle attuali (in questo senso si era già
pronunciato abbastanza chiaramente lo schema di legge-delega Pagliaro: v. art. 58), per arrivare a significative
riduzione dei margini di discrezionalità giudiziale in istituti quali il concorso delle circostanze eterogenee, il
concorso formale di reati e la continuazione nel reato.
2. Una nuova articolazione delle pene. La Commissione è stata ugualmente unanime nel ritenere che il sistema
vigente delle pene, oltre a non consentire certezza e prevedibilità della loro esecuzione, risulta caratterizzato dalla
assenza di una reale efficacia preventiva. Nel suo complesso è sistema astrattamente punitivo, centrato su di un
meccanismo che a livello di previsione e di applicazione giudiziale privilegia la pena detentiva e prevede pene
detentive astrattamente molto pesanti, ma concretamente è poco temibile a causa di un complesso intrecciarsi di
istituti di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale che vanificano la loro efficacia. Come si chiarirà
meglio in seguito, il sistema delle pene pecuniarie è a sua volta in larga misura privo di effettività.
Di qui la necessità di un radicale cambiamento di rotta.
La Commissione a questo riguardo ritiene che la riforma dovrebbe orientarsi lungo alcune direzione fondamentali.
Mantenere la centralità della pena detentiva quale risposta sanzionatoria per i reati di rilievo, misurata comunque
secondo parametri di minore gravità rispetto ai livelli di previsione vigente. Prevedere a fianco della pena detentiva
un articolato complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, intese quali pene principali che devono essere
configurate in luogo (o in alternativa) a quella detentiva dalla singola norma penale incriminatrice per i reati con
riferimento ai quali esigenze di politica criminale consentono, o addirittura consigliano la rinuncia, quantomeno in
prima battuta, alla pena detentiva. Punto qualificante della riforma dovrebbe essere che queste pene dovranno essere
applicate direttamente dal giudice di cognizione in sede di giudizio, e non invece in fase di esecuzione da giudici
diversi quali alternative alla sanzione detentiva irrogata. Si ritiene infine importante evitare che le pene siano preda
troppo agevole di istituti vanificatori applicati con automatismi e senza particolari condizioni (si pensi alla attuale
disciplina della sospensione condizionale della pena).
Nel suo complesso questa disciplina dovrebbe condurre: a) a ridurre, se non ad eliminare, lo scarto esistente fra
temibilità astratta del sistema punitivo e sua scarsa efficacia concreta, attenuando la durezza teorica delle sanzioni,
ma creando un sistema concretamente più temibile attraverso la applicazione di un complesso di sanzioni
effettivamente applicate; b) a contribuire, attraverso una ampia previsione ed utilizzazione delle pene alternative, ad
una forte decarcerizzazione del sistema punitivo; c) a rendere comunque, nel suo complesso, più efficace il sistema
di prevenzione generale.
La Commissione rileva che una proposta di questo tipo, che si discosta dagli atteggiamenti tradizionali assunti dai
progetti Pagliaro e Riz, è coerente con le indicazioni, sia pure circoscritte, desumibili dalla legge sulla
depenalizzazione approvata definitivamente il 16 giugno 1999 (art. 10) e dal disegno di legge in dirittura di arrivo
sulla competenza penale dei giudici di pace (art. 16).
Ritiene che sul terreno di una proposta di largo respiro, sganciata dalle contingenze degli accadimenti quotidiani,
una scelta di mitigazione complessiva della pena detentiva e di ampio uso di pene diverse dal carcere, nel quadro di
un sistema finalmente efficace sul terreno della esecuzione, realizzi in modo soddisfacente le esigenze di
prevenzione generale inseguite inutilmente dalle numerose leggi che, nel passato più o meno recente, hanno ritenuto
di fronteggiare i fenomeni criminali emergenti con aumenti indiscriminati delle pene detentive.
Né ritiene che un ampio abbandono della previsione della pena carceraria significhi indebolimento del sistema
punitivo. Per fare un esempio fra i tanti possibili, si consideri l'omicidio colposo, e ci si domandi se a realizzare le
esigenze della prevenzione generale risulti più incisiva la applicazione di una pena detentiva non elevata coperta da
sospensione condizionale (accompagnata di regola da una condanna ad un risarcimento dei danni coperta a sua volta
dalla compagnia di assicurazione), ovvero quella di una pena diversa (sospensione o ritiro della patente in caso di
reato commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale; sospensione dalla professione in caso di
reato commesso con violazione delle norme di perizia professionale, ecc.) non (sempre) soggetta a sopensione
condizionale e pertanto effettivamente applicata al condannato.
3. La reclusione. La reclusione deve mantenere un ruolo di centralità nei reati di un certo rilievo, soprattutto in
quelli gravi (es., i delitti dolosi contro la persona, contro lo Stato, dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, di criminalità organizzata, ecc).
La Commissione non ritiene di assumere posizione sul problema relativo alla eliminazione della pena
dell'ergastolo, che è all'attenzione del Parlamento, ma comunque sottolinea la piena compatibilità di tale
eliminazione con il nuovo sistema penale. Evidenzia che, allo scopo di evitare una eccessiva attenuazione della
risposta sanzionatoria nei confronti dei reati più gravi, in caso di sua abolizione occorrerà ripensare le
condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e l'istituto della imprescrittibilità dei reati, che
sganciato dalla tipologia della pena dovrà necessariamente essere ancorato a criteri di sostanza.
Ritiene che occorra comunque: a) una profonda revisione delle cornici edittali, in grado di eliminare
l'eccessivo potere discrezionale del giudice nella determinazione concreta della pena; b) un ragionevole
ridimensionamento dei massimi edittali di pena, in assoluto (in tale direzione la schema Pagliaro ha previsto
che la pena detentiva non potesse superare i ventiquattro anni), e con riferimento a ciascun reato, rendendo
semmai più congrui i minimi.
Nella determinazione dei minimi e dei massimi edittali individuabili nei confronti di ciascun reato si
dovrebbero d'altronde introdurre criteri di razionalizzazione, quali la previsione di "classi" di reati con
cornici edittali standardizzate (es., reclusione da due a quattro anni, da tre a cinque anni, da cinque ad otto
anni, ecc.), ovvero indicazioni di massima in ordine al rapporto che deve intercorrere tra il minimo ed il
massimo della pena (es., massimo non superiore al triplo del minimo e comunque scarto non superiore ad un
determinato ammontare di anni o di mesi di pena detentiva).
Ove l'ergastolo dovesse essere eliminato, la pena detentiva sostitutiva dovrebbe essere comunque superiore
alla misura massima stabilita per la reclusione (es., trenta anni).
Nel caso in cui venisse confermata la presenza delle contravvenzioni (sul problema v. parte II), dovrebbe
essere comunque eliminata la pena dell'arresto, secondo le linee già realizzate dalla legge di depenalizzazione
approvata recentemente.
4. Le pene diverse dalla reclusione. Nei confronti dei reati di minore gravità, o con riferimento ai quali ragioni di
politica criminale sconsigliano comunque la utilizzazione della sanzione carceraria, la Commissione propone la
configurazione di un complesso articolato di pene principali diverse dal carcere previste direttamente dalle singole
norme penali incriminatrici con riferimento a ciascun reato, ed applicate dal giudice di cognizione con la sentenza di
condanna. Alcune di queste pene potrebbero assumere esclusivamente la veste di pena principale. Altre potrebbero
essere configurate come pene principali, ma essere altresì utilizzate, in ipotesi di reati puniti con la pena detentiva,
come pene accessorie.
Pene esclusivamente principali dovrebbero essere: a) la reclusione (da sei mesi a ventiquattro anni), b) la detenzione
domiciliare (da un mese a due anni), c) la multa (nonché l'ammenda ove si mantenga la distinzione fra delitti e
contravvenzioni).
Pene che potrebbero assumere la veste di pene principali o di pene accessorie potrebbero essere: a) l'interdizione da
uno o più pubblici uffici, b) l'interdizione da una professione, arte o attività, c) l'interdizione da uffici direttivi delle
persone giuridiche o imprese, d) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, e) la sospensione
dall'amministrazione di determinati beni, f) la confisca, g) il ritiro o la sospensione della patente di guida, h) il
divieto di espatrio o di allontanamento da un Comune o da una Provincia, i) il divieto di ingresso in locali pubblici o
aperti al pubblico, l) il divieto di accesso a luoghi di svolgimento di manifestazioni sportive, m) la pubblicazione o
trasmissione della notizia di condanna, n) la prestazione lavorativa non retribuita a favore della collettività o il
lavoro sostitutivo o socialmente utile.
La scelta di prevedere pene principali diverse dalla reclusione pone problemi comuni e problemi specifici relativi ad
alcune delle sanzioni non detentive configurate.
Comune è la individuazione della reazione dell'ordinamento alle violazioni degli obblighi connessi alla esecuzione
delle pene non detentive o interdittive inflitte e non rispettate. Problema che la legge sulla depenalizzazione e il
disegno di legge sulla competenza del giudice di pace hanno risolto prevedendo un autonomo delitto punito con
pena detentiva nei casi di inosservanza grave o di violazione reiterata degli obblighi, ma che può essere affrontato
anche in maniera diversa a seconda del tipo di sanzione di cui si tratta e del tipo di infrazione commessa.
La Commissione ha approfondito specificamente il problema nei confronti della pena principale della detenzione
domiciliare, che nel quadro del sistema sanzionatorio ipotizzato dovrebbe essere lo strumento più utilizzato di
sostituzione della pena carceraria.
La Commissione osserva incidentalmente che questo istituto: a) nella sua qualità di pena principale eviterebbe sia le
obiezioni manifestate nei confronti delle pene detentive brevi, in quanto sanzione eseguibile all'esterno del circuito
carcerario, sia quelle di modesta afflittività e di ridotta capacità di prevenzione di cui è stata accusata la libertà
controllata; b) potrebbe assumere il contenuto della attuale misura alternativa alla pena detentiva breve (il
condannato alla pena della detenzione domiciliare non può allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di
privata dimora o dal luogo pubblico di cura o di assistenza indicato dal giudice, salva la autorizzazione ad
allontanarsi per comprovate esigenze di vita).
In tema di reazione dell'ordinamento alla violazione degli obblighi connessi alla sua esecuzione la maggioranza
della Commissione ha sostenuto che essa potrebbe essere individuata nella sostituzione automatica con la reclusione
per un periodo pari alla durata della detenzione domiciliare ancora da espiare in caso di allontanamento duraturo dal
luogo di espiazione stabilito. Nei casi di allontanamento non duraturo, o della violazione delle altre prescrizioni
eventualmente impartite dal giudice, si potrebbe prevedere che la trasformazione sia subordinata all'esito di una
valutazione in concreto della gravità della violazione, allo scopo di evitare una conversione automatica a fronte di
microviolazioni non sufficientemente significative. Conversione automatica, o valutazione discrezionale, potrebbero
essere affidate al magistrato di sorveglianza, come avviene oggi per le sanzioni sostitutive delle pene detentive
brevi.
Con riferimento alla inosservanza delle prescrizioni implicite nella inflizione delle pene interdittive (es.,
professionista sospeso che esercita la professione) occorrerebbe pensare a soluzioni analoghe, riferite alla specificità
ed alla gravità di ciascuna infrazione, che potrebbero andare dalla previsione di un autonomo reato in caso di
infrazione punito a sua volta con la reclusione o con una sanzione diversa (es., detenzione domiciliare), alla
applicazione di sanzioni minori quali una pena pecuniaria in aggiunta alla esecuzione totale della pena interdittiva
inflitta, o ad un incremento della durata della pena interdittiva stessa.
Con riferimento alla pena della prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività o del lavoro
sostitutivo o socialmente utile la Commissione ritiene di dovere richiamare innanzitutto la attenzione sulle
condizioni cui dovrebbe essere comunque subordinata una proficua utilizzazione dell'istituto: la approvazione di una
specifica normativa ad hoc la quale preveda la regolamentazione e/o la stipulazione di convenzioni con gli enti
pubblici e privati che dovrebbero essere coinvolti nella utilizzazione dei condannati, la previsione di una copertura
assicurativa per il caso di infortuni o danni cagionati a terzi o all'ente, indicazioni sulla natura del rapporto di lavoro,
sulle responsabilità connesse, sugli obblighi di riferire alla autorità giudiziaria gli inadempimenti e le violazioni
commesse dal condannato, e quant'altro appaia utile per evitare che la sanzione, pur prevista astrattamente, risulti di
fatto impraticabile. Al riguardo non è inutile ricordare che sulla carta il lavoro sostitutivo è già previsto dalle norme
sull'ordinamento penitenziario, ma è rimasto inattuato proprio a causa della mancanza delle condizioni per il suo
funzionamento.
Quanto al contenuto, taluno ha sostenuto che la prestazione dovrebbe essere misurata in ore-lavoro/attività, con
possibilità di svolgimento continuativo o in un periodo 'concentrato' oppure diluito nel tempo libero e/o nel fine
settimana, allo scopo di soddisfare le esigenze di vita del condannato. In caso di inosservanza, si potrebbe pensare
alla sua conversione (dell'intero o del residuo) in detenzione domiciliare, o alla previsione di un delitto punito con
analoga pena.
Si può infine rilevare che l'istituto, oltre che essere previsto come pena, può entrare a fare parte delle misure cui
subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena, o essere considerato strumento di conversione
della pena pecuniaria non pagata.
Nel concludere, la Commissione osserva che la scelta compiuta a livello generale di prevedere un ampio spettro di
pene principali sostitutive della reclusione dovrà trovare modalità e confini di realizzazione nelle opzioni di parte
speciale. Nell'impossibilità di affrontare in questa prima fase di lavoro i problemi connessi a queste scelte, si limita a
prendere atto di quanto è stato elaborato dalla Sotto-commissione in via meramente esemplificativa, e senza nessuna
pretesa di definitività.
5. La pena pecuniaria. In tema di pena pecuniaria la Commissione rileva innanzitutto la sua attuale pressochè totale
inefficacia. Quando essa è sospesa condizionalmente non esercita pressoché nessuna funzione preventiva (salva la
perdita di una possibilità nella reiterazione della sospensione stessa). Fuori dai casi di oblazione, emerge che la
multa e l'ammenda risultano in larghissima misura ineseguite: dalle indicazioni statistiche desumibili dall'annuario
1997 del servizio informativo del casellario giudiziale si ricava che a fronte di 2.257 miliardi di pene pecuniarie da
riscuotere, in sette anni sono stati riscossi meno di 84 miliardi. Anche se questi dati sono condizionati dalla
circostanza che comprendono anche la condanna a multe elevate congiunte alle pene detentive per reati con
riferimento ai cui autori la riscossione è di regola impraticabile (si pensi alla materia degli stupefacenti), essi sono
comunque stupefacenti, tanto più preoccupanti ove si consideri che a fronte dei costi affrontati dallo Stato per la
riscossione quest'ultima si conclude verosimilmente in una perdita finanziaria per le casse pubbliche.
Muovendo da queste considerazione, la Commissione ritiene di potere procedere ad un primo gruppo di proposte di
riforma:
a) mantenere la pena pecuniaria, ma escludere, in via di principio, la applicazione congiunta con la pena detentiva,
secondo uno schema già proposto dal progetto Pagliaro (con la precisazione che problema diverso concerne la,
doverosa, ricerca e recupero dei proventi della attività criminosa, che deve esser perseguita con indagini patrimoniali
e conseguente sequestro e confisca).
b) assegnare alla pena pecuniaria minimi edittali non irrisori e soprattutto escluderla dalla sfera di azione della
sospensione condizionale della pena.
c) ammettere che la pena pecuniaria possa essere prevista in alternativa a quella detentiva, nella prospettiva di un
allargamento della oblazione ai delitti puniti con pena pecuniaria alternativa.
d) prevedere forme di pagamento tempestivo della pena pecuniaria definitivamente irrogata, con automatica
trasformazione in sanzione diversa in caso di inadempimento. In questa prospettiva la Commissione ipotizza la
possibilità che al condannato sia concesso un congruo termine (es., trenta giorni) per pagare, con possibilità di
ottenere una rateizzazione ove dimostri di non essere in condizioni economiche che gli consentono di pagare in una
unica soluzione; che trascorso tale periodo la pena pecuniaria sia automaticamente convertita in libertà controllata o
in lavoro di utilità sociale (con eventuale possibilità di pagamento tardivo con l'aggravio di spese ed interessi). Nel
corso della discussione era emersa anche l'ipotesi, superata, di prevedere un versamento anticipato da parte
dell'imputato prima del giudizio, o dopo la sentenza di primo grado (pendente l'appello), di una somma a titolo
cauzionale per garantire almeno in parte l'esecuzione della pena definitiva, con restituzione in caso di assoluzione.
La Commissione ha ulteriormente discusso sulla opportunità di utilizzare il meccanismo dei tassi giornalieri previsto
dal progetto Pagliaro. Alcuni commissari si sono dichiarati favorevoli alla introduzione di questo sistema, utilmente
sperimentato in alcune legislazioni europee. La maggioranza della Commissione, pur ritenendo che in astratto si
tratti di modello ineccepibile, ha espresso forti perplessità sulla opportunità di inserirlo nel contesto italiano, stante
le peculiari caratteristiche del nostro sistema fiscale che non è in grado di assicurare certezza sui redditi.
Si è infine convenuto sulla opportunità di prevedere criteri di determinazione in concreto della pena pecuniaria che
tengano conto delle condizioni economiche del condannato (v. oltre n.9).
6. La confisca. In merito alla collocazione ed all'oggetto della confisca nel nuovo quadro sanzionatorio vi è stata
ampia convergenza nel giudicare incongruo il suo inquadramento fra le misure di sicurezza, trattandosi di situazioni
in cui più che di 'pericolosità sociale del reo' si dovrebbe parlare di 'pericolosità' della cosa. Nel contempo, pur
riconoscendo alla confisca una funzione preventiva, alla maggioranza dei commissari non è sembrata accoglibile la
proposta, avanzata da taluno, di una utilizzazione dell'istituto per la neutralizzazione delle risorse patrimoniali di
ingiustificata provenienza: il trasferimento nel codice di una normativa riecheggiante l'art. 12 sexies L. 7 agosto
1992 n. 356 (modificato dalla L. 8 agosto 1994 n. 501) non è stato giudicato compatibile con le indicazioni della
Corte costituzionale, e comunque ammissibile oltre la discutibile realtà delle misure di prevenzione. Questo
precisato, la Commissione propone di considerare la confisca non più come una misura di sicurezza, ma come una
pena, a seconda dei casi accessoria o principale, concernente singoli beni tassativamente indicati dalla legge.
Quanto alle modalità di irrogazione la Commissione suggerisce l'abolizione degli attuali ambiti di discrezionalità
giudiziale, prevedendo sempre la sua obbligatorietà, ed eliminando l'incongruità della differenza di disciplina fra
confisca del prezzo del reato e confisca del prodotto, profitto e delle cose strumentali all'attività criminosa.
Quanto all'oggetto, salva, di regola, l'esclusione dell'istituto in caso di appartenenza a persona estranea al reato, in
ordine al 'profitto' la Commissione giudica proponibile un'estensione a tutti i reati produttivi di profitto della
disciplina attualmente delineata dall'art. 644 u.c. c.p. in materia di usura: stabilendo cioè che in caso di irreperibilità
del prodotto o del profitto vero e proprio del reato la confisca possa coinvolgere, per un importo pari al valore del
profitto realizzato, somme di denaro, beni od utilità di cui il condannato abbia, anche per interposta persona, la
disponibilità, salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento.
7. La sospensione condizionale della pena. La maggioranza della Commissione ritiene, sul solco di quanto
previsto dallo schema di legge-delega Pagliaro, che la sospensione condizionale della pena debba essere sottoposta a
una o più condizioni, in modo che il condannato avverta concretamente di avere subito una condanna e di essere
sottoposto ad una prova. In questa prospettiva da un lato si propone che quando vi sia una persona danneggiata,
anche in assenza di costituzione di parte civile, la sospensione condizionale debba essere subordinata al pagamento
di un risarcimento del danno, parziale e provvisorio, e che in caso di rifiuto da parte della persona danneggiata ad
accettare tale pagamento il giudice stabilisca il versamento di una somma equivalente su di un istituendo fondo per
le vittime dei reati. Dall'altro si sostiene che l'imposizione di altri obblighi potrebbe avvenire sulla falsariga di
quanto stabilito in materia di affidamento in prova al servizio sociale (es., prestazione di attività socialmente utili).
Alcuni commissari hanno obbiettato che una disciplina di questo tipo sarebbe eccessivamente rigorosa. In
particolare, che la introduzione della problematica del risarcimento del danno in materia di sospensione condizionale
susciterebbe problemi, specie nei casi in cui intervengano le compagnie di assicurazione; che la imposizione di
condizioni non dovrebbe comunque mai essere prevista obbligatoriamente, ma essere valutata discrezionalmente dal
giudice caso per caso; che, piuttosto, si potrebbe prevedere la revoca della sospensione condizionale in caso di
grossolane ed ostinate violazioni delle prescrizioni eventualmente inflitte.
La Commissione è orientata a negare la sospensione condizionale delle pene pecuniarie.
Quanto al problema della sospendibilità delle pene accessorie, vi è consenso generale sul fatto che l'estensione
automatica introdotta con la novella del 1990 è d'ostacolo ad una opportuna graduazione delle risposta penale nei
casi in cui l'effettiva applicazione di sole pene accessorie appaia sufficiente a realizzare i fini dell'ordinamento. In
questa prospettiva una parte della Commissione suggerisce la introduzione di un sistema elastico, che consenta,
occorrendo, di distinguere ai fini della sospensione tra pena principale ed accessoria; altra parte auspica invece il
ritorno alla vecchia disciplina. Si è altresì convenuto sulla opportunità di prevedere limitazioni alla utilizzazione
dell'istituto nei confronti della restante gamma di pene principali diverse dalla reclusione, tenendo conto delle
situazioni specifiche in cui esse saranno chiamate ad operare.
Per ciò che concerne l'ambito di applicazione, la Commissione rileva che i suoi limiti devono essere individuati
facendo riferimento ad un massimo di pena coerente con la riduzione prevista dei limiti edittali. In materia di
ripetibilità essa concorda sulla conferma del sistema vigente (ripetibilità una seconda volta, alle condizioni di cui
all'art. 164 comma 1 e ultimo). Ove più sentenze di condanna a pena sospesa siano pronunciate per reati unificabili
in un unico cumulo giuridico, la sospensione condizionale dovrebbe essere considerata concessa una sola volta. Si
propone infine di attribuire rilevanza all'intervenuta riabilitazione, eliminando l'effetto ostativo previsto dall'art. 264
comma 2 c.p..
8. L'oblazione. La Commissione rileva preliminarmente come l'istituto della oblazione non trovi riscontro nei codici
penali tedesco, austriaco, spagnolo, portoghese e francese, il che dimostra il suo superamento da parte dei più recenti
ordinamenti penali europei. Per contro lo schema di legge-delega Pagliaro pone l'oblazione tra le "cause di
estinzione degli effetti penali", prevedendo "l'opportunità di prevedere l'oblazione, sia in forma automatica sia in
forma discrezionale, non solo per le contravvenzioni ma anche per i delitti", mentre il progetto Riz si limita a
considerare la oblazione automatica come causa di estinzione delle contravvenzioni.
Entrando nel merito del problema la Commissione osserva che una causa estintiva automatica sul modello del
vigente art. 162 c.p. presuppone la previsione di reati lievi, al punto che la loro definizione giudiziale possa essere
rimessa alla volontà dispositiva dell'interessato. Nel quadro di un orientamento diretto a realizzare un diritto penale
inteso quale extrema ratio di tutela, il sistema non dovrebbe annoverare fatti di entità minima, tali da giustificare la
loro automatica estinzione in un ambito transattivo delle pretese economiche della amministrazione. Ciò significa
che, se non vuole entrare in contraddizione con sé stessa, una riforma ispirata ai canoni di sussidiarietà (extrema
ratio) non può prevedere fatti di reato suscettivi di essere sottoposti ad un regime di oblazione automatica, che deve
essere pertanto eliminata. Al riguardo non è superfluo osservare che anche sul versante dell'illecito amministrativo si
registra una tendenza alla riduzione del c.d. pagamento in misura ridotta (art. 16 L. n. 689/81): un recente esempio è
offerto dagli artt. 188, 190 e 196 del D.Lgs. n. 58/98.
Tali considerazioni non valgono per la vigente oblazione speciale regolata dall'art. 162 bis c.p., il cui mantenimento
futuro può trovare una giustificazione su piani diversi.
La sopravvivenza di contravvenzioni sanzionate alternativamente con pene detentive (detenzione domiciliare) o
interdittive e pecuniarie consentirebbe di conservare alla oblazione lo spazio operativo previsto dall'attuale art. 162
bis c.p. In ogni caso, la Commissione ritiene che siano maturi i tempi per proporre l'estensione dell'area di
operatività dell'istituto ai delitti puniti con pena pecuniaria, eventualmente alternativa a pena detentiva o interdittiva,
alla condizione che la pena pecuniaria sia astrattamente determinata in misura tale da svolgere la sua connaturata
funzione preventiva anche in ipotesi di estinzione del reato mediante oblazione.
Ipotizzato il mantenimento del modello disciplinato dall'art. 162 bis c.p., la Commissione ritiene opportuno
confermare, nonostante le perplessità manifestate da una parte della dottrina in ordine al rispetto dei principi di
legalità e certezza del diritto, il potere-dovere del giudice relativo al previo accertamento della inesistenza e della
eliminazione di conseguenze dannose o pericolose del reato e della non particolare gravità oggettiva del fatto.
Così ridefinita la portata della oblazione, è evidente che essa verrebbe a svolgere, al di là della sua oggettiva
funzione deflattiva dei processi penale, una specifica funzione incentivante rispetto al soddisfacimento delle pretese
risarcitorie della vittima ovvero alla restaurazione del bene offeso, ed in questa prospettiva potrebbe anche trovare
una collocazione diversa da quella attuale.
9. La commisurazione della pena. La Commissione rileva che la disciplina in vigore, caratterizzata da una opzione
teorica apparentemente ispirata ad un modello di discrezionalità vincolata (artt. 132 e 133), ma da una situazione
concreta contraddistinta da una discrezionalità incondizionata del giudice, elude le più elementari esigenze di
legalità e di certezza del diritto.
Le cause di questa situazione sono individuabili da un lato nella stessa legislazione penale, che: a) nell'art. 133 c.p.
enuncia criteri di carattere onnicomprensivo, e pertanto già di per sé poco orientativi; b) non indica chiavi di lettura
finalistiche degli stessi, consentendo quindi possibili utilizzazioni di segno diverso; c) prevede limiti edittali di pena
troppo ampi, consentendo margini eccessivi di discrezionalità già con riferimento alla determinazione della pena in
concreto per i singoli reati; d) con le riforme introdotte a partire dagli anni settanta (novella del 1974, riforma
penitenziaria, legge 689/81) ha dilatato il potere discrezionale del giudice rendendolo in molti casi arbitro della pena
in concreto. Dall'altro nell'instaurarsi di una prassi nella quale l'obbligo di motivazione, pur previsto, è largamente
eluso, per cui i criteri seguiti concretamente dal giudice non sono di regola leggibili. Ulteriore elemento distorcente è
ravvisabile nello squilibrio delle pene, rispetto alla cui severità l'intervento giudiziario si è posto spesso in chiave di
(problematica, e soprattutto casuale) correzione equitativa.
La Commissione ritiene che presupposto indispensabile di una disciplina accettabile sia la rimozione delle cause a
monte della sopra menzionata discrezionalità non vincolata: la riduzione (nel quadro di una generalizzata
diminuzione del carico sanzionatorio previsto per ciascun reato) dello scarto fra minimo e massimo edittale e la
eliminazione degli istituti che hanno aumentato la discrezionalità giudiziale in materia di determinazione in concreto
della pena (revisione della disciplina del concorso di circostanze eterogenee, del concorso di reati e della
continuazione: v. oltre). Nel corso della discussione plenaria è anche emersa la opportunità di segnalare, anche se
non si tratta di materia afferente alla disciplina del diritto penale sostanziale, le distorsioni che la determinazione in
concreto della pena subisce nei casi di patteggiamento.
Con riferimento ai criteri ai quali ancorare la utilizzazione del potere discrezionale entro i confini assai più
circoscritti che dovrebbero scaturire dalle testé menzionate modificazioni legislative, la Commissione, pur
concordando sulla necessità di superare la disciplina dell'art. 133 c.p. sia con riferimento alle indicazioni di cui al
primo, sia soprattutto con riferimento a quelle di cui al secondo comma, nella discussione plenaria ha rivelato un
certo scetticismo in ordine alla possibilità di suggerire criteri in grado di orientare con assoluta univocità il giudice.
Ritiene comunque possibile proporre una formulazione che, recependo le indicazioni desumibili dalla più moderna
dottrina penalistica e dalle scelte operate da alcuni recenti codici penali europei (tedesco, austriaco, portoghese,
spagnolo, francese), per la determinazione in concreto della pena faccia perno sui seguenti elementi: a) primato del
principio di colpevolezza per il fatto commesso, b) considerazione, agli effetti di una possibile attenuazione della
responsabilità penale individuata tenendo conto della colpevolezza per il fatto, delle finalità di prevenzione speciale
enunciate dall'art. 27 comma 3 Cost. Con l'ulteriore precisazione che deve essere esclusa la considerazione della
prevenzione generale, che può sicuramente porsi come criterio fondamentale di configurazione delle fattispecie di
reato e delle relative pene astratte, ma non come legittimo criterio di commisurazione della pena. Su questa base
potrebbe essere suggerita una formula di questo tipo: il giudice determina la pena con riferimento alla colpevolezza
per il fatto; essa può essere ulteriormente diminuita in considerazione delle esigenze di prevenzione speciale.
E' appena il caso di rilevare la diversità tra l'enunciazione proposta del criterio di colpevolezza come base della
commisurazione della pena e la formulazione del progetto Riz (che ricalca la disciplina vigente) e dello stesso
schema di legge-delega Pagliaro (art. 39.1), anche se la distanza fra la impostazione proposta e quella formulata da
Pagliaro si stempera considerando che l'art. 39.2 ammette la operatività dei "fattori oggettivi di aggravamento della
pena" (in quanto tali non ricollegabili alla colpevolezza "solo in quanto riflessi nella colpevolezza".
Un ulteriore criterio, previsto per ragioni non commisurative in senso stretto bensì perequative, deve essere
individuato per la determinazione della pena pecuniaria, rispetto alla quale il giudice deve tenere conto delle
condizioni economiche del reo, con facoltà di aumentarla fino al triplo, ovvero di diminuirla fino ad un terzo, al fine
di renderla, rispettivamente, nei limiti del possibile efficace o non eccessivamente gravosa.
10. Le circostanze del reato. Rilevata l'eccessiva discrezionalità giudiziale conseguente alla disciplina vigente del
calcolo delle circostanze, la Commissione propone:
a) una tendenziale diminuzione delle circostanze del reato previste nella parte speciale del codice penale, la
rivalutazione delle circostanze ad effetto speciale (con particolare attenzione alle ricadute della loro previsione sulla
prescrizione), l'eventuale eliminazione delle circostanze attenuanti generiche;
b) il superamento del sistema vigente di calcolo delle circostanze eterogenee: conformemente alle indicazioni dello
schema di legge-delega Pagliaro si ritiene che tutte le circostanze debbano essere valutate, e che si debba prevedere
un'apposita disciplina per il computo delle circostanze che determinano effetti diversi sulla pena;
c) la valorizzazione della recidiva, con la eliminazione della sua facoltatività, anche se accompagnata da un
ridimensionamento dei suoi effetti e da una eventuale cancellazione della recidiva generica.
11. La disciplina sanzionatoria del concorso di reati. Rilevata la eccessiva discrezionalità giudiziale conseguente
alla disciplina vigente del cumulo giuridico delle pene in tema di concorso formale dei reati e di continuazione nel
reato, che determina fra l'altro fenomeni di aumenti insignificanti per i reati ulteriori alla infrazione più grave, la
maggioranza della Commissione ritiene che il regime vigente debba essere modificato fissando un limite minimo di
aumento per ciascun reato in concorso (es., un quarto della pena edittale minima, o della pena da irrogare in
concreto); fermi restando il limite massimo del triplo della pena per la violazione più grave, ed i limiti generali delle
singole sanzioni.
Con particolare riferimento alla materia della continuazione nel reato la maggioranza della Commissione suggerisce
altresì di formalizzare i fatti interruttivi della medesimezza del disegno criminoso: ad esempio, considerando
interruttiva l'emissione di un provvedimento del giudice (rinvio a giudizio, condanna di primo grado, ecc.), salva la
possibilità che l'interessato dimostri che la mancata conoscenza non dipende da suo dolo o colpa.
Considerando le incertezze giurisprudenziali emerse anche di recente, la maggioranza della Commissione ritiene
infine opportuno che il legislatore chiarisca che il cumulo giuridico debba essere effettuato: a) individuando la
violazione più grave in concreto, b) operando gli aumenti di pena in termini omogenei alla previsione del legislatore
(se il reato più grave è punito con pena detentiva, l'aumento per il reato satellite deve essere effettuato con
riferimento alla pena, es. pecuniaria, prevista per quest'ultimo).
Secondo il parere di alcuni componenti della Commissione occorrerebbe invece superare l'attuale disciplina della
continuazione generalizzando il cumulo giuridico secondo l'orientamento che vanifica il contenuto del requisito
della medesimezza del disegno criminoso, e che, pur fra contraddizioni, sembra ormai saldamente radicato nella
giurisprudenza. Occorrerebbe cioè tenere presente che la più elevata articolazione delle sanzioni penali spinge
necessariamente verso sistemi di cumulo giuridico che rimettono a criteri normativi o alla valutazione del giudice la
composizione complessiva della pluralità delle sanzioni da irrogare; e che si dovrebbe comunque prevedere -come
avviene attualmente in sede di cumulo- l'aggiornamento della sanzione complessiva in considerazione dell'eventuale
sopravvenire di nuove condanne, nonché prevedere un limite alla confluenza di nuove condanne nel cumulo
precedentemente effettuato.
12. Cenni sulla revisione della disciplina delle misure alternative alla reclusione. In breve: a) l'affidamento in
prova al servizio sociale dovrebbe recuperare la sua funzione originaria, ed essere circoscritto a pene non superiori a
tre anni (o alla minor pena coerente con l'abbassamento complessivo del livello sanzionatorio) inflitte con la
sentenza di condanna, e non coinvolgere residui di pene più elevate (nei confronti delle quali opererebbe la
liberazione condizionale);
b) la liberazione condizionale (con contenuti arricchiti) dovrebbe risultare applicabile nei confronti di residui di pena
non superiori ad un certo limite (attualmente individuato in cinque anni, ma che dovrebbe essere rapportato al nuovo
livello sanzionatorio complessivo);
c) la semilibertà dovrebbe costituire misura propedeutica alla liberazione condizionale o un'alternativa
all'affidamento in prova; dovrebbe essere mantenuto il limite della espiazione di almeno della metà della pena, con
un residuo non superiore a sette anni (o meno, a seconda delle scelte concretamente effettuate in tema di liberazione
condizionale);
d) la liberazione anticipata (che non costituisce una vera misura 'alternativa') dovrebbe continuare a svolgere il ruolo
attuale, ma dovrebbe essere ridimensionata sul piano degli effetti (es., trenta giorni di riduzione per semestre).
13. Incentivazione di condotte di riparazione dell'offesa. La Commissione ritiene che in un sistema in cui la
reazione penale è strumento di tutela sostanziale dei beni giuridici, e non di astratta retribuzione, meriti di essere
considerata la possibilità di modulare le risposte anche in funzione di comportamenti successivi al reato, in modo da
stimolare con la previsione di un trattamento più favorevole la reintegrazione di interessi non ancora
irrimediabilmente pregiudicati.
Le tecniche utilizzabili per raggiungere questo scopo sono individuabili nella previsione di circostanze attenuanti
ovvero di non punibilità, configurate in modo tale da assicurare comunque un equilibrio con le esigenze di
prevenzione generale. Nell'ambito delle circostanze attenuanti il margine di manovra appare più ampio, poiché si
può trovare spazio per un rilievo attenuante di condotte risarcitorie o riparatorie al di sopra della misura normale
senza che la tenuta generalpreventiva del sistema risulti vanificata a causa dell'esito comunque sanzionatorio. Per
quanto concerne la previsione di eventuali cause di non punibilità l'esclusione della pena potrebbe essere collegata,
senza porre a rischio la tenuta generalpreventiva del sistema, a condotte di riparazione dell'offesa realizzate entro
soglie temporali che assicurino una reintegrazione 'utile', perché tempestiva, dell'interesse offeso dal reato, e
consentano di ravvisare nella condotta riparatoria un ritorno all'osservanza del precetto violato.
Questa impostazione pone comunque un rilevante problema di raccordo con la disciplina del recesso attivo, che
oggi, e nello schema di legge-delega Pagliaro, consente una mera diminuzione di pena. Come già rilevato (parte VII,
n. 2), la Commissione non è tuttavia ostile ad ammettere la non punibilità in caso di recesso attivo, considerando che
tale opzione, oltre ad avvicinare il nostro sistema a quelli europei, verrebbe a privare del loro carattere eccezionale le
cause di non punibilità previste dal codice per condotte successive all'offesa del bene e in grado di consentire una
piena neutralizzazione di essa (ritrattazione nella falsa testimonianza, impedimento della contraffazione, alterazione
di monete, ecc., ritiro dalla radunata sediziosa).
Accogliendo la soluzione della non punibilità del recesso attivo, diviene d'altronde possibile riflettere sulla
praticabilità del modello adottato dal § 167 del codice austriaco, che sotto la denominazione di "ravvedimento
operoso" esclude la punibilità di numerosi reati contro il patrimonio (furto, sottrazione di energie, infedeltà,
appropriazione, truffa, usura, ecc.) se il reo, prima che l'autorità abbia avuto notizia del fatto, volontariamente
risarcisce interamente il danno da lui cagionato o si obbliga contrattualmente a risarcirlo entro un determinato
periodo di tempo.
Per le condotte riparatorie 'tardive' (successive alla scoperta della responsabilità) la loro rilevanza può essere
ammessa nei limiti di una attenuante qualificata o come premessa per l'applicazione di istituti che conducano alla
non punizione con qualche ulteriore costo. Con riferimento a queste condizioni ulteriori un modello è offerto dal
codice portoghese, il cui art. 74 stabilisce che per i reati meno gravi il giudice può dichiarare il reo colpevole, senza
applicare la pena, se a) l'illiceità del fatto e la colpevolezza appaiono diminuite, b) il danno è stato risarcito, c) alla
dispensa dalla pena non si oppongono ragioni di prevenzione. Nella medesima prospettiva si può utilizzare la
estensione dei reati procedibili a querela (es., rendendo procedibili a querela tutti i furti eccettuati quelli realizzati
con violenza o minaccia o in danno dello Stato o di un altro ente pubblico).
14. Astensione dalla pena. La maggioranza della Commissione non ha giudicato opportuno introdurre istituti che
consentano di astenersi dall'infliggere la pena in casi in cui le conseguenze del fatto commesso abbiano gravemente
colpito lo stesso soggetto agente, a cagione dell'eccessivo scarto dai principi generali che un istituto siffatto
comporterebbe. Alcuni componenti della Commissione hanno invece sostenuto la opportunità di verificare
praticabilità e limiti di tale istituto, ritenendolo una utile valvola di sicurezza per situazioni-limite.
Una soluzione di questo tipo, introdotta, al di sotto di una certa soglia di gravità, dal codice penale tedesco, è stata
recepita ed ampliata dallo schema di legge-delega Pagliaro: possibilità di astenersi dall'infliggere la pena, nei reati
colposi, quando il reo abbia subito gli effetti pregiudizievoli del reato in misura tale da far risultare sproporzionata
(in rapporto alla colpevolezza e alle esigenze di prevenzione speciale) l'applicazione della pena (es., incidente
causato a persona cara), e nei delitti dolosi quando gli effetti dannosi si siano verificati soltanto a carico del reo.
15. Cenni sulla prescrizione. La durata della prescrizione dovrà essere commisurata al nuovo livello ed alla nuova
tipologia delle sanzioni. Attenzione dovrà essere prestata al problema della individuazione dei reati imprescrittibili,
problema sul quale in Commissione sono emerse posizioni diverse, rispettivamente estensive e restrittive dell'area
della imprescrittibilità.
16. La funzione rieducativa della pena. Si tratta di principio fondamentale, che deve connotare la intera disciplina
della pena, nella fase della sua previsione generale astratta come in quella della sua commisurazione ed esecuzione.
Uno dei commissari avvocati ha insistito, giustamente, perché si prestasse particolare attenzione alla realizzazione di
questo principio. La Commissione, pur essendo concorde nel ritenere la sua fondamentale importanza, non giudica
di dovere entrare nei dettagli della sua realizzazione in un documento riassuntivo delle linee di tendenza del nuovo
codice penale, ritenendo implicito che il principio in questione dovrà trovare concretamente la più estesa
applicazione. Tiene comunque a sottolineare che le proposte formulate sono ampiamente ispirate all'idea della
prevenzione speciale: basti pensare alla ampia utilizzazione di pene (anche principali) diverse dalla reclusione, a
quanto rilevato in materia di criteri di commisurazione in concreto della pena (dove il principio di rieducazione
costituisce parametro fondamentale di mitigazione della pena determinata in ragione della colpevolezza per il fatto),
al mantenimento (e potenziamento) di sanzioni alternative specificamente finalizzate alla esigenza della
rieducazione.
Nel concludere la parte relativa al sistema sanzionatorio si deve dare altresì atto che due magistrati componenti della
Commissione hanno sostenuto che la limitazione della discrezionalità giudiziale che scaturisce dal complesso delle
innovazioni proposte condurrebbe, a loro avviso, ad un eccessivo irrigidimento del sistema delle pene, e che alcuni
commissari hanno manifestato qualche preoccupazione in ordine all'eccessiva durezza che scaturirebbe dalle
eccezioni previste all'operare della sospensione condizionale della pena e dalla previsione di onerose condizioni per
la applicazione di tale istituto.
IX. L'IMPUTABILITA'.
1. Necessità di mantenere la distinzione fra soggetti imputabili e non. Pur nella consapevolezza degli aspetti di
crisi dell'istituto dell'imputabilità, il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare
irrinunciabile per un diritto penale garantista.
Definita (a livello formale) l'imputabilità come assoggettabilità a pena, i problemi di disciplina attengono, innanzi
tutto, alla individuazione di categorie di soggetti nei cui confronti un rimprovero di colpevolezza non può essere
mosso per le loro condizioni soggettive di incapacità, e nei cui confronti non ha senso l'inflizione di una pena
commisurata alla colpevolezza.
La rilevazione di situazioni soggettive di 'incapacità di colpevolezza' è una costante degli ordinamenti penali
moderni, con soluzioni, peraltro, anche fortemente differenziate. Negli anni '80 è stata avanzata la proposta di
abolire la non imputabilità degli infermi di mente con l'intento di riconoscere la loro pari dignità nello spirito della
riforma avviata dalla legge 180/78; anche tale proposta, peraltro, recupera momenti di rilevanza dell'infermità quale
criterio di differenziazione nell'esecuzione della pena, che per l'infermo si vuole abbia un contenuto terapeutico. La
idea di affermare in via generale l'imputabilità dell'infermo di mente si rivela in realtà una scelta ideologica: la
previsione di una differenziazione di situazioni soggettive e di corrispondenti modelli differenziati di risposta non
può essere eliminata.
2. Questioni d i tecnica legislativa. L'effetto delle condizioni inabilitanti, cui si ricollega la non imputabilità, è
definito sia nel vigente codice che nelle proposte Pagliaro e Riz come 'incapacità di intendere e di volere'. Resta nel
vago l'oggetto dell'intendere e del volere, che invece è esplicitato da formulazioni più 'mirate' di altri codici. La
formula del codice tedesco, ripresa da codici più recenti (spagnolo e portoghese) è incentrata sul nesso fra incapacità
e fatto commesso: incapacità di comprendere il contenuto illecito del fatto, e di agire in conformità a tale
rappresentazione. Pur trattandosi di soluzione raggiungibile in sede di interpretazione, appare opportuno esplicitarla
nel testo del codice.
Per quanto concerne l'individuazione delle condizioni produttive di incapacità, sul piano della tecnica legislativa si
prospettano le possibilità di una disciplina fondata sulla clausola generale dell'incapacità e/o di una tipizzazione di
specifiche fattispecie di esclusione dell'imputabilità. Il codice Rocco fa uso di entrambe.
Per la scelta del tipo di disciplina, vengono in rilievo esigenze in qualche misura divergenti.
Da un lato, le esigenze di certezza appaiono meglio soddisfatte da una disciplina che -presupposta in via normale
l'imputabilità dell'adulto- indichi le condizioni nelle quali essa sia esclusa (il che impegna il legislatore ad una
tipizzazione delle cause di esclusione dell'imputabilità, atta a vincolare l'interprete più di quanto non possano fare, di
per sé sole, le clausole generali della capacità o incapacità). D'altra parte, le indicazioni legislative dovrebbero
essere, per quanto possibile, esaustive rispetto all'esigenza di ricomprendere le diverse situazioni che, alla luce del
sapere scientifico e di criteri di valutazione storicamente acquisiti, appaiono incompatibili con la possibilità d'un
rimprovero di colpevolezza. A tal fine appare necessario utilizzare concetti 'aperti', che nel rispetto del principio di
legalità definiscano in modo chiaro i parametri di riferimento, consentendo un adeguamento al mutare delle
conoscenze scientifiche.
3. Infermità di mente ed altre anomalie. Il primo e fondamentale campo problematico, per la disciplina della (non)
imputabilità, è quello delle situazioni soggettive di 'non normalità psichica'. E' qui che in dottrina si è ravvisata una
crisi dell'istituto dell'imputabilità, per il venire meno di antiche (illusorie) certezze (il paradigma mediconosografico) nelle scienze che si occupano della psiche, dell'infermità e del disagio psichico. Mentre il legislatore
credeva di poter trarre indicazioni univoche, le applicazioni del diritto riflettono invece le incertezze della scienza
psichiatrica attorno alla malattia di mente, al punto che si è potuto rilevare che il concetto di infermità di mente,
utilizzato dal codice, sarebbe divenuto privo di connotazione semantica, essendo diventato inconsistente il parametro
esterno di riferimento.
Quanto ai contenuti, la linea di tendenza nelle applicazioni giurisprudenziali è stata, non senza incertezze, verso un
cauto allargamento delle condizioni rilevanti ai fini dell'esclusione (o riduzione) dell'imputabilità: soluzioni diverse
da quelle 'pensate' dal legislatore decenni addietro, ma consentite dalla 'apertura' dei concetti di malattia o infermità.
Allo stesso modo i codici penali più recenti (spagnolo, portoghese) hanno introdotto formule che allargano i
presupposti della non imputabilità, elencando accanto alla infermità psichica altre condizioni ritenute idonee ad
incidere sulla capacità di intendere e di volere. Le proposte di riforma del codice italiano, pur con modalità diverse,
hanno imboccato la medesima strada. Lo schema Pagliaro aggiunge all'infermità il riferimento ad 'altra anomalia', e
introduce la clausola di chiusura della 'altra causa'. Il disegno Riz mantiene una elencazione tassativa di cause di
esclusione, allargata alla 'gravissima anomalia psichica'. Entrambi aboliscono la proclamata (art. 90) irrilevanza, ai
fini dell'imputabilità, degli stati emotivi e passionali: è un'indicazione di apertura a soluzioni diverse, peraltro già
prospettate nei casi in cui lo stato emotivo abnorme possa ritenersi radicato in una situazione patologica.Nei dibattiti
sulle proposte di riforma è emerso un orientamento critico verso l'impostazione del progetto Pagliaro che, dopo una
elencazione formalmente tassativa di cause di esclusione dell'imputabilità, la rende onnicomprensiva con la
previsione di chiusura di 'altra causa' tale da escludere la capacità di intendere e di volere. Ad avviso della
Commissione l'idea guida deve essere l'adeguamento al sapere scientifico, il che fa propendere per un approccio
legislativo cauto, che non allarghi, ma nemmeno blocchi in modo troppo rigido le situazioni di possibile rilevanza ai
fini dell'imputabilità. Esclusa l'adozione di clausole generali o troppo generiche, il testo legislativo dovrebbe
utilizzare concetti in grado di rendere controllabile l'adeguamento ai saperi scientifici di riferimento.
Secondo alcuni studiosi potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul
concetto di infermità, alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale cui essa ha dato luogo. La Commissione
ritiene tuttavia preferibile un chiarimento legislativo, mediante l'introduzione, accanto alla infermità, della
formula della grave anomalia psichica: ciò renderebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza quali
cause di esclusione dell'imputabilità di situazioni oggi problematiche, come le nevrosi o psicopatie, o stati
momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di
colpevolezza.
Alla preoccupazione che ciò possa indebolire la 'tenuta' generalpreventiva del sistema penale si può
rispondere che nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato
un controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell'imputabilità sono
situazioni riconoscibilmente abnormi.
4. Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti. La disciplina vigente è caratterizzata dall'imputabilità del fatto
commesso in stato di ubriachezza o intossicazione da stupefacenti non accidentale, che abbia provocato una
incapacità piena, e dalla rilevanza, come causa di esclusione dell'imputabilità, dell'intossicazione cronica.
La disciplina dell'ubriachezza non accidentale è oggetto di critica da parte della dottrina, che vi ravvisa una finzione
di imputabilità contrastante con il principio di colpevolezza, e dettata da preoccupazioni di prevenzione generale e
speciale che si ritiene potrebbero essere altrimenti soddisfatte. Una diversa posizione era stata espressa nella lontana
sentenza (n. 33 del 1970) con la quale la Corte Costituzionale ha respinto questioni di legittimità costituzionale
dell'art.92 c. p., sollevate con rif. agli art. 3 e 27 Cost., ritenendo la norma in esame non irragionevole in relazione al
fine. Secondo la Corte, "l'ubriaco, che abbia commesso un reato, risponde per una condotta antidoverosa, cioè per
essersi posto volontariamente o colposamente in condizione di commetterlo"; il titolo della colpevolezza, peraltro,
sarebbe da individuare, in conformità alla giurisprudenza corrente, "sulla base dell'atteggiamento psicologico
assunto dall'ubriaco al momento nel quale commise il fatto".
Questa motivazione evidenzia i punti di frizione con il principio di colpevolezza: da un lato, viene asserita
l'antidoverosità dell'ubriacarsi, nella cui natura volontaria o colposa sarebbe da ravvisare il fondamento della
responsabilità; dall'altro, il coefficiente psicologico che sorregge il fatto commesso è assunto a 'titolo della
colpevolezza', con conseguente possibilità di affermare un 'titolo di colpevolezza' più grave di quello ricollegabile al
fatto dell'ubriacarsi. La struttura di una simile disciplina non è quella della colpevolezza per il fatto, ma quella del
versari in re illicita.
Concordemente condivisa la necessità di una riforma, le soluzioni proposte sono diverse.
Lo schema Pagliaro suggerisce che il soggetto "risponda per dolo se, quando si è posto nello stato di incapacità, ha
agito almeno con dolo eventuale rispetto al fatto di reato, oppure per colpa, se il fatto era da lui, in tale momento,
concretamente prevedibile come conseguenza di tale stato". Questa proposta, intesa a recuperare il rispetto del
principio di colpevolezza, è stata anch'essa sottoposta a critica proprio con riferimento a tale principio: si tratterebbe,
si è detto, di una variante del modello del versari in re illicita, che apre problemi probatori le cui soluzioni
finirebbero per seguire schemi presuntivi.
Una soluzione del tutto diversa è quella, adottata dal codice tedesco, della costruzione di una fattispecie di parte
speciale che incrimini il mettersi in stato di incapacità, condizionatamente alla commissione di un reato e con pena
di una certa consistenza, che però non superi quella prevista per il reato commesso. Tale modello propone uno
schema formale che non corrisponde alla sostanza della disciplina. Solo nella forma la condotta incriminata è il
mettersi in stato di incapacità, posto che la punizione è condizionata e commisurata al reato commesso. Ma questo
elemento, decisivo nel fondare e delimitare la reazione penale, è configurato come condizione obiettiva di punibilità:
una frode delle etichette, che rende solo apparente il rispetto del principio di colpevolezza.
Chi proponga di introdurre disposizioni specifiche sui reati commessi in stato di ubriachezza ha l'onere di rispondere
a due questioni: trattandosi di derogare a principi generali, si pongono questioni di legittimità delle eventuali
deroghe e di loro necessità o (quanto meno) opportunità. Il problema reale resta in ogni caso quello che il codice del
1930 ha (bene o male) risolto in modo non ipocrita con le 'finzioni' di imputabilità: se, e a quali condizioni,
prevedere una responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità, e perciò commisurata a quel fatto.
Quanto ad eventuali soluzioni specifiche, prima di pensare a soluzioni che estendano la responsabilità penale,
occorre saggiare la portata dei principi generali rispetto ai quali si pone la questione dell'eventuale deroga.
Schematizzando, dai principi generali deriva la possibilità di affermare la responsabilità penale per il fatto
commesso in stato di incapacità piena: a) quando l'incapacità sia stata preordinata (e il fatto sia poi stato commesso
nel modo preordinato); b) quando l'essersi messo (non accidentalmente) in stato di incapacità possa essere
considerato infrazione di una regola cautelare rispetto al fatto poi realizzato, e questo sia stato realizzato
(volontariamente o con obbiettiva violazione di regole di buon comportamento) 'a causa' dello stato di procurata
incapacità. In tali ipotesi, appare possibile considerare il mettersi in stato di incapacità come condotta causale e
colpevole rispetto al fatto poi realizzato. Nell'incapacità preordinata il titolo della colpevolezza dovrà essere
individuata nella dolosa preordinazione. Fuori di tale ipotesi l'imputazione dovrà avvenire per colpa, anche quando il
fatto sia stato poi (nello stato di incapacità piena) commesso volontariamente: il titolo di colpevolezza dovendo
ravvisarsi nell'inosservanza della regola cautelare del 'non assumere alcool o droghe' in quella data situazione 'di
pericolo'.
Relativamente all'ipotesi colposa, si pongono le seguenti questioni: a) se il mettersi in stato di incapacità possa
essere considerato dal legislatore, al livello del 'pericolo astratto', come inosservante in ogni caso di una regola
cautelare; b) se la pena prevista per i reati colposi si possa ritenere adeguata nei casi in cui il fatto sia stato realizzato
volontariamente, sia pure in condizioni di incapacità piena; c) se occorra prevedere estensione di responsabilità
anche per delitti dei quali sia prevista solo la forma dolosa.
Quanto al punto sub a), ravvisare sempre la violazione di una regola cautelare non è né ragionevole né supportato da
indicazioni di politica criminale; vi sono, peraltro, situazioni in cui un rimprovero di colpa è possibile e plausibile:
situazioni in cui taluno si sia messo in stato di incapacità in un contesto 'pericoloso' in relazione alla attività da
svolgere (es., ubriacarsi prima di mettersi alla guida di veicoli). Quanto al punto sub b), rispetto a fatti aggressivi
commessi volontariamente dall'incapace non accidentale (ma rimproverabili a titolo di colpa), appare giustificata la
previsione di un aumento di pena commisurato alla pena edittale per il delitto colposo. Quanto al punto sub c)
potrebbe essere introdotta una disciplina ad hoc, con la previsione di pene meno severe di quelle previste per la
realizzazione propriamente dolosa.
L'eliminazione delle finzioni di imputabilità fa venire meno i presupposti su cui poggia la vigente disciplina
dell'ubriachezza o intossicazione abituale, e rende superflua una disposizione sull'intossicazione cronica (necessaria
invece, per riaffermarne il rilievo di causa di esclusione dell'imputabilità, ove si mantenga per l'intossicazione
occasionale una disciplina differenziata: così lo schema Pagliaro). Gli artt. 94 e 95 del codice Rocco, che dettano
una disciplina differenziata dell'intossicazione abituale e di quella cronica, sono stati oggetto di una questione di
legittimità costituzionale, centrata sulla ritenuta impossibilità di distinguere le due ipotesi, e sulla conseguente natura
discriminatoria delle differenze di trattamento. La Corte Costituzionale, nel rigettare la questione (sent. n. 114/98),
ha esplicitamente richiamato gli auspici di una profonda revisione della materia, e sottolineato come anche le
proposte di riforma mantengano l'ipotesi della cronica intossicazione come causa di non imputabilità ulteriore e
autonoma rispetto all'infermità.
Al di là delle incertezze circa l'individuazione dei casi in cui l'intossicazione ha inciso sulla capacità del soggetto,
l'eventuale incapacità per intossicazione cronica esclude comunque una responsabilità collegata alla capacità rilevata
al momento dell'assunzione di alcool o stupefacenti.
5. Minorenni. Le proposte di riforma Pagliaro e Riz mantengono lo schema attuale, che fissa la soglia minima
dell'imputabilità ai 14 anni, e fra i 14 e i 18 anni impone un accertamento in concreto della capacità, al di fuori di
presunzioni in un senso o nell'altro. Il disegno Riz specifica che la non imputabilità dell'infradiciottenne dipende da
accertata immaturità.
Sulla soglia minima dell'imputabilità, nei codici più recenti si registrano soluzioni diverse: 14 anni nel codice
tedesco; 16 anni in quello portoghese; per il codice spagnolo, i minori di 18 anni non sono penalmente responsabili a
norma del codice stesso, salvo quanto disponga la legge che disciplina la responsabilità dei minorenni.
Il sistema del codice Rocco intende essere un contemperamento fra esigenze di certezza, meglio soddisfatte dalla
fissazione di soglie di età, ed esigenze di adeguamento ai casi singoli, di cui si tiene conto nella fascia di età ritenuta
più problematica. Pur nella consapevolezza di quanto di arbitrario v'è nella fissazione di soglie d'età, e della
vaghezza dei criteri per il giudizio 'in concreto', non si ravvisano indicazioni a favore di soluzioni diverse.
6. Trattamento dei soggetti non imputabili. Il riconoscimento di situazioni di non imputabilità lascia aperto il
problema della applicazione di eventuali misure di natura non punitiva. La questione non è di etichette, ma di
sostanza: misure per i 'non imputabili', comunque denominate, non possono legittimamente essere strutturate
secondo criteri 'retributivi', né in vista di fini di prevenzione generale. Resta uno spazio legittimo per misure
specialpreventive: e di questo tipo sono (pretendono di essere) le misure previste dal codice Rocco e da altri codici
anche recenti.
La denominazione in uso in Italia evidenzia la finalità 'di sicurezza'; altre denominazioni aggiungono quella del
'miglioramento', peraltro implicita nel carattere riabilitativo che dovrebbe caratterizzare i contenuti delle misure
anche nel sistema del codice Rocco. In questo sistema le misure di sicurezza erano pensate come risposta generale al
fatto del non imputabile, affidata alle istituzioni di giustizia penale, su un presupposto (la pericolosità sociale)
largamente presuntivo. Venute meno le presunzioni di pericolosità, ritenuta necessaria la eliminazione degli istituti
connessi previsti dal codice Rocco, resta aperta la questione se e quale spazio sia opportuno lasciare ad istituti 'di
giustizia criminale' nei confronti delle diverse situazioni tipiche di incapacità (minore età, infermità di mente, altre
eventuali situazioni di handicap).
L'indicazione di fondo è quella di una riduzione delle eventuali misure al minimo strettamente indispensabile:
extrema ratio rispetto agli istituti orientati alla risocializzazione o alla terapia, che del resto caratterizzano la
legislazione più recente (in ambito psichiatrico, la svolta avviata dalla legge 180/78; in ambito minorile, i nuovi
istituti introdotti con la c.d. procedura penale minorile, DPR 448/88). La risposta al 'bisogno di trattamento' del non
imputabile dovrebbe competere cioè in prima istanza ad istituzioni diverse da quelle della giustizia penale. Escluso il
ricorso alla pena, la giustizia 'penale' dovrebbe occuparsi dei non imputabili eccezionalmente, quando si ritenga
assolutamente necessario il ricorso a forme di coercizione personale.
Appunto nella prospettiva di una restrizione dei presupposti delle misure di sicurezza si muove lo schema Pagliaro,
sia nel proporre un criterio restrittivo di pericolosità sociale (art. 36, n.1), sia nella preferenza per la misura non
detentiva. Senz'altro opportuna è la precisazione che il reato commesso può giustificare la misura a condizione che
sia "manifestazione della causa di non imputabilità". Lo stesso dovrebbe aggiungersi con riferimento ai delitti
temuti: anch'essi temuti in quanto probabile manifestazione del protrarsi (o ripetersi) dello stato di incapacità.
Quanto alla 'particolare gravità' dei fatti (così lo schema di delega), è un criterio che dovrà essere specificato dal
codice con l'individuazione di una cerchia selezionata di delitti, a seguito dei quali e per la cui prevenzione appaia
congrua la possibilità di disporre una misura di sicurezza.
Con riferimento ai minori, il DPR 448/88 già contiene una specificazione dei delitti, in relazione ai quali sia
consentito applicare una misura di sicurezza, in via definitiva (art. 36) o provvisoria (art. 37). Analoga
specificazione dovrà essere introdotta anche nei confronti delle altre categorie di soggetti incapaci, avendo in
particolare riguardo ai delitti 'di aggressione' contro la incolumità o la libertà personale e ai delitti contro il
patrimonio di una certa gravità.
E' diffusa in dottrina l'istanza di sostituire al criterio della pericolosità (ritenuto di dubbio fondamento empirico)
quello del 'bisogno di trattamento'. Tale proposta merita accoglimento, sia sul piano terminologico (evitando così il
messaggio stigmatizzante in termini di 'pericolosità), sia su quello sostanziale della determinazione dei presupposti e
del contenuto delle misure: ciascuna costruita e da applicare come risposta ad un particolare e comprovato bisogno
di trattamento (terapeutico, educativo, disintossicante, e simili).
L'inserzione dell'orizzonte penalistico nella prospettiva del trattamento deve tenere comunque conto della nuova
prospettiva conseguente, fra l'altro, alla ridefinizione dei presupposti di applicazione della 'misura/riabilitazione': nel
senso che il trattamento potrebbero anche essere tendenzialmente affidato, in assenza di controindicazioni, ad istituti
di riabilitazione non specificamente connotati in senso penalistico (in questo senso, ad esempio, la conservazione di
misure di sicurezza per infermi di mente non dovrebbe significare necessariamente il mantenimento dell'ospedale
psichiatrico o di altri luoghi di trattamento separati da quelli della 'normale' assistenza psichiatrica).
Per quanto concerne le regole 'di garanzia', modello idoneo appare quello dello schema Pagliaro: a) accertamento
concreto del bisogno del trattamento al momento del fatto e al momento dell'applicazione della misura; il nesso con
tipologie circoscritte di delitti dovrebbe dare al giudizio del bisogno del trattamento, il cui fondamento empirico è
molto controverso, un ancoraggio meno aleatorio; b) riesame periodico di tale bisogno; piuttosto che prevedere un
termine rigido, sembrerebbe preferibile prevedere che il termine sia fissato di volta in volta dal giudice entro un
limite massimo, fermo in ogni caso il riesame anche prima della scadenza quando la ragione della misura appaia
venuta meno; c) cessazione della misura quando sia accertata la cessazione del bisogno di trattamento; nel caso di
infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, cessazione della misura quando sia cessato lo
stato di incapacità del quale il delitto commesso sia stata manifestazione.
Esigenze di proporzione potrebbero portare ad introdurre un termine massimo per le misure detentive e non
detentive, che potrebbe essere parametrato ai limiti edittali di pena per il commesso delitto. Una misura più
prolungata (indeterminata nel massimo?) potrebbe ritenersi non sproporzionata soltanto in presenza di un pericolo
concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l'incolumità delle persone.
7. Mantenimento di fattispecie di capacità ridotta? Le proposte di riforma del codice italiano mantengono ipotesi
di ridotta capacità, individuandone i presupposti in situazioni vicine a quelle che danno luogo ad incapacità piena, e
distinguendole poi in ragione della diversa incidenza sulla capacità d'intendere e di volere (esclusione totale o
grande riduzione).
La questione cruciale concernente i casi di c.d. capacità ridotta è se, entro la cerchia dei soggetti imputabili, vi siano
categorie per le quali appaia più adeguato un trattamento differenziato, in relazione a determinati deficit di capacità.
La risposta affermativa appare plausibile, con riferimento a situazioni soggettive abnormi non al punto da dare luogo
a incapacità piena. E ragionevole appare la tipizzazione usuale di tali situazioni, con riferimento agli stessi criteri
adottati per definire le situazioni di non imputabilità, ed all'effetto, che ne sia derivato, di sensibile riduzione della
capacità di intendere e/o di volere. In tali ipotesi, alla capacità ridotta corrisponde una minore colpevolezza e/o un
minore bisogno sociale di reazione, e/o l'esigenza di trattamenti differenziati, orientati in chiave specialpreventiva
(terapeutica, riabilitativa, rieducativa).
Escluso per gli imputabili il 'doppio binario' (pena più misura di sicurezza), occorre delineare un modello unitario di
risposta che, per essere rivolto a soggetti imputabili, sarà formalmente incentrato sulla previsione di una pena, ma
dovrà assumere su di sé le funzioni terapeutiche, riabilitative, rieducative, ed essere fondamentalmente strutturato in
vista del migliore perseguimento degli obiettivi di prevenzione speciale.
Per i semi-imputabili per infermità o altra anomalia, i tratti essenziali del sistema potrebbero essere i seguenti: a)
previsione di una pena diminuita nel massimo e nel minimo edittale (ciò appare coerente con l'esigenza di
proporzionare la pena alla minore colpevolezza conseguente allo stato di ridotta capacità); b) previsione di modalità
di esecuzione della pena orientate alla riabilitazione del condannato (terapia, disintossicazione, e simili); possibilità,
in caso di successo del trattamento, di disporre la semilibertà o la liberazione condizionale anche in un momento
anticipato rispetto alla regola generale (il periodo minimo di pena espiata andrà stabilito in coerenza con il sistema
complessivo); c) per pene brevi, fino a x anni (4 anni?), previsione di misure sostitutive di carattere terapeutico o
riabilitativo, subordinatamente al consenso del condannato, sul modello di quanto attualmente previsto dal TU sugli
stupefacenti, art. 90s. (regole possibili: in caso di esito positivo del trattamento, estinzione del residuo di pena da
espiare; ove possa essere concessa la sospensione condizionale della pena, e un trattamento terapeutico o
riabilitativo appaia opportuno, subordinare il beneficio alla accettazione di un programma di trattamento in libertà;
quando un trattamento terapeutico o riabilitativo sia stato disposto come misura sostitutiva della pena, prevedere la
revoca della misura nel caso in cui il condannato si sottragga in modo non irrilevante agli impegni relativi al
trattamento stesso); d) una parte della Commissione ha altresì suggerito la possibilità di pronunciare sentenza di
condanna con rinuncia alla pena, qualora, per la modesta gravità del fatto commesso in stato di ridotta capacità e/o
per essere venute meno le condizioni soggettive che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione
generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell'autore del fatto.
Nei confronti dei minori imputabili, si pongono esigenze analoghe, legate alla minore colpevolezza e alla priorità
della prevenzione speciale. Senz'altro giustificata la previsione di una diminuzione di pena, la questione
fondamentale è individuare le misure entro le quali il giudice può scegliere quella più adeguata, in una prospettiva
che, pur presupponendo il rimprovero di colpevolezza, nella scelta delle risposte sia esclusivamente orientata
all'obiettivo della 'rieducazione' (meglio, educazione) del minore.
Sotto questo aspetto, la c.d. procedura penale minorile (DPR n. 448/98) ha introdotto significative novità di diritto
sostanziale: l'istituto del non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, "quando l'ulteriore corso del procedimento
pregiudica le esigenze educative del minorenne", e, soprattutto, la messa alla prova, che può essere disposta per
qualsivoglia reato, anche il più grave, in presenza di idonee indicazioni. Si tratta di soluzioni molto 'spinte', che
danno al vigente diritto penale minorile una caratterizzazione totalmente dominata dalla finalità rieducativa. In sede
di riforma si potrebbero affrontare prospettive di razionalizzazione e di coordinamento fra i diversi istituti previsti
dal codice penale e dal DPR 448, e di cauta espansione (con restrizioni atte a salvaguardare irrinunciabili esigenze
generalpreventive) nei confronti di 'giovani adulti' dell'ambito di applicazione di istituti di diritto penale minorile.
X. LA RESPONSABILITA' DELLE PERSONE GIURIDICHE.
1. Il 25 marzo 1999 è stato approvato dalla Camera in prima lettura il DDL governativo di ratifica della
Convenzione sulla lotta contro la corruzione internazionale, che contiene (art. 6) una delega al Governo per la
disciplina della responsabilità delle persone giuridiche, relativamente ai reati di cui alla legge di ratifica
(concussione e corruzione). Il disegno è ora all'esame del Senato (n. 3915S). Nel prendere atto della scelta allo stato
prefigurata a favore di una responsabilità 'non penale', si deve rilevare che gli istituti dei quali si prospetta
l'introduzione sono direttamente raccordati al presupposto penalistico della commissione di reati, ed hanno contenuti
corrispondenti a sanzioni e misure del diritto penale classico, con il quale pongono problemi di raccordo.
2. L'introduzione di un sistema sanzionatorio (penale o non penale) per le persone giuridiche in un ambito più ampio
di quello imposto dalla ratifica della convenzione sulla corruzione internazionale appare condizione necessaria per la
razionalizzazione di diversi istituti del diritto penale d'impresa:
a) Misura delle pene pecuniarie. Nel diritto penale d'impresa i limiti edittali della pena pecuniaria sono pensati in
relazione a un patrimonio cospicuo, tale supponendosi quello dell'impresa. Emblematico l'art. 21 della c.d. l. Merli,
novellata nel 1995: si arriva a massimi edittali di 150 e 250 milioni di lire, che rispetto alle persone fisiche dei
dirigenti o dipendenti appaiono irrealistici. Di fatto è l'imprenditore (persona fisica o persona giuridica) che di regola
si accolla il costo delle sanzioni pecuniarie penali, cui è comunque sussidiariamente obbligato ex art. 197 c. p. La
previsione di una sanzione pecuniaria per la persona giuridica consentirebbe una opportuna revisione delle cornici
edittali, aprendo la strada alla possibilità di risposte differenziate: la persona giuridica titolare dell'impresa potrà
essere destinataria di sanzioni pecuniarie anche (ma non necessariamente) molto elevate, in proporzione alla gravità
del fatto ed al patrimonio dell'ente, mentre le sanzioni pecuniarie (penali) per le persone fisiche dei funzionari
dell'impresa andrebbero opportunamente dimensionate secondo criteri più realistici e più equi.
b) Oblazione. L'attuale disciplina dell'oblazione 'discrezionale' (art. 162 bis c.p.) è inadeguata rispetto alle situazioni
nelle quali è in gioco un'attività d'impresa. In esse l'eliminazione delle conseguenze del reato può essere deliberata e
realizzata solo dalla persona giuridica che gestisce 1'impresa: il contravventore, anche se tuttora alle dipendenze
dell'ente, non è in grado di farlo (o almeno, non autonomamente da decisioni e investimenti dell'impresa). Anche il
pagamento dell'oblazione (un costo, di regola, più pesante di quello di una sentenza di condanna), quando sia
agganciato a massimi edittale elevati è possibile solo alla persona giuridica. E dovrà essere pagato tante volte quanti
sono i dipendenti imputati. In breve: sia con riguardo al costo dell'oblazione, sia con riguardo alla condizione
'riparatoria', le chiavi del meccanismo delineato dal codice vigente stanno nelle mani della persona giuridica. e non
del 'contravventore'. Questa incongruenza, che incide negativamente sulla funzionalità dell'istituto, e può comportare
effetti discriminatori, può essere sanata accollando alla persona giuridica il costo dell'oblazione, e condizionandone
l'ammissione a condotte 'riparatorie' che la persona giuridica (e non i1 contravventore) abbia la possibilità di
realizzare. Ovviamente, essendo l'oblazione una facoltà e non un obbligo, ciò presuppone la previsione d'una
sanzione pecuniaria a carico della persona giuridica. Per gli imputati persone fisiche il meccanismo dell'oblazione
potrà esssere opportunamente alleggerito, sia escludendo la condizione 'riparatoria', trasferita a carico dell'ente, sia
con 1'aggancio a massimi edittali meno severi.
c) Patteggiamento. Nella prassi, 1'accettazione del patteggiamento viene spesso condizionata a condotte riparatorie o
risarcitorie. In presenza di danni, di regola ingenti, connessi ad illeciti 'd'impresa', tale collegamento fa dipendere la
sorte degli imputati da comportamenti dell'ente. Come nel caso dell'oblazione, si determina un intreccio ambiguo fra
giudizio penale nei confronti di persone fisiche e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio
nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati. Questo intreccio, inaccettabile, potrà essere sciolto
senza pregiudizio né per l'interesse dell'imputato al patteggiamento, né per gli interessi offesi dal reato, se il
collegamento fra sanzione e riparazione potrà essere riferito direttamente alla posizione della persona giuridica.
d) Confisca e misure interdittive. La possibilità di disporre la confisca a carico della persona giuridica consentirebbe
di inseguire il profitto dell'illecito, quando beneficiaria ne è stata la persona giuridica, presso il soggetto che di fatto
lo ha conseguito. In questa direzione si sono mossi anche ordinamenti ai quali la responsabilità penale delle persone
giuridiche è estranea (codice austriaco). Del pari, la previsione di eventuali misure interdittive (comunque
denominate) a carico della persona giuridica consentirebbe di incidere, se e in quanto opportuno, direttamente sul
contesto di attività di cui 1'illecito è espressione.
3. Le osservazioni suesposte evidenziano come 1'introduzione di un sistema di sanzioni applicate direttamente alle
persone giuridiche sia sollecitata da ragioni interne al sistema penale. Solo 1'introduzione di una responsabilità
(penale o amministrativa) di tali soggetti, di contenuto assimilabile a sanzioni penali, consente un riassetto razionale
delle sanzioni e di altri istituti fondamentali del diritto penale dell'impresa.
Già attualmente, le persone giuridiche sono coinvolte nel sistema penale come soggetti civilmente obbligati per il
pagamento delle pene pecuniarie e per il risarcimento del danno. Nella prassi il coinvolgimento va oltre (ipotesi di
oblazione 'condizionata' e di patteggiamento per reati d'impresa). I costi sono talora assurdamente moltiplicati, in
proporzione del numero degli imputati. Una razionalizzazione del sistema, con 1'introduzione di sanzioni dirette per
la persona giuridica, consentirebbe il superamento di tali distorsioni.
4. Il 'diritto sanzionatorio' per le persone giuridiche dovrebbe coprire 1'intera gamma di situazioni nelle quali
l'applicazione di sanzioni in capo alla persona giuridica, in aggiunta alle sanzioni penali per le persone fisiche,
appaia necessaria per il riequilibrio razionale degli istituti del sistema sanzionatorio.
Fondamentalmente, vengono in rilievo le seguenti situazioni: a) reati commessi 'a favore', 'nell'interesse', 'per conto'
della persona giuridica, da parte di soggetti competenti a impegnarla (sul modello di quanto previsto nel DDL di
ratifica della convenzione sulla corruzione); b) reati costituenti inadempimento di una garanzia dovuta nell'interesse
di terzi o della collettività da soggetti operanti per l'organizzazione. Al primo gruppo appartengono prevalentemente
delitti dolosi con implicazioni di carattere patrimoniale. Il secondo gruppo comprende i settori fondamentali del
diritto penale d'impresa: ambiente, sicurezza del lavoro e della collettività, tutela dei consumatori; e non solo le
norme del diritto penale speciale, ma anche delitti già previsti (es., delitti contro l'incolumità delle persone) o che
possano essere introdotti nel codice penale.
Pare ragionevole considerare come soggetti competenti a impegnare la persona giuridica (ai fini della applicazione
delle sanzioni) non solo coloro che abbiano la legale rappresentanza, ma tutti coloro che, in forza di poteri attribuiti
nell'ambito dell'organizzazione, siano titolari di una posizione di garanzia penalmente rilevante, o titolati ad
instaurare rapporti con terzi nell'interesse della persona giuridica.
Per quanto concerne la qualificazione delle sanzioni per le persone giuridiche, non si ravvisano ostacoli né di
legittimità né di opportunità alla formale inserzione nel sistema penale, che avrebbe anzi l'effetto di assicurare
l'applicabilità di più rigorosi principi garantisti (principi di legalità, di offensività, di colpevolezza). E' questa la
soluzione adottata in recenti riforme di altri paesi europei (Francia, Norvegia). La questione appare peraltro
secondaria rispetto alla determinazione dei contenuti della disciplina. Il legislatore potrebbe anche, volendo, adottare
un'etichetta neutra, come quella di sanzioni accessorie: accessorie rispetto ad illeciti che potrebbero avere natura sia
penale che amministrativa. Verrebbe in tal modo evidenziata la specificità di un diritto sanzionatorio delle persone
giuridiche, quasi tertium genus fra il penale e 1'amministrativo, e insieme additata la sua possibile connessione con
l'uno e l'altro sistema.
5. La tipologia delle sanzioni non può che essere quella del DDL 3915S: sanzioni pecuniarie, confisca, misure
interdittive in senso lato. Le questioni attengono alla loro misura e agli ambiti e presupposti della loro applicazione.
Si tratta di questioni 'di parte speciale', da risolvere nel contesto delle scelte di incriminazione e sanzionatorie nei
singoli settori di intervento. Come indirizzi di carattere generale possono prospettarsi i seguenti: a) prevedere limiti
massimi edittali per le sanzioni pecuniarie maggiori di quelli previsti per le persone fisiche, evitando peraltro
irrigidimenti eccessivi; b) prevedere la confisca (obbligatoria) dei profitti che alla persona giuridica siano derivati
dal reato (e che non debbano essere altrimenti oggetto di risarcimento); c) disciplinare i presupposti e la durata delle
eventuali misure interdittive, prevedendone 1'applicazione come discrezionale, in funzione di concrete esigenze di
prevenzione, e in modo da evitare effetti eccessivamente gravosi anche per interessi di terzi.
Per ragioni di prevenzione generale e speciale, si segnala la opportunità considerare come presupposto di forti
riduzioni delle sanzioni pecuniarie l'adozione da parte della persona giuridica di modelli organizzativi ed operativi
idonei a prevenire reati (sistema americano).
Sotto 1'aspetto processuale la stretta connessione fra il sistema delle sanzioni per le persone giuridiche (comunque
qualificate) e il sistema penale suggerisce di ricondurre entro il processo penale anche l'accertamento dei presupposti
della responsabilità della persona giuridica e l'applicazione delle conseguenti sanzioni. Ne guadagnerebbero non
solo gli interessi legati all'efficienza del modello processuale, ma anche quelli legati al diritto di difesa della persona
giuridica: questa, che già può essere parte del processo penale come responsabile civile, vi sarebbe parte fin
dall'inizio ad ogni effetto, e potrebbe in quella sede espletare anche in condizioni più favorevoli ogni attività
difensiva.
XI. STRUTTURA DEL CODICE ED INDICAZIONI DEI BENI GIURIDICI.
1. La centralità del codice. Un programma di ricodificazione penale deve porsi il problema della c.d. 'centralità del
codice'. Pensare che il codice possa nei tempi attuali aspirare ad una totale onnicomprensività della materia
significherebbe ignorare le complesse esigenze e dinamiche di produzione del diritto penale odierno. Rinunciare
quantomeno a contenere il fenomeno erosivo della "decodificazione" significherebbe tuttavia pregiudicare in
partenza i vantaggi che può recare lo strumento codicistico. Di questa esigenza è consapevole il progetto Pagliaro,
che all'art. 2, dedicato ai 'principi di codificazione', stabilisce che il codice "deve porsi come testo centrale e punto di
riferimento fondamentale dell'intero ordinamento penale, in modo da contrastare il pericolo di decodificazione".
Condiviso l'obbiettivo, occorre verificare quali siano gli strumenti adeguati allo scopo, tenendo conto che si sconta
comunque una discrepanza tra l'evoluzione delle dinamiche di produzione giuridico-penale e i rimedi disponibili per
assicurare la centralità del codice.
I problemi suscitati dalla c.d. "centralità del codice" sono fondamentalmente due. Da un lato si tratta di verificare se
e quali siano le materie la cui tutela penale conviene rimanga fuori dal codice; la decisione, implicante valutazioni
ad alto tasso di politicità, deve tenere conto del fatto che quando si opta per una tutela extra codice è verosimile che
la specialità della materia spinga verso la creazione di un "sottosistema" caratterizzato da un certo grado di
scollamento rispetto ai principi generali di garanzia. Dall'altro occorre valutare se ed in quale misura è possibile
contenere il fenomeno del profluvio delle leggi speciali che prevedono reati che, senza avere una reale
giustificazione razionale, traggono origine da fattori casuali e producono l'effetto di sovrapporsi disordinatamente al
codice ponendo numerosi problemi, dal concorso di norme alla tecnica di tipizzazione delle fattispecie, alla stessa
conoscibilità delle disposizioni esistenti. Il primo fenomeno pone problemi di omogeneità dei principi ispiratori
dell'intero sistema penale, con il corollario di possibili cadute delle garanzie fondamentali, il secondo problemi di
razionalità, di certezza e legalità dell'ordinamento, e di violazione del principio di 'essenzialità' del diritto penale.
Le soluzioni tecniche proposte per assicurare la centralità del codice, ed una tendenziale riduzione della legislazione
penale speciale, sono, ad oggi, fondamentalmente tre:
a) il progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla c.d.
Commissione Bicamerale, ha previsto una "riserva di codice" e "di legge organica", disponendo che "nuove norme
penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente
l'intera materia cui si riferiscono" (art. 129.4). Si tratta di una indicazione dalla efficacia fortissima, perché enunciata
a livello costituzionale, e destinata ad operare verso il futuro vincolando il legislatore con riferimento alla
collocazione delle norme penali;
b) lo schema di legge-delega Pagliaro ha escogitato un interessante meccanismo, rivolto verso il passato, e diretto a
razionalizzare e semplificare il sistema penale. L'art. 13 delle disposizioni di attuazione dispone che "nei casi in cui
il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti", il legislatore delegato dovrà "stabilire la
non applicabilità di queste, salvo che siano state confermate con leggi delegate, da emanare nel tempo indicato per
l'entrata in vigore del codice medesimo". La relazione al progetto chiarisce che tale proposta "superando il principio
che una legge generale successiva non deroga alle leggi speciali preesistenti, viene a disporre che le disposizioni
contenute nel codice penale escluderanno l'applicabilità delle leggi penali incriminatrici preesistenti, anche quando
queste ultime siano, per contenuto, speciali rispetto ad esse. Unico requisito è che le disposizioni del codice e le
disposizioni delle leggi incriminatrici preesistenti prevedano in qualche modo lo stesso fatto".
c) si pone infine la tradizionale soluzione predisposta dal vigente art. 16 c.p.: "le disposizioni di questo codice si
applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti", che,
sebbene caratterizzata dai limiti evidenziati dal processo di decodificazione sotto gli occhi di tutti, ha il pregio di
tendere ad una "espansione contenutistica" della disciplina e dei principi codicisti.
La Commissione, data per scontata la utilità di una disposizione quale quella enunciata nell'art. 13 disp. trans. dello
schema di legge-delega Pagliaro, ritiene soprattutto utili, in prospettiva, criteri idonei ad indirizzare, per quanto
possibile, il legislatore futuro verso scelte razionali di collocazione legislativa e di selezione degli illeciti penali,
nonché indicazioni di natura contenutistica in grado di assicurare omogeneità di principi di garanzia e di tecnica
delle incriminazioni all'intera disciplina penale. Pur ritenendola, data la sua natura, sicuramente efficace, esprime
invece perplessità in ordine alla scelta di prevedere principi di questo tipo a livello costituzionale. La proposta della
Commissione Bicamerale, ad esempio, potrebbe spingere il legislatore ordinario ad inserire comunque nel codice
qualunque modifica penale, anche se sostanzialmente estranea alla trama codicistica, per mettersi al riparo da
censure di incostituzionalità, ma rischiando così di trasformare il codice in un raccoglitore di norme eterogenee;
mentre la difficoltà di individuare una nozione precisa di "legge organica" potrebbe determinare a sua volta un
incremento del contenzioso costituzionale. Vi sono d'altronde, in determinati settori (specie amministrativi),
esigenze di disciplina che si manifestano in modo frammentario e progressivo, che sarebbe difficile soddisfare con
l'inserimento nel codice o in una inesistente legge organica.
Pur rendendosi conto dei limiti necessariamente connessi alla scelta di operare con lo strumento della legge
ordinaria, che potrebbe essere derogata agevolmente da qualsiasi legge speciale, la Commissione ritiene dunque
preferibile operare con norme di tale livello, auspicando che enunciati generali esplicitati in maniera forte, pur non
vincolanti, potrebbero costituire comunque utili criteri di indirizzo per il legislatore. Per rendere più cogenti
possibile tali enunciati si potrebbe d'altronde pensare di emanare una sorta di 'normativa-cornice' di carattere
generale della materia. Posto che il suo rango non potrebbe che essere quello della legge ordinaria, essa ben
potrebbe essere derogata dal legislatore successivo. Tuttavia, se per un verso si può immaginare una maggiore
cautela di quest'ultimo ad allontanarsi disinvoltamente da una normativa del tipo di quella suggerita, per altro verso
la presenza di una serie di norme-guida potrebbe rendere più penetrante un eventuale sindacato della Corte
costituzionale sotto il profilo della "ragionevolezza" e della uguaglianza di trattamento della (futura) norma in
deroga.
Quanto ai possibili contenuti da inserire nella normativa di carattere generale, la Commissione, senza alcuna pretesa
di esaustività, ha pensato ad alcune specificazioni possibili.
La prima potrebbe ispirarsi al modello utilizzato dall'art. 1 della l. n. 4 del 1929 in materia finanziaria: "le
disposizioni del codice non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori se non per dichiarazione
espressa del legislatore con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate o modificate". Su piano formale
una norma di questo tipo perseguirebbe un obbiettivo di certezza, e contribuirebbe alla conoscibilità del precetto
penale; su piano sostanziale tenderebbe a contenere il fenomeno di un allontanamento non sufficientemente meditato
dal tessuto dei principi codicistici. Il rango di norma ordinaria non assicurerebbe a tale disposizione la cogenza che
meriterebbe; la chiara indicazione del principio potrebbe costituire tuttavia garanzia avverso una normazione
disordinata, soprattutto ove si consideri che essa concretizza un'istanza direttamente riconducibile al complesso delle
previsioni costituzionali in materia penale.
La seconda potrebbe ripetere, rafforzandolo, il contenuto dell'attuale articolo 16 c.p.: "le disposizioni di questo
codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali". Si tratterebbe di una disposizione destinata a
marcare che anche nei confronti delle norme penali previste extra codice devono valere i principi fondamentali di
garanzia enunciati dal codice: legalità, tassatività, offensività, colpevolezza, tipologia e carico sanzionatorio, ecc., e
finalizzata pertanto ad operare nei confronti di tecniche di incriminazione, di selezione degli interessi tutelati, di
modalità della loro protezione, ecc.
Secondo una parte della Commissione, a queste due disposizioni generali se ne potrebbe aggiungere una terza avente
lo stesso contenuto di quella suggerita dalla Commissione Bicamerale in tema di riserva di codice o di legge
organica, norma che operando a livello di legislazione ordinaria eviterebbe i rischi di un incremento del contenzioso
costituzionale. Tale norma avrebbe una indubbia funzione sul terreno della certezza del diritto penale, tendendo ad
evitare per il futuro l'attuale proliferazione di norme penali disordinatamente previste dalla legislazione speciale. Pur
condividendo gli obbiettivi positivi della innovazione, altra parte della Commissione ha manifestato la
preoccupazione che essa anziché contrastare, potrebbe al limite incoraggiare la previsione di sottosistemi penali
caratterizzati, data la loro natura, da una relativa autonomia di disciplina rispetto a quella generale codicistica,
innescando di conseguenze possibili contraddizioni con la esigenza di omogeneità in ordine ai principi generali che
si tenderebbe invece a realizzare con le indicazioni precedentemente menzionate.
Quanto ad ulteriori contenuti, la 'normativa cornice' dovrebbe arricchirsi da un lato di norme destinate a risolvere
operativamente i più ricorrenti problemi sollevati dalle leggi speciali (e talvolta anche da norme contenute nella
parte speciale del codice penale), dall'altro di criteri di tecnica legislativa.
Sotto il primo profilo si potrebbe pensare, a titolo puramente esemplificativo, a norme: a) destinate ad introdurre
meccanismi di accertamento automatico della natura circostanziata delle fattispecie punite con pena diversa dalla
fattispecie-base; b) che aiutassero ad individuare la natura permanente o meno di determinati reati, quali ad esempio
gli omissivi puri; c) che consentissero di individuare la natura scriminante, scusante o di mera causa di non
punibilità in senso stretto; d) che tipizzassero in forma generale le posizioni e gli obblighi di garanzia penalmente
rilevanti; e) che individuassero classi prestabilite di pena quanto a gravità edittale, o introducessero altri sistemi
diretti a rendere più agevole il rispetto del principio di proporzione da parte del legislatore.
Sotto il secondo profilo si potrebbe riassumere la disposizione del progetto Pagliaro con la quale si dettano criteri
per la configurazione delle contravvenzioni (ammesso che la categoria sia destinata a sopravvivere), prevedere le
contravvenzioni in contiguità con i delitti rispetto ai quali costituiscono tutela avanzata, riprendere e perfezionare
alcuni dei criteri di scelta sanzionatoria e di tecnica legislativa contenuti nelle due circolari della Presidenza del
Consiglio di Ministri del 19 dicembre 1983 e del 5 febbraio 1986 , od utilizzati nelle più recenti leggi comunitarie.
2. La organizzazione della parte speciale del codice. Per quanto concerne la strutturazione della parte speciale
sembra innanzitutto opportuno ribadire l'obbiettivo, enunciato dal Ministro nello stesso decreto di nomina della
Commissione, di una più ampia possibile delimitazione dell'ambito dell'intervento penale. La recente legge di delega
al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale tributario, approvata
definitivamente il 16 giugno 1999, rappresenta una tappa importante nella direzione indicata. Per quanto concerne
specificamente il contenuto del codice penale, scontato che una profonda opera di delimitazione e ristrutturazione
debba essere compiuta nel settore dei delitti contro lo Stato (sul punto v. oltre, parte XII), e che altri settori esigono
una opera di semplificazione e razionalizzazione (es., delitti contro il patrimonio, delitti contro la persona, delitti
contro la fede pubblica, delitti contro la amministrazione della giustizia, ecc.), o di soluzione di nodi tuttora irrisolti
(es., delitti contro la pubblica amministrazione), oggetto privilegiato di scelte incisive di depenalizzazione
continuerà a rimanere la (attuale) materia contravvenzionale, soprattutto quella prevista nella legislazione speciale.
Per quanto riguarda la strutturazione della parte speciale, la Commissione condivide l'orientamento espresso dallo
schema di legge-delega Pagliaro, secondo il quale la classificazione dei reati deve imperniarsi sul bene giuridico
tutelato, nonché l'idea di organizzare la "parte speciale" secondo una prospettiva nella quale il punto di riferimento è
la persona umana e non lo Stato. Pure la ripartizione nelle quattro grandi aree: a) dei reati contro la persona
(comprensiva dei reati contro il patrimonio individuale), b) contro i rapporti civili, politici ed economici, c) contro la
comunità, d) contro la Repubblica, merita apprezzamento, anche in considerazione del fatto che essa consente il non
trascurabile vantaggio di un'eventuale tecnica di 'inserimento progressivo' in ciascuna di tali aree di reati che, non
inseribili in un primo momento nel codice per ragioni specifiche, dovessero successivamente risultare maturi per tale
inserimento, sul modello di quanto è accaduto ad esempio nella legislazione tedesca e francese.
La Commissione ritiene, per altro verso, che non sia opportuno imboccare la strada di una immediata
'onnicomprensività' del codice, tenendo conto della inopportunità di coinvolgere sul terreno della legge penale
fondamentale materie che presuppongono scelte politiche ancora fortemente conflittuali (es., reati in materia di
bioetica), o reati con riferimento ai quali è in corso una attività di ridefinizione legislativa, e che sarebbe pertanto
opportuno inserire eventualmente nel codice soltanto una volta verificati i risultati del lavoro parlamentare, e la loro
compatibilità con una disciplina di tipo codicistico (è il caso, ad esempio, dei reati fiscali, con riferimento ai quali il
Parlamento ha già deciso una forte depenalizzazione ed ha delegato il Governo a configurare un ristretto numero di
delitti identificati per gravità di offesa e oggetti tassativamente indicati; dei reati societari, con riferimento ai quali è
in corso di elaborazione una nuova strutturazione da parte di apposita commissione governativa; dei reati ambientali,
con riferimento ai quali sono stati predisposti articolati progetti di riforma ).
Secondo una impostazione di doverosa prudenza, si ritiene pertanto opportuno iniziare dalla ridefinizione delle
materie di radicata collocazione codicistica, prevedendo un impianto comunque idoneo ad essere progressivamente
arricchito da nuove materie, nel quadro di una linea politica di fondo che dovrebbe comunque tendere ad assicurare
al codice penale una posizione di reale centralità nella disciplina dei settori penalmente significativi.
Una parte della Commissione ritiene che la creazione di 'sottosistemi penali' affidati alla disciplina della legislazione
speciale non sia comunque del tutto eliminabile, e talvolta potrebbe addirittura apparire opportuna, osservando che
vi sono settori che difficilmente potranno trovare collocazione nel codice penale: a) quando non sia possibile
scindere in modo sufficientemente netto l'apparato sanzionatorio penale dalla disciplina extrapenale di riferimento,
b) quando la natura "specialistica" della materia dovesse nettamente prevalere, c) quando si tratti di interventi penali
ancora troppo legati alla contingenza dei tempi per potere essere formalizzati nel testo della legge penale
fondamentale.
La maggioranza della Commissione, pur concordando con queste riflessioni, ritiene di dovere ribadire che nelle
materie regolate da leggi speciali dovrebbero comunque trovare applicazione i principi di garanzia elaborati nella
parte generale del codice penale, ed essere utilizzate le tecniche di una corretta configurazione delle fattispecie
penali, fino ad oggi troppo sovente neglette dal legislatore nella disordinata configurazione di reati di legislazione
speciale.
XII. ESEMPLIFICAZIONE DI RIFORMA DELLA PARTE SPECIALE:
UNA NUOVA TIPOLOGIA DEI DELITTI CONTRO LO STATO.
1. Tecnica di incriminazione e tipologia dei delitti contro lo Stato previsti dal codice penale Rocco devono essere
profondamente cambiate. Esso utilizza infatti modelli di anticipazione non controllata dell'intervento penale,
configura reati sganciati dalla prospettiva della offesa degli interessi, colpisce indiscriminatamente opinioni ed
associazioni (dissenzienti) senza adeguati ancoraggi a comprovate necessità di difesa sociale.
Pur rendendosi conto che la politicità della materia potrebbe giustificare deviazioni rispetto al rigoroso rispetto ai
principi di tipicità e di necessaria offensività, vi sono limiti che una legislazione penale ispirata a criteri liberaldemocratici non può comunque superare. In questa prospettiva si tratta di trovare il giusto contemperamento fra le
esigenze contrapposte di tutela degli interessi fondamentali delle istituzioni democratiche e di rispetto delle garanzie
individuali.
2. Passando al piano delle singole scelte di incriminazione, la Commissione conviene sulla opportunità di eliminare
tutte le numerose fattispecie politiche di istigazione, di apologia e di propaganda, e di mantenere nel codice la
previsione di una sola fattispecie generale di istigazione a delinquere, contemplata fra i delitti contro l'ordine
pubblico (o comunque si intenda ridenominare tale classe di reati), purché essa sia caratterizzata dalla pubblicità
reale della condotta (con conseguente necessità di ridefinire l'attuale concetto di pubblicità rilevante agli effetti
penali) e dall'ancoraggio alla pericolosità concreta in ordine alla realizzazione dei reati oggetto di istigazione.
Per quanto concerne i delitti di attentato, la Commissione si riporta a quanto già rilevato nella parte dedicata alle
ipotesi di anticipazione della attività punibile (parte VI, n.3). Nella ipotesi in cui politicamente si optasse per il
mantenimento della categoria, il che quantomeno in alcuni casi sarebbe assolutamente necessario, la esigenza di
(maggiore) tipizzazione delle fattispecie dovrebbe essere realizzato facendo riferimento a modelli non
necessariamente unitari, ma individuati nella parte speciale considerando le specifiche esigenze delle diverse
categorie di attentati giudicati meritevoli di previsione legislativa (v. appunto parte VI, n.3).
Per quanto concerne i delitti di vilipendio, che il progetto Pagliaro ha sostanzialmente confermato sotto il profilo
della "offesa al prestigio delle istituzioni", e con una riduzione degli oggetti della offesa penalmente rilevante, la
Commissione ritiene che il problema se mantenere o cancellare questa categoria di illeciti sia squisitamente politico,
trattandosi di valutare se lo Stato debba tutelarsi dalle offese che gli provengono dalle parole che gettano discredito
sui suoi emblemi o sulle istituzioni più importanti, ovvero debba interessarsi esclusivamente delle offese 'materiali'.
Al riguardo si limita pertanto ad osservare: che la tutela contro le offese al prestigio delle istituzioni è prevista come
reato da pressoché tutte le legislazioni penali europee; che se si dovesse optare per la soluzione conservativa, la
tipologia proposta dalla Commissione Pagliaro potrebbe costituire una utile base di disciplina, con l'unica eccezione
della esplicita previsione dello 'scopo politico' con il quale l'offesa pubblica al prestigio della istituzione dovrebbe
essere commessa, essendo esso in re ipsa data la natura della condotta.
Quanto ai reati associativi la Commissione ritiene che occorra abrogare la congerie di fattispecie associative
politiche oggi configurate in modo disordinato e poco tassativo, e sostituirla con un sistema snello di fattispecie
chiare. In questa prospettiva la semplificazione prevista dallo schema di legge-delega Pagliaro nell'art. 127 può
costituire un utile punto di avvio. Sembra infatti giusto prevedere due fattispecie associative fondamentali: una
prima consistente nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere una associazione volta a perseguire una delle
finalità indicate nell'art. 122 n.1 o nell'art. 125 n.1, o una qualsiasi altra finalità politica, anche di carattere
internazionale, mediante l'uso della violenza o della minaccia, o mediante una organizzazione di carattere militare;
una seconda consistente nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere una associazione volta a perseguire, per
una finalità politica, fuori dei casi di violenza, minaccia, o di utilizzazione di una organizzazione di carattere militare
di cui alla fattispecie precedente, la commissione di un delitto contro lo Stato.
Sembra anche giusto affiancare a queste due figure una fattispecie di associazione segreta, assumendo la segretezza
come una connotazione criminale di valenza oggettivamente politica. Nei confronti di quest'ultima ipotesi si tratta
tuttavia di affrontare il problema, squisitamente politico, se davvero sia opportuno circoscrivere (come ha fatto il
progetto Pagliaro) la rilevanza penale alla circostanza che si tratti di associazione segreta "diretta ad interferire
sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di rappresentanze diplomatiche, di organi giudiziari, di
amministrazioni od enti pubblici, o sull'attività di pubblici servizi", ovvero sia necessario sanzionare penalmente di
per sé la violazione della norma costituzionale (art. 18 Cost.), che stabilisce senza mezzi termini che "sono vietate le
associazioni segrete".
3. Per quanto riguarda l'impianto generale di un titolo di reati dedicato ai delitti contro lo Stato depurato dal gran
numero di fattispecie obsolete e poco garantistiche delle quali si è fatto cenno sub 2), la Commissione osserva che
l'analisi dei codici penali europei rivela una grande articolazione di soluzioni, tanto in materia di organizzazione dei
reati, quanto in materia di loro numero e di loro specifico contenuto, sia pure con alcune costanti con riferimento ai
temi della salvaguardia della sicurezza interna dello Stato, della pace, dei segreti di Stato e dei diritti elettorali.
Il lavoro compiuto dalla Commissione Pagliaro può comunque costituire, anche qui, un utile punto di avvio. Sembra
corretto prevedere una prima parte in cui si considerano i reati posti a tutela dell'ordinamento democratico della
Repubblica e i reati contro gli organi costituzionali, fra i quali si considerano i tradizionali delitti posti a garanzia
della Costituzione, della integrità e della indipendenza della Repubblica, del libero funzionamento degli organi
costituzionali, del corretto funzionamento delle funzioni costituzionali e dei comandi militari, nonché gli attentati
contro il Presidente della Repubblica e contro gli organi costituzionali ed i reati elettorali; ed una seconda parte in
cui si considerano i reati contro la sicurezza della Repubblica e le relazioni internazionali, nella quale figurano a loro
volta le tradizionali fattispecie della guerra alla repubblica, delle intelligenze con un stato estero, del conflitto
armato, della violazione dei segreti di stato, delle attività spionistiche, delle infedeltà in affari di Stato e delle offese
a Capi di Stato esteri, a organi costituzionali, ecc., corrispondenti alle previsioni degli attentati previsti nei confronti
del Presidente della Repubblica e degli organi costituzionali italiani.
Roma, 15 luglio 1999