MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA Ufficio Legislativo RELAZIONE DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE PER LA RIFORMA DEL CODICE PENALE ISTITUITA CON D. M. 1 OTTOBRE 1998 INDICE - Allegati Osservazioni preliminari in materia di oggetto e metodo del lavoro I. Necessaria offensività e irrilevanza penale del fatto 1. Necessaria offensività penale del fatto; 2. Irrilevanza penale del fatto II. Superamento o mantenimento della dicotomia delitti-contravvenzioni III. Realizzazione del principio di colpevolezza 1. Principi generali; 2. Dolo e colpa; 2.1. Questioni relative al dolo; 2.2 Questioni relative alla colpa; 3. La disciplina dell'errore; 3.1. L'errore sul precetto; 3.2. L'errore sul fatto; 3.3.Errore sugli elementi differenziali fra più reati ed errore sulle scriminanti; 4. Eliminazione delle residue ipotesi di responsabilità oggettiva od anomala; 4.1. Linee generali e specifiche della riforma; 4.2. In particolare sul reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti e sul concorso dell'estraneo nel reato proprio; 4.3. Reati a mezzo stampa o radiotelevisione; 4.4. Le circostanze del reato. IV. Reati omissivi e posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse 1. I reati omissivi; 1.1. I reati omissivi propri; 1.2. Reati commissivi mediante omissione; 2. Le posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse. V. Le cause di giustificazione 1. L'esercizio del diritto, l'adempimento di un dovere, l'ordine illegittimo vincolante; 2. Difesa legittima e stato di necessità; 3. L'uso legittimo delle armi; 4. Consenso dell'avente diritto; 5. Una nuova scriminante generale? VI. Tentativo e delitti di attentato 1. Il delitto tentato; 1.1. Suo campo di applicazione; 1.2. Sua struttura e trattamento sanzionatorio; 1.3. Dolo e tentativo; 2. Desistenza volontaria e recesso attivo; 3. I delitti di attentato. VII. Concorso di persone nel reato e reati associativi 1. La tipizzazione delle condotte di partecipazione; 2. Il trattamento sanzionatorio delle condotte di partecipazione; 3. La partecipazione omissiva nel reato commesso mediante azione; 4. Le circostanze ex artt. 111 e 112 c.p.; 5. Il concorso nei reati colposi; 6. Istigazione e accordo non seguiti dalla commissione del reato; 7.La responsabilità del partecipe per il reato da lui non voluto e il concorso nel reato proprio; 8. La disciplina delle circostanze e delle cause di giustificazione; 9. I reati associativi. VIII. Il sistema delle pene 1. Gli obbiettivi della riforma del sistema delle pene; 2. Una nuova articolazione delle pene; 3. La reclusione; 4. Le pene diverse dalla reclusione; 5. La pena pecuniaria; 6. La confisca; 7. La sospensione condizionale della pena; 8. L'oblazione; 9. La commisurazione della pena; 10. Le circostanze del reato; 11. La disciplina sanzionatoria del concorso di reati; 12. Cenni sulla revisione della disciplina delle misure alternative alla reclusione; 13. Incentivazione di condotte di riparazione dell'offesa; 14. Astensione dalla pena; 15. Cenni sulla prescrizione; 16. La funzione rieducativa della pena. IX. L'imputabilità 1. Necessità di mantenere la distinzione fra soggetti imputabili e non; 2. Questioni di tecnica legislativa; 3. Infermità di mente ed altre anomalie; 4.Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti; 5. Minorenni; 6. Trattamento dei soggetti non imputabili; 7. Mantenimento di fattispecie di capacità ridotta? X. La responsabilità delle persone giuridiche XI. Struttura del codice ed indicazione dei beni giuridici 1. La centralità del codice; 2. La organizzazione della parte speciale. XII. Esemplificazione di riforma della parte speciale: una nuova tipologia dei delitti contro lo Stato Composizione della Commissione: Presidente: Prof. Avv. Carlo Federico Grosso. Componenti: Dott. Giovanni Canzio, Avv. Fabrizio Corbi, Prof. Francesco Palazzo, Prof. Paolo Pisa, Prof. Avv. Domenico Pulitano', Avv. Ettore Randazzo, Prof. Sergio Seminara, Prof. Avv. Filippo Sgubbi, Avv. Filippo Siciliano, Dott. Giovanni Silvestri, Dott. Giuliano Turone, Dott. Vladimiro Zagrebelsky, Avv. Giampaolo Zancan. Composizione del Comitato Scientifico della Commissione: Coordinatore: Dott. Elisabetta Cesqui. Componenti: Dott. Raffaele Cantone, Dott. Piero De Crescenzio, Dott. Ombretta Di Giovane, Dott. Giacomo Fumu, Dott. Giovanni Masi, Dott. Andrea Padalino Morichini, Dott. Carlo Piergallini, Dott. Ancrea Vardaro. Hanno partecipato ai lavori, personalmente o con loro delegati, il Capo di Gabinetto, il Capo dell'Ufficio Legislativo e il direttore generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. OSSERVAZIONI PRELIMINARI SU OGGETTO E METODO DEL LAVORO. In data 21 ottobre 1998 il Ministro di Grazia e Giustizia, premesso che "occorre procedere a una riforma del codice penale che, muovendo dai lavori già svolti in materia dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, approfondisca in particolare a) il tema delle sanzioni in una prospettiva che tenda a una loro razionalizzazione nel quadro del contemperamento delle esigenze di prevenzione generale e di prevenzione speciale; b) il tema della riduzione dell'ambito dell'intervento penale previa la ricognizione dei beni giuridici meritevoli di tutela penale e l'indicazione di massima delle relative fattispecie di reato", ha proceduto alla costituzione di una Commissione di esperti costituita da docenti universitari, da magistrati e da avvocati penalisti finalizzata alla "stesura di un documento nel quale siano esposti gli orientamenti e le priorità di una riforma di parte generale e di parte speciale del codice penale e siano inoltre prospettati gli eventuali criteri di un disegno di legge-delega coordinato fra l'altro con i provvedimenti all'esame del Parlamento e con le elaborazioni che su aspetti collegati sono in corso da parte di altri gruppi di lavoro costituiti presso il Ministero di Grazia e Giustizia (specie in materia di responsabilità penale delle persone giuridiche e depenalizzazione)". Il termine per la conclusione dei lavori è stato fissato al 30 giugno 1999. La Commissione, tenendo conto delle indicazioni contenute nel Decreto istitutivo, valutato che i tempi stretti concessi alla stesura del documento non consentivano una elaborazione che affrontasse con la medesima attenzione l'analisi dei temi di parte generale e di quelli di parte speciale, ha ritenuto di privilegiare il primo di tali aspetti e di riservare per il momento ai profili di parte speciale considerazioni riguardanti soprattutto i criteri generali ai quali dovrebbe ispirarsi la relativa disciplina. Ciò è apparso tanto più opportuno considerato che le indicazioni desumibili dai disegni di legge in discussione al Parlamento, o già approvati dallo stesso, apparivano non del tutto univoche, e soprattutto perché una analisi dettagliata della parte speciale presupponeva il consenso sulle scelte di fondo della parte generale e sugli stessi criteri generali cui ispirare i dettagli di quella speciale. La Commissione, seguendo le indicazioni ricevute dal Ministro, è partita dalla analisi dei lavori già svolti in materia di riforma del codice penale dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, facendo particolare riferimento alla proposta di legge-delega elaborata dalla Commissione Pagliaro (1992) ed al disegno di legge di riforma della parte generale elaborato dalla Commissione Giustizia del Senato nel corso della XII legislatura (c. d. Progetto Riz), ripresentato in sede referente alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 26 gennaio 1999 con ampia relazione illustrativa. In alcuni punti qualificanti la Commissione si è discostata dalle soluzioni suggerite in tali progetti, proponendo soluzioni talvolta fortemente innovative, ad esempio in materia di disciplina delle sanzioni penali, nella attenzione dedicata al problema delle garanzie in taluni settori di diritto penale sostanziale (es., realizzazione complessiva del principio di colpevolezza, disciplina delle c.d. forme di manifestazione del reato, disciplina della imputabilità), nella considerazione, tradizionalmente negletta, del problema della responsabilità delle persone giuridiche. I lavori della Commissione si sono articolati attraverso la attività di ricerca, di approfondimento e di stesura di documenti intermedi svolto da Sotto-commissioni costituite per settori, e discussione e revisione di tali documenti da parte della Commissione plenaria. Approvate, nel corso di una serie di riunioni concluse il 12 giugno 1999, singole determinazioni, nelle quali si è dato comunque atto delle divergenze di opinioni emerse su alcuni problemi affrontati, la Commissione ha dato mandato al Presidente di procedere alla stesura della Relazione finale sulla base del materiale complessivamente elaborato nelle Sotto-commissioni e nelle sedute plenarie. I documenti predisposti dalle Sotto-commissioni, o prodotti da singoli commissari, anche se in alcuni punti superati dalla discussione plenaria, sono stati raccolti in materiale numerato da 1 a 13. I. NECESSARIA OFFENSIVITA' E IRRILEVANZA PENALE DEL FATTO. Sia il tema della necessaria offensività del fatto, sia, soprattutto, quello della sua irrilevanza penale, sono destinati a suscitare, e già hanno suscitato, discussioni e fermento fra i penalisti. La Commissione, dopo avere affidato ad una Sotto-commissione una prima riflessione sui due temi, li ha poi discussi in seduta plenaria, formulando le proposte 'alternative' di seguito indicate, rinviando comunque ai risultati di un più ampio dibattito fra i tecnici, e soprattutto fra i politici, le scelte definitive. 1. Necessaria offensività del fatto. La Commissione prende innanzitutto atto del fatto che il principio di necessaria offensività costituisce ormai connotato pressochè costante dei più recenti progetti riformatori. Esso ha trovato ingresso nello schema di legge-delega Pagliaro, che in uno dei primi articoli, collocato non a caso subito dopo la enunciazione del principio di legalità, invita a "prevedere il principio che la norma sia interpretata in modo da limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico" (art. 4 comma 1). Ed è stato enunciato a tutto campo nel Progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione Bicamerale: "non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività". La Commissione ritiene che, al di là delle opinioni specifiche di ciascuno sulle modalità di inserimento di tale principio nel codice, le posizioni sopra enunciate esprimano la esigenza insopprimibile di ancorare, anche visivamente, la responsabilità penale alla offesa reale dell'interesse protetto, nel quadro di un diritto penale specificamente finalizzato a proteggere i (più rilevanti) beni giuridici, e centrato sulla tassativa descrizione di fatti costituenti reato già di per sé costruiti in modo da assicurare, nei limiti del possibile, la punibilità di condotte offensive dell'interesse protetto. Che di conseguenza il nuovo codice penale non possa rinunciare ad enunciare espressamente fra i suoi capisaldi il principio secondo cui un fatto di reato, per risultare punibile, deve avere offeso l'interesse tutelato dalla norma penale incriminatrice. Divergenze si sono invece manifestate con riferimento alle modalità di configurazione della regola ed alle specifiche conseguenze pratiche connesse alla introduzione della stessa. Queste divergenze hanno costituito l'inevitabile riflesso delle differenti posizioni emerse in dottrina sul principio di offensività nel dibattito degli ultimi trent'anni. Una parte della Commissione sostiene la necessità di introdurre nel codice penale il principio di necessaria offensività del reato grosso modo nel modo in cui esso è stato formulato dagli estensori della Commissione Bicamerale: non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato concretamente la offesa dell'interesse protetto. Il significato di questa scelta è evidente. Si tende a cristallizzare in una norma esplicita quanto una parte della dottrina ritiene già oggi desumibile dall'art.49 comma 2 c.p., con l'obbiettivo di inserire la offesa fra gli elementi strutturali del reato, e consentire di conseguenza al giudice di escludere la responsabilità penale ove dovesse accertare che un fatto, che pure riproduce gli elementi astrattamente configurati dalla norma penale incriminatrice, non ha in concreto offeso il bene che tale norma era destinata a proteggere. L'importanza pratica di questa di questa impostazione è stata individuata da una parte dei componenti della Commissione soprattutto sul terreno dei reati di pericolo, che, si è sostenuto, per risultare concretamente offensivi dell'interesse tutelato devono per forza assumere la veste della reità a pericolosità concreta. Non è un caso che sul solco della sopra menzionata interpretazione dell'art. 49 comma 2 c.p. una parte della dottrina, e della stessa giurisprudenza, abbia sostenuto che già oggi i reati di pericolo astratto previsti dal codice penale Rocco, o quantomeno la maggior parte di essi, devono essere intesi tutti come reati di pericolo concreto. Altra parte della Commissione sostiene invece che il principio di offensività debba essere introdotto nel codice penale come criterio di interpretazione, secondo il modello offerto dallo schema di legge-delega Pagliaro. Muovendo dal presupposto secondo cui il contenuto offensivo deve essere espresso dalla struttura della fattispecie, nella quale integralmente si identifica, si afferma che non vi è alcun spazio per ammettere un elemento costitutivo aggiuntivo rispetto a quelli essenziali indicati dalla singola norma incriminatrice. L'offesa deve svolgere invece un ruolo ermeneutico, sia pure essenziale e primario, per l'accertamento del significato e della portata della fattispecie. Come è stato osservato, mentre per la concezione strutturale gli elementi descrittivi del reato concorrono insieme alla offesa ad individuare l'area della tipicità, per la concezione interpretativa essi segnano il limite esterno della tipicità, all'interno della quale l'offesa può operare come ulteriore criterio selettivo. In questa prospettiva alcuni componenti della Commissione hanno, in particolare, esplicitamente sostenuto che recepire il principio di offensività non deve significare presa di posizione contro la configurabilità di reati a pericolo astratto, né deve attribuire al giudice la facoltà di sostituire alla struttura della fattispecie una struttura diversa. 2. La irrilevanza penale del fatto. La Commissione ha innanzitutto preso atto dei precedenti in materia e del contesto in cui si è cominciato a parlare di attribuzione alla magistratura della possibilità di dichiarare improcedibili, o non punibili, situazioni in cui elementi di marginalità potrebbero indurre a non considerare rilevante penalmente un fatto nonostante la sua corrispondenza al modello di un reato. Si è rilevato da un lato che l'ipotesi di irrilevanza del fatto è già presente nel nostro ordinamento limitatamente al diritto minorile, ove l'art. 27 comma 1 D.P.R. 22 settembre 1998, n. 448 dispone che "durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne". Si è osservato dall'altro che il problema è diventato di attualità nel momento in cui alcuni disegni di legge, nell'intento di contribuire al decongestionamento delle aule di giustizia, hanno previsto di dare rilievo alla irrilevanza del fatto dapprima sotto la veste di causa di improcedibilità (disegno di legge C/4625, contenente disposizioni in tema di definizione del contenzioso civile pendente), e successivamente di causa di non punibilità (testo unificato delle proposte di legge n. 411, 4625 bis/C e abbinate: c.d. testo unificato Carotti), prevedendo che "1. Per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando risulta la irrilevanza penale del fatto; 2. L'imputato non è punibile quando rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché le modalità della condotta, la sua accasionalità, valutata anche in relazione alla capacità a delinquere del reo, e il grado di colpevolezza non giustificano l'esercizio della azione penale; 3. L'irrilevanza penale del fatto può essere dichiarata solo se vi è stata la richiesta del pubblico ministero o dell'imputato. Se è stata esercitata l'azione penale l'irrilevanza del fatto può essere dichiarata se l'imputato non si oppone". Si è ulteriormente considerato che il disegno di legge-delega in materia di competenza penale del giudice di pace, approvato dalla Camera dei Deputati e successivamente anche dalla Commissione Giustizia della Camera, prescrive (art. 16 comma 1 lett. c) "la introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l'ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia, di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato". Nonostante che l'istituto di maggiore rilievo, perché destinato ad operare in via generale sul terreno della giustizia penale, sia stato stralciato dal testo unificato Carotti, e pertanto oggi la sua introduzione nel sistema penale sia tutt'altro che imminente, la Commissione ha ritenuto di affrontare comunque i problemi aperti dalla prospettiva di una sua possibile utilizzazione, tanto più che non mancano in Europa esempi di utilizzazione di istituti similari. Una parte della Commissione si è espressa in termini del tutto contrari alla introduzione del nuovo istituto, a causa della eccessiva discrezionalità che esso attribuirebbe alla magistratura, e dei problemi di costituzionalità che esso, comunque venga definito, porrebbe con riferimento al principio di obbligatorietà della azione penale. Altra parte della Commissione, pur non nascondendosi i problemi, ha assunto invece un atteggiamento di maggiore apertura. Si è rilevato che l'istituto ha funzionato comunque bene in materia minorile. Si è soggiunto che se si considerano le prassi seguite in sede di archiviazione (o di dichiarazione di 'inoffensività'), si constata che 'di fatto' il criterio viene già usato con una certa ampiezza al di fuori da qualunque regolamentazione e da qualunque controllo, per cui una sua disciplina contenuta e razionale potrebbe risultare positiva sul terreno della legalità. Si è affermato che in fondo l'idea soggiacente al criterio della esiguità della offesa o della tenuità del fatto è quella della esclusione dall'area del penalmente rilevante della fascia di criminalità bagatellare che ben può annidarsi all'interno di fattispecie costruite in termini espressivi di un disvalore quantitativamente molto differenziato (come ad es. i reati patrimoniali, i reati fiscali, nei quali fra l'altro l'utilizzazione di soglie quantitative di punibilità, sia pure tipizzate, costituisce una costante). Si è sostenuto che i dubbi di incostituzionalità costituiscono un falso problema, in quanto il principio di obbligatorietà della azione penale non esclude che l'ordinamento possa prevedere ipotesi specifiche e predeterminate in cui l'obbligo del pubblico ministero è subordinato al contemperamento tra gli interessi della giustizia ed interessi di altra natura, privatistici e pubblicistici, con la prevalenza dei secondi; è essenziale che tale bilanciamento non possa avvenire in modo da pregiudicare i valori sottostanti al principio di obbligatorietà quale garanzia di non discriminazione, e si moduli pertanto "sulla base di situazioni predeterminate dalla legge, di categorie generali e non di casi in cui al potere politico sia attribuita la facoltà di impedire il promovimento dell'azione penale per motivi contingenti e estemporanei". Piuttosto, hanno osservato i componenti della Commissione non ostili alla introduzione del nuovo istituto, occorre riflettere con attenzione sui limiti entro i quali esso (che, non si dimentichi, è comunque istituto 'di favore') può essere utilizzato senza scardinare il sistema della responsabilità penale. Al riguardo sono stati evidenziati alcuni requisiti: a) necessità di una rigorosa delimitazione dell'area applicativa dell'istituto attraverso limiti quantitativi di pena edittale; b) per il giudizio in concreto di irrilevanza, considerazione primaria degli elementi 'interni' al fatto: la particolare tenuità del fatto, scaturente dalla esiguità del danno o del pericolo e dal grado della colpevolezza; c) la considerazione dei requisiti esterni al fatto, quali la occasionalità dello stesso, o la prognosi in ordine alla sua non ripetibilità da parte dell'autore, dovrebbero essere costruiti come 'limiti negativi' alla dichiarazione di irrilevanza nonostante la sussistenza dei requisiti indicati sub a) e sub b); d) possibilità di allargare i criteri di valutazione a situazioni di non esigibilità in concreto di una condotta diversa. Alcuni componenti della Commissione si sono dichiarati non contrari alla introduzione dell'istituto alla condizione che sia configurato sul terreno del processo come causa di improcedibilità e non su quello del diritto penale sostanziale come causa di non punibilità II. SUPERAMENTO O MANTENIMENTO DELLA DICOTOMIA DELITTI-CONTRAVVENZIONI. La bipartizione dei reati in delitti e contravvenzioni ha costituito oggetto di ampia discussione prima in Sottocommissione, poi in Commissione. Una parte dei componenti ritiene che sia giunto il momento di abolire le contravvenzioni, superando un modello che lo schema di legge-delega Pagliaro ed il progetto di legge Riz avevano invece previsto di conservare, pur contemplando incisive modificazioni in materia di pena (rispettivamente, semidetenzione in luogo dell'arresto, eliminazione dell'arresto). Le ragioni di questa proposta, tendente a semplificare il sistema dei reati depenalizzando le infrazioni veramente bagatellari, e configurando come delitti tutte le altre, con esplicita articolazione nella veste dolosa e colposa (differentemente punita) delle fattispecie per le quali si ritiene opportuna anche la ipotesi della responsabilità colposa, possono essere sintetizzate nei seguenti profili: a) frequente irrazionalità e casualità delle scelte operate nell'inserimento dei reati nell'una piuttosto che nell'altra categoria, rivelata fra l'altro dalla presenza di delitti puniti con la sola multa e dalla collocazione fra le contravvenzioni di fatti di notevole gravità; b) appiattimento in una unica cornice edittale delle condotte colpose e di quelle dolose; c) facile preda della prescrizione di contravvenzioni di notevole rilevanza ma di lungo e complesso accertamento; d) frequente non esecuzione, o addirittura ineseguibilità, delle pene irrogate, e conseguente significato meramente simbolico della previsione di numerose contravvenzioni; e) inflazione delle previsioni di reati conseguente alla possibilità di ricorrere al modello contravvenzionale. Altra parte della Commissione giudica invece utile la conservazione del modello contravvenzionale. A sostegno di questo assunto si sottolinea: a) il pericolo di un appesantimento eccessivo della categoria dei delitti a fronte della difficoltà di realizzare una depenalizzazione che superi determinate soglie di incisività; b) la persistente validità del modello contravvenzionale in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata, ecc.); c) la esistenza di contravvenzioni non trasformabili agevolmente in delitti (es., contravvenzioni concernenti la sicurezza del lavoro), e che è opportuno sottrarre comunque alla depenalizzazione allo scopo di continuare a sottoporle al controllo giurisdizionale; d) la validità del modello di reato contravvenzionale individuato dallo schema di legge-delega Pagliaro nelle tre categorie dei reati consistenti nella violazione di regole cautelari, dei reati integranti un irregolare esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza, e dei fatti di ridotta offensività. Né, si è soggiunto, ha pregio il riferimento alla prescrizione, che può essere agevolmente modulata in modo da evitare una troppo agevole prescrittività delle contravvenzioni complesse, o alla frequente 'ineffettività' delle sanzioni, che può essere anch'essa superata attraverso idonea disciplina. Si concorda comunque sulla eliminazione della pena dell'arresto, e sulla sua sostituzione con pene diverse da quella detentiva carceraria secondo il modello dello schema di legge-delega Pagliaro. III. REALIZZAZIONE DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA. 1. Principi generali. L'individuazione del principio di colpevolezza quale uno dei principi fondamentali ed inderogabili del diritto penale costituisce opinione comune in dottrina. La rilevanza costituzionale del principio è stata affermata dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza n. 364/88. L'adeguamento completo al principio di colpevolezza appare obbiettivo fondamentale d'una riforma del codice penale. Per quanto concerne la struttura dell'imputazione soggettiva si ritiene valida la struttura di fondo del sistema vigente, con le modifiche finalizzate alla piena attuazione del principio di colpevolezza, e con una semplificazione tendente ad eliminare disposizioni ridondanti. In questa prospettiva si ritiene di confermare: a) la previsione del dolo e della colpa come forme base dell'imputazione soggettiva; b) l'esclusione della responsabilità penale nel caso di errore o ignoranza di fatto e nel caso di errore o ignoranza incolpevole sull'illiceità del fatto secondo l'indirizzo dettato dalla Corte Costituzionale; c) nell'ambito dei delitti, responsabilità per dolo, salvo l'espressa previsione di figure di delitto colposo; d) nell'ambito delle contravvenzioni (se confermate: v. retro punto II), responsabilità indifferentemente per dolo o per colpa. 2. Dolo e colpa. Le definizioni del codice Rocco hanno contribuito più a far sorgere problemi che ad additare soluzioni. La scelta che si pone in sede di riforma è fra la loro sostituzione con definizioni nuove e più idonee ad orientare la prassi, ovvero la rinuncia a qualsiasi definizione legale, lasciando l'elaborazione degli istituti alla razionalità interna della cultura giuridica. L'opzione a favore di definizioni legislative è ritenuta preferibile per esigenze di certezza del diritto. 2.1. Questioni relative al dolo. Relativamente al dolo (forma più grave di colpevolezza e criterio normale di imputazione soggettiva dei delitti) v'è sostanziale concordia sui tratti fondamentali: dolo significa volontà consapevole di realizzazione del fatto illecito; la consapevolezza deve abbracciare tutti gli aspetti da cui dipende la tipicità penale del fatto commesso. L'ambito problematico, nella teoria e nella prassi, è il c.d. dolo eventuale. Lo schema Pagliaro, con il richiedere (art. 12) una definizione di dolo "univocamente comprensiva del dolo eventuale", si limita ad esprimere l'esigenza che l'imputazione per dolo sia estesa a fatti che l'agente si è rappresentato non in termini di certezza, come conseguenza della propria condotta. In realtà l'esigenza di fondo, in sede di riforma, non è quella di consolidare il già incontroverso ancoraggio normativo della figura del dolo eventuale, ma, al contrario, quella di precisare i limiti di tale forma di dolo: la formula corrente della 'accettazione del rischio' ha carattere essenzialmente retorico, e la prassi applicativa evidenzia il pericolo di slabbramenti della figura del dolo, sia sotto il profilo definitorio, sia sotto il profilo probatorio e applicativo. Si tratta allora di determinare le condizioni minime in presenza delle quali resti fondato il rimprovero di volontaria realizzazione del fatto illecito, ancorchè la previsione dell'evento o (più in generale) la rappresentazione del fatto non siano in termini di certezza. Alla luce dell'esperienza, il legislatore potrebbe utilmente stabilire: a) che occorre comunque, per l'imputazione per dolo, una rappresentazione della realizzazione del fatto tipico in termini di alta probabilità, e non di generica possibilità; b) che l'oggetto della rappresentazione, sia pure in termini di probabilità e non di certezza, deve essere il fatto realizzato in concreto, e non una generica rappresentazione di qualcosa d'illecito. 2.2. Questioni relative alla colpa. Relativamente alla colpa lo schema di base resta quello della attribuzione di responsabilità per avere realizzato il fatto con inosservanza di regole di comportamento aventi funzione cautelare. Rispetto alla formula del codice Rocco, ed alla prassi che su di essa si è formata, si pongono diversi problemi: a) Individuazione delle regole cautelari pertinenti al giudizio di colpa. Resta valido il modello vigente, nel quale hanno rilievo sia regole 'non formalizzate' (di diligenza prudenza perizia), ricostruibili secondo i criteri della prevedibilità e prevenibilità, sia regole tipizzate a livello normativo (inosservanza di leggi ecc.). b) Questione della prevedibilità: la prevedibilità dell'evento (o meglio, di un fatto del tipo di quello in concreto realizzato) deve o non deve essere considerata un autonomo elemento caratterizzante della fattispecie colposa, non necessariamente assorbito nella violazione della regola cautelare? La rilevanza del tema è bene evidenziata da vicende giudiziarie come quella dei processi relativi a tumori per esposizione ad amianto in anni remoti: l'imputazione per omicidio colposo è sufficientemente fondata sulla violazione di regole cautelari generiche, relative alla esposizione a polveri, o richiede la prevedibilità di eventi di morte da tumore, alla luce delle conoscenze disponibili al momento del fatto? c) Questione della prevenibilità: si può affermare la responsabilità per colpa quando risulti che l'evento non si sarebbe evitato nemmeno tenendo una condotta conforme alla regola di diligenza? d) Metro della colpa. Lo schema Pagliaro propone (art. 12) di formulare la definizione della colpa "in modo che in tutte le forme di imputazione si fondino su di un criterio strettamente personale". L'indicazione, pur poco chiara, sottende l'esigenza di ancorare la colpa ad un criterio non meramente oggettivo. A tal fine è sufficiente il criterio dell'agente modello, diversificato per tipi di attività, o si può (si deve) riconoscere rilevanza a condizioni personali di incapacità? e) Metro della colpa relativamente alle attività professionali: il limite della colpa grave, previsto dal codice civile per le prestazioni professionali di speciale difficoltà, vale anche in materia penale? Con motivazioni apparentemente contrastanti, la prassi recepisce l'esigenza di una delimitazione della colpa per imperizia, che tenga conto delle peculiari difficoltà di certe prestazioni. A livello normativo potrebbe essere espressamente sancito il principio che eventuali limitazioni di responsabilità, previste in altri settori dell'ordinamento, valgono anche per il diritto penale. f) Rischio consentito. Relativamente allo svolgimento di attività pericolose è affermazione comune che i confini del rischio permesso dipendono da un bilanciamento d'interessi: da un lato l'interesse allo svolgimento dell'attività, dall'altro la misura del rischio ad essa connesso (in funzione della natura e della probabilità di eventi lesivi). La concretizzazione di tale bilanciamento rappresenta un punto critico (di incertezza) nella disciplina delle attività pericolose. Rispetto alla colpa, vengono in rilievo sistemi più o meno complessi di regole cautelari formalizzate da leggi, regolamenti ecc.: vi è spazio, ove tali sistemi esistano, per ulteriori riferimenti ai criteri della colpa generica? In via di principio sembra ragionevole tenere ferma la corrente risposta affermativa, con l'avvertenza che il riferimento alla colpa generica non può essere adoperato per spostare le soglie del rischio accettabile che fossero riconoscibilmente individuate dal legislatore con la determinazione di valori soglia o di altri parametri definiti. La criticità del rapporto fra esigenze inderogabili di tassatività del precetto ed esigenze di tutela 'a tutto campo' è bene esemplificata dal tipo di questioni esaminato dalla Corte Cost. 312/96 (rinvio della legge a 'misure tecniche, organizzative e procedurali' necessarie per la riduzione al minimo del rischio rumore) . La soluzione interpretativa proposta dalla Corte (riferimento agli standard generalmente adottati nei diversi settori), volta a salvare la determinatezza del precetto, rischia di disperdere la dimensione 'normativa' propria delle regole cautelari, la cui funzione è di controllo (non dunque di mera convalida) delle prassi. Si pone qui l'interrogativo radicale, se clausole generali come quella della 'riduzione al minimo' di dati rischi possano trovare diretta applicazione in sede penale, senza la mediazione di più puntuali specificazioni da parte di fonti autorizzate, che traducano la direttiva generale in precetti sufficientemente determinati. 3. La disciplina dell'errore. 3.1. L'errore sul precetto. La disciplina dell'errore sul precetto, rimodellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 364/88, rappresenta un ragionevole punto d'equilibrio. L'errore (o ignoranza) sull'illiceità del fatto commesso esclude (per vincolo costituzionale) la colpevolezza, se si tratta di errore o ignoranza incolpevole. La questione (su cui v'è contrasto sia in dottrina che in giurisprudenza) se occorra avere riguardo alla consapevolezza dell'illiceità penale o della generica illiceità giuridica, dovrebbe essere risolta nel senso di ritenere sufficiente, per affermare la colpevolezza dell'agente, la possibilità di conoscere l'illiceità giuridica del fatto commesso Andare oltre, verso una più ampia rilevanza scusante dell'errore (anche 'evitabile') sul precetto, rischierebbe di indebolire le condizioni d'efficacia generalpreventiva dell'ordinamento penale, senza che ciò trovi giustificazione in serie esigenze di garanzia dell'individuo da interventi arbitrari della potestà punitiva. L'attribuzione di responsabilità per dolo (cioè secondo la forma più grave di colpevolezza, e con conseguenze sanzionatorie consistenti) appare sufficientemente fondata sulla volontaria realizzazione del fatto, sempre che l'illiceità di questo fosse riconoscibile dall'agente. Resta ovviamente prioritaria l'esigenza di ridurre al minimo lo spazio di credibili errori sull'illiceità mediante una adeguata selezione e formulazione delle fattispecie di reato. 3.2. L'errore sul fatto. La rilevanza dell'errore 'essenziale' sul fatto costitutivo di reato è il riflesso logico dei principi sul dolo e sulla colpa, ed è destinata ad essere riconosciuta anche indipendentemente da una sua eventuale espressa riaffermazione. L'errore sul fatto esclude il dolo, non esclude la colpa se dovuto a colpa, la esclude se incolpevole. Un problema particolare si pone peraltro per l'errore su legge extrapenale, trattandosi di questione controversa, con una contrapposizione fra giurisprudenza e dottrina. In una prospettiva di riforma non interessa tanto prendere posizione su quale sia l'interpretazione corretta del vigente art. 47 u.c., quanto individuare la soluzione preferibile, avendo riguardo innanzi tutto ai vincoli posti dal principio di colpevolezza, e trovare una formulazione normativa capace di trasmettere un messaggio chiaro, superando le attuali incertezze interpretative. Anche se, teoricamente, una norma espressa potrebbe apparire a qualcuno non necessaria, una disciplina specifica sembrerebbe opportuna nella prospettiva della necessità di una correzione della prassi, con un messaggio puntuale in grado di correggere i principi giuridici affermati in materia dalla giurisprudenza, probabilmente per ragioni di semplificazione probatoria. L'obiettivo è di evitare che, in sede applicativa, vengano sottratti alla applicazione dei principi generali tipi di errore che incidono sulla comprensione del fatto, ricadendo su profili giuridici o comunque 'valutativi' da cui dipende la tipicità penale dello stesso. 3.3. Errore sugli elementi differenziali tra più reati ed errore sulle cause di giustificazione. In tema di errore "sugli elementi differenziali tra più reati" la soluzione concordemente ritenuta preferibile (e già leggibile, però non senza incertezze, nel vigente art. 47, 2° comma) è quella della punibilità per il reato meno grave (schema Pagliaro, art. 15). I criteri generali di disciplina dell'errore vanno tenuti fermi anche in materia di errore sulle cause di giustificazione, come già nel sistema vigente (art. 59) e come propone lo schema Pagliaro (art. 15). 4. Eliminazione delle residue ipotesi di responsabilità oggettiva o anomala. 4.1. Linee generali e specifiche della riforma. L'indirizzo di "escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole" (schema Pagliaro, art. 12) esprime una posizione comune della dottrina, e costituisce la doverosa attuazione di un principio affermato dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 364/88 e 1085/88). Come è noto, in proposito la Corte ha affermato, in un importante obiter dictum della sentenza n. 364/88, che pur non essendo posto dall'art. 27 Cost. un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, "va, di volta in volta, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere 'coperti' almeno dalla colpa dell'agente perchè sia rispettata la parte del disposto di cui all'art. 27, primo comma, Cost., relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto". Nel modello delineato dalla Corte, l'inserzione fra i presupposti della punibilità di elementi meramente obiettivi, non toccati dalla colpevolezza dell'agente, potrebbe mantenere un ambito residuale ed eccezionale, all'interno di un sistema nel quale siano comunque assicurate le condizioni dell'imputazione per un fatto illecito colpevolmente realizzato. Dalla funzione garantista del principio di colpevolezza deriva dunque -per vincolo costituzionale- l'inaccettabilità dell'imputazione meramente oggettiva di elementi i quali siano a) significativi rispetto all'offesa, nel senso che (anche) da essi dipenda la realizzazione dell'offesa o messa in pericolo dell'interesse protetto, e quindi la riconoscibilità dell'illecito; b) oppure significativi rispetto alla pena, nel senso che da essi venga fatta dipendere la misura della sanzione: in un ordinamento conforme al principio di colpevolezza, condizioni obiettive di maggiore punibilità non possono avere spazio, come del resto il legislatore ha (parzialmente) riconosciuto superando il criterio della rilevanza meramente obiettiva delle circostanze aggravanti. L'unica categoria ammissibile di presupposti 'meramente oggettivi' della responsabilità è ravvisabile in condizioni di punibilità che, accedendo ad un fatto illecito già riconoscibile come tale indipendentemente dalla condizione, delimitino ulteriormente la risposta penale per ragioni 'estrinseche' d'opportunità. Una riforma ispirata ai criteri sopra enunciati dovrebbe comportare: a) la eliminazione di disposizioni (tipo art. 42, 3° comma, del vigente codice) legittimanti forme d'imputazione dell'illecito 'altrimenti' che per dolo o per colpa. b) la modifica della disciplina delle condizioni obiettive di punibilità. La disposizione vigente (art. 44) è una formula tautologica, che equivale ad una sorta di riconoscimento dell'esistenza di condizioni oggettive di punibilità, ma non pone limiti contenutistici espliciti alla possibilità del legislatore di prevedere condizioni 'operanti oggettivamente', e nemmeno indica all'interprete delle disposizioni di parte speciale criteri idonei a far riconoscere le condizioni oggettive, distinguendole da altri presupposti della punibilità. A livello di parte generale, una disposizione sulle condizioni obiettive di punibilità può avere un concreto significato normativo in quanto indichi un criterio di identificazione degli elementi riconducibili a tale categoria. c) l'abrogazione della figura generale della preterintenzione e (anche mediante una clausola abrogativa di carattere generale) delle singole figure di delitti preterintenzionali e di delitti aggravati dall'evento, nelle quali l'imputazione dell'evento aggravante non sia conseguenza prevedibile (colposa) della commissione del reato-base doloso, ma sia fondata sul mero criterio del versari in re illicita. Realizzata questa operazione, si tratta di disciplinare in sede di parte speciale ipotesi di eventi di morte, di lesione o di 'disastro' cagionati involontariamente mediante condotte dolosamente aggressive o pericolose per l'incolumità delle persone o di beni collettivi, previsti espressamente sotto il profilo della responsabilità per colpa, e muniti di un trattamento sanzionatorio adeguato alla peculiare forma di colpevolezza: più grave rispetto alle altre ipotesi di colpa, ma in misura comunque agganciata al carattere colposo dell'evento realizzato. d) l'abrogazione della attuale disciplina (art. 83) della aberratio delicti, con conseguente riconduzione ai principi generali sulla responsabilità per colpa. e) nella parte speciale e nella legislazione penale speciale: a) radicale eliminazione di ogni ipotesi di condizioni obbiettive di maggiore punibilità; b) abrogazione di disposizioni che escludano l'esigenza della colpevolezza con riguardo ad elementi del fatto costitutivo di reato (dai quali dipenda l'offesa o messa in pericolo dell'interesse protetto); c) riforma delle figure di reato (in particolare, dei reati fallimentari) in cui attualmente sia attribuito un ruolo centrale a condizioni obiettive di punibilità o di maggiore punibilità. f) in materia di aberratio ictus: sono stati prospettati argomenti sia per l'eliminazione dell'istituto, con conseguente applicabilità dei criteri generali, sia per il mantenimento della disciplina attuale. 4.2. In particolare sul reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti e sul concorso dell'estraneo nel reato proprio. Sia l'attuale disciplina della responsabilità per reato diverso da quello voluto (art. 116) interpretata secondo le indicazioni della Corte Costituzionale (sentenza n. 42 del 1965), sia la proposta di modifica dello schema Pagliaro (agevolazione colposa del reato realizzato da altri), presentano i medesimi scarti dal modello normale dell'imputazione soggettiva: una responsabilità che strutturalmente è per colpa viene imputata a titolo di dolo, comporta una pena la cui misura è agganciata (sia pure con il correttivo di una forte diminuzione) alla pena prevista per il reato doloso realizzato, e l'ambito della responsabilità strutturalmente colposa copre anche delitti non previsti fra le figure di reato colposo. Tali modelli di disciplina, poco conciliabili con il principio di colpevolezza, non sono nemmeno giustificati da esigenze di politica criminale. L'estensione dell'ambito della responsabilità sulla base della colpa in relazione a fatti non previsti come reati colposi, appare incoerente con la selezione delle figure di delitto colposo operata dal legislatore 'di parte speciale'. La mancata punizione di eventuali contributi colposi alla realizzazione di eventi dolosi, come tali ascritti a responsabilità degli autori, non aprirebbe alcuna lacuna rispetto alle esigenze di tutela generalpreventiva, così come valutate dal legislatore della parte speciale. Con riguardo ad eventi previsti anche come delitti colposi, realizzati dolosamente da altri, è conforme al sistema l'attribuzione di responsabilità a titolo di colpa al partecipe che abbia dato un contributo colposo, con applicazione della pena prevista per il delitto colposo. Un aggravamento di pena, comunque agganciato alla pena base per il delitto colposo, potrebbe essere giustificato (soltanto) quando la condotta di concorso nel reato voluto costituisca una consapevole violazione di una regola cautelare volta a prevenire l'evento realizzato, e siano in gioco interessi di particolare importanza. In concreto, il problema si rivela essere 'di parte speciale': come dimostra la casistica applicativa dell'art. 116 cod. pen., si tratta essenzialmente di assicurare adeguata tutela all'integrità o alla libertà della persona, in relazione a prevedibili sviluppi di azioni esecutive di determinati delitti. Meglio, allora, rinunciare a clausole generali di estensione della punibilità secondo modelli 'anomali', e riportare il problema alla parte speciale. Individuate le situazioni tipiche per le quali si ritenga opportuno intervenire (delitti contro la persona, rapina, eventuali altre ipotesi 'nominate') si potrà provvedere o con la previsione 'mirata' di eventuali figure specifiche di agevolazione colposa, o con circostanze aggravanti speciali, evitando in ogni caso di agganciare le pene per la realizzazione colposa a quelle previste per la realizzazione dolosa. Mentre, se proprio si volesse mantenere una (sostanzialmente inutile) disciplina di carattere generale, essa non potrebbe che riflettere nella fattispecie i principi generali sulla responsabilità soggettiva (ciascuno dei concorrenti risponde nei limiti della sua colpevolezza; se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando nel suo comportamento sia ravvisabile almeno la colpa, ed il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo). Analogamente, in materia di concorso dell'estraneo nel reato proprio la Commissione, superato il testo proposto dallo schema di legge-delega Pagliaro (non risultando chiaro come si concili la persistente vigenza della fattispecie speciale con il collegamento al principio di colpevolezza), ritiene che l'unico modo di realizzare senza ambiguità il principio di colpevolezza sia di procedere alla abrogazione pura e semplice dell'art. 117 c.p., sottoponendo la disciplina di tale tipo di concorso di persone ai principi generali sulla responsabilità soggettiva. 4.3. Reati a mezzo stampa o radiotelevisione. La vigente disciplina dei reati a mezzo stampa (artt. 57 s.) presenta gli stessi caratteri strutturali dell'art. 116: anche qui un meccanismo 'di parte generale' estende l'ambito della responsabilità sulla base della colpa in relazione ad eventi non previsti come reati colposi nella parte speciale, ed aggancia la pena per un fatto strutturalmente colposo a quella prevista per delitti dolosi. Lo schema Pagliaro (art. 31) si muove nel solco della disciplina vigente, con importanti innovazioni: la considerazione congiunta della stampa e della radiotelevisione; la previsione - quali destinatari della norma penale accanto al direttore o vicedirettore responsabile - di soggetti 'delegati' a svolgere la funzione di controllo; una accentuata riduzione di pena per il caso di omesso impedimento colposo. Il problema concerne sostanzialmente un gruppo delimitato di reati d'opinione previsti nella parte speciale come reati dolosi. Per ciascuno di essi può essere posta autonomamente la questione se sia opportuno estendere la responsabilità penale a soggetti 'garanti', incriminando condotte di mancato impedimento colposo. Un meccanismo 'di parte generale' sottende una risposta globalmente affermativa, e prefigura un modello tendenzialmente accentrato di impresa giornalistica o radiotelevisiva, caratterizzato dalla presenza obbligatoria di poteri di controllo gerarchico. Appare preferibile lasciare la soluzione alla disciplina di singole figure di reato, o ad una organica riconsiderazione della legislazione sui mezzi di comunicazione. Se proprio si ritiene di mantenere un meccanismo unitario nel codice penale, occorre: rendere effettivo l'aggancio al criterio della colpa, prevedere per il mancato impedimento colposo una pena svincolata da quella prevista per il fatto doloso, ed evitare di bloccare, con l'imposizione di un modello di responsabilità necessariamente accentrata al vertice, le opzioni relative alla disciplina dell'impresa giornalistica o radiotelevisiva. 4.4. Le circostanze del reato. Lo schema Pagliaro mantiene il criterio della colpa per l'imputazione delle aggravanti, e lo estende alle attenuanti nel senso di attribuire rilevanza alle attenuanti "supposte per errore non dovuto a colpa". Si tratta d'un adeguamento a esigenze imposte dal principio di colpevolezza, da considerare positivamente. Una compiuta valutazione delle soluzioni prospettabili non può essere tuttavia fatta se non nell'ambito di una revisione complessiva della disciplina delle circostanze, anche con riguardo al profilo sanzionatorio. IV. REATI OMISSIVI E POSIZIONI DI GARANZIA NELL'AMBITO DI ORGANIZZAZIONE COMPLESSE. 1. I reati omissivi. L'indirizzo di fondo dovrebbe essere nel senso di una forte selezione delle figure di reato omissivo, per la più penetrante incidenza dei comandi di agire nella sfera di libertà dei destinatari e per il peculiare rischio di forzatura dei criteri della responsabilità personale. Da ciò la opportunità di uno speciale fondamento della responsabilità per omissione, da ricercare in esigenze non altrimenti soddisfacibili di tutela di beni giuridici importanti, e la conseguente necessità di una costruzione particolarmente attenta delle fattispecie di reato omissivo, che ne assicuri, ad un tempo, la 'tenuta' garantista e la funzionalità generalpreventiva. 1.1. I reati omissivi propri. Nei casi in cui la fattispecie di reato omissivo è autonomamente e compiutamente configurata dal legislatore di parte speciale (reati omissivi propri), il problema fondamentale, per quanto concerne la costruzione delle fattispecie, attiene alla determinazione dei presupposti del dovere di agire penalmente sanzionato. L'indirizzo di fondo, per il legislatore di parte speciale, è che il comando d'agire sia agganciato (con la chiarezza imposta dal principio di legalità) a situazioni tipiche ben profilate e di significato pregnante, tali cioè da evocare immediatamente il problema dell'attivarsi in un certo modo per la salvaguardia di riconoscibili interessi, e da costituire perciò, ad un tempo, il fondamento del carattere offensivo dell'omissione, e un solido punto di riferimento per il giudizio sulla colpevolezza dell'omittente. 1.2. Reati commissivi mediante omissione. 1. Il problema dell'individuazione delle posizioni di garanzia rilevanti. Secondo il modello generalmente adottato (anche dal codice Rocco, nell'interpretazione ormai consolidata) il presupposto dell'obbligo d'attivarsi (di 'impedimento dell'evento') dipende da una 'posizione di garanzia' il cui fondamento non è dato dalla norma penale 'di parte speciale', ma questa recepisce come rilevante ai fini dell'equiparazione del non impedimento alla realizzazione positiva del fatto. Il rispetto del principio di legalità, e comunque esigenze di certezza del diritto, esigono che le posizioni di garanzia penalmente rilevanti abbiano fondamento legale. I progetti di riforma mantengono la struttura formale della disciplina, che affida ad una disposizione di parte generale il compito di dettare il criterio generale di individuazione delle posizioni di garanzia penalmente rilevanti, fondamentalmente con rinvio a figure disciplinate da altri settori dell'ordinamento. Nello schema Pagliaro si propone (art. 11) di introdurre una distinzione fra obblighi di garanzia ed obblighi di sorveglianza, limitando la rilevanza penale di questi ultimi ai soli casi specificamente previsti dalla legge. Il modello vigente, che comporta un rinvio del diritto penale ad altri settori dell'ordinamento mediante una disposizione costruita come clausola generale, tende ad assicurare coerenza e completezza del sistema di tutela, a prezzo però di un deficit di determinatezza e di rinuncia a selezionare le posizioni di garanzia rilevanti secondo valutazioni specificamente penalistiche. Può essere opportuno cercare di individuare, preliminarmente alla definizione di formule normative, quali siano le posizioni di garanzia che appaia necessario selezionare per una adeguata tutela dei beni penalmente protetti, o delle quali sia opportuno discutere. Un abbozzo di casistica, suscettibile di integrazioni, può essere il seguente: a) Posizioni di protezione nei confronti di persone incapaci (minori, infermi, soggetti che si siano affidati a un esperto nello svolgimento di attività rischiose). b) Posizioni di controllo su fonti di pericolo. Viene qui in rilievo, in particolare, la gestione di attività pericolose da parte di organizzazioni complesse, di natura imprenditoriale o anche non imprenditoriale. Gli interessi rilevanti sono quelli dell'incolumità individuale, della sicurezza individuale e collettiva, della tutela dell'ambiente. Nella medesima prospettiva si inquadra il problema della custodia di cose che possano costituire un pericolo, nonché quello della rilevanza della attività pericolosa precedente. c) Funzioni di gestione di affari altrui (ruoli di direzione, amministrazione e controllo entro persone giuridiche, e simili). d) Svolgimento di attività terapeutica, o di funzioni relative al soccorso di privati o pubblici infortuni. e) In tutti gli ambiti sopra indicati si pone il problema dell'impedimento di fatti illeciti ad opera di terze persone, che ricorre con profili peculiari relativamente ai corpi di polizia. 2. Il problema della causalità dell'omissione. Sul piano sistematico, la disciplina delle posizioni di garanzia dovrebbe essere sganciata dal problema della causalità, cui nel codice Rocco è collegata. Le posizioni di garanzia determinano non già la causalità, ma la tipicità dell'omissione 'non impeditiva'. Circa i presupposti 'materiali' della causalità, dovrebbero valere i criteri generali. Ciò comporta l'esigenza di un ripensamento, e della eventuale correzione con una disposizione ad hoc dell'indirizzo giurisprudenziale che afferma la causalità dell'omissione, anche quando l'impedimento dell'evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità lontano dalla certezza. Alle possibili lacune di tutela, di fronte ad inadempimenti colpevoli ma dei quali sia dubbia la rilevanza causale ('non impeditiva'), si potrebbe ovviare con la previsione di figure di reato omissivo proprio, di mera condotta (eventualmente con la condizione di punibilità del prevedibile verificarsi dell'evento lesivo, ma con livello sanzionatorio comunque dimensionato secondo il disvalore della condotta omissiva). Con riguardo alla disciplina vigente (art. 40 cpv.) del reato commissivo mediante omissione, un indirizzo dottrinale sostiene che essa concerne i soli reati con evento naturalistico. Tale delimitazione è di fatto disattesa dalla giurisprudenza, e non poggia su ragioni sostanziali: non la struttura dei fatti da impedire, ma la funzione delle posizioni di garanzia è il criterio razionale di determinazione dell'ambito della responsabilità omissiva. 2. Le posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse. Nel ridisegnare i principi generali in materia di responsabilità penale appare opportuno definire i principi generali sui 'soggetti responsabili' nelle organizzazioni complesse (impresa et similia), quale che sia poi la sede opportuna per la loro formulazione. La previsione nel codice penale dei principi portanti del sistema servirebbe a dare fondamento più certo e maggiore coerenza a soluzioni che, già oggi sostenibili e sostenute, sembrano dar corpo ad una sorta di diritto giurisprudenziale, insicuro nei fondamenti e non privo di aspetti controversi. I problemi fondamentali sono i seguenti: a) se mantenere, modificare o abbandonare il sistema che individua come posizione di garanzia fondamentale quella di soggetti 'al vertice' dell'organizzazione; b) se e come costruire un sistema di posizioni di garanzia a più livelli; c) quali debbano essere l'ambito e le condizioni di rilevanza della delega di funzioni. Su questi punti esiste una copiosa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, dalla quale è dato desumere un modello passabilmente accettabile ed unitario, anche se non privo di incertezze, e del quale non è indicato con chiarezza il fondamento normativo. A livello legislativo, il più significativo testo di riferimento è la disciplina introdotta dal d.lg. 626/94 e successive modificazioni relativamente alla sicurezza del lavoro. Criterio fondamentale per la determinazione delle posizioni di garanzia nelle organizzazioni complesse deve essere quello della corrispondenza fra poteri e doveri. La garanzia dei beni in gioco, là dove esiga la previsione di doveri di attivarsi, non può che essere affidata a soggetti i quali abbiano il potere (giuridico e fattuale) di assicurare l'adempimento. Ne derivano i seguenti corollari (relativamente all'ambito delle posizioni di garanzia, impregiudicata l'esigenza che la responsabilità penale sia ulteriormente delimitata in funzione della soggettiva colpevolezza): a) mantenimento del sistema che individua il garante primario nel soggetto al vertice dell'organizzazione, munito del potere (e del correlativo dovere) di organizzare le strutture e l'attività in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi in gioco. b) determinazione del tipo di garanzia dovuta dal soggetto al vertice, mediante la selezione di un ristretto nucleo di adempimenti 'non delegabili' propri del ruolo di direzione complessiva dell'organizzazione. Il riferimento alla previa valutazione dei rischi ed alla programmazione generale della sicurezza, che sta alla base del sistema del d. lg. 626/94, è un modello che può essere opportunamente generalizzato per qualsiasi rischio al quale interessi penalmente protetti siano esposti in relazione all'esistenza ed all'attività dell'organizzazione; la garanzia dovuta dal soggetto al vertice, rispetto agli interessi penalmente protetti, sta nella organizzazione generale della sicurezza sulla base di una adeguata informazione. Per quanto concerne gli aspetti tecnici delle valutazioni e delle misure da programmare, resta ferma la possibilità di avvalersi di soggetti tecnicamente qualificati (la cui cooperazione alla valutazione dei rischi, nel sistema del d. lg. 626/94, è anzi obbligatoria). Il dovere 'non delegabile' del soggetto al vertice consiste nell'assicurare le condizioni di idoneo svolgimento del lavoro dei tecnici, nel verificarne l'effettuazione, e nell'adottare le misure organizzative conseguenti. c) identificazione dell'organizzazione cui riferire la posizione di garanzia, avendo riguardo non alla forma giuridica di per sé considerata (struttura societaria) ma alla effettiva articolazione organizzativa e di potere (rilevanza della 'direzione unitaria' di gruppi di società, nell'ambito e nella misura in cui sia esercitata; rilevanza delle diverse articolazioni dotate di sufficiente autonomia finanziaria e tecnico - funzionale, come già oggi nel sistema del d.lg. 626/94). d) correlazione fra poteri e responsabilità ai diversi livelli della struttura: ai compiti (decisionali, operativi, di consulenza) assegnati a ciascun livello, dal cui esercizio dipende la salvaguardia di beni penalmente protetti, deve corrispondere una specifica posizione di garanzia, secondo il modello a più stadi oggi espressamente previsto in materia di sicurezza del lavoro. e) ammissibilità della delega indipendentemente dalle dimensioni dell'organizzazione. Ciò che interessa, in vista della tutela dei beni giuridici, non è la 'necessità' della delega, ma l'idoneità del sistema organizzativo adottato. In via di principio devono ritenersi ammissibili, in quanto possano essere ugualmente funzionali per la protezione degli interessi in gioco, modelli diversi di ripartizione di poteri: la scelta fra di essi compete a chi abbia la responsabilità complessiva dell'organizzazione. Ai diversi modelli organizzativi corrisponderà un diverso ambito e un diverso rapporto (che potrà essere di concorrenza o di reciproca esclusione) fra i doveri dei diversi soggetti del sistema. La questione interessa, in particolare, la ripartizione dei poteri di spesa: limitazioni di poteri di spesa non ostano alla valida attribuzione di altri poteri e dei correlativi doveri, e correlativamente ogni riserva di poteri di spesa definisce un ambito di residua (potenziale) responsabilità del delegante. L'esigenza che la delega sia espressa, affermata da una parte della giurisprudenza, appare superabile dove vi sia l'effettiva assunzione di dati compiti implicanti problemi di salvaguardia degli interessi penalmente protetti. Nello schema Pagliaro viene proposta (art. 11) una distinzione fra obblighi di garanzia e obblighi di sorveglianza. Per questi ultimi si prevede una rilevanza più limitata: la loro violazione non fonderebbe una responsabilità 'per omesso impedimento', ma verrebbe in rilievo ove 'espressamente prevista come reato' (omissivo proprio, sembra di capire). Tale distinzione, estranea al diritto vigente e vivente, eliminerebbe le attuali incertezze circa i contenuti dei doveri di vigilanza, e i conseguenti rischi di dilatazione della responsabilità secondo una logica di 'responsabilità di posizione'; per altro verso, comporterebbe delimitazioni della responsabilità penale non facilmente giustificabili, alla luce della garanzia affidata a ruoli il cui esercizio sia caratterizzato in modo pregnante anche da doveri di vigilanza. Più razionale appare un sistema che continui a considerare il dovere di vigilanza, là dove previsto, come un aspetto essenziale della garanzia dovuta dai diversi ruoli, che assuma però contenuti ben delimitati in relazione ai compiti propri di ciascun garante. Per il soggetto al vertice, in particolare, il dovere di vigilanza dovrebbe rientrare nel nucleo indelegabile del dovere di buona organizzazione. V. LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE. La disciplina vigente delle cause di giustificazioni, in larga misura condivisibile, solleva alcuni problemi di migliore definizione e tipizzazione delle singole fattispecie esimenti. Lo schema di legge-delega Pagliaro, seguendo l'orientamento di una parte della dottrina, ha ritenuto di dovere distinguere la categoria delle esimenti nelle due sottospecie delle cause (oggettive) di giustificazione (art.16) e delle cause soggettive di esclusione della colpevolezza (art. 17). Questa differenziazione, che suscita problemi pratici soprattutto con riferimento all'istituto (sdoppiato) dello stato di necessità, è stata criticata da una parte della Commissione, che ha giudicato preferibile mantenere l'impianto unitario del codice in vigore. 1. L'esercizio del diritto, l'adempimento di un dovere, l'ordine illegittimo vincolante. Le figure dell'esercizio di un diritto e dell'adempimento di un dovere non sollevano problemi di rilievo. La riforma dovrebbe di conseguenza confermare la disciplina vigente. Con riferimento all'ordine illegittimo vincolante occorrerebbe procedere ad una tipizzazione, ed eventuale ridimensionamento (all'interno dei tradizionali settori della gerarchia militare, dei corpi civili dello Stato organizzati militarmente e degli ausiliari della giustizia), delle ipotesi in cui opera il principio della insindacabilità dell'ordine. Per esigenze di chiarezza sarebbe d'altronde opportuno enunciare espressamente che la insindacabilità concerne soltanto la illegittimità sostanziale, e che la manifesta criminosità dell'ordine obbliga il subordinato a non eseguirlo, soggiungendo che la percezione di una criminosità comunque non manifesta obbliga (o in ogni caso autorizza) a rifiutare l'esecuzione dell'ordine. Quanto al tema dei limiti della dipendenza gerarchica dei dipendenti civili dello Stato disciplinata dagli artt. 16 e 17 D.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, la Commissione si è domandata se sia opportuno mantenere il principio della necessaria esecutività dell'ordine palesemente illegittimo reiterato per iscritto. Tradizionalmente l'ordine privato viene escluso dal novero delle esimenti. Al riguardo si può comunque osservare che delle due l'una: o il contenuto dell'ordine è conforme alle leggi, ed allora deve (o può) essere eseguito, o non è conforme alle leggi, ed in caso di esecuzione comporta responsabilità, a seconda dei casi penale o civile, sia a carico di colui che lo ha impartito, sia a carico di colui che lo ha eseguito. Lo schema di legge delega Pagliaro, nel tentativo di dare rilievo alla situazione di disagio in cui si può venire a trovare l'impiegato privato che riceve un ordine, prevede sotto il profilo delle cause soggettive di esclusione della responsabilità "l'ordine di un privato rivestito di un'autorità specificamente riconosciuta dalla legge, quando l'ordine si riferisca ad attività inerenti al rapporto di dipendenza e l'agente confidi ragionevolmente nella sua liceità" (art. 17 n. 2). In realtà in tale caso non è tanto l'esistenza dell'ordine e della posizione di subordinazione a funzionare come causa di esclusione della riprovevolezza soggettiva, quanto "la ragionevole fiducia nella sua liceità", cioè, in ultima analisi, l'erronea opinione di liceità di un ordine invece illegittimo. Si tratta pertanto di una (opportuna) estensione dell'ambito dell'errore rilevante, che, se riconosciuta, non si vede tuttavia perché non dovrebbe diventare principio generale in materia di ordine dell'autorità. 2. Difesa legittima e stato di necessità. La disciplina vigente della difesa legittima e dello stato di necessità, in larga misura esaustiva, esige alcune precisazioni in parte dirette a dare veste formale a quanto risulta comunque pacificamente sostenuto in sede interpretativa, in parte rivolte a risolvere problemi allo stato non risolti. Occorrerebbe in particolare: a) chiarire se le due esimenti operano oggettivamente sulla linea della disciplina generale attualmente tracciata dall'art. 59 comma 1 c.p., ovvero se la loro efficacia sia subordinata alla percezione della situazione di pericolo; b) definitivamente superato il concetto della c.d. 'proporzione fra i mezzi', chiarire che la proporzione fra i beni deve essere valutata diversamente nella difesa legittima e nello stato di necessità in considerazione della differente posizione in cui si trovano i titolari degli interessi contrapposti nelle due situazioni (tema affrontato dallo schema Pagliaro, che nell'art. 16 nn.3 e 4 ha distinto il modo di valutare la proporzione nelle due cause di giustificazioni); c) chiarire in quale misura il requisito del 'pericolo non altrimenti evitabile' rilevi anche nella difesa legittima; d) nella difesa legittima prevedere che la scriminante non operi nel caso in cui l'aggressione sia stata suscitata ad arte allo scopo di potere colpire impunemente l'aggressore (in questo senso si è pronunciato lo schema di legge-delega Pagliaro); e) in tema di stato di necessità, a fronte dei dubbi interpretativi suscitati dalla espressione "danno grave alla persona", chiarire quali beni siano effettivamente "salvabili" (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra considerare rilevanti agli effetti della esimente tutti gli interessi personali propri o altrui, siano essi oggetto di pericolo di un danno grave o non grave, attengano alla integrità fisica o a quella morale della persona, compensando tuttavia questo ampliamento con una drastica delimitazione della scriminante sul terreno della proporzione). f) ove si intendesse continuare a circoscrivere agli interessi di natura personale l'ambito di applicazione dello stato di necessità, con riferimento agli interessi di natura patrimoniale sarebbe opportuno disciplinare espressamente la situazione di chi, per salvare un diritto patrimoniale altrui minacciato, danneggia un bene di valore minore della stessa persona: per escludere, come sembrerebbe naturale, la responsabilità del soccorritore oggi si può fare riferimento, in via interpretativa, agli istituti della negotiorum gestio o del consenso presunto, mentre sarebbe preferibile disporre di una norma che regolasse esplicitamente il caso (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra fare riferimento, nell'art. 16 n. 2, al consenso presunto). g) definire i rapporti fra l'istituto del soccorso di necessità disciplinato dall'art. 54 c.p. e quello del c.d. 'dovere di soccorso', che secondo una parte della dottrina sarebbe desumibile dall'art. 593 c.p.; eliminare alcune improprietà riscontrabili nella attuale dizione lessicale della disciplina del soccorso di necessità. h) in tema di inapplicabilità dello stato di necessità a chi ha un particolare dovere di esporsi al pericolo, attenuare la rigidezza della disciplina vigente precisando, sul solco della proposta Pagliaro, che la scriminante non è applicabile a chi "essendo tenuto da esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza". Nodo di fondo concernente la figura dello stato di necessità riguarda la opportunità del suo sdoppiamento nelle figure, previste dallo schema di legge-delega Pagliaro, della causa oggettiva di giustificazione e della causa soggettiva di esclusione della responsabilità (c.d. necessità cogente). Si è già rilevato come una parte della Commissione si è dichiarata contraria allo sdoppiamento, e più in generale alla configurazione di una categoria di cause soggettive di esclusione della responsabilità da affiancare a quella delle cause oggettive di giustificazione. Se questa dovesse essere la scelta in sede di stesura del nuovo codice, lo stato di necessità unitario (inteso come causa di giustificazione) dovrebbe essere comunque ancorato ad un concetto di proporzione che tenga conto della equivalenza degli interessi contrapposti, evitando il rigore eccessivo della proposta Pagliaro, che postula che l'interesse salvato abbia un valore 'superiore' a quello sacrificato. Più in generale, quanto allo schema complessivo delle cause soggettive di esclusione della responsabilità configurato dal progetto Pagliaro la Commissione osserva che due di esse, quella già considerata (retro n. 1) prevista nel n. 2 dell'art. 17, e quella prevista nel suo n. 4 (l'affidamento nel consenso altrui, qualora il fatto sia commesso nell'interesse privato proprio, ma l'agente ragionevolmente confidi che il titolare del bene disponibile avrebbe consentito), consistono nella sostanza in ipotesi di errore, e come tali sono 'naturalmente' destinate ad operare come cause incidenti sulla colpevolezza indipendentemente dalla loro inclusione in una specifica categoria nuova di cause soggettive di esclusione della responsabilità. 3. L'uso legittimo delle armi. La Commissione fa proprie le istanze di una revisione di tale causa di giustificazione. L'alternativa è fra la abolizione della stessa, che ripristini la situazione vigente al tempo del codice Zanardelli, ovvero una riforma che inserisca nella sua struttura i requisiti della necessità e della proporzione (soluzione proposta dallo schema di legge-delega Pagliaro, art. 16 n. 6) od opti per soluzioni più sofisticate, ma sicuramente meno 'facili' da realizzare (es., sdoppiamento della esimente a seconda che la forza pubblica sia costretta ad affrontare situazioni di violenza o di resistenza attiva, ovvero situazioni di resistenza passiva, legittimando nei primi casi anche l'uso delle armi, consentendo nei secondi soltanto l'impiego di mezzi di coazione fisica meno aggressivi). 4. Consenso dell'avente diritto. In tema di consenso dell'avente diritto è emersa qualche incertezza vuoi con riferimento alla delimitazione di taluni diritti indisponibili (fede pubblica, libertà personale, integrità fisica), vuoi, soprattutto, riguardo ad alcuni dei requisiti di validità del consenso (età). Lo schema di legge-delega Pagliaro si è fatto carico di questo secondo profilo. Nell'art. 16 n. 2 ha disposto che occorre prevedere "il consenso dell'avente diritto, rispetto ai reati aventi ad oggetto interessi disponibili, disciplinandone la validità con particolare riferimento alla capacità del titolare in relazione alla natura dell'atto". Ha d'altronde opportunamente previsto che occorre "riconoscere, nei limiti suddetti, la rilevanza del consenso presumibile, stabilendone i presupposti e, fra questi, in particolare, la verosimile utilità obbiettiva, al momento del fatto, per il titolare dell'interesse e la mancanza di un suo dissenso". In questo modo è andato incontro alla esigenza di disciplinare espressamente i casi in cui un soggetto danneggia un bene patrimoniale di una persona nell'intento di salvare un altro bene patrimoniale di valore maggiore della stessa. 5. Una nuova scriminante generale? Lo schema di legge-delega Pagliaro è intervenuto in un settore delicato, fino ad oggi affidato ai principi non scritti delle scriminanti tacite e delle regole di perizia professionale: la attività terapeutica e gli interventi medico chirurgici. Nell'art. 16 n. 5 ha stabilito che occorre prevedere come causa di giustificazione "l'attività terapeutica, sempre che: a) vi sia il consenso dell'avente diritto o, in caso di impossibilità a consentire, il suo consenso presumibile e la urgente necessità del trattamento; b) il vantaggio alla salute sia verosimilmente superiore al rischio; c) siano osservate le regole della migliore scienza ed esperienza". La Commissione esprime dubbi circa la opportunità di intervenire in questo settore, e soprattutto di intervenire con una norma strutturata nel modo indicato: a) intervenire, significa rischiare di irrigidire una disciplina che pare più opportuno riservare ai canoni ormai consolidati della prassi e della giurisprudenza. b) il tema del consenso presupposto di liceità dell'intervento medico esige a sua volta che si affronti quello delicatissimo della informazione corretta del malato: un tema sul quale sussiste tutt'ora incertezza in dottrina, e che lo schema di legge-delega si è ben guardato dall'affrontare. c) determinare quando il vantaggio alla salute sia superiore al rischio non è sempre agevole; di qui il pericolo di inserirlo quale requisito esplicito di una scriminante. d) il requisito indicato sotto la lettera c) del progetto Pagliaro più che alla struttura di una esimente sembra attenere al profilo della mancanza di colpa. e) non si affronta il problema che, invece, parrebbe più urgente affrontare: prendere posizione nei confronti dei più recenti orientamenti giurisprudenziali che in caso di consenso ritenuto non sufficientemente 'informato' hanno ritenuto la configurabilità a carico del medico di delitti dolosi o preterintenzionali contro la persona. VI. TENTATIVO E DELITTI DI ATTENTATO. Un inventario dei principali profili dell'istituto del tentativo suscettibili di riforma può essere redatto ordinandoli in tre grandi gruppi: profili attinenti a) al campo di applicazione del tentativo; b) alla struttura e al trattamento sanzionatorio del tentativo; c) alla disciplina degli istituti connessi o interferenti col tentativo (desistenza volontaria, recesso attivo, delitti di attentato). 1. Il delitto tentato 1.1. Per quanto riguarda il campo di applicazione del tentativo la Commissione, preso atto di soluzioni diverse presenti in alcuni paesi europei, si è domandata se sia opportuno mantenere la disciplina vigente o preferibile suggerire delimitazioni ulteriori dell'ambito di applicazione dell'istituto. La maggioranza della Commissione, esclusa sul terreno general-preventivo la opportunità politico-criminale di una riduzione, ha sostenuto che si potrebbe tutt'al più pensare di escludere la applicazione dell'istituto nei confronti dei reati omissivi propri (contestata da una parte della dottrina), osservando che la modesta incidenza pratica della questione potrebbe comunque consigliare di continuare a rimettere la sua soluzione all'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Alcuni commissari hanno invece sostenuto la opportunità di prendere in considerazione prospettive di limitazione anche marcata dell'area di applicazione del tentativo, circoscrivendo l'anticipazione dell'intervento penale a reati esplicitamente individuati, in linea di principio i delitti più gravi. 1.2. In materia di struttura e di trattamento sanzionatorio del tentativo, la disciplina vigente può essere annoverata tra quelle maggiormente ispirate ad un orientamento soggettivista. Quanto alla struttura, il codice penale italiano, sganciata la configurazione dell'istituto da qualsiasi riferimento diretto alla condotta costitutiva del corrispondente delitto consumato, costruisce il delitto tentato facendo riferimento agli incerti confini del concetto di "atti idonei" e "diretti in modo non equivoco" a commettere il delitto. Poiché il requisito della idoneità non è in grado di contribuire in modo decisivo alla tipizzazione della condotta di tentativo, e poiché il requisito della direzione non equivoca degli atti non aggiunge a sua volta profili sufficienti di tipicità, il giudice rimane sostanzialmente libero di determinare contenuto e limiti dell'istituto. Nella maggior parte dei sistemi di civil law europei la condotta del tentativo continua invece ad essere individuata attraverso il concetto dell'inizio di esecuzione della azione tipica. In alcuni casi si fa riferimento puro e semplice a tale concetto (codice francese, codice svizzero, avamprogetto dello stesso); in altri la formula dell'inizio di esecuzione è arricchita dall'ulteriore riferimento ai "fatti esteriori" (codice belga, codice spagnolo) o ci si impegna in una definizione analitica degli "atti di esecuzione (codice portoghese), senza che questa specificazione sia in grado di recare un reale contributo alla precisazione della condotta, essendo evidente che l'esigenza di una manifestazione esteriore della risoluzione criminosa discende già dal principio generale di materialità del reato, mentre il problema è quello dell'individuazione del grado di sviluppo della condotta punibile, alla cui soluzione intende provvedere il criterio dell'inizio di esecuzione. Mentre la formula degli atti idonei e diretti in modo non equivoco non consente una tipizzazione adeguata della condotta di tentativo, la formula dell'inizio di esecuzione ha il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo da quella della fattispecie di riferimento di parte speciale. Pur non costituendo una "formula magica" utilizzando la quale ogni problema di riduzione dei margini della discrezionalità giudiziale risultano risolti, è comunque formula più garantista, e quantomeno sul terreno dei 'segnali lanciati' indica la necessità di porre comunque una barriera ad una anticipazione indiscriminata degli atti qualificabili come penalmente rilevanti. Come è noto, il pregio rilevabile sul piano della maggiore delimitazione concettuale della condotta punibile viene in qualche modo controbilanciato dalla impossibilità di ricondurre all'inizio di esecuzione gli atti che, pur essendo totalmente atipici, sono però immediatamente antecedenti all'inizio di esecuzione, e con riferimento a molti dei quali si pone concretamente una esigenza di punibilità. Era stata d'altronde proprio la denuncia di questa esigenza (o di esigenze simili) a giustificare, nel 1930, la scelta di abbandonare da formula dell'inizio di esecuzione utilizzata dal codice penale Zanardelli sostituendola con quella della idoneità ed univocità degli atti. Il diritto comparato offre tuttavia esempi di soluzioni legislative che tendono a realizzare una conciliazione delle due contrapposte esigenze. Nel codice tedesco del 1975 ed in quello austriaco del 1974, ad esempio, il criterio di individuazione della condotta tipica continua ad essere costituito dal concetto di "esecuzione della fattispecie", ma la soglia di punibilità è anticipata attraverso il riferimento agli atti che precedono "direttamente", "immediatamente", gli atti esecutivi. Analogamente, il codice portoghese equipara agli atti esecutivi "quelli che, secondo la comune esperienza , sono di natura tale da far prevedere che ad essi seguano" gli atti esecutivi. Nella prospettiva di una maggiore delimitazione possibile della anticipazione della attività punibile e di un inserimento della disciplina italiana nel panorama delle legislazioni europee, la Commissione ritiene opportuno orientare la nuova disciplina del tentativo in una direzione oggettiva, centrata sul concetto della punibilità degli atti esecutivi della condotta tipica. Il ritorno alla formula dell'inizio di esecuzione della condotta tipica dovrebbe essere tuttavia accompagnata da correttivi, finalizzati da un lato ad evitare rigidezze eccessive del criterio adottato, dall'altro a superare obbiezioni di eccessiva restrizione dell'area di punibilità che potrebbero essere avanzate soprattutto con riferimento ai reati causalmente orientati. In questa prospettiva il criterio sussidiario della "immediatezza" sembra dotato, più di altri possibili, di efficacia espressiva e delimitativa, e sembrerebbe pertanto preferibile. Anche nei più recenti progetti di riforma italiani (schema di legge-delega Pagliaro e progetto Riz) si avverte la esigenza di "meglio fondare la materialità del fatto di tentativo, svincolandone la struttura, per quanto possibile, da riferimenti di carattere personale-soggettivo". Tale scopo viene perseguito aggiungendo l'avverbio "oggettivamente" ai requisiti degli atti idonei diretti in modo non equivoco. Peraltro non pare che l'aggiunta di tale avverbio sia in grado di recare un contributo alla precisazione della condotta del tentativo, vuoi perché, come si è rilevato, il riferimento alla oggettività della condotta è già implicito nel principio generale di materialità del reato, vuoi perché, nel contesto specifico della definizione dello schema di legge-delega Pagliaro, l'indicazione della oggettività potrebbe semmai esprimere l'intento legislativo di privilegiare l'accezione oggettivistica del requisito della direzione non equivoca degli atti. Per quanto attiene al trattamento sanzionatorio, pur non mancando ordinamenti a noi geograficamente vicini che prevedono la parificazione del tentativo alla consumazione (Austria, per certi versi Inghilterra), oppure una attenuazione di pena per il tentativo soltanto facoltativa (Svizzera, Germania), la Commissione, in considerazione del diverso peso delle offese rispettivamente causate dal delitto tentato e dal delitto consumato, ritiene preferibile mantenere il regime di diminuzione previsto dal codice penale vigente. 1.3. Per quanto riguarda l'annosa questione del dolo del tentativo, e più precisamente della compatibilità tra tentativo e dolo eventuale, la maggioranza della Commissione ritiene che la soluzione migliore sia di prendere sostanzialmente atto dell'orientamento ormai maturato dalla giurisprudenza nel senso della esclusione. In questo senso vanno del resto sia il "progetto Pagliaro" sia il "progetto Riz". Dei due testi, la formula più corretta risulta comunque quella del primo ("chi, con l'intenzione o la certezza di cagionare l'evento, compie atti ...") in quanto mette in luce la compatibilità del tentativo anche con il c.d. dolo diretto oltre che con quello intenzionale, a differenza invece del "progetto Riz" ("compie atti [...], con l'intenzione di cagionare l'evento"). Alcuni componenti della Commissione hanno peraltro osservato che, una volta esplicitato che il dolo eventuale dovrebbe consistere in una rappresentazione della realizzazione del fatto in termini di alta probabilità (v. retro, parte III, n.2.1), nulla osterebbe a rendere compatibile tentativo e dolo eventuale. Se questa dovesse essere la scelta in sede di riforma, non sarebbe tuttavia, forse, necessario formulare una norma ad hoc; esaurendosi la definizione del tentativo nella indicazione dei suoi requisiti oggettivi, potrebbe trovare automaticamente applicazione la disciplina generale. 2. Desistenza volontaria e recesso attivo. In materia di desistenza volontaria e di recesso attivo lo schema di leggedelega Pagliaro ed il progetto Riz inclinano verso la conservazione dell'esistente, limitandosi (il secondo) alla mera previsione di un più consistente effetto attenuante del recesso attivo. Il panorama europeo è caratterizzato invece dalla tendenza a parificare gli effetti dei due istituti sul terreno della non punibilità dell'autore (codice tedesco, austriaco, spagnolo, portoghese, avamprogetto del codice svizzero). La Commissione, tenuto conto di questa realtà, e considerato che fra gli obbiettivi della riforma dovrebbe collocarsi anche l'incentivazione premiale per chi si sia attivato a tutela della vittima del reato (parte VIII, n. 13), è favorevole ad allineare la disciplina italiana a quella testé indicata, prevedendo la non punibilità anche in caso di recesso attivo. Per quanto concerne il ravvedimento del concorrente, il quadro europeo rivela una analoga accentuazione verso la rilevanza dell'istituto, non solo quando si sia determinato l'impedimento del reato, ma anche quando il concorrente si sia limitato ad attivarsi in modo serio per impedire il risultato senza riuscire nell'intento. Tenuto conto di questa realtà, e considerate le sopra menzionate spinte di politica criminale, la Commissione propone di dichiarare non punibile il concorrente che sia riuscito ad impedire la esecuzione del reato, non escludendo di trattare allo stesso modo il concorrente che si sia attivato in modo serio per impedire tale realizzazione senza riuscirvi. Un cenno merita infine l'ipotesi in cui, nonostante il ravvedimento dell'autore, il reato non sia venuto a consumazione per altre cause. Secondo la disciplina vigente è difficile giungere ad una conclusione diversa dall'irrilevanza del ravvedimento, nonostante che l'esigenza della repressione penale appaia modesta. Ed in effetti negli ordinamenti stranieri è diffusa la previsione espressa della non punibilità (codice penale tedesco, portoghese, avamprogetto svizzero). Anche qui la Commissione auspicherebbe un allineamento a tali posizioni. 3. I delitti di attentato. Sia il progetto Pagliaro che il progetto Riz affrontano il problema equiparando i delitti di attentato al tentativo quanto ad elementi costitutivi e contenuto offensivo: "per la punibilità dei delitti di attentato e dei delitti in cui la condotta tipica sia descritta come volta alla produzione di un evento lesivo, devono sussistere i presupposti e i requisiti di punibilità del delitto tentato". Si tratta di una modifica dagli intenti di fondo condivisibili, che non pare tuttavia adeguata ad un inserimento razionale e sufficientemente 'garantito' di tale categoria di delitti nell'ordinamento giuridico. Ad avviso della Commissione il problema della tipizzazione dei delitti di attentato non può essere risolto con un semplice richiamo alla struttura del delitto tentato. Tale richiamo può, ad esempio, svolgere un ruolo 'correttivo' nelle fattispecie nelle quali l'evento finale è costituito da un risultato naturalistico in cui si concentra il disvalore lesivo del reato, sul modello di omologhe fattispecie 'comuni' a condotta libera (es., attentato contro il Presidente della Repubblica, offesa alla sua libertà, attentato per finalità terroristiche o di eversione, ecc.). Non lo può, invece, quando l'evento finale dell'attentato è identificato in risultati di proporzioni macroscopiche (es., attentato contro la Costituzione dello Stato, devastazione saccheggio e strage, guerra civile), ovvero direttamente nella stessa offesa al bene protetto (es., attentati contro la integrità, la indipendenza o l'unità dello Stato). In questi casi l'innesto del tentativo, ed in particolare dell'idoneità, può forse assicurare un (apparente) grado di offensività, a totale scapito, però, della tipicità della fattispecie. Rispetto ai macro-eventi la differenza di scala è tale da rendere del tutto improbabile che il giudizio di idoneità possa saldare la sfasatura, consentendo di individuare condotte sufficientemente tipiche. Alla luce di queste considerazioni la Commissione ritiene che il nodo dei delitti di attentato debba essere risolto in modo del tutto diverso da quello pensato tradizionalmente. Non già facendo ricorso a criteri generali, ma risolvendo il problema caso per caso, o per gruppi di casi, tenendo conto delle specificità di ciascun gruppo. Questo approccio si salda alla soluzione che si è testè proposta in materia di delitto tentato. In materia di tentativo si è cercato di fornire una definizione la più tipizzante possibile, in grado di superare il coefficiente di discrezionalità che connota la vigente definizione di cui all'art. 56 c.p. In materia di delitti di attentato, la cui politicità di obbiettivi di tutela è fuori discussione costituendo la ragione stessa della loro previsione nel sistema giuridico, il livello di garanzia può essere abbassato tenendo conto delle ragioni peculiari che giustificano l'adozione del modello. La scelta del modello di tipizzazione più adeguato potrà essere tuttavia trovato, come appunto si diceva, sul terreno delle scelte di parte speciale. Come è noto, i delitti di attentato si ritrovano oggi soprattutto fra i delitti contro la incolumità pubblica e fra i delitti contro la Stato. Nei primi la ragione della anticipazione di tutela è ravvisabile nel carattere ultra individuale del bene protetto, e soprattutto nella diffusività di certe manifestazioni aggressive, che induce ad intervenire prima che la condotta abbia prodotto tutta la sua carica offensiva. Nei secondi l'anticipazione trova la sua ragion d'essere talvolta nel carattere 'supremo' di taluni beni, talaltra nell'impossibilità di subordinare la tutela alla loro lesione senza compromettere radicalmente la stessa possibilità dell'intervento penale. In entrambi i casi c'è dunque una ragione 'politica' della previsione del modello. La disciplina dei primi fornisce già oggi un quadro di soluzioni ispirate a grande varietà di tecniche di tutela idonee a contemperare adeguatamente le esigenze di anticipazione della tutela con quelle della tipizzazione della condotta. Tecniche di tutela riassumibili nella previsione: a) di reati di pericolo concreto, caratterizzati peraltro da un grado molto differenziato di descrittività della fattispecie, che vanno da quelle a forma libera ove il risultato è costituito dallo stesso pericolo concreto per la pubblica incolumità, a quelle a condotta vincolata o comunque sufficientemente descritta, a quelle infine ove oltre alla condotta è indicato anche un evento naturalistico intermedio; b) di reati di pericolo astratto, ove la presunzione assume gradi di verosimiglianza prognostica anche in considerazione della differente portata descrittiva della fattispecie, che può essere di mera condotta, di evento, di evento particolarmente significativo; c) di reati consistenti in atti preparatori, che sembrano peraltro ridursi alla sola fattispecie di cui all'art. 435 c.p. La previsione dei secondi presenta invece la totale assenza di analoghi dettagli tipicizzanti di previsione normativa, ma secondo una scelta politico-legislativa tradizionale appare appiattita sulle formule di stile "chiunque compie atti diretti a...", chiunque "attenta". In questo campo il lavoro di riforma dovrebbe essere pertanto particolarmente incisivo. Esso dovrebbe avvenire distinguendo nettamente due gruppi di fattispecie, a seconda che tutelino beni "personaliindividuali", oppure beni "istituzionali" o comunque "macrooffensivi" (v. retro). Realizzando nel primo l'esigenza di tipizzazione tramite la utilizzazione del criterio del pericolo concreto (l'idoneità può apparire criterio generale inadeguato in materia di delitti comuni, ma può essere utilizzato senza grandi obiezioni in fattispecie dalla forte connotazione politica). Puntando nel secondo su tecniche di definizione specifica, e quindi potenzialmente variegata, dei requisiti della condotta o dell'evento (a questo scopo si potrebbe ad esempio trarre ispirazione dall'art. 283 c.p., ove è previsto che l'attentato contro la Costituzione avvenga "con mezzi non consentiti dall'ordinamento costituzionale dello Stato, e dove si potrebbe ulteriormente giocare sulle due tipologie fondamentali delle condotte violente e di quelle abusive delle funzioni pubbliche, rispondenti alle aggressioni provenienti rispettivamente dagli estranei o dagli intranei). Se specifiche esigenze di tutela giuridica dovessero indurre a ritenere opportuno punire attività meramente preparatorie, nulla impedirebbe di operare in tal senso, purché attraverso una adeguata descrizione della condotta preparatoria che si intende eccezionalmente punire. VII. CONCORSO DI PERSONE NEL REATO E REATI ASSOCIATIVI. 1. La tipizzazione delle condotte di partecipazione. Il concorso di persone (come il tentativo ed il reato omissivo improprio) concorre ad ampliare la tipicità dei singoli reati. Tale estensione, per quanto necessaria, rischia di indebolire la tassatività delle fattispecie, onde l'esigenza che si realizzi sulla base di criteri improntati al principio di determinatezza. A differenza del tentativo e del reato omissivo improprio, che pur non sufficientemente garantiti sul terreno della tipicità, fanno comunque riferimento a requisiti intrinseci od a contenuti precettivi, l'art. 110 c.p. è norma priva di contenuti positivi, limitandosi ad operare in (generica) funzione incriminatrice ex novo di condotte atipiche e di equiparazione della pena per i concorrenti. La scelta legislativa di appiattire sul terreno della pena tutti i concorrenti, indipendentemente dalla condotta in concreto esplicata, determina d'altronde un indebolimento di tassatività anche con riferimento alla sanzione, che non risulta adeguatamente modulata tenendo conto della specificità della condotta posta in essere. L'abbandono da parte del legislatore del 1930 di ogni descrizione delle condotte concorsuali trova fondamento per un verso nel fallimento dell'esperienza registrata sotto il codice penale del 1889, per altro verso nell'adozione di un criterio causale che sarebbe stato in grado, nell'idea dei suoi compilatori, di consentire l'individuazione di ogni forma di partecipazione punibile. La valutazione espressa nei confronti della disciplina del c. p. Zanardelli può essere condivisa. La combinazione della descrizione delle figure concorsuali con la previsione di un trattamento sanzionatorio differenziato si era infatti risolto in soluzioni compromissorie e in definizioni evanescenti, che avevano condotto ad arbitrio e, soprattutto, avevano innescato un meccanismo per cui il giudice, con una evidente inversione logica, qualificava la condotta alla luce della pena che intendeva infliggere. Il ripudio di tale disciplina non implicava però necessariamente l'accoglimento della soluzione causale nei termini generici espressi dall'art. 110. La problematica del concorso si scinde infatti in due profili, l'uno concernente la descrizione delle condotte punibili e l'altro il trattamento sanzionatorio. E il carattere insoddisfacente di una loro congiunta regolamentazione non escludeva una diversa disciplina intesa a mantenere la determinatezza delle forme di partecipazione e a ricercare per altra via una loro diversificazione sul piano della pena. Sul piano comparato, una soluzione differenziata è accolta ad esempio dal codice francese, che definisce il complice come "colui che consapevolmente, mediante aiuto o assistenza, ha agevolato la preparazione o la consumazione di un crimine o di un delitto. E' egualmente complice colui che con doni, promesse, minacce, ordini, abuso di autorità o di potere, abbia provocato taluno all'illecito o dato istruzioni per commetterlo" (art. 121.7; similmente dispone l'art. 67 del codice belga; una elencazione delle condotte di concorso è invece contenuta nel § 25 ss. del codice tedesco, nel § 12 del codice austriaco e nell'art. 26 s. del codice portoghese). I vantaggi di tale soluzione possono cogliersi nella sua funzione orientativa nei confronti del giudice, e nell'onere di motivazione conseguente alla qualificazione del partecipe come complice morale o materiale; tali vantaggi acquistano poi ulteriore consistenza a fronte della situazione vigente in Italia, ove l'adozione di un modello indifferenziato ha esaltato il ruolo creativo della giurisprudenza e la figura del concorrente è divenuta l'archetipo di ogni affermazione di responsabilità ai sensi dell'art. 110 c.p. E' significativo, d'altronde, il fatto che al momento di procedere nella parte speciale alla tipizzazione delle condotte di partecipazione al suicidio (art.580), il legislatore non ha utilizzato l'ambigua formula "chiunque concorre", ma ha preferito prevedere, "accanto alla determinazione che si riferisce ad un'attività diretta a formare l'altrui proponimento, anche il rafforzamento di questo, e cioè qualsiasi attività diretta a rendere definitivo un proposito già formato" nonché "l'agevolazione, in qualsiasi forma prestata, alla esecuzione della volontà suicida". Un chiaro segnale della opportunità di un'espressa previsione delle condotte concorsuali, dal quale è derivato un incentivo per la giurisprudenza a ricostruire la causalità delle condotte di partecipazione al suicidio con una profondità che non conosce confronti rispetto alle problematiche generali del concorso di persone nel reato. La opzione "causale" proposta dal legislatore del 1930 come soddisfacente criterio di tipizzazione delle condotte concorsuali ha dato invece, come era prevedibile, pessima prova di sé. Alla luce di un consolidato orientamento, la Cassazione ha affermato genericamente la punibilità di ogni "contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione dell'azione criminosa posta in essere da altri soggetti". E con una sentenza che può essere considerata la sintesi delle opzioni teoriche e politico-criminali della Suprema Corte è stato deciso che "perché si configuri la fattispecie del concorso di persone non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul piano causale, dell'evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso contrasta con il dettato dell'art. 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa sul concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti che di per sé ne sarebbero privi quando abbiano in qualsiasi modo contribuito alla realizzazione collettiva; mentre, d'altro canto, lo stesso codice, con la previsione dell'attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette la possibilità di condotte non condizionali, non potendosi considerare condizione indispensabile per la realizzazione di un reato un'attività di minima importanza. In quest'ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti e, in sostanza, che il partecipe, per effetto della sua condotta idonea a facilitarne l'esecuzione abbia aumentato le possibilità di produzione dell'evento, perché in forza del reato associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti" (Cass., 11-3-1991, in Riv. pen., 1992, 498). Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a contributi anche non rigorosamente causali, fa rilevare sul terreno del concorso condotte che si sono limitate ad incrementare il rischio della produzione dell'evento, concede indiscriminata rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato in sede di riforma. Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a condotte sicuramente causali in ordine alla condotta di un altro concorrente o al comune evento criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte tipiche. In via esemplificativa, una formulazione possibile che tenga conto delle sopramenzionate esigenze di tipicizzazione degli apporti causali potrebbe essere la seguente: concorre nel reato chiunque abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro concorrente o agevolato l'esecuzione fornendo aiuto o assistenza. Essa concorrerebbe a delineare con una certa precisione i contorni del contributo di tipo materiale, individuato nella 'partecipazione' e in una 'agevolazione' qualificata dalla menzione delle condotte di aiuto o assistenza. E porrebbe le basi per affrontare entro confini anch'essi delineati il problema della rilevanza del concorso morale: dovrebbe trattarsi di istigazione alla esecuzione (cioè di condotta che influisce direttamente sull'esecuzione del fatto) o di rafforzamento del proposito di altro concorrente, una sottolineatura che dovrebbe marcare la necessità che sia effettivamente provato che la condotta dell'agente ha cagionato un rafforzamento del proposito dell'altro concorrente incidendo concretamente sulla realizzazione del fatto di reato (con conseguente esclusione di responsabilità penale ove questa prova non sia stata raggiunta, ove esista soltanto la prova della idoneità della condotta posta in essere a determinare il rafforzamento del proposito ma non quella del rafforzamento realizzato, ove vi sia stata mera adesione astratta o approvazione dell'altrui disegno delittuoso senza avere contribuito positivamente all'illecito, ove l'attività psichica sia risultata ininfluente perché rivolta ad un soggetto già pienamente determinato o perché l'esecutore ha agito sulla base di diverse motivazioni). L'esigenza di una riforma dell'istituto del concorso di persone nel reato nella duplice direzione di identificare le condotte di partecipazione secondo principi di maggiore determinatezza, e di ricondurre la responsabilità del compartecipe nell'ambito del principio di colpevolezza è stata riconosciuta dallo schema di legge-delega Pagliaro. La Commissione ritiene che la formulazione proposta: "prevedere che concorra nel reato chi, nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva, dà un contributo necessario, o quantomeno agevolatore, alla realizzazione dell'evento offensivo. Si concorre per agevolazione solo nei casi in cui la condotta ha reso più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell'evento offensivo", come del resto riconoscono gli stessi estensori nella relazione introduttiva all'articolato, realizzi in una misura ancora insufficiente le esigenze di tipizzazione degli apporti causali idonei a rilevare come concorso nel reato. 2. Il trattamento sanzionatorio delle condotte di partecipazione. La maggioranza dei sistemi penali europei prevede una riduzione di pena in favore del complice (codice tedesco, svizzero, spagnolo, portoghese). Tale soluzione va approvata, giacché consente di articolare le cornici edittali di pena in considerazione del disvalore oggettivo delle condotte concorrenti, mentre la soluzione unitaria ex art. 110 trasferisce la valutazione dei diversi contributi sul piano della commisurazione della pena, realizzando una indebita assimilazione tra il fatto e la personalità dell'imputato, che vale a spiegare anche la desuetudine in cui è caduto l'art. 114 c.p. Tuttavia, l'esperienza comparata dimostra anche come la diminuzione della pena si leghi, più che alla qualificazione nominalistica della condotta, alla sua rilevanza nel quadro della realizzazione comune; onde appare opportuno prevedere altresì una circostanza attenuante legata alla oggettiva minore importanza del contributo. Nella prospettiva delineata si colloca l'art. 28.1. dello schema di legge-delega Pagliaro, il quale ipotizza di "prevedere responsabilità differenziate per i compartecipi, non in rapporto alla forma astratta di partecipazione, ma in dipendenza del contributo effettivo di ciascuno alla realizzazione criminosa. Prevedere come circostanza attenuante l'avere apportato un contributo soltanto agevolatore alla realizzazione del reato (...)". Qualche perplessità suscita tuttavia il riferimento della circostanza attenuante alla specifica condotta dell'agevolatore, contrapposta nel sistema dello schema di legge-delega a quella del contributo necessario. Tale differenziazione, inconferente agli effetti della determinazione del carico sanzionatorio, ove rileva esclusivamente la oggettiva minore importanza della condotta in rapporto alla vicenda concursuale, rischia oltre tutto di diventare fonte di dispute interpretative (quando, ad esempio, la fornitura di un'arma integra un contributo necessario o un'agevolazione?). In questa prospettiva si propone la previsione di una circostanza attenuante, di applicazione obbligatoria, riferita alle condotte "di rilevanza modesta" 3. La partecipazione omissiva nel reato commesso mediante azione. Posto che il mancato impedimento di un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale alla sua causazione attiva (art. 40 cpv.), anche la consapevole inerzia da parte del titolare di una posizione di garanzia dà vita ad una condotta causalmente rilevante rispetto all'evento. Da ciò deriva la sicura possibilità di qualificare come concorrente chi, nell'ambito di un piano criminoso concordato con altri, si impegna ad astenersi dalla condotta per lui giuridicamente obbligatoria. Qualche difficoltà si pone quando l'omissione del garante avviene al di fuori di un previo accordo. In questa ipotesi l'affermazione di una responsabilità concorsuale esige, in capo all'omittente, il dolo di concorso, cioè la volontà di cooperare con altri alla realizzazione del fatto criminoso. Tuttavia, a causa della peculiarità dell'elemento psicologico negli illeciti omissivi, tale volontà finisce con il coincidere con quella di non impedire l'evento, da qualunque ragione essa dipenda e qualunque sia l'atteggiamento del soggetto rispetto alla verificazione dell'evento stesso; donde il rischio di una sfasatura tra il dolo dell'omittente e il titolo del reato di cui è chiamato a rispondere. Né appare decisiva l'osservazione che "per evitare certi rigorismi od oscillazioni giurisprudenziali, occorre un attento accertamento dei requisiti soggettivi, cioè del dolo di concorso (es.: se la madre abbia assistito, inerte, allo stupro della figlia infraquattordicenne per paura o per compiacimento, cioè rifiutando o volendo il fatto)", giacché il problema sorge ogni volta che, senza esservi costretto, il garante rimane inerte (si noti che in tali ipotesi il dolo viene spesso desunto dal comportamento successivo dell'omittente, es., la mancata denuncia del fatto, con l'ulteriore rischio di un ricorso al c.d. dolo susseguente). La questione non consente però alcuna via d'uscita sul terreno della partecipazione criminosa, apparendo eccessivamente restrittiva sia la tesi che vorrebbe circoscrivere il concorso mediante omissione ai reati causali puri, sia la tesi che vorrebbe escluderlo in presenza di un dolo indiretto o eventuale, sia l'idea di attribuirgli rilevanza esclusivamente nei casi di previo accordo. Premessa la esigenza di carattere generale di delimitare il problema a monte attraverso una consapevole individuazione degli obblighi giuridici di impedire l'evento, la Commissione ritiene comunque opportuno prevedere un'ulteriore circostanza attenuante (non obbligatoria ma facoltativa) per le condotte omissive, disponendo che la pena può essere diminuita per le condotte omissive concorrenti nel reato commissivo fuori dei casi di previo accordo. 4. Le circostanze ex artt. 111 e 112 c.p. Con riferimento all'oggetto dell'art. 111 la Commissione riconosce l'opportunità di prevedere una norma specifica al fine di evitare incertezze applicative, sottolineando l'esigenza di raccordare la disciplina con quella cui si opterà rispetto agli attuali artt. 46, 48 e 54. Si conviene comunque sulla linea grosso modo tracciata dallo schema di legge-delega Pagliaro: le disposizioni sul concorso di persone si applicano anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per cause personali; la pena è aumentata per colui che determina al reato la persona non imputabile o non punibile. Con riferimento alle circostanze aggravanti si propone la sostituzione della vigente ridondante previsione dell'art. 112 con una disciplina più semplice: la pena è aumentata a carico degli organizzatori e dirigenti dell'attività criminosa nonché di coloro che abbiano determinato al reato persone a loro soggette o di ridotta capacità. 5. Il concorso nei reati colposi. La Commissione a) considerato che la previsione dell'istituto risulta confermata sia dal progetto Pagliaro sia da quello Riz , mentre in dottrina è da tempo aperto il dibattito relativo alla opportunità di una abrogazione della norma, b) ritenuto che le ragioni addotte a sostegno del mantenimento non appaiono decisive, in quanto riguardano una (presunta) funzione incriminatrice dell'art. 113 che risulta comunque adempiuta dalla previsione generale del concorso di persone nel reato e dei reati colposi, c) considerata altresì l'assoluta originalità della norma nel contesto europeo, si è orientata nel senso della abrogazione. A fronte delle univoche posizioni assunte sul punto dalla Cassazione, riterrebbe altresì inopportuno prevedere un concorso colposo nel fatto doloso altrui. 6. Istigazione e accordo non seguiti dalla commissione del reato. La Commissione ritiene utile mantenere la formulazione relativa all'impunità dell'istigazione e dell'accordo non seguiti dalla esecuzione del reato, osservando che il tema dovrebbe essere affrontato, unitamente a quello del reato impossibile, nella prospettiva di una generale enunciazione del principio di necessaria offensività. 7. La responsabilità del partecipe per il reato da lui non voluto e il concorso nel reato proprio. Si rinvia a quanto già esposto in materia nel capitolo dedicato alla eliminazione delle ipotesi di responsabilità oggettiva o anomala (parte III, n. 4.2). 8. La disciplina delle circostanze e delle cause di giustificazione. Lo schema di legge-delega Pagliaro dispone all'art. 30: "prevedere che si comunichino ai concorrenti soltanto le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che siano servite ad agevolare l'esecuzione del reato"; analoga statuizione si rinviene nel progetto Riz. Si tratta di una opzione che recepisce le critiche rivolte dalla dottrina all'art. 118 e gli esiti interpretativi cui è pervenuta la più recente giurisprudenza, e deve dunque essere condivisa attraverso la proposta di una norma - destinata a ricomprendere i vigenti artt. 118 e 119 - grosso modo formulata nei seguenti termini: le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che sono servite ad agevolare la commissione del reato, hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato. 9. I reati associativi. La Commissione è concorde nel rilevare l'esigenza di procedere ad una caratterizzazione del concetto di associazione attraverso la sua idoneità a perdurare nel tempo. In sede di sessione plenaria alcuni commissari hanno sostenuto, senza sollevare obbiezioni, che l'organizzazione criminosa oltreché dalla sua idoneità a perdurare nel tempo dovrebbe essere caratterizzata dalla sua idoneità a realizzare i reati scopo. Per contro, si sono delineati diversi orientamenti rispetto alla possibilità di restringere l'ambito applicativo della fattispecie di associazione per delinquere mediante una specificazione delle tipologie dei reati per la cui commissione è costituita l'associazione, ovvero attraverso un limite generale riferito al massimo di pena edittale prevista per il reato-scopo. Per quanto riguarda i rapporti intercorrenti tra il reato di associazione e la problematica del concorso esterno, dopo ampia discussione la maggioranza della Commissione ha ritenuto preferibile proporre una tipizzazione, conforme ai risultati della più recente elaborazione giurisprudenziale e alle posizioni di una parte della dottrina, delle nozioni di associato e di concorrente esterno. In questa prospettiva ha pensato a formulazioni grosso modo di questo tipo: è associato chi è inserito consapevolmente nella struttura organizzativa della associazione; fuori dei casi di partecipazione all'associazione, le pene stabilite sono applicabili a chi fornisce un rilevante contributo consapevole e volontario al conseguimento dei fini della associazione o alla sua conservazione e stabilità. Una parte della Commissione ha sostenuto invece che una formulazione di tipo generale del concorso esterno non evita il pericolo di applicazioni eccessivamente discrezionali da parte del giudice. Pur riconoscendo la serietà del problema concernente coloro (politici, professionisti, imprenditori, ecc.) che, pur non facendo parte della organizzazione criminale, favoriscono con il loro comportamento il perseguimento dei fini della stessa o contribuiscono alla sua conservazione e stabilità, ha affermato che esso deve essere affrontato sul terreno della parte speciale attraverso la previsione di un complesso di specifiche, e quindi più tassative, fattispecie di favoreggiamento. Salvo talune proposte di modifiche formali, la Commissione non ritiene si debba intervenire sulla vigente definizione dell'associazione di tipo mafioso, che costituisce il frutto di una consolidata tradizione giurisprudenziale, essendo comunque ovvio che a tale tipo di associazione dovranno applicarsi i criteri generali di specificazione delineati per il reato associativo. Dopo ampia discussione, nel corso della quale si sono delineati contrastanti orientamenti a favore della soppressione o del mantenimento del vigente art. 416-ter, è prevalsa quest'ultima soluzione, arricchita peraltro dall'inserimento della "promessa" e della "altra utilità", la cui assenza ha finora pregiudicato l'operatività della fattispecie ("fuori dei casi di cui all'art. 416 bis, la pena ivi stabilita si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal comma 1 del medesimo art. 416 bis in cambio della erogazione o promessa di denaro o altra utilità"). Per le fattispecie associative di tipo politico si rinvia alla trattazione dei profili di riforma dei delitti contro lo Stato (parte XII). VIII. IL SISTEMA DELLE PENE. 1. Gli obbiettivi della riforma del sistema delle pene. Con riferimento al sistema delle pene la Commissione è stata unanime nel ritenere la assoluta urgenza di una profonda revisione del sistema delle pene attualmente in vigore, caratterizzato da una insostenibile situazione di incertezza e di 'imprevedibilità' della sanzione concretamente scontata dal condannato; incertezza ed imprevedibilità dovuta all'eccessivo potere discrezionale concesso al giudice penale in sede di determinazione in concreto della pena, alla mancanza di criteri-guida affidabili in ordine a tale determinazione, al sovrapporsi disordinato di interventi normativi di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale penale in materia di irrogazione ed esecuzione delle pene, al gioco spesso irrazionale e contraddittorio di istituti premiali, di facili perdonismi, di istituti di prevenzione speciale disciplinati con non sufficiente rigore nei presupposti della loro applicazione. Sulla base di questa prima considerazione si è concordato che fra gli obbiettivi primari di una riforma del sistema delle pene dovrebbero essere considerati: a) la configurazione di un quadro normativo organico che attui una semplificazione ed una razionalizzazione della legislazione vigente; b) la conseguente delineazione di un sistema di sanzioni penali caratterizzato da requisiti di certezza e prevedibilità dei risultati, e che circoscriva per quanto possibile gli scarti fra quanto avviene al momento della irrogazione della pena e ciò che si verifica al momento della sua esecuzione; c) quale presupposto primario per ottenere questo risultato, un forte ridimensionamento del potere discrezionale del giudice, che muova da una indicazione di carattere generale che imponga, nella revisione della parte speciale, l'adozione di cornici edittali assai più contenute di quelle attuali (in questo senso si era già pronunciato abbastanza chiaramente lo schema di legge-delega Pagliaro: v. art. 58), per arrivare a significative riduzione dei margini di discrezionalità giudiziale in istituti quali il concorso delle circostanze eterogenee, il concorso formale di reati e la continuazione nel reato. 2. Una nuova articolazione delle pene. La Commissione è stata ugualmente unanime nel ritenere che il sistema vigente delle pene, oltre a non consentire certezza e prevedibilità della loro esecuzione, risulta caratterizzato dalla assenza di una reale efficacia preventiva. Nel suo complesso è sistema astrattamente punitivo, centrato su di un meccanismo che a livello di previsione e di applicazione giudiziale privilegia la pena detentiva e prevede pene detentive astrattamente molto pesanti, ma concretamente è poco temibile a causa di un complesso intrecciarsi di istituti di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale che vanificano la loro efficacia. Come si chiarirà meglio in seguito, il sistema delle pene pecuniarie è a sua volta in larga misura privo di effettività. Di qui la necessità di un radicale cambiamento di rotta. La Commissione a questo riguardo ritiene che la riforma dovrebbe orientarsi lungo alcune direzione fondamentali. Mantenere la centralità della pena detentiva quale risposta sanzionatoria per i reati di rilievo, misurata comunque secondo parametri di minore gravità rispetto ai livelli di previsione vigente. Prevedere a fianco della pena detentiva un articolato complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, intese quali pene principali che devono essere configurate in luogo (o in alternativa) a quella detentiva dalla singola norma penale incriminatrice per i reati con riferimento ai quali esigenze di politica criminale consentono, o addirittura consigliano la rinuncia, quantomeno in prima battuta, alla pena detentiva. Punto qualificante della riforma dovrebbe essere che queste pene dovranno essere applicate direttamente dal giudice di cognizione in sede di giudizio, e non invece in fase di esecuzione da giudici diversi quali alternative alla sanzione detentiva irrogata. Si ritiene infine importante evitare che le pene siano preda troppo agevole di istituti vanificatori applicati con automatismi e senza particolari condizioni (si pensi alla attuale disciplina della sospensione condizionale della pena). Nel suo complesso questa disciplina dovrebbe condurre: a) a ridurre, se non ad eliminare, lo scarto esistente fra temibilità astratta del sistema punitivo e sua scarsa efficacia concreta, attenuando la durezza teorica delle sanzioni, ma creando un sistema concretamente più temibile attraverso la applicazione di un complesso di sanzioni effettivamente applicate; b) a contribuire, attraverso una ampia previsione ed utilizzazione delle pene alternative, ad una forte decarcerizzazione del sistema punitivo; c) a rendere comunque, nel suo complesso, più efficace il sistema di prevenzione generale. La Commissione rileva che una proposta di questo tipo, che si discosta dagli atteggiamenti tradizionali assunti dai progetti Pagliaro e Riz, è coerente con le indicazioni, sia pure circoscritte, desumibili dalla legge sulla depenalizzazione approvata definitivamente il 16 giugno 1999 (art. 10) e dal disegno di legge in dirittura di arrivo sulla competenza penale dei giudici di pace (art. 16). Ritiene che sul terreno di una proposta di largo respiro, sganciata dalle contingenze degli accadimenti quotidiani, una scelta di mitigazione complessiva della pena detentiva e di ampio uso di pene diverse dal carcere, nel quadro di un sistema finalmente efficace sul terreno della esecuzione, realizzi in modo soddisfacente le esigenze di prevenzione generale inseguite inutilmente dalle numerose leggi che, nel passato più o meno recente, hanno ritenuto di fronteggiare i fenomeni criminali emergenti con aumenti indiscriminati delle pene detentive. Né ritiene che un ampio abbandono della previsione della pena carceraria significhi indebolimento del sistema punitivo. Per fare un esempio fra i tanti possibili, si consideri l'omicidio colposo, e ci si domandi se a realizzare le esigenze della prevenzione generale risulti più incisiva la applicazione di una pena detentiva non elevata coperta da sospensione condizionale (accompagnata di regola da una condanna ad un risarcimento dei danni coperta a sua volta dalla compagnia di assicurazione), ovvero quella di una pena diversa (sospensione o ritiro della patente in caso di reato commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale; sospensione dalla professione in caso di reato commesso con violazione delle norme di perizia professionale, ecc.) non (sempre) soggetta a sopensione condizionale e pertanto effettivamente applicata al condannato. 3. La reclusione. La reclusione deve mantenere un ruolo di centralità nei reati di un certo rilievo, soprattutto in quelli gravi (es., i delitti dolosi contro la persona, contro lo Stato, dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, di criminalità organizzata, ecc). La Commissione non ritiene di assumere posizione sul problema relativo alla eliminazione della pena dell'ergastolo, che è all'attenzione del Parlamento, ma comunque sottolinea la piena compatibilità di tale eliminazione con il nuovo sistema penale. Evidenzia che, allo scopo di evitare una eccessiva attenuazione della risposta sanzionatoria nei confronti dei reati più gravi, in caso di sua abolizione occorrerà ripensare le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e l'istituto della imprescrittibilità dei reati, che sganciato dalla tipologia della pena dovrà necessariamente essere ancorato a criteri di sostanza. Ritiene che occorra comunque: a) una profonda revisione delle cornici edittali, in grado di eliminare l'eccessivo potere discrezionale del giudice nella determinazione concreta della pena; b) un ragionevole ridimensionamento dei massimi edittali di pena, in assoluto (in tale direzione la schema Pagliaro ha previsto che la pena detentiva non potesse superare i ventiquattro anni), e con riferimento a ciascun reato, rendendo semmai più congrui i minimi. Nella determinazione dei minimi e dei massimi edittali individuabili nei confronti di ciascun reato si dovrebbero d'altronde introdurre criteri di razionalizzazione, quali la previsione di "classi" di reati con cornici edittali standardizzate (es., reclusione da due a quattro anni, da tre a cinque anni, da cinque ad otto anni, ecc.), ovvero indicazioni di massima in ordine al rapporto che deve intercorrere tra il minimo ed il massimo della pena (es., massimo non superiore al triplo del minimo e comunque scarto non superiore ad un determinato ammontare di anni o di mesi di pena detentiva). Ove l'ergastolo dovesse essere eliminato, la pena detentiva sostitutiva dovrebbe essere comunque superiore alla misura massima stabilita per la reclusione (es., trenta anni). Nel caso in cui venisse confermata la presenza delle contravvenzioni (sul problema v. parte II), dovrebbe essere comunque eliminata la pena dell'arresto, secondo le linee già realizzate dalla legge di depenalizzazione approvata recentemente. 4. Le pene diverse dalla reclusione. Nei confronti dei reati di minore gravità, o con riferimento ai quali ragioni di politica criminale sconsigliano comunque la utilizzazione della sanzione carceraria, la Commissione propone la configurazione di un complesso articolato di pene principali diverse dal carcere previste direttamente dalle singole norme penali incriminatrici con riferimento a ciascun reato, ed applicate dal giudice di cognizione con la sentenza di condanna. Alcune di queste pene potrebbero assumere esclusivamente la veste di pena principale. Altre potrebbero essere configurate come pene principali, ma essere altresì utilizzate, in ipotesi di reati puniti con la pena detentiva, come pene accessorie. Pene esclusivamente principali dovrebbero essere: a) la reclusione (da sei mesi a ventiquattro anni), b) la detenzione domiciliare (da un mese a due anni), c) la multa (nonché l'ammenda ove si mantenga la distinzione fra delitti e contravvenzioni). Pene che potrebbero assumere la veste di pene principali o di pene accessorie potrebbero essere: a) l'interdizione da uno o più pubblici uffici, b) l'interdizione da una professione, arte o attività, c) l'interdizione da uffici direttivi delle persone giuridiche o imprese, d) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, e) la sospensione dall'amministrazione di determinati beni, f) la confisca, g) il ritiro o la sospensione della patente di guida, h) il divieto di espatrio o di allontanamento da un Comune o da una Provincia, i) il divieto di ingresso in locali pubblici o aperti al pubblico, l) il divieto di accesso a luoghi di svolgimento di manifestazioni sportive, m) la pubblicazione o trasmissione della notizia di condanna, n) la prestazione lavorativa non retribuita a favore della collettività o il lavoro sostitutivo o socialmente utile. La scelta di prevedere pene principali diverse dalla reclusione pone problemi comuni e problemi specifici relativi ad alcune delle sanzioni non detentive configurate. Comune è la individuazione della reazione dell'ordinamento alle violazioni degli obblighi connessi alla esecuzione delle pene non detentive o interdittive inflitte e non rispettate. Problema che la legge sulla depenalizzazione e il disegno di legge sulla competenza del giudice di pace hanno risolto prevedendo un autonomo delitto punito con pena detentiva nei casi di inosservanza grave o di violazione reiterata degli obblighi, ma che può essere affrontato anche in maniera diversa a seconda del tipo di sanzione di cui si tratta e del tipo di infrazione commessa. La Commissione ha approfondito specificamente il problema nei confronti della pena principale della detenzione domiciliare, che nel quadro del sistema sanzionatorio ipotizzato dovrebbe essere lo strumento più utilizzato di sostituzione della pena carceraria. La Commissione osserva incidentalmente che questo istituto: a) nella sua qualità di pena principale eviterebbe sia le obiezioni manifestate nei confronti delle pene detentive brevi, in quanto sanzione eseguibile all'esterno del circuito carcerario, sia quelle di modesta afflittività e di ridotta capacità di prevenzione di cui è stata accusata la libertà controllata; b) potrebbe assumere il contenuto della attuale misura alternativa alla pena detentiva breve (il condannato alla pena della detenzione domiciliare non può allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora o dal luogo pubblico di cura o di assistenza indicato dal giudice, salva la autorizzazione ad allontanarsi per comprovate esigenze di vita). In tema di reazione dell'ordinamento alla violazione degli obblighi connessi alla sua esecuzione la maggioranza della Commissione ha sostenuto che essa potrebbe essere individuata nella sostituzione automatica con la reclusione per un periodo pari alla durata della detenzione domiciliare ancora da espiare in caso di allontanamento duraturo dal luogo di espiazione stabilito. Nei casi di allontanamento non duraturo, o della violazione delle altre prescrizioni eventualmente impartite dal giudice, si potrebbe prevedere che la trasformazione sia subordinata all'esito di una valutazione in concreto della gravità della violazione, allo scopo di evitare una conversione automatica a fronte di microviolazioni non sufficientemente significative. Conversione automatica, o valutazione discrezionale, potrebbero essere affidate al magistrato di sorveglianza, come avviene oggi per le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Con riferimento alla inosservanza delle prescrizioni implicite nella inflizione delle pene interdittive (es., professionista sospeso che esercita la professione) occorrerebbe pensare a soluzioni analoghe, riferite alla specificità ed alla gravità di ciascuna infrazione, che potrebbero andare dalla previsione di un autonomo reato in caso di infrazione punito a sua volta con la reclusione o con una sanzione diversa (es., detenzione domiciliare), alla applicazione di sanzioni minori quali una pena pecuniaria in aggiunta alla esecuzione totale della pena interdittiva inflitta, o ad un incremento della durata della pena interdittiva stessa. Con riferimento alla pena della prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività o del lavoro sostitutivo o socialmente utile la Commissione ritiene di dovere richiamare innanzitutto la attenzione sulle condizioni cui dovrebbe essere comunque subordinata una proficua utilizzazione dell'istituto: la approvazione di una specifica normativa ad hoc la quale preveda la regolamentazione e/o la stipulazione di convenzioni con gli enti pubblici e privati che dovrebbero essere coinvolti nella utilizzazione dei condannati, la previsione di una copertura assicurativa per il caso di infortuni o danni cagionati a terzi o all'ente, indicazioni sulla natura del rapporto di lavoro, sulle responsabilità connesse, sugli obblighi di riferire alla autorità giudiziaria gli inadempimenti e le violazioni commesse dal condannato, e quant'altro appaia utile per evitare che la sanzione, pur prevista astrattamente, risulti di fatto impraticabile. Al riguardo non è inutile ricordare che sulla carta il lavoro sostitutivo è già previsto dalle norme sull'ordinamento penitenziario, ma è rimasto inattuato proprio a causa della mancanza delle condizioni per il suo funzionamento. Quanto al contenuto, taluno ha sostenuto che la prestazione dovrebbe essere misurata in ore-lavoro/attività, con possibilità di svolgimento continuativo o in un periodo 'concentrato' oppure diluito nel tempo libero e/o nel fine settimana, allo scopo di soddisfare le esigenze di vita del condannato. In caso di inosservanza, si potrebbe pensare alla sua conversione (dell'intero o del residuo) in detenzione domiciliare, o alla previsione di un delitto punito con analoga pena. Si può infine rilevare che l'istituto, oltre che essere previsto come pena, può entrare a fare parte delle misure cui subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena, o essere considerato strumento di conversione della pena pecuniaria non pagata. Nel concludere, la Commissione osserva che la scelta compiuta a livello generale di prevedere un ampio spettro di pene principali sostitutive della reclusione dovrà trovare modalità e confini di realizzazione nelle opzioni di parte speciale. Nell'impossibilità di affrontare in questa prima fase di lavoro i problemi connessi a queste scelte, si limita a prendere atto di quanto è stato elaborato dalla Sotto-commissione in via meramente esemplificativa, e senza nessuna pretesa di definitività. 5. La pena pecuniaria. In tema di pena pecuniaria la Commissione rileva innanzitutto la sua attuale pressochè totale inefficacia. Quando essa è sospesa condizionalmente non esercita pressoché nessuna funzione preventiva (salva la perdita di una possibilità nella reiterazione della sospensione stessa). Fuori dai casi di oblazione, emerge che la multa e l'ammenda risultano in larghissima misura ineseguite: dalle indicazioni statistiche desumibili dall'annuario 1997 del servizio informativo del casellario giudiziale si ricava che a fronte di 2.257 miliardi di pene pecuniarie da riscuotere, in sette anni sono stati riscossi meno di 84 miliardi. Anche se questi dati sono condizionati dalla circostanza che comprendono anche la condanna a multe elevate congiunte alle pene detentive per reati con riferimento ai cui autori la riscossione è di regola impraticabile (si pensi alla materia degli stupefacenti), essi sono comunque stupefacenti, tanto più preoccupanti ove si consideri che a fronte dei costi affrontati dallo Stato per la riscossione quest'ultima si conclude verosimilmente in una perdita finanziaria per le casse pubbliche. Muovendo da queste considerazione, la Commissione ritiene di potere procedere ad un primo gruppo di proposte di riforma: a) mantenere la pena pecuniaria, ma escludere, in via di principio, la applicazione congiunta con la pena detentiva, secondo uno schema già proposto dal progetto Pagliaro (con la precisazione che problema diverso concerne la, doverosa, ricerca e recupero dei proventi della attività criminosa, che deve esser perseguita con indagini patrimoniali e conseguente sequestro e confisca). b) assegnare alla pena pecuniaria minimi edittali non irrisori e soprattutto escluderla dalla sfera di azione della sospensione condizionale della pena. c) ammettere che la pena pecuniaria possa essere prevista in alternativa a quella detentiva, nella prospettiva di un allargamento della oblazione ai delitti puniti con pena pecuniaria alternativa. d) prevedere forme di pagamento tempestivo della pena pecuniaria definitivamente irrogata, con automatica trasformazione in sanzione diversa in caso di inadempimento. In questa prospettiva la Commissione ipotizza la possibilità che al condannato sia concesso un congruo termine (es., trenta giorni) per pagare, con possibilità di ottenere una rateizzazione ove dimostri di non essere in condizioni economiche che gli consentono di pagare in una unica soluzione; che trascorso tale periodo la pena pecuniaria sia automaticamente convertita in libertà controllata o in lavoro di utilità sociale (con eventuale possibilità di pagamento tardivo con l'aggravio di spese ed interessi). Nel corso della discussione era emersa anche l'ipotesi, superata, di prevedere un versamento anticipato da parte dell'imputato prima del giudizio, o dopo la sentenza di primo grado (pendente l'appello), di una somma a titolo cauzionale per garantire almeno in parte l'esecuzione della pena definitiva, con restituzione in caso di assoluzione. La Commissione ha ulteriormente discusso sulla opportunità di utilizzare il meccanismo dei tassi giornalieri previsto dal progetto Pagliaro. Alcuni commissari si sono dichiarati favorevoli alla introduzione di questo sistema, utilmente sperimentato in alcune legislazioni europee. La maggioranza della Commissione, pur ritenendo che in astratto si tratti di modello ineccepibile, ha espresso forti perplessità sulla opportunità di inserirlo nel contesto italiano, stante le peculiari caratteristiche del nostro sistema fiscale che non è in grado di assicurare certezza sui redditi. Si è infine convenuto sulla opportunità di prevedere criteri di determinazione in concreto della pena pecuniaria che tengano conto delle condizioni economiche del condannato (v. oltre n.9). 6. La confisca. In merito alla collocazione ed all'oggetto della confisca nel nuovo quadro sanzionatorio vi è stata ampia convergenza nel giudicare incongruo il suo inquadramento fra le misure di sicurezza, trattandosi di situazioni in cui più che di 'pericolosità sociale del reo' si dovrebbe parlare di 'pericolosità' della cosa. Nel contempo, pur riconoscendo alla confisca una funzione preventiva, alla maggioranza dei commissari non è sembrata accoglibile la proposta, avanzata da taluno, di una utilizzazione dell'istituto per la neutralizzazione delle risorse patrimoniali di ingiustificata provenienza: il trasferimento nel codice di una normativa riecheggiante l'art. 12 sexies L. 7 agosto 1992 n. 356 (modificato dalla L. 8 agosto 1994 n. 501) non è stato giudicato compatibile con le indicazioni della Corte costituzionale, e comunque ammissibile oltre la discutibile realtà delle misure di prevenzione. Questo precisato, la Commissione propone di considerare la confisca non più come una misura di sicurezza, ma come una pena, a seconda dei casi accessoria o principale, concernente singoli beni tassativamente indicati dalla legge. Quanto alle modalità di irrogazione la Commissione suggerisce l'abolizione degli attuali ambiti di discrezionalità giudiziale, prevedendo sempre la sua obbligatorietà, ed eliminando l'incongruità della differenza di disciplina fra confisca del prezzo del reato e confisca del prodotto, profitto e delle cose strumentali all'attività criminosa. Quanto all'oggetto, salva, di regola, l'esclusione dell'istituto in caso di appartenenza a persona estranea al reato, in ordine al 'profitto' la Commissione giudica proponibile un'estensione a tutti i reati produttivi di profitto della disciplina attualmente delineata dall'art. 644 u.c. c.p. in materia di usura: stabilendo cioè che in caso di irreperibilità del prodotto o del profitto vero e proprio del reato la confisca possa coinvolgere, per un importo pari al valore del profitto realizzato, somme di denaro, beni od utilità di cui il condannato abbia, anche per interposta persona, la disponibilità, salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento. 7. La sospensione condizionale della pena. La maggioranza della Commissione ritiene, sul solco di quanto previsto dallo schema di legge-delega Pagliaro, che la sospensione condizionale della pena debba essere sottoposta a una o più condizioni, in modo che il condannato avverta concretamente di avere subito una condanna e di essere sottoposto ad una prova. In questa prospettiva da un lato si propone che quando vi sia una persona danneggiata, anche in assenza di costituzione di parte civile, la sospensione condizionale debba essere subordinata al pagamento di un risarcimento del danno, parziale e provvisorio, e che in caso di rifiuto da parte della persona danneggiata ad accettare tale pagamento il giudice stabilisca il versamento di una somma equivalente su di un istituendo fondo per le vittime dei reati. Dall'altro si sostiene che l'imposizione di altri obblighi potrebbe avvenire sulla falsariga di quanto stabilito in materia di affidamento in prova al servizio sociale (es., prestazione di attività socialmente utili). Alcuni commissari hanno obbiettato che una disciplina di questo tipo sarebbe eccessivamente rigorosa. In particolare, che la introduzione della problematica del risarcimento del danno in materia di sospensione condizionale susciterebbe problemi, specie nei casi in cui intervengano le compagnie di assicurazione; che la imposizione di condizioni non dovrebbe comunque mai essere prevista obbligatoriamente, ma essere valutata discrezionalmente dal giudice caso per caso; che, piuttosto, si potrebbe prevedere la revoca della sospensione condizionale in caso di grossolane ed ostinate violazioni delle prescrizioni eventualmente inflitte. La Commissione è orientata a negare la sospensione condizionale delle pene pecuniarie. Quanto al problema della sospendibilità delle pene accessorie, vi è consenso generale sul fatto che l'estensione automatica introdotta con la novella del 1990 è d'ostacolo ad una opportuna graduazione delle risposta penale nei casi in cui l'effettiva applicazione di sole pene accessorie appaia sufficiente a realizzare i fini dell'ordinamento. In questa prospettiva una parte della Commissione suggerisce la introduzione di un sistema elastico, che consenta, occorrendo, di distinguere ai fini della sospensione tra pena principale ed accessoria; altra parte auspica invece il ritorno alla vecchia disciplina. Si è altresì convenuto sulla opportunità di prevedere limitazioni alla utilizzazione dell'istituto nei confronti della restante gamma di pene principali diverse dalla reclusione, tenendo conto delle situazioni specifiche in cui esse saranno chiamate ad operare. Per ciò che concerne l'ambito di applicazione, la Commissione rileva che i suoi limiti devono essere individuati facendo riferimento ad un massimo di pena coerente con la riduzione prevista dei limiti edittali. In materia di ripetibilità essa concorda sulla conferma del sistema vigente (ripetibilità una seconda volta, alle condizioni di cui all'art. 164 comma 1 e ultimo). Ove più sentenze di condanna a pena sospesa siano pronunciate per reati unificabili in un unico cumulo giuridico, la sospensione condizionale dovrebbe essere considerata concessa una sola volta. Si propone infine di attribuire rilevanza all'intervenuta riabilitazione, eliminando l'effetto ostativo previsto dall'art. 264 comma 2 c.p.. 8. L'oblazione. La Commissione rileva preliminarmente come l'istituto della oblazione non trovi riscontro nei codici penali tedesco, austriaco, spagnolo, portoghese e francese, il che dimostra il suo superamento da parte dei più recenti ordinamenti penali europei. Per contro lo schema di legge-delega Pagliaro pone l'oblazione tra le "cause di estinzione degli effetti penali", prevedendo "l'opportunità di prevedere l'oblazione, sia in forma automatica sia in forma discrezionale, non solo per le contravvenzioni ma anche per i delitti", mentre il progetto Riz si limita a considerare la oblazione automatica come causa di estinzione delle contravvenzioni. Entrando nel merito del problema la Commissione osserva che una causa estintiva automatica sul modello del vigente art. 162 c.p. presuppone la previsione di reati lievi, al punto che la loro definizione giudiziale possa essere rimessa alla volontà dispositiva dell'interessato. Nel quadro di un orientamento diretto a realizzare un diritto penale inteso quale extrema ratio di tutela, il sistema non dovrebbe annoverare fatti di entità minima, tali da giustificare la loro automatica estinzione in un ambito transattivo delle pretese economiche della amministrazione. Ciò significa che, se non vuole entrare in contraddizione con sé stessa, una riforma ispirata ai canoni di sussidiarietà (extrema ratio) non può prevedere fatti di reato suscettivi di essere sottoposti ad un regime di oblazione automatica, che deve essere pertanto eliminata. Al riguardo non è superfluo osservare che anche sul versante dell'illecito amministrativo si registra una tendenza alla riduzione del c.d. pagamento in misura ridotta (art. 16 L. n. 689/81): un recente esempio è offerto dagli artt. 188, 190 e 196 del D.Lgs. n. 58/98. Tali considerazioni non valgono per la vigente oblazione speciale regolata dall'art. 162 bis c.p., il cui mantenimento futuro può trovare una giustificazione su piani diversi. La sopravvivenza di contravvenzioni sanzionate alternativamente con pene detentive (detenzione domiciliare) o interdittive e pecuniarie consentirebbe di conservare alla oblazione lo spazio operativo previsto dall'attuale art. 162 bis c.p. In ogni caso, la Commissione ritiene che siano maturi i tempi per proporre l'estensione dell'area di operatività dell'istituto ai delitti puniti con pena pecuniaria, eventualmente alternativa a pena detentiva o interdittiva, alla condizione che la pena pecuniaria sia astrattamente determinata in misura tale da svolgere la sua connaturata funzione preventiva anche in ipotesi di estinzione del reato mediante oblazione. Ipotizzato il mantenimento del modello disciplinato dall'art. 162 bis c.p., la Commissione ritiene opportuno confermare, nonostante le perplessità manifestate da una parte della dottrina in ordine al rispetto dei principi di legalità e certezza del diritto, il potere-dovere del giudice relativo al previo accertamento della inesistenza e della eliminazione di conseguenze dannose o pericolose del reato e della non particolare gravità oggettiva del fatto. Così ridefinita la portata della oblazione, è evidente che essa verrebbe a svolgere, al di là della sua oggettiva funzione deflattiva dei processi penale, una specifica funzione incentivante rispetto al soddisfacimento delle pretese risarcitorie della vittima ovvero alla restaurazione del bene offeso, ed in questa prospettiva potrebbe anche trovare una collocazione diversa da quella attuale. 9. La commisurazione della pena. La Commissione rileva che la disciplina in vigore, caratterizzata da una opzione teorica apparentemente ispirata ad un modello di discrezionalità vincolata (artt. 132 e 133), ma da una situazione concreta contraddistinta da una discrezionalità incondizionata del giudice, elude le più elementari esigenze di legalità e di certezza del diritto. Le cause di questa situazione sono individuabili da un lato nella stessa legislazione penale, che: a) nell'art. 133 c.p. enuncia criteri di carattere onnicomprensivo, e pertanto già di per sé poco orientativi; b) non indica chiavi di lettura finalistiche degli stessi, consentendo quindi possibili utilizzazioni di segno diverso; c) prevede limiti edittali di pena troppo ampi, consentendo margini eccessivi di discrezionalità già con riferimento alla determinazione della pena in concreto per i singoli reati; d) con le riforme introdotte a partire dagli anni settanta (novella del 1974, riforma penitenziaria, legge 689/81) ha dilatato il potere discrezionale del giudice rendendolo in molti casi arbitro della pena in concreto. Dall'altro nell'instaurarsi di una prassi nella quale l'obbligo di motivazione, pur previsto, è largamente eluso, per cui i criteri seguiti concretamente dal giudice non sono di regola leggibili. Ulteriore elemento distorcente è ravvisabile nello squilibrio delle pene, rispetto alla cui severità l'intervento giudiziario si è posto spesso in chiave di (problematica, e soprattutto casuale) correzione equitativa. La Commissione ritiene che presupposto indispensabile di una disciplina accettabile sia la rimozione delle cause a monte della sopra menzionata discrezionalità non vincolata: la riduzione (nel quadro di una generalizzata diminuzione del carico sanzionatorio previsto per ciascun reato) dello scarto fra minimo e massimo edittale e la eliminazione degli istituti che hanno aumentato la discrezionalità giudiziale in materia di determinazione in concreto della pena (revisione della disciplina del concorso di circostanze eterogenee, del concorso di reati e della continuazione: v. oltre). Nel corso della discussione plenaria è anche emersa la opportunità di segnalare, anche se non si tratta di materia afferente alla disciplina del diritto penale sostanziale, le distorsioni che la determinazione in concreto della pena subisce nei casi di patteggiamento. Con riferimento ai criteri ai quali ancorare la utilizzazione del potere discrezionale entro i confini assai più circoscritti che dovrebbero scaturire dalle testé menzionate modificazioni legislative, la Commissione, pur concordando sulla necessità di superare la disciplina dell'art. 133 c.p. sia con riferimento alle indicazioni di cui al primo, sia soprattutto con riferimento a quelle di cui al secondo comma, nella discussione plenaria ha rivelato un certo scetticismo in ordine alla possibilità di suggerire criteri in grado di orientare con assoluta univocità il giudice. Ritiene comunque possibile proporre una formulazione che, recependo le indicazioni desumibili dalla più moderna dottrina penalistica e dalle scelte operate da alcuni recenti codici penali europei (tedesco, austriaco, portoghese, spagnolo, francese), per la determinazione in concreto della pena faccia perno sui seguenti elementi: a) primato del principio di colpevolezza per il fatto commesso, b) considerazione, agli effetti di una possibile attenuazione della responsabilità penale individuata tenendo conto della colpevolezza per il fatto, delle finalità di prevenzione speciale enunciate dall'art. 27 comma 3 Cost. Con l'ulteriore precisazione che deve essere esclusa la considerazione della prevenzione generale, che può sicuramente porsi come criterio fondamentale di configurazione delle fattispecie di reato e delle relative pene astratte, ma non come legittimo criterio di commisurazione della pena. Su questa base potrebbe essere suggerita una formula di questo tipo: il giudice determina la pena con riferimento alla colpevolezza per il fatto; essa può essere ulteriormente diminuita in considerazione delle esigenze di prevenzione speciale. E' appena il caso di rilevare la diversità tra l'enunciazione proposta del criterio di colpevolezza come base della commisurazione della pena e la formulazione del progetto Riz (che ricalca la disciplina vigente) e dello stesso schema di legge-delega Pagliaro (art. 39.1), anche se la distanza fra la impostazione proposta e quella formulata da Pagliaro si stempera considerando che l'art. 39.2 ammette la operatività dei "fattori oggettivi di aggravamento della pena" (in quanto tali non ricollegabili alla colpevolezza "solo in quanto riflessi nella colpevolezza". Un ulteriore criterio, previsto per ragioni non commisurative in senso stretto bensì perequative, deve essere individuato per la determinazione della pena pecuniaria, rispetto alla quale il giudice deve tenere conto delle condizioni economiche del reo, con facoltà di aumentarla fino al triplo, ovvero di diminuirla fino ad un terzo, al fine di renderla, rispettivamente, nei limiti del possibile efficace o non eccessivamente gravosa. 10. Le circostanze del reato. Rilevata l'eccessiva discrezionalità giudiziale conseguente alla disciplina vigente del calcolo delle circostanze, la Commissione propone: a) una tendenziale diminuzione delle circostanze del reato previste nella parte speciale del codice penale, la rivalutazione delle circostanze ad effetto speciale (con particolare attenzione alle ricadute della loro previsione sulla prescrizione), l'eventuale eliminazione delle circostanze attenuanti generiche; b) il superamento del sistema vigente di calcolo delle circostanze eterogenee: conformemente alle indicazioni dello schema di legge-delega Pagliaro si ritiene che tutte le circostanze debbano essere valutate, e che si debba prevedere un'apposita disciplina per il computo delle circostanze che determinano effetti diversi sulla pena; c) la valorizzazione della recidiva, con la eliminazione della sua facoltatività, anche se accompagnata da un ridimensionamento dei suoi effetti e da una eventuale cancellazione della recidiva generica. 11. La disciplina sanzionatoria del concorso di reati. Rilevata la eccessiva discrezionalità giudiziale conseguente alla disciplina vigente del cumulo giuridico delle pene in tema di concorso formale dei reati e di continuazione nel reato, che determina fra l'altro fenomeni di aumenti insignificanti per i reati ulteriori alla infrazione più grave, la maggioranza della Commissione ritiene che il regime vigente debba essere modificato fissando un limite minimo di aumento per ciascun reato in concorso (es., un quarto della pena edittale minima, o della pena da irrogare in concreto); fermi restando il limite massimo del triplo della pena per la violazione più grave, ed i limiti generali delle singole sanzioni. Con particolare riferimento alla materia della continuazione nel reato la maggioranza della Commissione suggerisce altresì di formalizzare i fatti interruttivi della medesimezza del disegno criminoso: ad esempio, considerando interruttiva l'emissione di un provvedimento del giudice (rinvio a giudizio, condanna di primo grado, ecc.), salva la possibilità che l'interessato dimostri che la mancata conoscenza non dipende da suo dolo o colpa. Considerando le incertezze giurisprudenziali emerse anche di recente, la maggioranza della Commissione ritiene infine opportuno che il legislatore chiarisca che il cumulo giuridico debba essere effettuato: a) individuando la violazione più grave in concreto, b) operando gli aumenti di pena in termini omogenei alla previsione del legislatore (se il reato più grave è punito con pena detentiva, l'aumento per il reato satellite deve essere effettuato con riferimento alla pena, es. pecuniaria, prevista per quest'ultimo). Secondo il parere di alcuni componenti della Commissione occorrerebbe invece superare l'attuale disciplina della continuazione generalizzando il cumulo giuridico secondo l'orientamento che vanifica il contenuto del requisito della medesimezza del disegno criminoso, e che, pur fra contraddizioni, sembra ormai saldamente radicato nella giurisprudenza. Occorrerebbe cioè tenere presente che la più elevata articolazione delle sanzioni penali spinge necessariamente verso sistemi di cumulo giuridico che rimettono a criteri normativi o alla valutazione del giudice la composizione complessiva della pluralità delle sanzioni da irrogare; e che si dovrebbe comunque prevedere -come avviene attualmente in sede di cumulo- l'aggiornamento della sanzione complessiva in considerazione dell'eventuale sopravvenire di nuove condanne, nonché prevedere un limite alla confluenza di nuove condanne nel cumulo precedentemente effettuato. 12. Cenni sulla revisione della disciplina delle misure alternative alla reclusione. In breve: a) l'affidamento in prova al servizio sociale dovrebbe recuperare la sua funzione originaria, ed essere circoscritto a pene non superiori a tre anni (o alla minor pena coerente con l'abbassamento complessivo del livello sanzionatorio) inflitte con la sentenza di condanna, e non coinvolgere residui di pene più elevate (nei confronti delle quali opererebbe la liberazione condizionale); b) la liberazione condizionale (con contenuti arricchiti) dovrebbe risultare applicabile nei confronti di residui di pena non superiori ad un certo limite (attualmente individuato in cinque anni, ma che dovrebbe essere rapportato al nuovo livello sanzionatorio complessivo); c) la semilibertà dovrebbe costituire misura propedeutica alla liberazione condizionale o un'alternativa all'affidamento in prova; dovrebbe essere mantenuto il limite della espiazione di almeno della metà della pena, con un residuo non superiore a sette anni (o meno, a seconda delle scelte concretamente effettuate in tema di liberazione condizionale); d) la liberazione anticipata (che non costituisce una vera misura 'alternativa') dovrebbe continuare a svolgere il ruolo attuale, ma dovrebbe essere ridimensionata sul piano degli effetti (es., trenta giorni di riduzione per semestre). 13. Incentivazione di condotte di riparazione dell'offesa. La Commissione ritiene che in un sistema in cui la reazione penale è strumento di tutela sostanziale dei beni giuridici, e non di astratta retribuzione, meriti di essere considerata la possibilità di modulare le risposte anche in funzione di comportamenti successivi al reato, in modo da stimolare con la previsione di un trattamento più favorevole la reintegrazione di interessi non ancora irrimediabilmente pregiudicati. Le tecniche utilizzabili per raggiungere questo scopo sono individuabili nella previsione di circostanze attenuanti ovvero di non punibilità, configurate in modo tale da assicurare comunque un equilibrio con le esigenze di prevenzione generale. Nell'ambito delle circostanze attenuanti il margine di manovra appare più ampio, poiché si può trovare spazio per un rilievo attenuante di condotte risarcitorie o riparatorie al di sopra della misura normale senza che la tenuta generalpreventiva del sistema risulti vanificata a causa dell'esito comunque sanzionatorio. Per quanto concerne la previsione di eventuali cause di non punibilità l'esclusione della pena potrebbe essere collegata, senza porre a rischio la tenuta generalpreventiva del sistema, a condotte di riparazione dell'offesa realizzate entro soglie temporali che assicurino una reintegrazione 'utile', perché tempestiva, dell'interesse offeso dal reato, e consentano di ravvisare nella condotta riparatoria un ritorno all'osservanza del precetto violato. Questa impostazione pone comunque un rilevante problema di raccordo con la disciplina del recesso attivo, che oggi, e nello schema di legge-delega Pagliaro, consente una mera diminuzione di pena. Come già rilevato (parte VII, n. 2), la Commissione non è tuttavia ostile ad ammettere la non punibilità in caso di recesso attivo, considerando che tale opzione, oltre ad avvicinare il nostro sistema a quelli europei, verrebbe a privare del loro carattere eccezionale le cause di non punibilità previste dal codice per condotte successive all'offesa del bene e in grado di consentire una piena neutralizzazione di essa (ritrattazione nella falsa testimonianza, impedimento della contraffazione, alterazione di monete, ecc., ritiro dalla radunata sediziosa). Accogliendo la soluzione della non punibilità del recesso attivo, diviene d'altronde possibile riflettere sulla praticabilità del modello adottato dal § 167 del codice austriaco, che sotto la denominazione di "ravvedimento operoso" esclude la punibilità di numerosi reati contro il patrimonio (furto, sottrazione di energie, infedeltà, appropriazione, truffa, usura, ecc.) se il reo, prima che l'autorità abbia avuto notizia del fatto, volontariamente risarcisce interamente il danno da lui cagionato o si obbliga contrattualmente a risarcirlo entro un determinato periodo di tempo. Per le condotte riparatorie 'tardive' (successive alla scoperta della responsabilità) la loro rilevanza può essere ammessa nei limiti di una attenuante qualificata o come premessa per l'applicazione di istituti che conducano alla non punizione con qualche ulteriore costo. Con riferimento a queste condizioni ulteriori un modello è offerto dal codice portoghese, il cui art. 74 stabilisce che per i reati meno gravi il giudice può dichiarare il reo colpevole, senza applicare la pena, se a) l'illiceità del fatto e la colpevolezza appaiono diminuite, b) il danno è stato risarcito, c) alla dispensa dalla pena non si oppongono ragioni di prevenzione. Nella medesima prospettiva si può utilizzare la estensione dei reati procedibili a querela (es., rendendo procedibili a querela tutti i furti eccettuati quelli realizzati con violenza o minaccia o in danno dello Stato o di un altro ente pubblico). 14. Astensione dalla pena. La maggioranza della Commissione non ha giudicato opportuno introdurre istituti che consentano di astenersi dall'infliggere la pena in casi in cui le conseguenze del fatto commesso abbiano gravemente colpito lo stesso soggetto agente, a cagione dell'eccessivo scarto dai principi generali che un istituto siffatto comporterebbe. Alcuni componenti della Commissione hanno invece sostenuto la opportunità di verificare praticabilità e limiti di tale istituto, ritenendolo una utile valvola di sicurezza per situazioni-limite. Una soluzione di questo tipo, introdotta, al di sotto di una certa soglia di gravità, dal codice penale tedesco, è stata recepita ed ampliata dallo schema di legge-delega Pagliaro: possibilità di astenersi dall'infliggere la pena, nei reati colposi, quando il reo abbia subito gli effetti pregiudizievoli del reato in misura tale da far risultare sproporzionata (in rapporto alla colpevolezza e alle esigenze di prevenzione speciale) l'applicazione della pena (es., incidente causato a persona cara), e nei delitti dolosi quando gli effetti dannosi si siano verificati soltanto a carico del reo. 15. Cenni sulla prescrizione. La durata della prescrizione dovrà essere commisurata al nuovo livello ed alla nuova tipologia delle sanzioni. Attenzione dovrà essere prestata al problema della individuazione dei reati imprescrittibili, problema sul quale in Commissione sono emerse posizioni diverse, rispettivamente estensive e restrittive dell'area della imprescrittibilità. 16. La funzione rieducativa della pena. Si tratta di principio fondamentale, che deve connotare la intera disciplina della pena, nella fase della sua previsione generale astratta come in quella della sua commisurazione ed esecuzione. Uno dei commissari avvocati ha insistito, giustamente, perché si prestasse particolare attenzione alla realizzazione di questo principio. La Commissione, pur essendo concorde nel ritenere la sua fondamentale importanza, non giudica di dovere entrare nei dettagli della sua realizzazione in un documento riassuntivo delle linee di tendenza del nuovo codice penale, ritenendo implicito che il principio in questione dovrà trovare concretamente la più estesa applicazione. Tiene comunque a sottolineare che le proposte formulate sono ampiamente ispirate all'idea della prevenzione speciale: basti pensare alla ampia utilizzazione di pene (anche principali) diverse dalla reclusione, a quanto rilevato in materia di criteri di commisurazione in concreto della pena (dove il principio di rieducazione costituisce parametro fondamentale di mitigazione della pena determinata in ragione della colpevolezza per il fatto), al mantenimento (e potenziamento) di sanzioni alternative specificamente finalizzate alla esigenza della rieducazione. Nel concludere la parte relativa al sistema sanzionatorio si deve dare altresì atto che due magistrati componenti della Commissione hanno sostenuto che la limitazione della discrezionalità giudiziale che scaturisce dal complesso delle innovazioni proposte condurrebbe, a loro avviso, ad un eccessivo irrigidimento del sistema delle pene, e che alcuni commissari hanno manifestato qualche preoccupazione in ordine all'eccessiva durezza che scaturirebbe dalle eccezioni previste all'operare della sospensione condizionale della pena e dalla previsione di onerose condizioni per la applicazione di tale istituto. IX. L'IMPUTABILITA'. 1. Necessità di mantenere la distinzione fra soggetti imputabili e non. Pur nella consapevolezza degli aspetti di crisi dell'istituto dell'imputabilità, il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per un diritto penale garantista. Definita (a livello formale) l'imputabilità come assoggettabilità a pena, i problemi di disciplina attengono, innanzi tutto, alla individuazione di categorie di soggetti nei cui confronti un rimprovero di colpevolezza non può essere mosso per le loro condizioni soggettive di incapacità, e nei cui confronti non ha senso l'inflizione di una pena commisurata alla colpevolezza. La rilevazione di situazioni soggettive di 'incapacità di colpevolezza' è una costante degli ordinamenti penali moderni, con soluzioni, peraltro, anche fortemente differenziate. Negli anni '80 è stata avanzata la proposta di abolire la non imputabilità degli infermi di mente con l'intento di riconoscere la loro pari dignità nello spirito della riforma avviata dalla legge 180/78; anche tale proposta, peraltro, recupera momenti di rilevanza dell'infermità quale criterio di differenziazione nell'esecuzione della pena, che per l'infermo si vuole abbia un contenuto terapeutico. La idea di affermare in via generale l'imputabilità dell'infermo di mente si rivela in realtà una scelta ideologica: la previsione di una differenziazione di situazioni soggettive e di corrispondenti modelli differenziati di risposta non può essere eliminata. 2. Questioni d i tecnica legislativa. L'effetto delle condizioni inabilitanti, cui si ricollega la non imputabilità, è definito sia nel vigente codice che nelle proposte Pagliaro e Riz come 'incapacità di intendere e di volere'. Resta nel vago l'oggetto dell'intendere e del volere, che invece è esplicitato da formulazioni più 'mirate' di altri codici. La formula del codice tedesco, ripresa da codici più recenti (spagnolo e portoghese) è incentrata sul nesso fra incapacità e fatto commesso: incapacità di comprendere il contenuto illecito del fatto, e di agire in conformità a tale rappresentazione. Pur trattandosi di soluzione raggiungibile in sede di interpretazione, appare opportuno esplicitarla nel testo del codice. Per quanto concerne l'individuazione delle condizioni produttive di incapacità, sul piano della tecnica legislativa si prospettano le possibilità di una disciplina fondata sulla clausola generale dell'incapacità e/o di una tipizzazione di specifiche fattispecie di esclusione dell'imputabilità. Il codice Rocco fa uso di entrambe. Per la scelta del tipo di disciplina, vengono in rilievo esigenze in qualche misura divergenti. Da un lato, le esigenze di certezza appaiono meglio soddisfatte da una disciplina che -presupposta in via normale l'imputabilità dell'adulto- indichi le condizioni nelle quali essa sia esclusa (il che impegna il legislatore ad una tipizzazione delle cause di esclusione dell'imputabilità, atta a vincolare l'interprete più di quanto non possano fare, di per sé sole, le clausole generali della capacità o incapacità). D'altra parte, le indicazioni legislative dovrebbero essere, per quanto possibile, esaustive rispetto all'esigenza di ricomprendere le diverse situazioni che, alla luce del sapere scientifico e di criteri di valutazione storicamente acquisiti, appaiono incompatibili con la possibilità d'un rimprovero di colpevolezza. A tal fine appare necessario utilizzare concetti 'aperti', che nel rispetto del principio di legalità definiscano in modo chiaro i parametri di riferimento, consentendo un adeguamento al mutare delle conoscenze scientifiche. 3. Infermità di mente ed altre anomalie. Il primo e fondamentale campo problematico, per la disciplina della (non) imputabilità, è quello delle situazioni soggettive di 'non normalità psichica'. E' qui che in dottrina si è ravvisata una crisi dell'istituto dell'imputabilità, per il venire meno di antiche (illusorie) certezze (il paradigma mediconosografico) nelle scienze che si occupano della psiche, dell'infermità e del disagio psichico. Mentre il legislatore credeva di poter trarre indicazioni univoche, le applicazioni del diritto riflettono invece le incertezze della scienza psichiatrica attorno alla malattia di mente, al punto che si è potuto rilevare che il concetto di infermità di mente, utilizzato dal codice, sarebbe divenuto privo di connotazione semantica, essendo diventato inconsistente il parametro esterno di riferimento. Quanto ai contenuti, la linea di tendenza nelle applicazioni giurisprudenziali è stata, non senza incertezze, verso un cauto allargamento delle condizioni rilevanti ai fini dell'esclusione (o riduzione) dell'imputabilità: soluzioni diverse da quelle 'pensate' dal legislatore decenni addietro, ma consentite dalla 'apertura' dei concetti di malattia o infermità. Allo stesso modo i codici penali più recenti (spagnolo, portoghese) hanno introdotto formule che allargano i presupposti della non imputabilità, elencando accanto alla infermità psichica altre condizioni ritenute idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di volere. Le proposte di riforma del codice italiano, pur con modalità diverse, hanno imboccato la medesima strada. Lo schema Pagliaro aggiunge all'infermità il riferimento ad 'altra anomalia', e introduce la clausola di chiusura della 'altra causa'. Il disegno Riz mantiene una elencazione tassativa di cause di esclusione, allargata alla 'gravissima anomalia psichica'. Entrambi aboliscono la proclamata (art. 90) irrilevanza, ai fini dell'imputabilità, degli stati emotivi e passionali: è un'indicazione di apertura a soluzioni diverse, peraltro già prospettate nei casi in cui lo stato emotivo abnorme possa ritenersi radicato in una situazione patologica.Nei dibattiti sulle proposte di riforma è emerso un orientamento critico verso l'impostazione del progetto Pagliaro che, dopo una elencazione formalmente tassativa di cause di esclusione dell'imputabilità, la rende onnicomprensiva con la previsione di chiusura di 'altra causa' tale da escludere la capacità di intendere e di volere. Ad avviso della Commissione l'idea guida deve essere l'adeguamento al sapere scientifico, il che fa propendere per un approccio legislativo cauto, che non allarghi, ma nemmeno blocchi in modo troppo rigido le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell'imputabilità. Esclusa l'adozione di clausole generali o troppo generiche, il testo legislativo dovrebbe utilizzare concetti in grado di rendere controllabile l'adeguamento ai saperi scientifici di riferimento. Secondo alcuni studiosi potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale cui essa ha dato luogo. La Commissione ritiene tuttavia preferibile un chiarimento legislativo, mediante l'introduzione, accanto alla infermità, della formula della grave anomalia psichica: ciò renderebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza quali cause di esclusione dell'imputabilità di situazioni oggi problematiche, come le nevrosi o psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza. Alla preoccupazione che ciò possa indebolire la 'tenuta' generalpreventiva del sistema penale si può rispondere che nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato un controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell'imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi. 4. Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti. La disciplina vigente è caratterizzata dall'imputabilità del fatto commesso in stato di ubriachezza o intossicazione da stupefacenti non accidentale, che abbia provocato una incapacità piena, e dalla rilevanza, come causa di esclusione dell'imputabilità, dell'intossicazione cronica. La disciplina dell'ubriachezza non accidentale è oggetto di critica da parte della dottrina, che vi ravvisa una finzione di imputabilità contrastante con il principio di colpevolezza, e dettata da preoccupazioni di prevenzione generale e speciale che si ritiene potrebbero essere altrimenti soddisfatte. Una diversa posizione era stata espressa nella lontana sentenza (n. 33 del 1970) con la quale la Corte Costituzionale ha respinto questioni di legittimità costituzionale dell'art.92 c. p., sollevate con rif. agli art. 3 e 27 Cost., ritenendo la norma in esame non irragionevole in relazione al fine. Secondo la Corte, "l'ubriaco, che abbia commesso un reato, risponde per una condotta antidoverosa, cioè per essersi posto volontariamente o colposamente in condizione di commetterlo"; il titolo della colpevolezza, peraltro, sarebbe da individuare, in conformità alla giurisprudenza corrente, "sulla base dell'atteggiamento psicologico assunto dall'ubriaco al momento nel quale commise il fatto". Questa motivazione evidenzia i punti di frizione con il principio di colpevolezza: da un lato, viene asserita l'antidoverosità dell'ubriacarsi, nella cui natura volontaria o colposa sarebbe da ravvisare il fondamento della responsabilità; dall'altro, il coefficiente psicologico che sorregge il fatto commesso è assunto a 'titolo della colpevolezza', con conseguente possibilità di affermare un 'titolo di colpevolezza' più grave di quello ricollegabile al fatto dell'ubriacarsi. La struttura di una simile disciplina non è quella della colpevolezza per il fatto, ma quella del versari in re illicita. Concordemente condivisa la necessità di una riforma, le soluzioni proposte sono diverse. Lo schema Pagliaro suggerisce che il soggetto "risponda per dolo se, quando si è posto nello stato di incapacità, ha agito almeno con dolo eventuale rispetto al fatto di reato, oppure per colpa, se il fatto era da lui, in tale momento, concretamente prevedibile come conseguenza di tale stato". Questa proposta, intesa a recuperare il rispetto del principio di colpevolezza, è stata anch'essa sottoposta a critica proprio con riferimento a tale principio: si tratterebbe, si è detto, di una variante del modello del versari in re illicita, che apre problemi probatori le cui soluzioni finirebbero per seguire schemi presuntivi. Una soluzione del tutto diversa è quella, adottata dal codice tedesco, della costruzione di una fattispecie di parte speciale che incrimini il mettersi in stato di incapacità, condizionatamente alla commissione di un reato e con pena di una certa consistenza, che però non superi quella prevista per il reato commesso. Tale modello propone uno schema formale che non corrisponde alla sostanza della disciplina. Solo nella forma la condotta incriminata è il mettersi in stato di incapacità, posto che la punizione è condizionata e commisurata al reato commesso. Ma questo elemento, decisivo nel fondare e delimitare la reazione penale, è configurato come condizione obiettiva di punibilità: una frode delle etichette, che rende solo apparente il rispetto del principio di colpevolezza. Chi proponga di introdurre disposizioni specifiche sui reati commessi in stato di ubriachezza ha l'onere di rispondere a due questioni: trattandosi di derogare a principi generali, si pongono questioni di legittimità delle eventuali deroghe e di loro necessità o (quanto meno) opportunità. Il problema reale resta in ogni caso quello che il codice del 1930 ha (bene o male) risolto in modo non ipocrita con le 'finzioni' di imputabilità: se, e a quali condizioni, prevedere una responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità, e perciò commisurata a quel fatto. Quanto ad eventuali soluzioni specifiche, prima di pensare a soluzioni che estendano la responsabilità penale, occorre saggiare la portata dei principi generali rispetto ai quali si pone la questione dell'eventuale deroga. Schematizzando, dai principi generali deriva la possibilità di affermare la responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità piena: a) quando l'incapacità sia stata preordinata (e il fatto sia poi stato commesso nel modo preordinato); b) quando l'essersi messo (non accidentalmente) in stato di incapacità possa essere considerato infrazione di una regola cautelare rispetto al fatto poi realizzato, e questo sia stato realizzato (volontariamente o con obbiettiva violazione di regole di buon comportamento) 'a causa' dello stato di procurata incapacità. In tali ipotesi, appare possibile considerare il mettersi in stato di incapacità come condotta causale e colpevole rispetto al fatto poi realizzato. Nell'incapacità preordinata il titolo della colpevolezza dovrà essere individuata nella dolosa preordinazione. Fuori di tale ipotesi l'imputazione dovrà avvenire per colpa, anche quando il fatto sia stato poi (nello stato di incapacità piena) commesso volontariamente: il titolo di colpevolezza dovendo ravvisarsi nell'inosservanza della regola cautelare del 'non assumere alcool o droghe' in quella data situazione 'di pericolo'. Relativamente all'ipotesi colposa, si pongono le seguenti questioni: a) se il mettersi in stato di incapacità possa essere considerato dal legislatore, al livello del 'pericolo astratto', come inosservante in ogni caso di una regola cautelare; b) se la pena prevista per i reati colposi si possa ritenere adeguata nei casi in cui il fatto sia stato realizzato volontariamente, sia pure in condizioni di incapacità piena; c) se occorra prevedere estensione di responsabilità anche per delitti dei quali sia prevista solo la forma dolosa. Quanto al punto sub a), ravvisare sempre la violazione di una regola cautelare non è né ragionevole né supportato da indicazioni di politica criminale; vi sono, peraltro, situazioni in cui un rimprovero di colpa è possibile e plausibile: situazioni in cui taluno si sia messo in stato di incapacità in un contesto 'pericoloso' in relazione alla attività da svolgere (es., ubriacarsi prima di mettersi alla guida di veicoli). Quanto al punto sub b), rispetto a fatti aggressivi commessi volontariamente dall'incapace non accidentale (ma rimproverabili a titolo di colpa), appare giustificata la previsione di un aumento di pena commisurato alla pena edittale per il delitto colposo. Quanto al punto sub c) potrebbe essere introdotta una disciplina ad hoc, con la previsione di pene meno severe di quelle previste per la realizzazione propriamente dolosa. L'eliminazione delle finzioni di imputabilità fa venire meno i presupposti su cui poggia la vigente disciplina dell'ubriachezza o intossicazione abituale, e rende superflua una disposizione sull'intossicazione cronica (necessaria invece, per riaffermarne il rilievo di causa di esclusione dell'imputabilità, ove si mantenga per l'intossicazione occasionale una disciplina differenziata: così lo schema Pagliaro). Gli artt. 94 e 95 del codice Rocco, che dettano una disciplina differenziata dell'intossicazione abituale e di quella cronica, sono stati oggetto di una questione di legittimità costituzionale, centrata sulla ritenuta impossibilità di distinguere le due ipotesi, e sulla conseguente natura discriminatoria delle differenze di trattamento. La Corte Costituzionale, nel rigettare la questione (sent. n. 114/98), ha esplicitamente richiamato gli auspici di una profonda revisione della materia, e sottolineato come anche le proposte di riforma mantengano l'ipotesi della cronica intossicazione come causa di non imputabilità ulteriore e autonoma rispetto all'infermità. Al di là delle incertezze circa l'individuazione dei casi in cui l'intossicazione ha inciso sulla capacità del soggetto, l'eventuale incapacità per intossicazione cronica esclude comunque una responsabilità collegata alla capacità rilevata al momento dell'assunzione di alcool o stupefacenti. 5. Minorenni. Le proposte di riforma Pagliaro e Riz mantengono lo schema attuale, che fissa la soglia minima dell'imputabilità ai 14 anni, e fra i 14 e i 18 anni impone un accertamento in concreto della capacità, al di fuori di presunzioni in un senso o nell'altro. Il disegno Riz specifica che la non imputabilità dell'infradiciottenne dipende da accertata immaturità. Sulla soglia minima dell'imputabilità, nei codici più recenti si registrano soluzioni diverse: 14 anni nel codice tedesco; 16 anni in quello portoghese; per il codice spagnolo, i minori di 18 anni non sono penalmente responsabili a norma del codice stesso, salvo quanto disponga la legge che disciplina la responsabilità dei minorenni. Il sistema del codice Rocco intende essere un contemperamento fra esigenze di certezza, meglio soddisfatte dalla fissazione di soglie di età, ed esigenze di adeguamento ai casi singoli, di cui si tiene conto nella fascia di età ritenuta più problematica. Pur nella consapevolezza di quanto di arbitrario v'è nella fissazione di soglie d'età, e della vaghezza dei criteri per il giudizio 'in concreto', non si ravvisano indicazioni a favore di soluzioni diverse. 6. Trattamento dei soggetti non imputabili. Il riconoscimento di situazioni di non imputabilità lascia aperto il problema della applicazione di eventuali misure di natura non punitiva. La questione non è di etichette, ma di sostanza: misure per i 'non imputabili', comunque denominate, non possono legittimamente essere strutturate secondo criteri 'retributivi', né in vista di fini di prevenzione generale. Resta uno spazio legittimo per misure specialpreventive: e di questo tipo sono (pretendono di essere) le misure previste dal codice Rocco e da altri codici anche recenti. La denominazione in uso in Italia evidenzia la finalità 'di sicurezza'; altre denominazioni aggiungono quella del 'miglioramento', peraltro implicita nel carattere riabilitativo che dovrebbe caratterizzare i contenuti delle misure anche nel sistema del codice Rocco. In questo sistema le misure di sicurezza erano pensate come risposta generale al fatto del non imputabile, affidata alle istituzioni di giustizia penale, su un presupposto (la pericolosità sociale) largamente presuntivo. Venute meno le presunzioni di pericolosità, ritenuta necessaria la eliminazione degli istituti connessi previsti dal codice Rocco, resta aperta la questione se e quale spazio sia opportuno lasciare ad istituti 'di giustizia criminale' nei confronti delle diverse situazioni tipiche di incapacità (minore età, infermità di mente, altre eventuali situazioni di handicap). L'indicazione di fondo è quella di una riduzione delle eventuali misure al minimo strettamente indispensabile: extrema ratio rispetto agli istituti orientati alla risocializzazione o alla terapia, che del resto caratterizzano la legislazione più recente (in ambito psichiatrico, la svolta avviata dalla legge 180/78; in ambito minorile, i nuovi istituti introdotti con la c.d. procedura penale minorile, DPR 448/88). La risposta al 'bisogno di trattamento' del non imputabile dovrebbe competere cioè in prima istanza ad istituzioni diverse da quelle della giustizia penale. Escluso il ricorso alla pena, la giustizia 'penale' dovrebbe occuparsi dei non imputabili eccezionalmente, quando si ritenga assolutamente necessario il ricorso a forme di coercizione personale. Appunto nella prospettiva di una restrizione dei presupposti delle misure di sicurezza si muove lo schema Pagliaro, sia nel proporre un criterio restrittivo di pericolosità sociale (art. 36, n.1), sia nella preferenza per la misura non detentiva. Senz'altro opportuna è la precisazione che il reato commesso può giustificare la misura a condizione che sia "manifestazione della causa di non imputabilità". Lo stesso dovrebbe aggiungersi con riferimento ai delitti temuti: anch'essi temuti in quanto probabile manifestazione del protrarsi (o ripetersi) dello stato di incapacità. Quanto alla 'particolare gravità' dei fatti (così lo schema di delega), è un criterio che dovrà essere specificato dal codice con l'individuazione di una cerchia selezionata di delitti, a seguito dei quali e per la cui prevenzione appaia congrua la possibilità di disporre una misura di sicurezza. Con riferimento ai minori, il DPR 448/88 già contiene una specificazione dei delitti, in relazione ai quali sia consentito applicare una misura di sicurezza, in via definitiva (art. 36) o provvisoria (art. 37). Analoga specificazione dovrà essere introdotta anche nei confronti delle altre categorie di soggetti incapaci, avendo in particolare riguardo ai delitti 'di aggressione' contro la incolumità o la libertà personale e ai delitti contro il patrimonio di una certa gravità. E' diffusa in dottrina l'istanza di sostituire al criterio della pericolosità (ritenuto di dubbio fondamento empirico) quello del 'bisogno di trattamento'. Tale proposta merita accoglimento, sia sul piano terminologico (evitando così il messaggio stigmatizzante in termini di 'pericolosità), sia su quello sostanziale della determinazione dei presupposti e del contenuto delle misure: ciascuna costruita e da applicare come risposta ad un particolare e comprovato bisogno di trattamento (terapeutico, educativo, disintossicante, e simili). L'inserzione dell'orizzonte penalistico nella prospettiva del trattamento deve tenere comunque conto della nuova prospettiva conseguente, fra l'altro, alla ridefinizione dei presupposti di applicazione della 'misura/riabilitazione': nel senso che il trattamento potrebbero anche essere tendenzialmente affidato, in assenza di controindicazioni, ad istituti di riabilitazione non specificamente connotati in senso penalistico (in questo senso, ad esempio, la conservazione di misure di sicurezza per infermi di mente non dovrebbe significare necessariamente il mantenimento dell'ospedale psichiatrico o di altri luoghi di trattamento separati da quelli della 'normale' assistenza psichiatrica). Per quanto concerne le regole 'di garanzia', modello idoneo appare quello dello schema Pagliaro: a) accertamento concreto del bisogno del trattamento al momento del fatto e al momento dell'applicazione della misura; il nesso con tipologie circoscritte di delitti dovrebbe dare al giudizio del bisogno del trattamento, il cui fondamento empirico è molto controverso, un ancoraggio meno aleatorio; b) riesame periodico di tale bisogno; piuttosto che prevedere un termine rigido, sembrerebbe preferibile prevedere che il termine sia fissato di volta in volta dal giudice entro un limite massimo, fermo in ogni caso il riesame anche prima della scadenza quando la ragione della misura appaia venuta meno; c) cessazione della misura quando sia accertata la cessazione del bisogno di trattamento; nel caso di infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, cessazione della misura quando sia cessato lo stato di incapacità del quale il delitto commesso sia stata manifestazione. Esigenze di proporzione potrebbero portare ad introdurre un termine massimo per le misure detentive e non detentive, che potrebbe essere parametrato ai limiti edittali di pena per il commesso delitto. Una misura più prolungata (indeterminata nel massimo?) potrebbe ritenersi non sproporzionata soltanto in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l'incolumità delle persone. 7. Mantenimento di fattispecie di capacità ridotta? Le proposte di riforma del codice italiano mantengono ipotesi di ridotta capacità, individuandone i presupposti in situazioni vicine a quelle che danno luogo ad incapacità piena, e distinguendole poi in ragione della diversa incidenza sulla capacità d'intendere e di volere (esclusione totale o grande riduzione). La questione cruciale concernente i casi di c.d. capacità ridotta è se, entro la cerchia dei soggetti imputabili, vi siano categorie per le quali appaia più adeguato un trattamento differenziato, in relazione a determinati deficit di capacità. La risposta affermativa appare plausibile, con riferimento a situazioni soggettive abnormi non al punto da dare luogo a incapacità piena. E ragionevole appare la tipizzazione usuale di tali situazioni, con riferimento agli stessi criteri adottati per definire le situazioni di non imputabilità, ed all'effetto, che ne sia derivato, di sensibile riduzione della capacità di intendere e/o di volere. In tali ipotesi, alla capacità ridotta corrisponde una minore colpevolezza e/o un minore bisogno sociale di reazione, e/o l'esigenza di trattamenti differenziati, orientati in chiave specialpreventiva (terapeutica, riabilitativa, rieducativa). Escluso per gli imputabili il 'doppio binario' (pena più misura di sicurezza), occorre delineare un modello unitario di risposta che, per essere rivolto a soggetti imputabili, sarà formalmente incentrato sulla previsione di una pena, ma dovrà assumere su di sé le funzioni terapeutiche, riabilitative, rieducative, ed essere fondamentalmente strutturato in vista del migliore perseguimento degli obiettivi di prevenzione speciale. Per i semi-imputabili per infermità o altra anomalia, i tratti essenziali del sistema potrebbero essere i seguenti: a) previsione di una pena diminuita nel massimo e nel minimo edittale (ciò appare coerente con l'esigenza di proporzionare la pena alla minore colpevolezza conseguente allo stato di ridotta capacità); b) previsione di modalità di esecuzione della pena orientate alla riabilitazione del condannato (terapia, disintossicazione, e simili); possibilità, in caso di successo del trattamento, di disporre la semilibertà o la liberazione condizionale anche in un momento anticipato rispetto alla regola generale (il periodo minimo di pena espiata andrà stabilito in coerenza con il sistema complessivo); c) per pene brevi, fino a x anni (4 anni?), previsione di misure sostitutive di carattere terapeutico o riabilitativo, subordinatamente al consenso del condannato, sul modello di quanto attualmente previsto dal TU sugli stupefacenti, art. 90s. (regole possibili: in caso di esito positivo del trattamento, estinzione del residuo di pena da espiare; ove possa essere concessa la sospensione condizionale della pena, e un trattamento terapeutico o riabilitativo appaia opportuno, subordinare il beneficio alla accettazione di un programma di trattamento in libertà; quando un trattamento terapeutico o riabilitativo sia stato disposto come misura sostitutiva della pena, prevedere la revoca della misura nel caso in cui il condannato si sottragga in modo non irrilevante agli impegni relativi al trattamento stesso); d) una parte della Commissione ha altresì suggerito la possibilità di pronunciare sentenza di condanna con rinuncia alla pena, qualora, per la modesta gravità del fatto commesso in stato di ridotta capacità e/o per essere venute meno le condizioni soggettive che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell'autore del fatto. Nei confronti dei minori imputabili, si pongono esigenze analoghe, legate alla minore colpevolezza e alla priorità della prevenzione speciale. Senz'altro giustificata la previsione di una diminuzione di pena, la questione fondamentale è individuare le misure entro le quali il giudice può scegliere quella più adeguata, in una prospettiva che, pur presupponendo il rimprovero di colpevolezza, nella scelta delle risposte sia esclusivamente orientata all'obiettivo della 'rieducazione' (meglio, educazione) del minore. Sotto questo aspetto, la c.d. procedura penale minorile (DPR n. 448/98) ha introdotto significative novità di diritto sostanziale: l'istituto del non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, "quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne", e, soprattutto, la messa alla prova, che può essere disposta per qualsivoglia reato, anche il più grave, in presenza di idonee indicazioni. Si tratta di soluzioni molto 'spinte', che danno al vigente diritto penale minorile una caratterizzazione totalmente dominata dalla finalità rieducativa. In sede di riforma si potrebbero affrontare prospettive di razionalizzazione e di coordinamento fra i diversi istituti previsti dal codice penale e dal DPR 448, e di cauta espansione (con restrizioni atte a salvaguardare irrinunciabili esigenze generalpreventive) nei confronti di 'giovani adulti' dell'ambito di applicazione di istituti di diritto penale minorile. X. LA RESPONSABILITA' DELLE PERSONE GIURIDICHE. 1. Il 25 marzo 1999 è stato approvato dalla Camera in prima lettura il DDL governativo di ratifica della Convenzione sulla lotta contro la corruzione internazionale, che contiene (art. 6) una delega al Governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche, relativamente ai reati di cui alla legge di ratifica (concussione e corruzione). Il disegno è ora all'esame del Senato (n. 3915S). Nel prendere atto della scelta allo stato prefigurata a favore di una responsabilità 'non penale', si deve rilevare che gli istituti dei quali si prospetta l'introduzione sono direttamente raccordati al presupposto penalistico della commissione di reati, ed hanno contenuti corrispondenti a sanzioni e misure del diritto penale classico, con il quale pongono problemi di raccordo. 2. L'introduzione di un sistema sanzionatorio (penale o non penale) per le persone giuridiche in un ambito più ampio di quello imposto dalla ratifica della convenzione sulla corruzione internazionale appare condizione necessaria per la razionalizzazione di diversi istituti del diritto penale d'impresa: a) Misura delle pene pecuniarie. Nel diritto penale d'impresa i limiti edittali della pena pecuniaria sono pensati in relazione a un patrimonio cospicuo, tale supponendosi quello dell'impresa. Emblematico l'art. 21 della c.d. l. Merli, novellata nel 1995: si arriva a massimi edittali di 150 e 250 milioni di lire, che rispetto alle persone fisiche dei dirigenti o dipendenti appaiono irrealistici. Di fatto è l'imprenditore (persona fisica o persona giuridica) che di regola si accolla il costo delle sanzioni pecuniarie penali, cui è comunque sussidiariamente obbligato ex art. 197 c. p. La previsione di una sanzione pecuniaria per la persona giuridica consentirebbe una opportuna revisione delle cornici edittali, aprendo la strada alla possibilità di risposte differenziate: la persona giuridica titolare dell'impresa potrà essere destinataria di sanzioni pecuniarie anche (ma non necessariamente) molto elevate, in proporzione alla gravità del fatto ed al patrimonio dell'ente, mentre le sanzioni pecuniarie (penali) per le persone fisiche dei funzionari dell'impresa andrebbero opportunamente dimensionate secondo criteri più realistici e più equi. b) Oblazione. L'attuale disciplina dell'oblazione 'discrezionale' (art. 162 bis c.p.) è inadeguata rispetto alle situazioni nelle quali è in gioco un'attività d'impresa. In esse l'eliminazione delle conseguenze del reato può essere deliberata e realizzata solo dalla persona giuridica che gestisce 1'impresa: il contravventore, anche se tuttora alle dipendenze dell'ente, non è in grado di farlo (o almeno, non autonomamente da decisioni e investimenti dell'impresa). Anche il pagamento dell'oblazione (un costo, di regola, più pesante di quello di una sentenza di condanna), quando sia agganciato a massimi edittale elevati è possibile solo alla persona giuridica. E dovrà essere pagato tante volte quanti sono i dipendenti imputati. In breve: sia con riguardo al costo dell'oblazione, sia con riguardo alla condizione 'riparatoria', le chiavi del meccanismo delineato dal codice vigente stanno nelle mani della persona giuridica. e non del 'contravventore'. Questa incongruenza, che incide negativamente sulla funzionalità dell'istituto, e può comportare effetti discriminatori, può essere sanata accollando alla persona giuridica il costo dell'oblazione, e condizionandone l'ammissione a condotte 'riparatorie' che la persona giuridica (e non i1 contravventore) abbia la possibilità di realizzare. Ovviamente, essendo l'oblazione una facoltà e non un obbligo, ciò presuppone la previsione d'una sanzione pecuniaria a carico della persona giuridica. Per gli imputati persone fisiche il meccanismo dell'oblazione potrà esssere opportunamente alleggerito, sia escludendo la condizione 'riparatoria', trasferita a carico dell'ente, sia con 1'aggancio a massimi edittali meno severi. c) Patteggiamento. Nella prassi, 1'accettazione del patteggiamento viene spesso condizionata a condotte riparatorie o risarcitorie. In presenza di danni, di regola ingenti, connessi ad illeciti 'd'impresa', tale collegamento fa dipendere la sorte degli imputati da comportamenti dell'ente. Come nel caso dell'oblazione, si determina un intreccio ambiguo fra giudizio penale nei confronti di persone fisiche e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati. Questo intreccio, inaccettabile, potrà essere sciolto senza pregiudizio né per l'interesse dell'imputato al patteggiamento, né per gli interessi offesi dal reato, se il collegamento fra sanzione e riparazione potrà essere riferito direttamente alla posizione della persona giuridica. d) Confisca e misure interdittive. La possibilità di disporre la confisca a carico della persona giuridica consentirebbe di inseguire il profitto dell'illecito, quando beneficiaria ne è stata la persona giuridica, presso il soggetto che di fatto lo ha conseguito. In questa direzione si sono mossi anche ordinamenti ai quali la responsabilità penale delle persone giuridiche è estranea (codice austriaco). Del pari, la previsione di eventuali misure interdittive (comunque denominate) a carico della persona giuridica consentirebbe di incidere, se e in quanto opportuno, direttamente sul contesto di attività di cui 1'illecito è espressione. 3. Le osservazioni suesposte evidenziano come 1'introduzione di un sistema di sanzioni applicate direttamente alle persone giuridiche sia sollecitata da ragioni interne al sistema penale. Solo 1'introduzione di una responsabilità (penale o amministrativa) di tali soggetti, di contenuto assimilabile a sanzioni penali, consente un riassetto razionale delle sanzioni e di altri istituti fondamentali del diritto penale dell'impresa. Già attualmente, le persone giuridiche sono coinvolte nel sistema penale come soggetti civilmente obbligati per il pagamento delle pene pecuniarie e per il risarcimento del danno. Nella prassi il coinvolgimento va oltre (ipotesi di oblazione 'condizionata' e di patteggiamento per reati d'impresa). I costi sono talora assurdamente moltiplicati, in proporzione del numero degli imputati. Una razionalizzazione del sistema, con 1'introduzione di sanzioni dirette per la persona giuridica, consentirebbe il superamento di tali distorsioni. 4. Il 'diritto sanzionatorio' per le persone giuridiche dovrebbe coprire 1'intera gamma di situazioni nelle quali l'applicazione di sanzioni in capo alla persona giuridica, in aggiunta alle sanzioni penali per le persone fisiche, appaia necessaria per il riequilibrio razionale degli istituti del sistema sanzionatorio. Fondamentalmente, vengono in rilievo le seguenti situazioni: a) reati commessi 'a favore', 'nell'interesse', 'per conto' della persona giuridica, da parte di soggetti competenti a impegnarla (sul modello di quanto previsto nel DDL di ratifica della convenzione sulla corruzione); b) reati costituenti inadempimento di una garanzia dovuta nell'interesse di terzi o della collettività da soggetti operanti per l'organizzazione. Al primo gruppo appartengono prevalentemente delitti dolosi con implicazioni di carattere patrimoniale. Il secondo gruppo comprende i settori fondamentali del diritto penale d'impresa: ambiente, sicurezza del lavoro e della collettività, tutela dei consumatori; e non solo le norme del diritto penale speciale, ma anche delitti già previsti (es., delitti contro l'incolumità delle persone) o che possano essere introdotti nel codice penale. Pare ragionevole considerare come soggetti competenti a impegnare la persona giuridica (ai fini della applicazione delle sanzioni) non solo coloro che abbiano la legale rappresentanza, ma tutti coloro che, in forza di poteri attribuiti nell'ambito dell'organizzazione, siano titolari di una posizione di garanzia penalmente rilevante, o titolati ad instaurare rapporti con terzi nell'interesse della persona giuridica. Per quanto concerne la qualificazione delle sanzioni per le persone giuridiche, non si ravvisano ostacoli né di legittimità né di opportunità alla formale inserzione nel sistema penale, che avrebbe anzi l'effetto di assicurare l'applicabilità di più rigorosi principi garantisti (principi di legalità, di offensività, di colpevolezza). E' questa la soluzione adottata in recenti riforme di altri paesi europei (Francia, Norvegia). La questione appare peraltro secondaria rispetto alla determinazione dei contenuti della disciplina. Il legislatore potrebbe anche, volendo, adottare un'etichetta neutra, come quella di sanzioni accessorie: accessorie rispetto ad illeciti che potrebbero avere natura sia penale che amministrativa. Verrebbe in tal modo evidenziata la specificità di un diritto sanzionatorio delle persone giuridiche, quasi tertium genus fra il penale e 1'amministrativo, e insieme additata la sua possibile connessione con l'uno e l'altro sistema. 5. La tipologia delle sanzioni non può che essere quella del DDL 3915S: sanzioni pecuniarie, confisca, misure interdittive in senso lato. Le questioni attengono alla loro misura e agli ambiti e presupposti della loro applicazione. Si tratta di questioni 'di parte speciale', da risolvere nel contesto delle scelte di incriminazione e sanzionatorie nei singoli settori di intervento. Come indirizzi di carattere generale possono prospettarsi i seguenti: a) prevedere limiti massimi edittali per le sanzioni pecuniarie maggiori di quelli previsti per le persone fisiche, evitando peraltro irrigidimenti eccessivi; b) prevedere la confisca (obbligatoria) dei profitti che alla persona giuridica siano derivati dal reato (e che non debbano essere altrimenti oggetto di risarcimento); c) disciplinare i presupposti e la durata delle eventuali misure interdittive, prevedendone 1'applicazione come discrezionale, in funzione di concrete esigenze di prevenzione, e in modo da evitare effetti eccessivamente gravosi anche per interessi di terzi. Per ragioni di prevenzione generale e speciale, si segnala la opportunità considerare come presupposto di forti riduzioni delle sanzioni pecuniarie l'adozione da parte della persona giuridica di modelli organizzativi ed operativi idonei a prevenire reati (sistema americano). Sotto 1'aspetto processuale la stretta connessione fra il sistema delle sanzioni per le persone giuridiche (comunque qualificate) e il sistema penale suggerisce di ricondurre entro il processo penale anche l'accertamento dei presupposti della responsabilità della persona giuridica e l'applicazione delle conseguenti sanzioni. Ne guadagnerebbero non solo gli interessi legati all'efficienza del modello processuale, ma anche quelli legati al diritto di difesa della persona giuridica: questa, che già può essere parte del processo penale come responsabile civile, vi sarebbe parte fin dall'inizio ad ogni effetto, e potrebbe in quella sede espletare anche in condizioni più favorevoli ogni attività difensiva. XI. STRUTTURA DEL CODICE ED INDICAZIONI DEI BENI GIURIDICI. 1. La centralità del codice. Un programma di ricodificazione penale deve porsi il problema della c.d. 'centralità del codice'. Pensare che il codice possa nei tempi attuali aspirare ad una totale onnicomprensività della materia significherebbe ignorare le complesse esigenze e dinamiche di produzione del diritto penale odierno. Rinunciare quantomeno a contenere il fenomeno erosivo della "decodificazione" significherebbe tuttavia pregiudicare in partenza i vantaggi che può recare lo strumento codicistico. Di questa esigenza è consapevole il progetto Pagliaro, che all'art. 2, dedicato ai 'principi di codificazione', stabilisce che il codice "deve porsi come testo centrale e punto di riferimento fondamentale dell'intero ordinamento penale, in modo da contrastare il pericolo di decodificazione". Condiviso l'obbiettivo, occorre verificare quali siano gli strumenti adeguati allo scopo, tenendo conto che si sconta comunque una discrepanza tra l'evoluzione delle dinamiche di produzione giuridico-penale e i rimedi disponibili per assicurare la centralità del codice. I problemi suscitati dalla c.d. "centralità del codice" sono fondamentalmente due. Da un lato si tratta di verificare se e quali siano le materie la cui tutela penale conviene rimanga fuori dal codice; la decisione, implicante valutazioni ad alto tasso di politicità, deve tenere conto del fatto che quando si opta per una tutela extra codice è verosimile che la specialità della materia spinga verso la creazione di un "sottosistema" caratterizzato da un certo grado di scollamento rispetto ai principi generali di garanzia. Dall'altro occorre valutare se ed in quale misura è possibile contenere il fenomeno del profluvio delle leggi speciali che prevedono reati che, senza avere una reale giustificazione razionale, traggono origine da fattori casuali e producono l'effetto di sovrapporsi disordinatamente al codice ponendo numerosi problemi, dal concorso di norme alla tecnica di tipizzazione delle fattispecie, alla stessa conoscibilità delle disposizioni esistenti. Il primo fenomeno pone problemi di omogeneità dei principi ispiratori dell'intero sistema penale, con il corollario di possibili cadute delle garanzie fondamentali, il secondo problemi di razionalità, di certezza e legalità dell'ordinamento, e di violazione del principio di 'essenzialità' del diritto penale. Le soluzioni tecniche proposte per assicurare la centralità del codice, ed una tendenziale riduzione della legislazione penale speciale, sono, ad oggi, fondamentalmente tre: a) il progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla c.d. Commissione Bicamerale, ha previsto una "riserva di codice" e "di legge organica", disponendo che "nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui si riferiscono" (art. 129.4). Si tratta di una indicazione dalla efficacia fortissima, perché enunciata a livello costituzionale, e destinata ad operare verso il futuro vincolando il legislatore con riferimento alla collocazione delle norme penali; b) lo schema di legge-delega Pagliaro ha escogitato un interessante meccanismo, rivolto verso il passato, e diretto a razionalizzare e semplificare il sistema penale. L'art. 13 delle disposizioni di attuazione dispone che "nei casi in cui il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti", il legislatore delegato dovrà "stabilire la non applicabilità di queste, salvo che siano state confermate con leggi delegate, da emanare nel tempo indicato per l'entrata in vigore del codice medesimo". La relazione al progetto chiarisce che tale proposta "superando il principio che una legge generale successiva non deroga alle leggi speciali preesistenti, viene a disporre che le disposizioni contenute nel codice penale escluderanno l'applicabilità delle leggi penali incriminatrici preesistenti, anche quando queste ultime siano, per contenuto, speciali rispetto ad esse. Unico requisito è che le disposizioni del codice e le disposizioni delle leggi incriminatrici preesistenti prevedano in qualche modo lo stesso fatto". c) si pone infine la tradizionale soluzione predisposta dal vigente art. 16 c.p.: "le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti", che, sebbene caratterizzata dai limiti evidenziati dal processo di decodificazione sotto gli occhi di tutti, ha il pregio di tendere ad una "espansione contenutistica" della disciplina e dei principi codicisti. La Commissione, data per scontata la utilità di una disposizione quale quella enunciata nell'art. 13 disp. trans. dello schema di legge-delega Pagliaro, ritiene soprattutto utili, in prospettiva, criteri idonei ad indirizzare, per quanto possibile, il legislatore futuro verso scelte razionali di collocazione legislativa e di selezione degli illeciti penali, nonché indicazioni di natura contenutistica in grado di assicurare omogeneità di principi di garanzia e di tecnica delle incriminazioni all'intera disciplina penale. Pur ritenendola, data la sua natura, sicuramente efficace, esprime invece perplessità in ordine alla scelta di prevedere principi di questo tipo a livello costituzionale. La proposta della Commissione Bicamerale, ad esempio, potrebbe spingere il legislatore ordinario ad inserire comunque nel codice qualunque modifica penale, anche se sostanzialmente estranea alla trama codicistica, per mettersi al riparo da censure di incostituzionalità, ma rischiando così di trasformare il codice in un raccoglitore di norme eterogenee; mentre la difficoltà di individuare una nozione precisa di "legge organica" potrebbe determinare a sua volta un incremento del contenzioso costituzionale. Vi sono d'altronde, in determinati settori (specie amministrativi), esigenze di disciplina che si manifestano in modo frammentario e progressivo, che sarebbe difficile soddisfare con l'inserimento nel codice o in una inesistente legge organica. Pur rendendosi conto dei limiti necessariamente connessi alla scelta di operare con lo strumento della legge ordinaria, che potrebbe essere derogata agevolmente da qualsiasi legge speciale, la Commissione ritiene dunque preferibile operare con norme di tale livello, auspicando che enunciati generali esplicitati in maniera forte, pur non vincolanti, potrebbero costituire comunque utili criteri di indirizzo per il legislatore. Per rendere più cogenti possibile tali enunciati si potrebbe d'altronde pensare di emanare una sorta di 'normativa-cornice' di carattere generale della materia. Posto che il suo rango non potrebbe che essere quello della legge ordinaria, essa ben potrebbe essere derogata dal legislatore successivo. Tuttavia, se per un verso si può immaginare una maggiore cautela di quest'ultimo ad allontanarsi disinvoltamente da una normativa del tipo di quella suggerita, per altro verso la presenza di una serie di norme-guida potrebbe rendere più penetrante un eventuale sindacato della Corte costituzionale sotto il profilo della "ragionevolezza" e della uguaglianza di trattamento della (futura) norma in deroga. Quanto ai possibili contenuti da inserire nella normativa di carattere generale, la Commissione, senza alcuna pretesa di esaustività, ha pensato ad alcune specificazioni possibili. La prima potrebbe ispirarsi al modello utilizzato dall'art. 1 della l. n. 4 del 1929 in materia finanziaria: "le disposizioni del codice non possono essere abrogate o modificate da leggi posteriori se non per dichiarazione espressa del legislatore con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate o modificate". Su piano formale una norma di questo tipo perseguirebbe un obbiettivo di certezza, e contribuirebbe alla conoscibilità del precetto penale; su piano sostanziale tenderebbe a contenere il fenomeno di un allontanamento non sufficientemente meditato dal tessuto dei principi codicistici. Il rango di norma ordinaria non assicurerebbe a tale disposizione la cogenza che meriterebbe; la chiara indicazione del principio potrebbe costituire tuttavia garanzia avverso una normazione disordinata, soprattutto ove si consideri che essa concretizza un'istanza direttamente riconducibile al complesso delle previsioni costituzionali in materia penale. La seconda potrebbe ripetere, rafforzandolo, il contenuto dell'attuale articolo 16 c.p.: "le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali". Si tratterebbe di una disposizione destinata a marcare che anche nei confronti delle norme penali previste extra codice devono valere i principi fondamentali di garanzia enunciati dal codice: legalità, tassatività, offensività, colpevolezza, tipologia e carico sanzionatorio, ecc., e finalizzata pertanto ad operare nei confronti di tecniche di incriminazione, di selezione degli interessi tutelati, di modalità della loro protezione, ecc. Secondo una parte della Commissione, a queste due disposizioni generali se ne potrebbe aggiungere una terza avente lo stesso contenuto di quella suggerita dalla Commissione Bicamerale in tema di riserva di codice o di legge organica, norma che operando a livello di legislazione ordinaria eviterebbe i rischi di un incremento del contenzioso costituzionale. Tale norma avrebbe una indubbia funzione sul terreno della certezza del diritto penale, tendendo ad evitare per il futuro l'attuale proliferazione di norme penali disordinatamente previste dalla legislazione speciale. Pur condividendo gli obbiettivi positivi della innovazione, altra parte della Commissione ha manifestato la preoccupazione che essa anziché contrastare, potrebbe al limite incoraggiare la previsione di sottosistemi penali caratterizzati, data la loro natura, da una relativa autonomia di disciplina rispetto a quella generale codicistica, innescando di conseguenze possibili contraddizioni con la esigenza di omogeneità in ordine ai principi generali che si tenderebbe invece a realizzare con le indicazioni precedentemente menzionate. Quanto ad ulteriori contenuti, la 'normativa cornice' dovrebbe arricchirsi da un lato di norme destinate a risolvere operativamente i più ricorrenti problemi sollevati dalle leggi speciali (e talvolta anche da norme contenute nella parte speciale del codice penale), dall'altro di criteri di tecnica legislativa. Sotto il primo profilo si potrebbe pensare, a titolo puramente esemplificativo, a norme: a) destinate ad introdurre meccanismi di accertamento automatico della natura circostanziata delle fattispecie punite con pena diversa dalla fattispecie-base; b) che aiutassero ad individuare la natura permanente o meno di determinati reati, quali ad esempio gli omissivi puri; c) che consentissero di individuare la natura scriminante, scusante o di mera causa di non punibilità in senso stretto; d) che tipizzassero in forma generale le posizioni e gli obblighi di garanzia penalmente rilevanti; e) che individuassero classi prestabilite di pena quanto a gravità edittale, o introducessero altri sistemi diretti a rendere più agevole il rispetto del principio di proporzione da parte del legislatore. Sotto il secondo profilo si potrebbe riassumere la disposizione del progetto Pagliaro con la quale si dettano criteri per la configurazione delle contravvenzioni (ammesso che la categoria sia destinata a sopravvivere), prevedere le contravvenzioni in contiguità con i delitti rispetto ai quali costituiscono tutela avanzata, riprendere e perfezionare alcuni dei criteri di scelta sanzionatoria e di tecnica legislativa contenuti nelle due circolari della Presidenza del Consiglio di Ministri del 19 dicembre 1983 e del 5 febbraio 1986 , od utilizzati nelle più recenti leggi comunitarie. 2. La organizzazione della parte speciale del codice. Per quanto concerne la strutturazione della parte speciale sembra innanzitutto opportuno ribadire l'obbiettivo, enunciato dal Ministro nello stesso decreto di nomina della Commissione, di una più ampia possibile delimitazione dell'ambito dell'intervento penale. La recente legge di delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale tributario, approvata definitivamente il 16 giugno 1999, rappresenta una tappa importante nella direzione indicata. Per quanto concerne specificamente il contenuto del codice penale, scontato che una profonda opera di delimitazione e ristrutturazione debba essere compiuta nel settore dei delitti contro lo Stato (sul punto v. oltre, parte XII), e che altri settori esigono una opera di semplificazione e razionalizzazione (es., delitti contro il patrimonio, delitti contro la persona, delitti contro la fede pubblica, delitti contro la amministrazione della giustizia, ecc.), o di soluzione di nodi tuttora irrisolti (es., delitti contro la pubblica amministrazione), oggetto privilegiato di scelte incisive di depenalizzazione continuerà a rimanere la (attuale) materia contravvenzionale, soprattutto quella prevista nella legislazione speciale. Per quanto riguarda la strutturazione della parte speciale, la Commissione condivide l'orientamento espresso dallo schema di legge-delega Pagliaro, secondo il quale la classificazione dei reati deve imperniarsi sul bene giuridico tutelato, nonché l'idea di organizzare la "parte speciale" secondo una prospettiva nella quale il punto di riferimento è la persona umana e non lo Stato. Pure la ripartizione nelle quattro grandi aree: a) dei reati contro la persona (comprensiva dei reati contro il patrimonio individuale), b) contro i rapporti civili, politici ed economici, c) contro la comunità, d) contro la Repubblica, merita apprezzamento, anche in considerazione del fatto che essa consente il non trascurabile vantaggio di un'eventuale tecnica di 'inserimento progressivo' in ciascuna di tali aree di reati che, non inseribili in un primo momento nel codice per ragioni specifiche, dovessero successivamente risultare maturi per tale inserimento, sul modello di quanto è accaduto ad esempio nella legislazione tedesca e francese. La Commissione ritiene, per altro verso, che non sia opportuno imboccare la strada di una immediata 'onnicomprensività' del codice, tenendo conto della inopportunità di coinvolgere sul terreno della legge penale fondamentale materie che presuppongono scelte politiche ancora fortemente conflittuali (es., reati in materia di bioetica), o reati con riferimento ai quali è in corso una attività di ridefinizione legislativa, e che sarebbe pertanto opportuno inserire eventualmente nel codice soltanto una volta verificati i risultati del lavoro parlamentare, e la loro compatibilità con una disciplina di tipo codicistico (è il caso, ad esempio, dei reati fiscali, con riferimento ai quali il Parlamento ha già deciso una forte depenalizzazione ed ha delegato il Governo a configurare un ristretto numero di delitti identificati per gravità di offesa e oggetti tassativamente indicati; dei reati societari, con riferimento ai quali è in corso di elaborazione una nuova strutturazione da parte di apposita commissione governativa; dei reati ambientali, con riferimento ai quali sono stati predisposti articolati progetti di riforma ). Secondo una impostazione di doverosa prudenza, si ritiene pertanto opportuno iniziare dalla ridefinizione delle materie di radicata collocazione codicistica, prevedendo un impianto comunque idoneo ad essere progressivamente arricchito da nuove materie, nel quadro di una linea politica di fondo che dovrebbe comunque tendere ad assicurare al codice penale una posizione di reale centralità nella disciplina dei settori penalmente significativi. Una parte della Commissione ritiene che la creazione di 'sottosistemi penali' affidati alla disciplina della legislazione speciale non sia comunque del tutto eliminabile, e talvolta potrebbe addirittura apparire opportuna, osservando che vi sono settori che difficilmente potranno trovare collocazione nel codice penale: a) quando non sia possibile scindere in modo sufficientemente netto l'apparato sanzionatorio penale dalla disciplina extrapenale di riferimento, b) quando la natura "specialistica" della materia dovesse nettamente prevalere, c) quando si tratti di interventi penali ancora troppo legati alla contingenza dei tempi per potere essere formalizzati nel testo della legge penale fondamentale. La maggioranza della Commissione, pur concordando con queste riflessioni, ritiene di dovere ribadire che nelle materie regolate da leggi speciali dovrebbero comunque trovare applicazione i principi di garanzia elaborati nella parte generale del codice penale, ed essere utilizzate le tecniche di una corretta configurazione delle fattispecie penali, fino ad oggi troppo sovente neglette dal legislatore nella disordinata configurazione di reati di legislazione speciale. XII. ESEMPLIFICAZIONE DI RIFORMA DELLA PARTE SPECIALE: UNA NUOVA TIPOLOGIA DEI DELITTI CONTRO LO STATO. 1. Tecnica di incriminazione e tipologia dei delitti contro lo Stato previsti dal codice penale Rocco devono essere profondamente cambiate. Esso utilizza infatti modelli di anticipazione non controllata dell'intervento penale, configura reati sganciati dalla prospettiva della offesa degli interessi, colpisce indiscriminatamente opinioni ed associazioni (dissenzienti) senza adeguati ancoraggi a comprovate necessità di difesa sociale. Pur rendendosi conto che la politicità della materia potrebbe giustificare deviazioni rispetto al rigoroso rispetto ai principi di tipicità e di necessaria offensività, vi sono limiti che una legislazione penale ispirata a criteri liberaldemocratici non può comunque superare. In questa prospettiva si tratta di trovare il giusto contemperamento fra le esigenze contrapposte di tutela degli interessi fondamentali delle istituzioni democratiche e di rispetto delle garanzie individuali. 2. Passando al piano delle singole scelte di incriminazione, la Commissione conviene sulla opportunità di eliminare tutte le numerose fattispecie politiche di istigazione, di apologia e di propaganda, e di mantenere nel codice la previsione di una sola fattispecie generale di istigazione a delinquere, contemplata fra i delitti contro l'ordine pubblico (o comunque si intenda ridenominare tale classe di reati), purché essa sia caratterizzata dalla pubblicità reale della condotta (con conseguente necessità di ridefinire l'attuale concetto di pubblicità rilevante agli effetti penali) e dall'ancoraggio alla pericolosità concreta in ordine alla realizzazione dei reati oggetto di istigazione. Per quanto concerne i delitti di attentato, la Commissione si riporta a quanto già rilevato nella parte dedicata alle ipotesi di anticipazione della attività punibile (parte VI, n.3). Nella ipotesi in cui politicamente si optasse per il mantenimento della categoria, il che quantomeno in alcuni casi sarebbe assolutamente necessario, la esigenza di (maggiore) tipizzazione delle fattispecie dovrebbe essere realizzato facendo riferimento a modelli non necessariamente unitari, ma individuati nella parte speciale considerando le specifiche esigenze delle diverse categorie di attentati giudicati meritevoli di previsione legislativa (v. appunto parte VI, n.3). Per quanto concerne i delitti di vilipendio, che il progetto Pagliaro ha sostanzialmente confermato sotto il profilo della "offesa al prestigio delle istituzioni", e con una riduzione degli oggetti della offesa penalmente rilevante, la Commissione ritiene che il problema se mantenere o cancellare questa categoria di illeciti sia squisitamente politico, trattandosi di valutare se lo Stato debba tutelarsi dalle offese che gli provengono dalle parole che gettano discredito sui suoi emblemi o sulle istituzioni più importanti, ovvero debba interessarsi esclusivamente delle offese 'materiali'. Al riguardo si limita pertanto ad osservare: che la tutela contro le offese al prestigio delle istituzioni è prevista come reato da pressoché tutte le legislazioni penali europee; che se si dovesse optare per la soluzione conservativa, la tipologia proposta dalla Commissione Pagliaro potrebbe costituire una utile base di disciplina, con l'unica eccezione della esplicita previsione dello 'scopo politico' con il quale l'offesa pubblica al prestigio della istituzione dovrebbe essere commessa, essendo esso in re ipsa data la natura della condotta. Quanto ai reati associativi la Commissione ritiene che occorra abrogare la congerie di fattispecie associative politiche oggi configurate in modo disordinato e poco tassativo, e sostituirla con un sistema snello di fattispecie chiare. In questa prospettiva la semplificazione prevista dallo schema di legge-delega Pagliaro nell'art. 127 può costituire un utile punto di avvio. Sembra infatti giusto prevedere due fattispecie associative fondamentali: una prima consistente nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere una associazione volta a perseguire una delle finalità indicate nell'art. 122 n.1 o nell'art. 125 n.1, o una qualsiasi altra finalità politica, anche di carattere internazionale, mediante l'uso della violenza o della minaccia, o mediante una organizzazione di carattere militare; una seconda consistente nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere una associazione volta a perseguire, per una finalità politica, fuori dei casi di violenza, minaccia, o di utilizzazione di una organizzazione di carattere militare di cui alla fattispecie precedente, la commissione di un delitto contro lo Stato. Sembra anche giusto affiancare a queste due figure una fattispecie di associazione segreta, assumendo la segretezza come una connotazione criminale di valenza oggettivamente politica. Nei confronti di quest'ultima ipotesi si tratta tuttavia di affrontare il problema, squisitamente politico, se davvero sia opportuno circoscrivere (come ha fatto il progetto Pagliaro) la rilevanza penale alla circostanza che si tratti di associazione segreta "diretta ad interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di rappresentanze diplomatiche, di organi giudiziari, di amministrazioni od enti pubblici, o sull'attività di pubblici servizi", ovvero sia necessario sanzionare penalmente di per sé la violazione della norma costituzionale (art. 18 Cost.), che stabilisce senza mezzi termini che "sono vietate le associazioni segrete". 3. Per quanto riguarda l'impianto generale di un titolo di reati dedicato ai delitti contro lo Stato depurato dal gran numero di fattispecie obsolete e poco garantistiche delle quali si è fatto cenno sub 2), la Commissione osserva che l'analisi dei codici penali europei rivela una grande articolazione di soluzioni, tanto in materia di organizzazione dei reati, quanto in materia di loro numero e di loro specifico contenuto, sia pure con alcune costanti con riferimento ai temi della salvaguardia della sicurezza interna dello Stato, della pace, dei segreti di Stato e dei diritti elettorali. Il lavoro compiuto dalla Commissione Pagliaro può comunque costituire, anche qui, un utile punto di avvio. Sembra corretto prevedere una prima parte in cui si considerano i reati posti a tutela dell'ordinamento democratico della Repubblica e i reati contro gli organi costituzionali, fra i quali si considerano i tradizionali delitti posti a garanzia della Costituzione, della integrità e della indipendenza della Repubblica, del libero funzionamento degli organi costituzionali, del corretto funzionamento delle funzioni costituzionali e dei comandi militari, nonché gli attentati contro il Presidente della Repubblica e contro gli organi costituzionali ed i reati elettorali; ed una seconda parte in cui si considerano i reati contro la sicurezza della Repubblica e le relazioni internazionali, nella quale figurano a loro volta le tradizionali fattispecie della guerra alla repubblica, delle intelligenze con un stato estero, del conflitto armato, della violazione dei segreti di stato, delle attività spionistiche, delle infedeltà in affari di Stato e delle offese a Capi di Stato esteri, a organi costituzionali, ecc., corrispondenti alle previsioni degli attentati previsti nei confronti del Presidente della Repubblica e degli organi costituzionali italiani. Roma, 15 luglio 1999