Maria Grazia Giannichedda Questione salute mentale. Il problema non è il ministro Storace in Salute e Territorio n. 153, novembre –dicembre 2005 1. Lo spot elettorale del ministro della salute A poche settimane dalla fine della legislatura il ministro della salute annuncia che “è giunta l’ora di mettere mano anche alla legge 180”1. L’intenzione è per la verità tutt’altro che nuova: il centro destra ha tentato di intervenire sulla riforma fin dall’inizio della legislatura, con due progetti ( il primo della onorevole Maria Burani Procaccini di Forza Italia, il secondo firmato da lei e dal deputato Cè della Lega Nord ) che sono stati bloccati in commissione affari sociali della camera da pesanti contraddizioni interne al centro destra, oltre che dal lavoro dei parlamentari dell’opposizione e dalle critiche puntuali della maggioranza dei familiari e degli operatori. Cosa fa allora il ministro Storace, visto che quando il centrodestra dichiara cosa vuol fare della salute mentale neppure al suo interno riesce a trovare un consenso minimo? Decide di “non dire in quale direzione ci si vuol muovere”, con la scusa di “avviare una grande campagna di ascolto”, che dovrebbe verosimilmente ascoltare le stesse persone appena ascoltate dalla commissione affari sociali della camera, che ha avviato un’indagine conoscitiva, tutt’ora in corso, “sull’attuazione del progetto obiettivo salute mentale”. Ma il parlamento è evidentemente una sede scomoda per il centro destra, ci sono le opposizioni, bisogna ascoltare tutte le campane, tener conto di dati e fatti e portare almeno qualche argomento, mentre a colpi di dichiarazioni si può dire qualunque cosa per cavalcare genericamente un disagio che questo governo ha fatto crescere ma che certo non è un problema recente. Non credo quindi che quest’ultimo spot elettorale del ministro possa costituire un pericolo vero per la “legge 180”, sulla cui applicazione però vale la pena di fare un bilancio serio oggi, guardando alle politiche di salute mentale di regioni e aziende sanitarie, che sono la sede vera dei poteri, i luoghi in cui la riforma è diventata modelli organizzativi, delibere, flussi finanziari, in coerenza o in contraddizione con i principi della legge, con il senso della sua storia. 2. Le diverse interpretazioni della riforma Dagli ultimi non più recentissimi dati forniti dal ministero della salute2, appare evidente che da molto tempo non è più vero lo slogan dei primi anni post riforma – la legge 180 non è applicata perché mancano i servizi. Oggi i servizi ci sono, sebbene ancora insufficienti soprattutto in alcune regioni del Sud, ma neppure qui è più questione di risorse ma di qualità, di modelli organizzativi, di culture degli operatori. In altre parole, il ciclo dell’innovazione del sistema delle istituzioni psichiatriche in Italia si è ormai 1 Si veda la dichiarazione riportata dall’ANSA il 28 dicembre 2005 Si tratta dell’indagine del Ministero della salute sull’offerta quantitativa dei servizi di salute mentale nelle regioni italiane al 31 dicembre 2001 2 compiuto. Occorre analizzare i modelli di servizio pubblico che si sono consolidati in questi ventisette anni, e valutare quali interpretazioni della riforma essi stanno di fatto realizzando, spesso più come conseguenza inerziale dei rapporti di potere e del gioco tra gli interessi locali che per scelta esplicita dei decisori politici3. Vale la pena di fare un rapido identikit dei servizi che possono dirsi coerenti con i principi della riforma. Si tratta di servizi che: a. in ogni fase del trattamento rispettano libertà, dignità e parola delle persone di cui si prendono cura, e quindi hanno, ad esempio, servizi di diagnosi e cura (SPDC) con porte aperte, che non usano contenzione meccanica né farmacologica, si fanno carico delle crisi andando a casa o alla ricerca della persona che sta male, cercando il suo consenso al trattamento e riducendo il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio ecc.; b. hanno organizzato i centri di salute mentale come sono luoghi accessibili, non solo su appuntamento, e curati nell’aspetto; che conoscono le case, le famiglie e il contesto in cui lavorano, e che sono conosciuti; che offrono sostegno all’abitare e al trovare lavoro o che creano il lavoro e l’abitare; che riconoscono, insieme ai bisogni, le risorse delle persone e della comunità e che inventano i modi per valorizzarle; c. servizi che sono incentrati su una particolare “tecnologia” che richiede grande cultura e competenza e che è costituita da operatori di diversa formazione e professionalità che sono capaci di lavorare in équipe e soprattutto con ( e non su o per ) le persone che si rivolgono loro. Non mancano certo nel panorama italiano le aziende sanitarie che realizzano politiche locali di salute mentale che presentano queste caratteristiche, e vi sono anche moltissime esperienze che portano avanti, spesso con grande difficoltà, singoli servizi che hanno queste caratteristiche all’interno di sistemi in cui persistono anche pratiche custodialistiche, tendenza all’abbandono delle persone “difficili”, culture improntate al riduzionismo farmacologico e al disimpegno verso le famiglie e verso la vita sociale degli utenti. Non è facile quantificare questi sistemi locali di salute mentale coerenti con la riforma e disegnare la loro geografia, e ancora meno è facile quantificare le esperienze di singoli servizi. Sarebbe necessario incrociare i risultati dei pochi lavori di ricerca di respiro nazionale che in questi anni sono stati effettuati4, cosa che esula dagli scopi e dallo spazio di questo intervento. Tuttavia, è sotto gli occhi di tutti un fatto: all’interno della stessa regione e spesso nella stessa azienda sono in funzione servizi di qualità, cultura e organizzazione sostanzialmente diversa. Di qui una domanda che oggi è cruciale: come mai lì è possibile e qui no? E se stiamo dimostrando, per dirla con Franco Basaglia, che è possibile prendersi cura della persona folle in un altro modo, cosa dobbiamo fare perché questo altro modo diventi la regola e non l’eccezione? Cosa dobbiamo chiedere 3 Su questo tema del rapporto tra politica e tecnici rinvio al percorso di riflessione che ho cercato di fare nel saggio La democrazia vista dal manicomio in Animazione Sociale n.4 aprile 2005 pagg. 19-31 4 Mi riferisco in particolare allo Studio SPT, a cui hanno partecipato 61 servizi psichiatrici territoriali di 12 regioni, che è uno studio longitudinale di pazienti con disturbi psicotici finalizzato alla valutazione dei loro esiti lungo cinque anni dalla presa in carico. La metodologia e i risultati dell’indagine sono presentati da Emanuela Terzian e Gianni Tognoni Indagine sui Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura in Rivista sperimentale di Freniatria Vol. CXXVII supplemento n.2/2003 alle politiche regionali innanzi tutto, e alla politica nazionale, perché possa finalmente realizzarsi quella trasformazione delle politiche pubbliche di salute mentale che la riforma richiede? 3. Tre tendenze da contrastare Si sono consolidate nel nostro paese, non diversamente dal resto dell’Europa, tre tendenze che vanno analizzate e con cui le politiche pubbliche devono fare i conti. Le indico qui brevemente. 1. Crescita di residenze assistenziali e di posti letto sanitari, riproposizione di istituzioni per la “cura e custodia” A partire dalla fine degli anni’90, in alcune regioni in coincidenza con la chiusura degli ultimi istituti manicomiali, si è verificato un crescere della cosidetta “residenzialità”, ovvero dei posti letto in istituzioni piccole e meno piccole con bassissimo o nullo turnover e molti segni che indicano esiti di istituzionalizzazione. Residenze pubbliche ma spesso private, che a volte cercano di apparire abitazioni, altre volte sono francamente istituti, più assistenziali che sanitari, per persone con disturbi mentali, per anziani, per disabili. Ad un alto numero di residenze o a una alta spesa in “residenzialità” corrispondono generalmente centri di salute mentale che funzionano come catena di montaggio di prestazioni ambulatoriali e SPDC che praticano sostanzialmente il contenimento farmacologico di breve periodo e delegano alla clinica privata il trattamento di medio o lungo periodo. Inoltre e più recentemente abbiamo visto rinascere una cultura esplicita della “cura e custodia”: dalla “comunità protetta” per minori difficili nell’area dell’ospedale psichiatrico giudiziario ( OPG) di Castiglione delle Stiviere al progetto di strutture terapeutico carcerarie per tossicodipendenti fino ai due nuovi OPG progettati in Sardegna l’altro in Calabria e attualmente bloccati dai nuovi governi di centro sinistra. 2. Crescente specializzazione dei servizi, scarsa integrazione all’interno di ciascun servizio e alti livelli di dispersione nel sistema dei servizi Vengono chiamate “multiproblematiche” le persone o le famiglie che vagano nel circuito dei servizi sanitari e sociali e che, competendo a molti, non sono in realtà accolti da nessuno. Queste situazioni segnalano la complessità che molte volte o sempre assumono la sofferenza umana e i problemi sociali, complessità che, quando incontra servizi che tendono ad una sempre maggiore specializzazione, rischia di essere interpretata come domanda di specialismo ulteriore. La salute mentale dei migranti sarà meglio affrontata da un servizio specializzato, che magari si differenzi in rapporto alle etnie e alle culture, o da un buon servizio di salute mentale che cerca di acquisire gli strumenti per accogliere ciascuna persona con la sua irriducibilmente specifica storia? E per le persone che con infinite varianti soffrono problemi mentali, tossicodipendenza e magari problemi di salute e difficoltà economiche, dovremo creare servizi sempre più specialistici, nella deriva senza fine che sembra caratterizzare la medicina contemporanea? E la specializzazione dei servizi di salute mentale per diagnosi ( per le depressioni, per i disturbi del comportamento alimentare ecc.) corrisponde davvero all’interesse dell’utenza, costretta magari a reiterati viaggi della speranza o a un distacco non breve dal contesto di vita a cui ogni persona dovrebbe auspicabilmente tornare ? Da tempo la medicina ha perduto di vista la persona, e recentemente ha perduto di vista anche il corpo, diventando medicina dell’organo o della funzione, sistema di diagnosi che servono a classificare assai più che a curare. In salute mentale questa tendenza è particolarmente pericolosa, ed è stata, come la storia ci insegna, alla base della degenerazione manicomiale. 3. Dilatazione della sfera del “patologico” e crescita allarmante del consumo di psicofarmaci Questa tendenza ha a monte gli interessi e le strategie comunicative delle multinazionali del farmaco, che si intrecciano con la nuova forza del riduzionismo biologico in medicina e con l’effetto di rassicurazione sociale che proviene dall’inquadrare nel patologico alcuni aspetti contradditori dell’esistenza umana. Tutto ciò entra nei servizi di salute mentale come spinta a collocare altrove ( in residenze, cliniche, istituti di cura e custodia ) le persone difficili, le situazioni complesse, i “gravi” o “cronici”, allo scopo di diventare servizi “leggeri”, consulenti di una “normalità” sostenuta oggi da un consumo di psicofarmaci che in alcuni paesi ricchi e anche in alcune nostre regioni raggiunge livelli allarmanti. Franco Basaglia scrisse pagine lucidissime su questo tema durante il soggiorno negli Stati Uniti5. Oggi il servizio pubblico non riesce ad arginare queste tendenze, e anzi molti operatori, sia psichiatri che psicologi, legittimano e moltiplicano questi processi di produzione di nuova malattia da un lato, e di cronicizzazione dall’altro. 4. La necessità di una netta svolta politica e culturale Le politiche pubbliche regionali e locali non possono evidentemente bloccare o invertire queste tendenze, che sono tutt’altro che deboli e che nascono in un mercato ormai globale che aspira a “rendere produttivo il controllo delle condotte perturbate”, come scrissero Franco e Franca Basaglia nel loro ultimo lavoro per l’Enciclopedia Pléiade6. Le politiche pubbliche possono però fare un’operazione estremamente importante: evitare di alimentare queste tendenze attraverso il denaro pubblico, evitare cioè di trasformare il servizio pubblico e le sue risorse in un “assegno in bianco” consegnato agli attori forti del mercato sanitario. Non basta perciò affermare che non si torna indietro, che la riforma del ’78 è acquisita e che la legge non si tocca. La politica deve riprendere il suo posto, deve decidere quali bisogni appartengono ai livelli essenziali di assistenza che è interesse generale garantire nel quadro del rapporto tra cittadino e Stato che la legge 180 ha definito, e quali modelli organizzativi sono in grado di operare in questa direzione. Alcuni passaggi sono oggi urgenti per togliere fondamento ai proclami del centrodestra. Innanzi tutto rilanciare i servizi di salute mentale contrastando il binomio ambulatorio e posto letto in favore di un sistema articolato di presidi che stanno nella comunità e non interrompono i rapporti sociali delle persone e dei gruppi che vivono una condizione di sofferenza. A questo rilancio può contribuire positivamente l’inclusione della la salute 5 Franco Basaglia Lettera da New York. Il malato artificiale in Franco Basaglia L’utopia della realtà Einaudi 2005 pag. 182-190 6 Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia Le condotte perturbate. Le funzioni delle relazioni sociali in L’utopia della realtà cit. pagg 275-301 mentale tra i livelli essenziali di assistenza, per ridurre la grave difformità di prestazioni tra le diverse regioni e arginare così le migrazioni da una regione all’altra che in questo ambito significherebbero soprattutto migrazioni verso i contenitori istituzionali più ricettivi. E’ inoltre urgente, e questo non solo nel campo della salute mentale, ricomporre sanitario e sociale. L’integrazione tra questi aspetti non nascerà mai da più o meno complicate costruzioni burocratiche ma dal lavoro quotidiano, dalla capacità dei diversi attori ( gli utenti innanzi tutto, gli operatori dei servizi, le risorse della comunità ) di costruire insieme percorsi di uscita dalla sofferenza e dal disagio per ciascuna persona. Qui, nell’offerta di una presa in carico individualizzata, si gioca una sfida centrale per la costruzione di un nuovo welfare, sfida che va praticata lavorando sugli strumenti di attuazione dei principi della Legge 328, che possono correggere gli aspetti deteriori dell’aziendalismo di questi anni. Anche l’azione di governo può contribuire alla realizzazione di questi obiettivi, innanzi tutto favorendo e promovendo lo scambio di esperienze, competenze e strumenti tra le diverse regioni e tra le aziende sanitarie, in modo da mettere in circolo la ricchezza di esperienze e di politiche locali che in questi anni si sono sviluppate, dimostrando risultati sostenibili e capaci di conseguire consenso. Un’ultima notazione. L’Italia risulta uno dei paesi più civili del mondo ricco se si guarda ai servizi di salute mentale di non poche aree del nostro paese. Tuttavia, proprio tra gli operatori, gli amministratori locali, le associazioni e le persone che in questi anni si sono impegnate a realizzare i principi della riforma prevalgono oggi sentimenti di preoccupazione, che a volte prendono anche il tono dell’angoscia e della rabbia per la solitudine politica che specie negli ultimi anni ha caratterizzato chi lavora nel sistema dei servizi pubblici lottando contro la marea montante, che rischia di spazzare via tutto quanto di positivo è stato con fatica costruito. Per questo è urgente che la politica regionale e nazionale che non condivide il ministro Storace, la sua pratica e i suoi proclami, faccia finalmente scelte nette sulla qualità del welfare, e imposti politiche capaci di arginare le tendenze che ci preoccupano, e di scegliere attivamente quell’altro possibile che da tempo si sta costruendo in tanta parte del nostro paese.