Tra l'ira funesta del Pelide Achille e l'ira di Dio dopo il peccato di Adamo, sembra che l'Occidente che ha nella cultura greca e in quella giudaico-cristiana le sue matrici, rinvenga nell'ira, o come più frequentemente si dice nella "rabbia", uno dei suoi segni distintivi. L'ira non è l'aggressività, che al pari della sessualità è un istinto assolutamente fondamentale per la conservazione dell'individuo e della specie. L'ira è un sentimento mentale ed emotivo di conflitto con il mondo esterno o con se stessi che controlliamo poco e maneggiamo peggio perché, in preda all'ira, non siamo più padroni delle nostre azioni. Per questa sua componente irrazionale, l'ira, come ci ricorda Aristotele, non è da confondere con l' odio, che può raggiungere i suoi scopi distruttivi solo percorrendo rigorosamente le vie della razionalità. Esiste un repertorio degli scenari da cui vengono tratte le espressioni che nominano questo sentimento. Il primo prevede la "personificazione della rabbia" come se questa fosse un alter ego che bisogna "controllare". Qui il soggetto si identifica con la sua parte razionale e perciò: «Tiene l'ira sotto controllo», evita che «l'ira lo assalga» o «lotta contro l'ira». Altri scenari sono la fisica dinamica, per cui: «Si incanala la rabbia in una reazione costruttiva», oppure «la si accumula finché esplode»; la meteorologia evocata a proposito dell'«umore burrascoso» o della «voce tonante»; la dinamica dei gas per cui: «La rabbia compressa scoppia» o «la rabbia attizzata si estingue»; la meccanica della crescita graduale per cui: «La rabbia ribolle e trabocca»; gli scenari animali: «Era una belva, un essere inviperito»; la degradazione del corpo come «la bava alla bocca, la voce strozzata, il digrignare dei denti», fino a «mangiarsi il fegato dalla rabbia» e «farsi il sangue marcio». Non mancano infine riferimenti culturali tratti dal mondo che abbiamo lasciato alle spalle come: «perdere le staffe» (con riferimento al controllo del cavallo), «gettare olio sul fuoco» (dove lo scenario è quello contadino), «uscire dai gangheri» (con riferimento alle cerniere dei vecchi armadi), «alzarsi col piede sbagliato» (con riferimento al mondo magico e all'influenza dei sogni), «un diavolo per capello» (dove sullo sfondo c'è il mondo religioso), e infine le metafore sessuali: «Mi sono rotto le palle», «mi hai fatto incazzare». C'è infatti una sotterranea parentela tra ira e sessualità se è vero che la parola greca «orgia (orghé)» significa «collera», «ira». Se il linguaggio riproduce fedelmente le emozioni originarie, quel che risulta da queste espressioni abituali è che l'ira è percepita come qualcosa d'altro da noi, che può impossessarsi di noi, facendoci perdere la capacità di controllo e l'uso della ragione. C'è dunque nella considerazione che abbiamo dell'ira qualcosa di significativamente immorale, nel senso che ciascuno di noi si identifica con la parte razionale e ben educata di sé e rifiuta di riconoscere come propria la parte passionale, della cui attivazione è sempre responsabile l'altro. In realtà le passioni sono le dinamiche del corpo che lo danneggiano sia quando vengono eccessivamente compresse, sia quando vengono scatenate senza limiti. Per cui l'ira compressa che preme contro le pareti del nostro Io senza sfondarle, nella fantasia popolare genera il cancro, così come il suo scatenamento aumenta la pressione, induce l'attacco cardiaco o il colpo apoplettico. Per questo i filosofi, da Aristotele a Nietzsche, hanno sempre pensato e detto che la salute del corpo e l'equilibrio della mente non si mantengono con la repressione delle passioni o peggio con la loro rimozione, ma con la loro «misurata espressione». Scrive infatti Aristotele nell'Etica a Nicomaco (1109 a): «Arrabbiarsi è facile, ne sono tutti capaci, ma non è assolutamente facile, e soprattutto non è da tutti arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa». Qui ci vuole intelligenza, quell'intelligenza che Nietzsche ne La gaia scienza così descrive: «Tutti sono convinti che l'intelligenza sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi, mentre essa è solo un certo rapporto degli impulsi tra loro». Facciamoci carico delle nostre passioni e, invece di comprimerle come il senso comune, l'ipocrisia e una cattiva scuola religiosa ci hanno insegnato, diamo loro espressione avendo cura della «giusta misura». Quella giusta misura che non vediamo nell'ira quando è espressa dalle donne invece che dagli uomini, dai poveri invece che dai ricchi. L'ira, infatti, è un modo di riaffermare se stessi e il proprio mondo dei valori. Chissà perché una donna arrabbiata è un'arpia, una megera, una strega, una bisbetica, un'isterica, chissà perché non «grida» o «urla», ma piuttosto «strilla» o «sbraita», e se risponde a chi la provoca è petulante, mentre l'uomo quando si adira è «per una causa giusta», perché «non si fa mettere sotto», perché «ha le palle». Cos'è questa diversa percezione dell'ira al maschile o al femminile se non la prosecuzione dello stereotipo secondo cui la donna deve essere in ogni situazione dolce, accomodante, indulgente, in una parola «sottomessa». Per questo le donne si arrabbiano in un modo diverso dagli uomini. Preferiscono interrompere il contatto oculare ed evitare il dialogo piuttosto che esprimere energicamente il proprio dissenso. Le donne più degli uomini piangono di rabbia e si sentono colpevoli sia per la rabbia, sia per il fatto di non saper reagire adeguatamente. E in questa inadeguatezza c'è anche un leggero tratto di immoralità che Freud ha indicato nell'«evitamento», per cui, invece di esprimere direttamente la loro rabbia, le donne preferiscono ricorrere ad attacchi psicologici come la maldicenza o l'ostracismo sociale, e nello «spostamento» che consiste nello sfogare la propria rabbia su una persona diversa da quella che l'ha provocata e che non si ha il coraggio di affrontare. Ma la differenza più grande si vede nella reazione dei due sessi alla rabbia suscitata dal tradimento o dall'abbandono. La reazione maschile è prevalentemente sul piano fisico con sopraffazioni e violenze che talvolta neppure le mura di casa e le porte blindate riescono a contenere, mentre la reazione femminile tende a colpire sul piano economico e su quello affettivo con il ricatto dei figli. Strategie diverse che indicano una diversa situazione di potere, la stessa che si registra tra poveri e ricchi, tra oppressi e oppressori. I maschi, i ricchi, i potenti dicono che l'ira è un'emozione infantile, un segno di debolezza, solo perché loro non hanno bisogno di arrabbiarsi, in quanto possono ottenere ciò che vogliono con mezzi diversi. Quanto poi al fatto che la rabbia sia massimamente proibita ai deboli e agli oppressi fa pensare che essa non sia affatto innocua. MerleauPonty diceva che i borghesi non dicono mai «noi», ma sempre «io», salvo quando sotto le loro case c'è una folla urlante. Allora, ma solo allora, imparano a dire «noi». L'ira, infatti, coinvolgendo l'emozione, è sempre più convincente di qualsiasi discorso e se espressa, come diceva Aristotele: «al momento giusto, nel modo giusto, con la persona giusta» consente talvolta di ottenere quel che si chiede e di rafforzare la propria autostima. Ma per questo ci vuole la «giusta misura», proprio quella virtù che l'ira tende a mandare in frantumi. Galimberti, articolo tratto da La Repubblica